armi
La questione delle a. è fondamentale negli scritti di M. e la presenza del lemma è imponente, soprattutto se si aggiungono a arme e armi i verbi armare e disarmare: praticamente non c’è testo nel quale non compaia. Le a. che si possono adoperare per difendere uno Stato sono classificate nel Principe xii 4: «Dico adunque che le arme con le quali uno principe defende el suo stato o le sono proprie, o lesono mercennarie, o ausiliarie o miste». La polemica contro «le arme inutile e pericolose», cioè «le mercennarie e ausiliarie» serve a promuovere la necessità delle «arme proprie» e la supremazia delle «popolationi armate». Per M. «le buone arme» vanno di pari passo con le «buone legge» e con la «libertà». La «ruina d’Italia» proviene dai «peccati» dei principi italiani che hanno scelto di affidare la loro sorte ai condottieri mercenari; il compito del «redentore d’Italia» dovrà appunto consistere in «provedersi d’arme proprie, perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori soldati». In questa prospettiva, il principe, come il capitano e più generalmente chi comanda, può e deve costruire una relazione d’amore con i cittadini e con i soldati: paradossalmente, l’amore ha a che fare con le «buone arme» e la guerra.
Il fondamento degli Stati: «iustizia» e «armi». In Principe xii 3, M. spiega quali sono i fondamenti degli Stati:
E’ principali fondamenti che abbino tutti li stati, così nuovi come vecchi o misti, sono le buone legge e le buone arme: e perché e’ non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge, io lascerò indietro el ragionare delle legge e parlerò delle arme.
Si tratta di una ripresa di uno dei luoghi più vulgati «in tutta la tradizione romanistica» (Quaglioni 2011, p. 57): quello che si trova in apertura della costituzione imperatoriam maiestatem, nelle Institutiones di Giustiniano:
Imperatoriam maiestatem non solum armis decoratam sed etiam legibus oportet esse armatam, ut utrumque tempus, et bellorum et pacis, recte possit gubernari la maestà imperiale deve essere non solo ornata dalle armi ma anche armata dalle leggi, affinché entrambi i tempi, di guerra e di pace, possano essere rettamente governati.
Questo punto, già messo in evidenza da Laurence Arthur Burd (commento a N. Machiavelli, Il Principe, a cura di L.A. Burd, 1891, p. 254), è stato recentemente approfondito da Diego Quaglioni (2011, pp. 57-76). Non è la prima né l’ultima volta che M. esprime quest’idea della compresenza necessaria di «iustizia e armi» come fondamento di uno Stato. Prima che nel Principe, la troviamo nelle Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, scritte nel 1503 (sotto la forma dei binomi ‘forza-prudenza’ oppure ‘a.-senno’), e nella Cagione dell’Ordinanza del 1506, nella quale M. insiste sul fatto che «ognuno sa» che è proprio così:
Io lascerò stare indreto el disputare se li era bene o no ordinare lo stato vostro alle armi: perché ognuno sa che chi dice imperio, regno, principato, repubblica, chi dice uomini che comandano, cominciandosi dal primo grado et descendendo infino al padrone d’uno brigantino, dice iustizia e armi. Voi della iustizia ne avete non molta, e dell’armi non punto; e el modo a riavere l’uno et l’altro è solo ordinarsi all’armi per deliberazione pubblica, e con buono ordine, e mantenerlo (Cagione dell’Ordinanza §§ 2-3).
Questa evocazione della tradizione giuridica indica come M. «abbia prestato ascolto [...] alla lingua della giurisprudenza come lingua dell’esperienza del potere» (Quaglioni 2011, p. 65); e non si tratta di un puro riconoscimento formale come si può intuire dall’importanza dell’idea di «vivere civile» nelle opere machiavelliane. Rimane però che la scelta di M., in Principe xii 3, è chiara: «io lascerò indietro el ragionare delle legge e parlerò delle arme»; e questa scelta viene ribadita in Discorsi III xxxi 22 («E benché altra volta si sia detto come il fondamento di tutti gli stati è la buona milizia; e come, dove non è questa, non possono essere né leggi buone né alcuna altra cosa buona, non mi pare superfluo riplicarlo»), nonché nell’Arte della guerra proemio 4 («i buoni ordini, sanza il militare aiuto, non altrimenti si disordinano che l’abitazioni d’uno superbo e regale palazzo, ancora che ornate di gemme e d’oro, quando, sanza essere coperte, non avessono cosa che dalla pioggia le difendesse»). Questa decisione di parlare delle a. prima che delle leggi è legata all’analisi fatta della «qualità de’ tempi», alla congiuntura politico-militare del momento e agli obiettivi da essa suscitati. Nei «tempi che corrono», con l’evidenza della debolezza militare della Repubblica fiorentina e quella dell’incapacità delle forze italiane di fronte agli eserciti stranieri, la questione delle a. è cruciale. Ma è anche vero che nel proemio dell’Arte della guerra, quando commenta la necessità, per una civiltà che intenda proteggere «gli ordini fatti in quella per vivere con timore delle leggi e d’Iddio», di preparare le proprie difese, M. aggiunge: «le quali, bene ordinate mantengono quegli, ancora che non bene ordinati», lasciando intendere che le a. sono sempre, nel blocco che formano con la «iustitia», l’elemento determinante (come mostra anche il passo, già citato, dei Discorsi III xxxi 22). La questione delle a. è quindi, per ragioni storiche e teoriche, al centro delle opere di M., a cominciare dal Principe, e dell’analisi che egli vi fa dei «peccati de’ principi».
«E’ peccati de’ principi». Se l’«Italia è suta corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando e vituperata da’ Svizzeri» (Principe xii 31), se gli eserciti italiani hanno fatto sempre brutta figura di fronte agli eserciti stranieri, ciò si spiega con errori politici e militari, commessi dai principi italiani. Questi errori politico-militari M. li definisce «peccati»; nello stesso capitolo xii, egli commenta il modo in cui il re di Francia Carlo VIII ha potuto conquistare l’Italia «col gesso», senza incontrare la minima resistenza durante il «viaggio di Napoli»:
e chi diceva come e’ n’erano cagione e’ peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quegli ch’e’ credeva, ma questi che io ho narrati; e perché gli erano peccati di principi, ne hanno patito le pene ancora loro (Principe xii 9).
Ovviamente – oltre al richiamo petrarchesco percepibile nell’uso della parola ‘peccato’ (cfr. F. Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta cxxviii 80) – egli allude anzitutto alle prediche del novembre-dicembre 1494, durante le quali Girolamo Savonarola dichiarava quasi ogni giorno ai fiorentini che la guerra si spiegava con i loro peccati e quelli degli italiani.
Ma, al di là dell’allusione ironica e del gioco di parole con la terminologia religiosa, l’analisi politico-militare è ben precisa: i peccati dei principi italiani consistono nell’aver affidato la guerra a truppe e condottieri mercenari (condottieri che privilegiavano la cavalleria piuttosto che i fanti). Le disfatte italiane non sono quindi un effetto della fortuna, bensì il risultato dei peccati commessi nel modo di condurre la guerra: nel capitolo xxiv, quando vuole spiegare perché i principi d’Italia hanno perso il loro Stato, egli sottolinea che non devono accusare «la fortuna, ma la ignavia loro» (Principe xxiv 8), cioè la pigrizia e, nel senso latino, la viltà: il peccato peggiore per un militare. La ragione delle loro sconfitte è dunque «uno comune difetto quanto alle arme» (xxiv 5). Assume allora tutto il suo significato, nel momento in cui M. esorta a liberare l’Italia dai barbari, l’invocazione di un redentore d’Italia, cioè di un uomo capace di «redimere» i peccati dei principi, facendo scelte militari differenti. Il compito del redentore d’Italia è quindi essenzialmente militare: egli deve essere in grado di porre fine alle «male pruove» degli eserciti italiani e, a questo scopo, deve «provedersi d’arme proprie, perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori soldati» (xxvi 20) e ordinare una fanteria «la quale resista a’ cavalli e non abbia paura de’ fanti» (xxvi 25).
Si tratta, dunque, per difendere uno Stato, di «ordinare l’arme proprie», cioè «quelle che sono composte o di sudditi o di cittadini o di creati tua» (Principe xiii 27), senza le quali «nessuno principato è sicuro» (xiii 26). Questa necessità è presente nei testi e nell’azione politico-militare di M. ben prima del Principe. La stessa Provisione della Ordinanza (1506), dopo aver ricordato che il «primo fondamento» delle «republiche e stati, che per lo addietro si sono mantenuti e accresciuti» era costituito da «la iustizia e le armi» e aver osservato criticamnte «come le armi mercennarie, se sono assai e reputate, sono o insopportabili o sospette; se sono poche e senza riputazione sono di nessuna utilità», esprime il senso della decisione della Repubblica fiorentina:
giudicando [...] essere bene armarsi d’armi proprie; delli uomini suoi, de’quali in un momento la loro republica si possa valere, e li possa gastigare errando, e premiare meritando (Provisione della Ordinanza § 1).
Quindici anni più tardi, nell’Arte della guerra, M. mette in bocca di Fabrizio Colonna la difesa di un’ordinanza simile a quella di Firenze contro i «savi uomini [che] l’hanno sempre biasimata» (I 153); Fabrizio si fa beffe dei «savi uomini» addotti da Cosimo («Voi dite una cosa contraria a dire che un savio biasimi l’ordinanza, ei può bene essere tenuto savio ed essergli fatto torto», I 154), risponde all’argomento della disfatta delle truppe fiorentine a Prato davanti all’assalto degli spagnoli nel 1512, cosa che non viene evocata nel testo, ma era allora chiara per ogni lettore («questi vostri uomini savi non deono misurare questa inutilità dallo avere perduto una volta, ma credere che, così come e’ si perde, e’ si possa vincere e rimediare alla cagione della perdita», I 169), dà una serie di esempi (Venezia, i Romani, il re di Francia) e conclude ribadendo l’utilità e la necessità delle a. proprie:
non si può fare fondamento in altre armi che nelle proprie, e l’armi proprie non si possono ordinare altrimenti che per via d’una ordinanza, ne’ per altre vie introdurre forme di eserciti in alcuno luogo né per altro modo ordinare una disciplina militare (I 189).
Si può dire che dal punto di vista politico-militare, cioè a proposito della scelta delle a. proprie e della necessità dell’ordinanza, il M. post res perditas è rimasto sulle stesse posizioni del Segretario fiorentino; le uniche critiche che accetta e fa sue sono prettamente militari, quasi ‘tecnico-militari’: è da intendere così, ci sembra, la notazione di Fabrizio sulla «cagione della perdita» che non proviene da un «difetto del modo, ma dell’ordine che non aveva la sua perfezione» (I 170).
La scelta delle a. proprie è legata a una tesi centrale di M. che accomuna indissolubilmente a. e libertà. La tesi è esplicitamente enunciata in Principe xii 13: «Stettono Roma e Sparta molti seculi armate e libere. Svizzeri sono armatissimi e liberissimi». La scelta degli svizzeri per i tempi moderni non pone problemi d’interpretazione: per M., gli svizzeri «oggi sono solo popoli che vivono, e quanto alla religione e quanto agli ordini militari, secondo gli antichi» (Discorsi I xii 21). Invece, le due città antiche sono contrapposte in Discorsi I v 4, perché Roma aveva scelto la plebe come «guardia della libertà», mentre Sparta aveva attribuito questo ruolo ai grandi: M. oppone dunque il modello di Roma, capace di «fare uno imperio», a quello di Sparta e, nei tempi moderni, di Venezia, alle quali doveva bastare «mantenersi» e che non dovevano in nessun modo tentare di «ampliare» (Discorsi I vi 24-26). È dunque tanto più rilevante la scelta di accomunare le due città antiche per dimostrare la forza del legame tra libertà e a. che spiega – da solo e malgrado le differenze importanti sulla scelta di porre «la guardia della libertà » nel popolo o nei grandi – la durata di queste repubbliche; ed è importante sottolineare, perché dimostra che si tratta di un’idea che rimane presente a distanza di anni, che la stessa tesi verrà ribadita nell’Arte della guerra, in termini molto simili: «Stette Roma libera cccc anni, ed era armata; Sparta, dccc; molte altre città sono state disarmate, e sono state libere meno di quaranta» (Arte della guerra I 172).
Dal nesso armi-libertà nasce l’idea della superiorità delle «populationi armate» su ogni altro tipo di eserciti. L’idea è già presente nei testi sulla Magna, nei quali si insiste sul modo in cui le città tedesche «tengono gli uomini loro armati et esercitati» e viene ripresa nei diversi testi successivi (cfr. Principe x 7-9; Discorsi III xxxi) nonché in uno scambio di lettere con Francesco Vettori, a proposito del ruolo che gli svizzeri stanno svolgendo nel ducato di Milano. M. vuole convincere Vettori del pericolo rappresentato dagli svizzeri e della necessità di un’alleanza del papa con il re di Francia. Vettori scrive che «a loro basta dare una rastrellatura, toccare danari e ritornarsi a casa» (M. a Francesco Vettori, 5 ag. 1513); M. risponde che la situazione è ben differente: «quanto al bastar loro dare una rastrellata et andar via, vi dico che voi non vi riposiate né confortiate altri che si riposi in su simile oppinioni» (M. a Francesco Vettori, 10 ag. 1513). M. pensa in effetti che le vittorie conseguite dagli svizzeri in passato hanno «misso loro nell’animo uno spirito ambitioso et una volontà di volere militare per loro»; non si può quindi ragionare, nel momento storico preciso che si sta vivendo, come se gli svizzeri fossero solo truppe mercenarie e non potessero avere un ruolo propriamente politico: «si ha da temere maravigliosamente di loro». Sono sul punto di «diventare arbitri d’Italia» (M. a Francesco Vettori, 26 ag. 1513) e questo si spiega con due motivazioni: la debolezza delle a. italiane, «li disordini e cattive condizioni nostre» e la potenza militare degli svizzeri che viene dal fatto che si tratta di «populationi armate»: «Et havete a intendere questo, che gli migliori exerciti che sieno, sono quelli delle populationi armate, né a loro può obstare se non exerciti simili a loro». Nella stessa lettera, d’altronde, l’esempio moderno a favore di questa tesi è dato dal regno di Francia: è proprio perché il re di Francia non ha «fanti proprii» e ha «disarmati i suoi popoli» che è stato vinto quando ha dovuto «combattere con le popolationi armate, come sono li Svizzeri et li Inghilesi». L’argomento viene ripreso in Principe xiii 18-23, dove M. spiega che «sono adunque stati gli eserciti di Francia misti, parte mercennari e parte propri: le quali arme tutte insieme sono molto migliori che le semplici ausiliarie o semplice mercennarie, e molto inferiore alle proprie». L’abbandono, a opera di Luigi XI, dell’«ordinanza delle genti d’arme e delle fanterie», emanata dal re Carlo VII, è stato «cagione de’ pericoli di quello regno» mentre, se l’ordinanza fosse stata mantenuta, «il regno di Francia sarebbe insuperabile».
Quelle repubbliche o quei principi che non hanno a. proprie perché hanno disarmato i loro popoli, devono arruolare stranieri. Questo punto era già presente nella Provisione della Ordinanza. Nel Principe, M. dimostra «la infelicità» delle a. «mercennarie et auxiliarie» che «sono inutile e pericolose». Le a. ausiliarie «sono quando si chiama uno potente che con le sua arme ti venga a difendere [...]. Queste arme possono essere buone e utile per loro medesime, ma sono, per chi le chiama, quasi sempre dannose: perché, perdendo, rimani disfatto; vincendo, resti loro prigione» (Principe xiii 1-2). «Insomma – spiega M. – nelle mercennarie è più periculosa la ignavia, nelle ausiliarie la virtù» (xiii 9). L’ironia machiavelliana è efficace e pungente sia contro i capitani mercenari che «vogliono bene essere tua soldati mentre che tu non fai guerra; ma, come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene» (xii 7), sia contro le truppe ausiliarie a proposito delle quali egli avverte: «colui adunque che vuole non potere vincere, si vaglia di queste arme» (xiii 7). Ma la polemica è rivolta innanzitutto contro le a. mercenarie, i condottieri e la milizia italiana: la formula sarcastica che riassume la storia recente della milizia italiana e dei suoi condottieri – «e ’l fine della loro virtù è stato che Italia è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando e vituperata da’ Svizzeri» (xii 31) – sintetizza con la forza dell’immagine quello che tutti sapevano o avrebbero dovuto sapere: «ora la ruina di Italia non è causata da altro che per essersi per spazio di molti anni riposata tutta in sulle armi mercennarie» (xii 8).
Nello stesso capitolo xii, M. torna alle origini di questo stato di fatto ed espone rapidamente l’analisi storica che secondo lui spiega la scelta delle truppe mercenarie:
Avete adunque a intendere come, tosto che in questi ultimi tempi lo Imperio cominciò ad essere ributtato di Italia e che il papa nel temporale vi prese più reputazione, si divise la Italia in più stati: per che molte delle città grosse presono l’arme contro a’ loro nobili, – e’ quali prima, favoriti da lo imperadore, le tenevano oppresse; – e la Chiesa le favoriva per darsi reputazione nel temporale; di molte altre e’ loro cittadini ne diventorno principi. Onde che, essendo venuta la Italia quasi che nelle mani della Chiesa e di qualche republica, ed essendo quelli preti e quelli altri cittadini usi a non conoscere arme, cominciorno a soldare forestieri. (Principe xii 28-29).
Questa spiegazione, che sottolinea il ruolo negativo del potere temporale della Chiesa e della sua lotta contro l’Impero, è ripresa in Istorie fiorentine I xxx, con diverse precisazioni storiche. Il risultato è il «guasto mondo», il mondo in cui la virtù è spenta per colpa non di una lunga pace, bensì della «viltà» delle guerre, «come chiaramente si potrà cognoscere per quello che da noi sarà da il 1434 al 1494 descritto dove si vedrà come alla fine si aperse di nuovo la via a’ barbari e riposesi la Italia nella servitù di quelli» (Istorie fiorentine V i 11). La rovina d’Italia è dunque legata alla scelta di fare la guerra con le a. mercenarie e alla responsabilità specifica della Chiesa in questo processo (cfr. anche Discorsi I xii 17: «Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa»).
L’analisi condotta da M. intorno alla rovina di Roma mostra come l’elemento militare sia sempre presente e venga indicato come una delle ragioni (anzi, generalmente, la prima ragione) che spiegano la rovina di una città o di una provincia. Si è già osservato che «disarmare i popoli» è presentato come un errore di grande peso che va di pari passo con quello di affidare la propria difesa a soldati mercenari. Nel Principe, nei Discorsi e nell’Arte della guerra, la rovina di Roma viene spiegata con due motivazioni principali: le lotte tra popolo e grandi, dopo aver partorito buoni effetti fino al tempo dei Gracchi, hanno infine provocato la rovina del vivere libero, cioè della Repubblica (Discorsi I v, vi, xxxvii); ma quella che si potrebbe chiamare «l’ultima rovina di Roma» è strettamente legata all’abbandono della milizia propria, formata dal popolo romano in a., e alla scelta di combattere soldando truppe mercenarie.
Il primo punto è affermato nell’Arte della guerra I 87-90:
Perché Ottaviano, prima, e poi Tiberio, pensando più alla potenza propria che all’utile publico, cominciarono a disarmare il popolo romano per poterlo più facilmente comandare, e a tenere continuamente quegli medesimi eserciti alle frontiere dello Imperio. [...] Dalle quali cose procedé, prima, la divisione dello Imperio e, in ultimo, la rovina di quello.
Il secondo nel Principe xiii 25: «E se si considerassi la prima cagione della ruina dello imperio romano, si troverrà essere suto solo cominciare a soldare e’ gotti».
Subito dopo l’ultima frase sulla rovina dell’impero romano, M. enuncia la propria conclusione, e lo fa proponendo una tesi importante che trae le conseguenze della polemica contro le a. mercenarie e della difesa di quelle proprie:
Deono pertanto i re, se vogliono vivere sicuri, avere le loro fanterie composte di uomini che, quando egli è tempo di fare guerra, volentieri per suo amore vadano a quella, e, quando viene poi la pace, più volentieri se ne ritornino a casa (Arte della guerra I 91).
Viene qui espressa l’esigenza di un legame d’‘amore’ per fare la guerra e viene presentata la figura di un cittadino o di un suddito che faccia «volentieri la guerra per avere pace» (I 93), diventi soldato «nei tempi di guerra, per necessità e per gloria» (I 75) e prenda le a. per amore della patria e di quelli che la governano. Questi cittadini o sudditi armati non potrebbero discostarsi maggiormente dai soldati di professione della milizia mercenaria, i quali «non hanno altro amore né altra cagione che le tenga in campo che un po’ di stipendio» (Principe xii 6). L’insieme del lungo passo dell’Arte della guerra (I 50-62) sull’«arte del soldo» (per riprendere le parole di Cosimo che rimane stupito dalla forza polemica di Fabrizio Colonna: «Voi m’avete fatto tornare questa arte del soldo quasi che nulla», I 63) permette di comprendere su quali fondamenti e quali valori M. ha costruito la sua concezione della milizia e delle a. proprie.
Per Fabrizio,
essendo questa una arte mediante la quale gli uomini d’ogni tempo non possono vivere onestamente, non la può usare per arte se non una republica o uno regno; e l’uno e l’altro di questi, quando sia ben ordinato, mai non consentì ad alcuno suo cittadino o suddito usarla per arte, né mai alcuno uomo buono l’esercitò per sua particolare arte (I 51).
M. precisa subito che non c’è contraddizione nel suo pensiero tra la necessità di prepararsi alla guerra e di essere capaci di farla per difendersi o per conquistare e il suo rifiuto di concepire l’arte militare come professione di un singolo individuo, cosa che si potrebbe pensare avendo in mente il cap. xiv del Principe nel quale si dichiara appunto che un principe deve «non avere altro obietto né altro pensiero né prehendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di epsa: perché quella è sola arte che si aspetta a chi comanda». La precisazione di Fabrizio «non la può usare per arte se non una republica o uno regno» viene ribadita:
Debbe adunque una città bene ordinata volere che questo studio di guerra si usi ne’ tempi di pace per esercizio e ne’ tempi di guerra per necessità e per gloria, e al publico solo lasciarla usare per arte, come fece Roma (Arte della guerra I 75).
Ma i popoli, siano essi cittadini di «una republica» o sudditi di «uno regno», devono avere un mestiere che «gli nutrisce nella pace», in modo che
venuta la pace, [i] principi tornino a governare i loro popoli, i gentili uomini al culto delle loro possessioni e i fanti alla loro particolare arte: e ciascuno d’essi faccia volentieri la guerra per avere pace, e non cerchi turbare la pace per avere guerra (I 93).
È da sottolineare che Fabrizio Colonna, condottiero al servizio del re di Spagna, giustifica la propria funzione – che può quindi parere paradossale (su questo paradosso, cfr. Dionisotti 1980; Colish 1998; Lukes 2004) – di portavoce delle tesi machiavelliane sulle a. e la milizia propria definendosi come estraneo al mestiere delle a.:
E perché voi allegasti me, io voglio essemplificare sopra di me; e dico non aver mai usata la guerra per arte, perché l’arte mia è governare i miei sudditi e defendergli, e per potergli defendere, amare la pace e saper fare la guerra. Ed il mio re non tanto mi premia e stima per intendermi io della guerra, quanto per sapere io ancora consigliarlo nella pace (I 108-109).
La tesi sul ruolo dell’amore per far la guerra è fortemente legata a una serie di questioni ricorrenti del pensiero politico-militare di Machiavelli. Si appoggia sul ricordo della pratica militare della Repubblica romana («I miei Romani, come ho detto, mentre che furono savi e buoni, mai non permessero che i loro cittadini pigliassono questo esercizio per loro arte», I 85) e sugli esempi di capitani romani che dimostravano nei fatti dedizione alla patria e assoluto distacco da ogni idea di profitto materiale da trarre dalla guerra. Si pensi a Cincinnato, Lucio Tarquinio, Marco Attilio Regolo e Paolo Emilio (Discorsi III xxv; Arte della guerra I 69) che non consideravano la guerra come il loro mestiere, ma pregavano il senato, dopo aver vinto, di lasciarli tornare a occuparsi dei loro modesti possedimenti, dimostrando così di essere «valenti e buoni», proprio perché mettevano in evidenza il legame virtuoso tra una «città bene ordinata» e la «povertà dei cittadini», i quali devono desiderare non i beni materiali ma solo la gloria: «quando e’ sono a sufficienza gloriosi disiderano tornarsi a casa e vivere dell’arte loro» (I 71).
Questa tesi si fonda sull’idea del popolo armato, la cui ostinazione «è accresciuta dalla confidenza e dall’amore del capitano o della patria» (Arte della guerra IV 149). Essa implica un legame tra chi comanda e il popolo, ed esclude per conseguenza il rischio, temuto dagli imperatori romani, derivante da «la crudeltà et avarizia de’ soldati» (Principe xix 28).
Permette di precisare la risposta alla domanda «s’egli è meglio essere amato che temuto o e converso», posta in Principe xvii 8 e poi in Discorsi III xix e xx. Se una risposta, che si potrebbe dire minima, è data in Principe xvii 12 («debbe […] el principe farsi temere in modo che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio»), la tesi sull’amore esposta nell’Arte della guerra va ben oltre e riprende una notazione già presente in Principe xix 14, dove veniva detto che la «benivolenzia populare» è un modo atto a fuggire le paure «per conto de’ subditi» e che il principe deve badare «a satisfare al populo e tenerlo contento» (xix 19).
Qui viene dato un valore quasi programmatico al patto d’amore tra chi comanda e il popolo: è l’amore che rende possibile il costituirsi di un’entità politica – repubblica o regno – bene ordinata in quanto capace di risolvere la questione delle a. e di fare la guerra.
Dall’intrecciarsi dell’amore del capitano con l’amor di patria sembrano infatti derivare una forza e una virtù coattiva sostitutiva della caritas che era al centro del pensiero tomista della comunità. Suprema virtù cristiana, possibile solo per ispirazione divina (o per grazia), la caritas era anche una virtù dotata di una sua gerarchia, ossia l’ordine degli oggetti di carità, di cui si discute a partire da Agostino (Dio, il prossimo, i parenti, l’individuo che ama sé stesso ecc.), e la comunità entrava in quest’ordine (distinta dal ‘prossimo’). A Firenze il Tractatus de bono communi (1302) di Remigio de’ Girolami è il testo fondamentale nella teorizzazione di questa caritas come legame sociale cruciale, fondamento della comunità, e questa concezione viene ripresa anche dai giuristi del tempo. Nel lessico di M., la parola carità tende a scomparire o a essere usata quasi come se si volesse distanziarsene; si pensi all’uso di «carità propria» in Principe x 11: «la carità propria [i.e. del popolo di una città assediata che vede ardere le sue possessioni] gli farà sdimenticare lo amore del principe». Due occorrenze sono, da questo punto di vista, particolarmente significative: l’uso in Discorsi III xlvii 4 dell’espressione «carità della patria» in luogo di «amore della patria» presente nel titolo del capitolo e, nel Principe, la messa in evidenza della necessità di rinunciare alla vecchia caritas:
E hassi a intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione (Principe xviii 14, il corsivo è nostro).
Nel proemio dell’Arte della guerra M. ricordava l’opinione di molti «che e’ non sia cosa alcuna che minore convenienza abbia con un’altra, né che sia tanto dissimile, quanto la vita civile dalla militare».
Aggiungeva però quasi subito che, «se si considerassono gli antichi ordini, non si troverebbono cose più unite, più conformi e che di necessità tanto l’una amasse l’altra quanto queste». L’amore che lega i popoli armati a coloro che comandano è il modo di replicare all’opinione dei molti: l’idea delle armi proprie, di un esercito i cui soldati siano legati ai loro capitani da un sentimento d’amore e non si considerino soldati di mestiere è sempre presente nelle opere e nelle azioni di Machiavelli. Si tratta di una tesi che precorre i tempi, ancora troppo moderna per essere compresa dai principi italiani: malgrado «i grandi spaventi, le subite fughe e le miracolose perdite» (VII 237) patite dagli italiani dopo il 1494 – scrive, con amarezza e ironia, nell’ultima pagina dell’Arte della guerra – i principi italiani «stanno nel medesimo errore e vivono nel medesimo disordine» (VII 238).
Bibliografia: P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952, 19702; P. Pieri, Guerra e politica negli scrittori italiani, Milano 1955, 19752; C. Dionisotti, Machiavelli letterato, in Id., Machiavellerie, Torino 1980, pp. 227-66; F. Gilbert, Machiavelli: the Renaissance in the art of war, in Makers of modern strategy: from Machiavelli to the nuclear age, ed. P. Paret, Princeton 1986, pp. 11-31; M. Mallett, The theory and practice of warfare in Machiavelli’s republic, in Machiavelli and republicanism, ed. G. Bock, Q. Skinner, M. Viroli, Cambridge 1990, pp. 173-80; M. L. Colish, Art of war: a reconsideration, «Renaissance quarterly», 1998, 51, pp. 1151-68; J.-L. Fournel, Stratégie des citoyens: la question des “armi proprie” chez Machiavel et Guicciardini, in Les Guerres d’Italie: histoire, pratiques, représentations, éd. D. Boillet, M.-F. Piéjus, Paris 2002, pp. 74-87 (ora in J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, La politique de l’expérience. Savonarole, Guicciardini et le républicanisme florentin, Alessandria 2002); T.J. Lukes, Martialing Machiavelli: reassessing the military reflections, «The journal of politics», 2004, 66, pp. 1089-2008; A. Guidi, Un segretario militante. Politica, diplomazia e armi nel Cancelliere Machiavelli, Bologna 2009; M . Hörnqvist, Machiavelli’s military project and the Art of war, in The Cambridge companion to Machiavelli, ed. J. Najemy, Cambridge 2010, pp. 112-27; J. Barthas, L’argent n’est pas le nerf de la guerre. Essai sur une prétendue erreur de Machiavel, Roma 2011; D. Quaglioni, Machiavelli e la lingua della giurisprudenza, Bologna 2011.
Si veda inoltre: J.-C. Zancarini, «Se pourvoir d’armes propres »: Machiavel, les «péchés des princes» et comment les racheter, in L’Ami et l’Ennemi, «Asterion», mars 2009, 6, http:// asterion.revues.org/1475 (18 febbr. 2013).