Armi
L'Italia sveva e postsveva si distinse per un elevato tasso di belligeranza e, di conseguenza, per una pratica pressoché continuativa dell'uso delle armi. Non essendo cambiati gli antagonisti né i metodi di condurre le ostilità, si potrebbe giungere alla conclusione che per quel che riguarda il settore degli armamenti, negli anni centrali del periodo più che secolare nel quale si colloca l'epoca di Federico II, non si siano verificate rotture con il passato. Ci fu senza dubbio un ritardo di Federico nell'utilizzazione di alcune macchine belliche ormai sperimentate anche nell'Italia comunale; tuttavia gli studi più recenti, in particolare quelli di Aldo A. Settia (1993, 2002), hanno puntualizzato l'importanza di alcune armi tradizionali che vennero allora impiegate in grande copia, affinate e perfezionate.
Come in passato, assistiamo in prevalenza a campagne di distruzione del contado ad opera di guastatori muniti di mannaie, scuri e altri strumenti idonei. Lunghi ed estenuanti erano anche i periodi che l'imperatore passava in assedi di città e luoghi fortificati. Tuttavia non si può ignorare che furono le battaglie campali ad avere un peso non trascurabile nelle operazioni condotte sotto Federico II.
Già negli anni precedenti alla sua entrata in scena, nelle file dei combattenti, nella loro distinzione di base in milites e pedites, operava un certo numero di uomini equipaggiati con armi da getto, i sagittarii e i balestrarii. Con archi e balestre si muovevano a piedi, oppure come cavalleria leggera. Verso il terzo decennio del XIII sec. i balestrieri erano il gruppo più numeroso, mentre la militanza con gli archi diventò appannaggio dei saraceni di Lucera, un corpo di tiratori impiegati a cavallo o appiedati: la loro istituzione costituì certamente uno degli interventi più originali di Federico in campo militare. Arma anche psicologica non trascurabile, a loro si affidò pure Ezzelino da Romano, ed è tuttora discusso quale sia stato il loro effettivo contributo alla vittoria di Cortenuova.
Fu l'uso sempre più capillare della balestra anche nelle guerre terrestri a condizionare maggiormente la tecnologia militare del Duecento, con la sua superiorità sull'arco. Sembra che nei primi decenni del secolo si fossero realizzati progressi tecnici tali da potenziare sensibilmente la forza di penetrazione della freccia (sagitta, pilottum, quadrellum), scagliata dai vari tipi di balestra portatile. Usate tanto in assedi quanto in campo aperto, tali balestre ‒ tra le quali spiccano quella 'a staffa' e quella 'a due piedi' ‒ si distinguevano per materiale, dimensioni, funzionamento, oltre che per potenza e lunghezza della gittata. Il loro uso richiedeva una protezione dei combattenti e delle cavalcature ben più solida ed impenetrabile di quanto non fosse stato necessario per la difesa dalle armi offensive tradizionali, quali lancia, spada, mazza ferrata, 'coltello da ferire' e, per i fanti, anche 'falcioni' (falzones), fionde e 'ronconi', ovvero gli strumenti con lama a roncola e uncino per disarcionare i cavalieri. L'uso della balestra provocò un processo inarrestabile di rinnovamento dell'armamento difensivo, che impose di rimpiazzare gradualmente gli elementi di cuoio e di legno con quelli di ferro, oppure di sovrapporre il metallo al cuoio e a imbottiture varie, con la tendenza a ricoprire il corpo in tutte le sue parti. Anche la semplice coperta imbottita della cavalcatura venne sostituita con una bardatura forte di elementi metallici. Risalgono a questi anni le prime notizie sull'impiego di lamelle di ferro battuto in sostituzione della trama di anelli d'acciaio, meno resistente alle frecce e alle altre armi di punta, quali lo spontonum, lo spuntone, e lo spetum, lo spiedo, che fecero la loro apparizione nel corso del secolo. Proprio a causa di queste continue sperimentazioni, ma anche per i prezzi sempre più elevati delle nuove armature, sarebbe vano attendersi un'uniformità dell'equipaggiamento, lungi dall'esistere persino in uno stesso esercito. Si trasformò l'armatura d'acciaio in dotazione ai cavalieri e usata anche da quei fanti che non si accontentavano della zuppa armandi, cioè del giubbone imbottito. Costituita dalla cotta di maglia (osbergum o lorica), che copriva dalla testa alle caviglie, all'inizio del Duecento la corazza appariva già accorciata nella sua lunghezza, ma completata da protezioni speciali per le gambe, le cosce e l'addome (gamberie, schincharie, coxaroni, pancera), talvolta rafforzate da elementi protettivi per le ginocchia, quando non fossero usate più complesse 'brache di ferro'. S'aggiungono cuffie o cappucci (capironi), gorgiere e maniche con guanti (maniberge), sempre in maglia d'acciaio.
È dall'epoca di Federico II, alla metà degli anni Trenta, che si hanno testimonianze dell'uso di una lamera o lama, intesa come un corpetto di lamiere d'acciaio applicate su un sostegno di cuoio. Numerose e probabilmente più aperte a variazioni, almeno a giudicare dalla diversità delle denominazioni, erano le protezioni che venivano sovrapposte al cappuccio: cervelaria, cassetum, capellum ferri, bacinetum, helmum, lobia ferri. Sempre a quegli anni data la prima testimonianza di ciò che dovrebbe essere l'antesignano dell'elmo chiuso con la visiera, una maschera connessa al cappello di ferro. Come documenta bene l'iconografia del Liber ad honorem Augusti, negli ultimi anni del regno di Enrico VI la parte centrale del viso dei combattenti a cavallo e in assedio, come già più di un secolo prima nella Tappezzeria di Bayeux, era celata da elmi con la cupola appuntita, oppure arrotondata, che incorporavano una lastra di acciaio verticale che scendeva dalla fronte al mento, il 'bacinetto a nasale'. Qui erano inserite anche le prime forme dei contrassegni araldici, al fine di rendere riconoscibile chi si celava dentro simile involucro, impenetrabile anche alla vista, oltre che ai colpi. Data la protezione corporea più articolata, lo scudo del cavaliere poté ridurre le proprie dimensioni, acquistando la forma a mandorla raffigurata nel Liber. Nella prima metà del XIII sec., il bordo superiore arrotondato divenne diritto, introducendo quella forma triangolare tipica dello scudo cavalleresco da combattimento (e araldico), usata ancora con poche variazioni per tutto il Trecento. Le denominazioni rotella, tabulacium, targa, testimoniano però la coesistenza di vari tipi di scudi. Quello del fante restò ancora inalterato; probabilmente anche la sua lancia conservò la lunghezza originaria, mentre quella del cavaliere si accorciò, guadagnando però in robustezza: di faggio o di frassino, le lance erano rivestite di ferro nell'estremità verso la cuspide. L'inizio della cooperazione in coppia dei fanti, dovuta a una loro specializzazione ‒ l'uno impegnato come lancearius, con la 'lancia lunga' (di oltre 5 m), impugnata a due mani, con funzioni soltanto offensive, l'altro, il palvesarius, con il 'palvese', il grande scudo concavo rettangolare, con compiti esclusivamente difensivi ‒, che Pieri ipotizzava risalire a quest'epoca, è stato invece ritardato da Settia al secolo successivo.
Accanto a questi sviluppi, che si vorrebbero di un'importanza inferiore soltanto a quelli che ebbe l'uso generalizzato delle armi da fuoco, non va assolutamente trascurata un'invenzione di epoca sveva nel settore della poliorcetica, un'invenzione definita uno dei contributi più originali che il Medioevo abbia dato alla meccanica militare e applicata, finché non prevarranno le artiglierie. Infatti, accanto alle tradizionali petriere, ai mangani e alle macchine lanciapietre a fionda, interpretate anch'esse come mangani, raffigurate nel Liber; accanto alle macchine d'avvicinamento e di scavo, quali le torri d'assedio e i mobili belfredi, quali le porche e i gatti, che da un lato emettono fuoco e dall'altro albergano uomini armati, e ai cunicoli carichi di sostanze incendiarie scavati sotto le mura (una tecnica militare praticata in Europa già dall'XI sec.); accanto a tutte queste macchine, verso la fine del XII sec. e, su scala più vasta nel Duecento, ne comparve una nuova da lancio, sconosciuta al mondo antico. Era il trabucco che, diversamente dal mangano, mosso con corde a trazione umana e dagli strumenti a fionda, era costituito da un braccio con funzione di leva, munito di un contrappeso fisso di piombo o di sabbia. Questo lo rendeva assai più potente delle macchine da lancio precedenti. Una sua variante, munita di contrappeso mobile, era la biffa (o blida, o briccola), che nei decenni centrali del secolo si impose sull'altra. La sua prima menzione la troviamo in un ordine di Federico II del 1239. Un'altra variante era il tripantum (o tripontum), con contrappeso sia fisso sia mobile. Nuove erano anche le grandi balestre da posizione installate sulle mura con compiti difensivi, che arrivarono dall'Oriente negli anni del dominio federiciano. Valendosi di un tornio azionato da manovelle, erano in grado di lanciare frecce molto più grosse di quelle di tipo corrente. Tutte queste macchine, ingrandendosi e perfezionandosi continuamente, arrivavano a scagliare proiettili sempre più pesanti, fino a tre quintali, come pure proiettili incendiari e fuoco greco. Queste armi divennero abituali nel corso del Duecento, ma alla loro prima uscita ebbero un enorme impatto psicologico, come l'improvviso apparire, all'assedio di Viterbo, di quel "mostruoso alto ed insolito edificio detto maristella": simile a una nave, protetto davanti da lamine di ferro, con un gigantesco rostro metallico e fortissime catene per agganciare e distruggere steccati, trasportava fino a trenta uomini armati di lance e frecce, ma non riuscì ad avere la meglio sulle contromisure degli assediati. L'impressione che se ne ricava è che in quest'epoca siano le armi di difesa a prevalere su quelle offensive.
fonti e bibliografia
P. Egidi, Le croniche di Viterbo scritte da frate Francesco d'Andrea, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 24, 1901.
Pietro da Eboli, Liber ad honorem Augusti sive de rebus Siculis, a cura di Th. Kölzer-M. Stähli, Sigmaringen 1994.
P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952; A.A. Settia, Comuni in guerra. Armi ed eserciti nell'Italia delle città, Bologna 1993.
E. Cuozzo, Trasporti terrestri militari, in Strumenti, tempi e luoghi di comunicazione nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle XI giornate normanno-sveve (Bari, 26-29 ottobre 1993), a cura di G. Musca-V. Sivo, Bari 1995, pp. 31-66.
H. Zug Tucci, Armi e armature, ibid., pp. 131-151; A.A. Settia, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Roma-Bari 2002.