arte e matematica
arte e matematica Può la bellezza parlare il linguaggio della matematica? Il rapporto fra la scienza dei numeri e la creazione artistica non appare a tutta prima evidente, ma gli intrecci e le convergenze fra queste due sfere della cultura umana sono stati nel corso della storia numerosi, profondi e fecondi. Considerata dagli stessi matematici una disciplina altamente creativa e non priva di qualità estetiche (come scrive G.H. Hardy in Apologia di un matematico, «Le forme create dal matematico, come quelle create dal pittore o dal poeta, devono essere belle»), nel corso dei secoli la matematica ha fornito alle arti visive strumenti e suggestioni. Molti artisti in epoche diverse hanno subito il fascino della matematica, e dalle sue idee, dalle sue tecniche e dalle sue forme hanno tratto ispirazione per le loro opere e i loro linguaggi. Nella matematica hanno cercato i mezzi per migliorare la rappresentazione della realtà, per elaborare nuove forme espressive, per dare un fondamento razionale all’operare artistico. Risulta quindi interessante indagare in una prospettiva diacronica le relazioni e i punti di contatto tra arte e matematica per tentare di mettere in luce come le forme e le regole matematiche abbiano partecipato nei diversi periodi storici alla definizione e all’evoluzione degli stili artistici e contribuito alla fissazione dei canoni estetici.
Le figure geometriche, dalle più semplici (quadrati, triangoli, rettangoli, cerchi) alle più complesse (come i poliedri), sono state in tutti i tempi oggetto di rappresentazione artistica. Il cerchio e la sfera, considerate forme perfette, immagine dell’infinito nel finito, attraversano la storia dell’arte, dalla circonferenza tracciata a mano libera dal giovane Giotto nell’aneddoto narrato dal Vasari, ai vortici luminosi e iridescenti degli orfici Robert e Sonia Delaunay, dalle sfere scolpite da Arnaldo Pomodoro ai “concetti spaziali” di Lucio Fontana. Se il quadrato è la forma prediletta da «De Stijl» (P. Mondrian, Th. Van Doesburg), dai suprematisti (K. Malevič), dal Bauhaus (J. Albers), la spirale, legata fra l’altro alla sezione aurea e ai numeri di Fibonacci, è uno dei motivi decorativi più in voga nel Liberty, poiché assai frequente nelle forme naturali, e ricorre spesso anche nei dipinti di G. Klimt. I poliedri regolari hanno goduto di enorme fortuna nel rinascimento, quando divennero un genere artistico alla moda nelle corti italiane, un genere in cui si cimentarono con maestria Piero della Francesca, Leonardo da Vinci (il primo a rappresentare i poliedri in modo che se ne scorgessero anche gli spigoli posteriori) e Paolo Uccello (tipici i suoi mazzocchi, ciambelle sfaccettate simili alla figura detta “toro”, che nei suoi dipinti assurgono a enigmatiche icone prospettiche, ed emblematico il poliedro stellato intarsiato in marmo realizzato su suo disegno per la basilica di San Marco a Venezia). Secoli dopo i poliedri torneranno a essere protagonisti della pittura con il cubismo e l’astrattismo e anche della scultura moderna astratta, come nei lavori costruttivisti di Naum Gabo degli anni Venti o nell’imponente e scenografico Cubo rosso (1968) di Isamu Noguchi. Anche numeri e cifre rivelano potenzialità estetiche: dai Numeri innamorati (1925) del futurista Giacomo Balla alle serie numeriche “pop” di Jasper Johns e Robert Indiana, dai concettuali Dipinti numerati (dal 1965) di Roman Opalka, tele interamente ricoperte di progressioni numeriche da 1 all’infinito, alla successione di Fibonacci, assunta come espressione della crescita organica e adottata da Mario Merz come modulo per numerose sculture e installazioni, fino a quella permanente sulla Mole Antonelliana di Torino (Il volo dei numeri, 1984).
La componente matematica-geometrica è già evidente nell’arte antica, che nelle sue diverse forme espressive, dalla scultura all’architettura, è costantemente alla ricerca di un canone oggettivo, basato su un preciso sistema di misure e proporzioni studiate per ottenere un effetto di armonia e di equilibrio. Il modulo (per l’architettura), il canone (per la scultura), la sezione aurea (un tipo particolare di proporzione in cui la grandezza maggiore è medio proporzionale tra la minore e la somma delle altre due) costituiscono i modelli o paradigmi compositivi su cui si regge l’arte classica: essi consentono di determinare le dimensioni e le corrispondenze tra le varie parti di un insieme (edificio o corpo umano) a partire da un modulo di riferimento i cui divisori o multipli determinano la lunghezza dei vari segmenti. In particolare, l’arte greca trova un paradigma di proporzione estetica nella sezione aurea, applicata, oltre che in architettura, in pittura e scultura. L’armonia del corpo umano viene associata al rispetto della regola aurea e tutto ciò che è descrivibile in un rettangolo aureo viene definito “bello”: nella rappresentazione della figura umana l’intera altezza, la distanza tra l’ombelico e i piedi e la distanza tra l’ombelico e la testa devono essere in rapporto aureo. Le proporzioni armoniche determinano la bellezza dell’opera “a prima vista”. Nel v secolo Policleto definisce metodologicamente il Canone, la regola metrica per la scultura, che applica nell’arte plastica criteri simili a quelli dettati da Ictino per il Partenone e da Ippodamo per l’urbanistica. Anche la figura umana viene costruita secondo calcoli di multipli e sottomultipli: così come in architettura si utilizza come modulo il diametro inferiore della colonna, per la scultura si adotta la larghezza della mano. Il rapporto tra testa e figura intera è pari a due terzi. Nel iv secolo Lisippo ritocca il canone: per ottenere figure più slanciate porta il rapporto tra testa e altezza totale a 1 : 8. Nel i secolo a.C. Vitruvio nel suo trattato di architettura sviluppa l’analogia tra la “fabbrica” architettonica e il corpo umano partendo dall’ombelico: secondo Vitruvio, un uomo sdraiato, con le gambe distese e le braccia allargate si inscrive perfettamente entro un quadrato e un cerchio che hanno come centro l’ombelico.
Attraverso la tradizione del trattato De architectura di Vitruvio l’antropometrismo classico diventa la base della teoria delle proporzioni nel rinascimento e punto di riferimento per tutti i momenti “classici” o “classicisti” in cui la ricerca di un equilibrio armonico delle forme assume valore normativo. È con Luca Pacioli e il suo trattato De divina proportione (1509) che la sezione aurea entra a pieno diritto nell’orbita artistica e viene consacrata come canone estetico di armonia e bellezza. Il trattato, attraverso una serie di riflessioni sulla geometria, fissa le proporzioni cui attenersi per raggiungere la bellezza perfetta. L’opera comprende anche una sezione di architettura tratta da Vitruvio e una sui poliedri regolari, ripresa da Piero della Francesca e illustrata da Leonardo da Vinci. Leonardo è anche l’autore del celeberrimo “uomo ideale”, autentica icona della cultura umanistica che unisce sensibilità artistica e scientifica, tecnica e bellezza: il geniale artista rivisita il prototipo vitruviano trovando un’efficace ed elegante soluzione per il problema dell’inserimento coerente della figura virile all’interno del cerchio e del quadrato (le due figure hanno centri differenti: i genitali per il quadrato, l’ombelico per la circonferenza); le proporzioni ideali del corpo umano derivanti da questa figura corrispondono al rapporto aureo fra il lato del quadrato e il raggio del cerchio. A distanza di quattrocento anni, l’interesse per le proporzioni della sezione aurea riaffiorerà nella corrente del cubismo a carattere purista e geometrizzante nota come Section d’or.
Da Leon Battista Alberti a Piero della Francesca, da Paolo Uccello a Leonardo da Vinci ad Albrecht Dürer, il rinascimento consacra la figura dell’artista-scienziato e dell’artista-matematico: la ricerca di una bellezza definita da proporzioni ideali e, soprattutto, lo sviluppo di una rigorosa teoria matematica della prospettiva contribuiscono infatti a far sì che si crei una forte convergenza tra gli interessi degli artisti e quelli degli scienziati. Il pittore, l’architetto, il matematico e lo scienziato coesistono in una stessa figura perché, come scrive l’Alberti nel De pictura, «il primo requisito per un pittore è quello di conoscere la geometria». Anche uno scultore come Lorenzo Ghiberti, fortemente influenzato da Vitruvio, nei suoi Commentari definisce un elenco di arti liberali che adornano la pittura e la scultura e che l’artista – che voglia dirsi tale – dovrebbe conoscere: «La grammatica, per essere in grado di scrivere efficacemente sui problemi dell’arte; la geometria, per ottenere armonie razionali nella composizione dell’opera; la filosofia, per conoscere la natura delle cose; la medicina, per conoscere la natura dell’uomo; l’astrologia, per le armonie geometriche dei pianeti; la prospettiva, come scienza visiva dello spazio; la storia per la composizione; l’anatomia, per la comprensione della struttura, del movimento e delle proporzioni del corpo umano; la teoria del disegno per ovvie ragioni; e l’aritmetica per i calcoli necessari allo svolgimento della sua professione». È un’immagine professionale e colta della nuova figura di artista che si viene delineando, un’immagine in cui risultano centrali la scienza razionale della prospettiva e la conoscenza matematica: la perfezione deduttiva della matematica affianca lo studio empirico del mondo sensibile.
Schemi geometrici e formule empiriche di rappresentazione prospettica sono individuabili già in opere pittoriche del Trecento diffuse e tramandate nell’ambito delle “botteghe” (non ultima La nascita della Vergine, 1342, di Pietro Lorenzetti che, oltre a presentare nella composizione rettangoli aurei, evidenzia due sistemi di convergenza delle linee e due punti di fuga che anticipano la prospettiva). Ma è solo nel rinascimento che avviene il salto qualitativo fondamentale, col passaggio dalla scienza della visione alla scienza della rappresentazione e con la definizione delle regole della corretta costruzione prospettica: questa si basa sulla convergenza delle linee di profondità in un punto di fuga unificato (due punti di fuga nel caso della prospettiva bilocale) e sul calcolo scientifico degli intervalli di profondità. Il termine prospettiva deriva dal latino perspicere, «guardare innanzi». La prospettiva è un tipo di proiezione volta a rappresentare sul piano (bidimensionale) forme e oggetti dello spazio (tridimensionale) in modo che la rappresentazione sia il più possibile simile alla visione del mondo reale; introduce insomma, nella rappresentazione, la “spazialità” dell’ambiente rappresentato. Diventa oggetto di studio da parte degli artisti a partire dal Quattrocento, anche se alcuni esempi intuitivi sono anticipati dalla pittura di Giotto (soprattutto in età tarda). Lo stesso Masaccio, dal 1422, adotta un sistema in cui le linee tra loro parallele e perpendicolari al quadro convergono verso un unico punto, introducendo così il primo punto di fuga, pur senza darne una identificazione formale. A lui si ispira Filippo Brunelleschi al quale viene fatto risalire il primo uso della prospettiva, sulla base di una sua lettera del 1413 dove scrive di una tavoletta (probabilmente quadrata e con il lato inferiore a 30 cm) sulla quale è dipinta la veduta prospettica del Battistero di Firenze, ottagonale, ottenuta adattando le formule geometriche dell’ottica medievale (perspectiva). Brunelleschi raggiunge ciò che comunemente si definisce “accuratezza scientifica” utilizzando la tavoletta dipinta come uno strumento ottico e sostituendo la visione del Battistero con la sua immagine prospettica. Nel De pictura Leon Battista Alberti presenta i metodi per applicare la teoria della prospettiva alla pittura, descrivendo la cosiddetta “piramide visiva”. Riconosce che né lo studioso di ottica né il pittore sono interessati ai concetti puri e astratti dei matematici, i quali «col solo ingegno, separata ogni materia, mesurano le forme delle cose». Distingue così che il «punto del geometra è qualcosa di concettualmente indivisibile, mentre quello del pittore è soltanto un “segno fisico” sufficientemente piccolo da essere praticamente invisibile», ma ci tiene ugualmente a precisare che questa differenza non assolve il pittore dalle esigenze della precisione geometrica. Alberti ribadisce che la costruzione geometrica dello spazio è una premessa fondamentale per dipingere in modo corretto. Passa quindi a definire per l’artista i concetti di punto, linea e superficie combinando conoscenze euclidee con pratiche descrittive. La visione - afferma - è «un triangolo, la base del quale sia la veduta quantità e i lati sono questi razzi, i quali dai punti della quantità si estendono sino all’occhio»; l’insieme di tali triangoli nelle tre dimensioni delimita la “piramide visiva”, che ha il vertice nell’occhio, mentre i “raggi estrinseci” descrivono i contorni degli oggetti. Questo passo sulla visione trae sicuramente spunto dall’Ottica di Euclide ed è evidente che le teorie sulla visione e sulla rappresentazione in molti momenti coincidono. La prospettiva è così divisa in scienza della visione (perspectiva naturalis) e scienza della rappresentazione (perspectiva artificialis).
Il metodo descritto dall’Alberti, diretto specificamente ai pittori, verrà perfezionato sul piano formale e teorico lungo tutto l’arco del Quattrocento e del Cinquecento da artisti come Piero della Francesca, Leonardo, Dürer, Jean Pélerin, Serlio, Barbaro, Vignola, interessati ai fondamenti scientifici della pittura. A. Dürer, in particolare, principale rappresentante del rinascimento fuori d’Italia, dopo i suoi soggiorni veneziani (1494-95, 1505-07) pone al centro della sua opera la rappresentazione della figura umana e la concezione prospettica dello spazio, vale a dire la ricerca della bellezza e dell’esattezza, e dedica a esse anche rilevanti studi teorici: Quattro libri sulle proporzioni del corpo umano (1528) e un trattato di prospettiva e geometria (Della misurazione, 1525), in cui descrive la costruzione di diverse curve (come la concoide, la spirale di Archimede e la spirale basata sulla sezione aurea, da allora nota come “spirale di Dürer”), di poligoni regolari, di sezioni coniche come la parabola, oltre a illustrare in apposite incisioni gli strumenti necessari per applicare la prospettiva nel disegno dal vero, come il caratteristico schermo con foro dal quale osservare la scena e riprodurla sulla tela. L’abilità concreta di Dürer nel rappresentare oggetti in prospettiva emerge in particolare nella più celebre delle sue incisioni, Melancholia I (1514), in cui spiccano oggetti e simboli matematici, come la sfera, un poliedro (forse un romboedro, che fa pensare al famoso Cubo di Alberto Giacometti) e soprattutto il quadrato magico, in cui la somma di righe, colonne e diagonali è una costante.
Il prototipo dell’artista matematico delineato dal Ghiberti è sicuramente Piero della Francesca sia per l’ispirazione razionale e intellettuale della sua opera pittorica sia per la necessità che egli avverte di formalizzare le tecniche pittoriche e di indagare le basi teoriche della pittura fondandole su rigorosi principi geometrici. La sua enigmatica Flagellazione (1450-60), in cui l’ordine architettonico diventa la chiave dello spazio e di tutta la composizione, è l’opera che rivela la piena consapevolezza raggiunta dall’artista delle implicazioni matematiche della sua arte: le due metà del dipinto, quella in primo piano e quella del pretorio (il luogo dove Cristo venne flagellato), sono organizzate secondo il rapporto aureo, l’elaborato disegno del pavimento di marmo è perfettamente scorciato in prospettiva, i due gruppi principali di figure (i tre astanti e Cristo tra i due flagellatori) si appoggiano su due quadrati del pavimento di identiche dimensioni, che si controbilanciano, mentre fulcro visivo della composizione è la figura del Cristo, al centro di un cerchio inscritto in un quadrato, che evoca il classico problema della quadratura del cerchio. Piero passa con grande naturalezza dalla pratica pittorica alla matematica e alla speculazione matematica astratta. Stimolato dalla cultura dell’ambiente urbinate, centro dell’arte “intellettuale” del rinascimento, e dai rapporti con il grande matematico Luca Pacioli, che dell’arte colta di Piero sarà devoto divulgatore, Piero redige anche alcune opere di argomento matematico: il De prospectiva pingendi, un Trattato d’abaco, e il De quinque corporibus regularibus, dedicato ai poliedri platonici e ad alcuni dei poliedri archimedei, che fu pubblicato nel 1509, tradotto in volgare, come appendice del De divina proportione di Luca Pacioli.
Agli inizi del Seicento, col trattato di Guidobaldo Dal Monte Perspectivae Libri sex si avvia un processo di scissione tra creazione artistica e prospettiva, divenuta ormai oggetto di indagine matematica. Al termine di questo processo, dai procedimenti matematici scaturiti dalla tecnica della prospettiva si sviluppano la geometria descrittiva a opera di G. Monge e la geometria proiettiva a opera di G. Desargues, autodidatta, ufficiale dell’esercito e poi ingegnere e architetto. L’intento è quello di aiutare gli ingegneri, i pittori e gli architetti nel loro lavoro: «Confesso liberamente – scrive Desargues – di non aver mai provato piacere in studi o ricerche nel campo della fisica o della geometria, se non quando potevano servire come mezzi per arrivare a una qualche sorta di conoscenza delle cause vicine […] per il bene e comodità della vita, nel conservare la salute, nella pratica di qualche arte […], una buona parte delle arti è fondata sulla geometria, fra le altre quelle del taglio delle pietre in architettura, quella delle meridiane solari, e quella della prospettiva in particolare». L’opera di Desargues, Broullion-projet d’une atteinte aux événements des rencontres d’un cône avec un plan (Bozza di progetto del tentativo di studiare gli effetti dell’incontro di un cono con un piano, 1639), che getta le fondamenta della geometria proiettiva, fu conosciuta soprattutto perché ripubblicata nell’opera dell’amico e discepolo A. Bosse, Manière universelle de M. des Argues pour pratiquer la perspective. La nuova geometria, che si occupa delle proprietà non metriche delle figure geometriche e costituisce di fatto la prima geometria alternativa a quella euclidea in cui è ammesso che le linee parallele possano avere un punto di convergenza all’infinito, si propone di dare un modello matematico della geometria della visione e un inquadramento teorico di concetti quali punti di fuga, linea o piano orizzonte, figure prospettiche. Saranno G. Monge, J.-V. Poncelet, Ch.-J. Brianchon e altri matematici francesi ad approfondire successivamente e ad ampliare questo settore della ricerca matematica. Con Monge, in particolare, la geometria descrittiva (intesa come metodo per rappresentare le forme in tutti i loro dettagli metrici) acquisisce quell’assetto formale che la pone ancor oggi alla base delle tecniche rappresentative strumentali e digitali.
Il passaggio dalla prospettiva alla geometria proiettiva è caratterizzato anche da un uso simbolico delle tecniche prospettiche per rappresentare forme illusionistiche attraverso immagini anamorfiche. L’anamorfosi è un artificio tecnico-prospettico che dilata le forme e sconvolge la prospettiva lineare. Si distinguono un’anamorfosi piana, ottenuta con una semplice alterazione prospettica, in cui le immagini deformate sono decifrabili solo se osservate da un determinato punto di vista, mai frontale all’immagine; e un’anamorfosi per riflessione, che riproduce all’inverso le deformazioni che si hanno guardando l’immagine in uno specchio concavo o convesso; in questo caso l’immagine ritrova il suo aspetto normale se viene guardata con l’ausilio di uno specchio cilindrico o conico. L’anamorfosi piana fu largamente praticata dai manieristi del secondo Cinquecento, tra gli altri, con esiti superbi, da Hans Holbein il Giovane nel noto dipinto Gli ambasciatori (1533, Londra, Nat. Gall.). I due personaggi che ispirano il titolo del quadro si appoggiano con noncurante eleganza a un robusto mobile coperto da un tappeto anatolico su cui sono disposti preziosi strumenti musicali e scientifici: un globo celeste, una squadra e un compasso, strumenti astronomici, un mappamondo, un liuto, due libri dei quali uno è L’aritmétique des marchands di Petrus Apianus (nome latinizzato di Peter Bienewitz): sono tutti oggetti che si riferiscono al quadrivio delle arti liberali (aritmetica, geometria, astronomia, musica). Ma la cifra che contraddistingue il dipinto nell’insieme della produzione di Holbein è la forte componente simbolica: la transitorietà della bellezza, dell’arte e dell’armonia. In questa chiave va letto il celebre dettaglio del grande teschio raffigurato mediante la deformazione ottica della “anamorfosi”, l’oggetto apparentemente fluttuante simile a un osso di seppia, quasi isolato dal resto del dipinto, che diventa immagine nitida solo se il quadro viene visto da un punto particolare (posto sulla destra del dipinto, al livello delle teste degli ambasciatori, a una distanza dal bordo equivalente circa alla larghezza del quadro stesso). Il teschio introduce una nota acutamente drammatica, dissonante anche nella scelta di una proporzione dimensionale molto maggiore rispetto al contesto. In quest’ottica, ogni dettaglio dell’opera diventa una metafora del tempo che trascorre inesorabile, dell’incombere di un destino a cui non si può sfuggire: dalla stupenda cortina damascata verde, collocata da Holbein appena dietro le spalle dei personaggi, sipario su cui si intravvede appena un crocifisso, al fermaglio a forma di teschio sul copricapo di uno dei due ambasciatori, alla corda rotta del liuto, ennesima allusione alla transitorietà dell’armonia e alla precarietà della bellezza. Codificati già a metà del Cinquecento (D. Barbaro, Pratica della perspettiva, 1559), i procedimenti anamorfici furono teorizzati dai francesi S. de Caus e F. Niceron nel Seicento, epoca in cui ebbero la massima diffusione nel quadro del gusto barocco per le bizzarrie, ma non senza implicazioni metafisiche e significati simbolici. Studioso di geometria vicino a padre M. Mersenne, Niceron dipinge nel 1642, nel convento dei Minimi a Roma, San Giovanni Evangelista che scrive l’Apocalisse. È un dipinto su una parete di 104 piedi di lunghezza che, visto frontalmente, viene percepito come un paesaggio; ma spostandosi gradualmente di lato, il paesaggio scompare fino a che è possibile vedere perfettamente il santo. Nello stesso convento e nello stesso periodo, E. Maignan realizza in un altro ambiente una analoga rappresentazione anamorfica dal titolo San Francesco di Paola. Nella sua Perspective curieuse (Prospettiva curiosa, 1638) Niceron scrive che «si fanno certe immagini le quali, secondo la diversità del loro aspetto, rappresentano due o tre cose del tutto differenti […] queste immagini sono diventate così comuni e triviali che se ne vedono dovunque». Sempre Niceron spiega nel seguente modo la sua tecnica: «Per farle non c’è altro mezzo più raffinato di questo, cioè tagliare in strisce sottili e nel senso della lunghezza due immagini di eguali dimensioni e di collocarle su un medesimo sfondo, il quale può essere costituito da una terza immagine di eguale grandezza». Nelle parole del grande critico d’arte lituano J. Baltrušaitis, l’anamorfosi è una tecnica che «proietta le forme fuori di esse invece di ridurle ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano osservate da un punto determinato. Il procedimento è una curiosità tecnica ma contiene una poetica dell’astrazione, un meccanismo potente di illusione ottica e una filosofia della realtà artificiosa. È un rebus, un mostro, un prodigio. Pur appartenendo al mondo delle bizzarrie che, nel profondo dell’uomo, hanno sempre avuto un “cabinet” e un rifugio, ne travalica spesso la cornice ermetica».
Dopo Piero della Francesca, per alcuni secoli le strade dell’arte e della scienza divergono, per tornare a incontrarsi e intrecciarsi alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento. Sono anni segnati da profondi cambiamenti in diversi campi della cultura: la diffusione delle geometrie non euclidee; la scoperta della relatività e dello spazio-tempo, la cosiddetta quarta dimensione; la nascita della psicoanalisi; l’affermazione della musica dodecafonica. Profonde trasformazioni investono anche il mondo della matematica con la cosiddetta «crisi dei fondamenti»: la verità non è più «assoluta», la certezza lascia il posto alla coerenza, alla non contraddittorietà rispetto a ipotesi assunte come vere con estrema libertà; successivamente, l’esattezza lascerà il posto all'approssimazione e il qualitativo al quantitativo.
Nel suo percorso alla ricerca della forma pura ed essenziale, che muove da Cézanne e dal suo tentativo di ridurre ogni cosa alle forme classiche del cilindro, del cono e della sfera, l’arte delle avanguardie approda alla conclusione che le figure geometriche esprimono la forma astratta ed essenziale degli oggetti concreti e per questa via scopre la sua essenza matematico-geometrica. Un percorso verso l’astrazione non diverso da quello che interessa la matematica moderna, sempre più declinata come studio di strutture astratte (algebriche, topologiche, d’ordine ecc.).
Il futurismo (con U. Boccioni, G. Balla, C. Carrà) segna l’apoteosi del cambiamento, del movimento, della velocità: «Tutto si muove, tutto corre – si legge nel manifesto del movimento – tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza dell’immagine nella retina le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe: ne ha venti e i loro movimenti sono triangolari». Il cubismo con P. Picasso, G. Braque, F. Léger, disintegra i contorni e le masse in una molteplicità di volumi e dissolve l’unicità del punto di vista rappresentando lo spazio e gli oggetti nelle loro molteplici sfaccettature secondo una simultaneità di visioni e prospettive. Scrive Guillaume Apollinaire in quello che è considerato uno dei manifesti del movimento: «Il cubismo si differenzia dalle tecniche precedenti perché non è arte d’imitazione ma di pensiero, che tende a elevarsi fino alla creazione. Rappresentando la realtà-concepita o la realtà-creata, il pittore può dare l’apparenza delle tre dimensioni, può, in certo qual modo, cubicizzare». Il suprematismo di K. Malevič, con la sua pittura astratta e geometrica persegue la ricerca di «forme assolute» libere da ogni naturalismo e descrittivismo e culmina nell’azzeramento radicale e puro dei monocromi (Quadrato nero su fondo bianco, 1915; Quadrato bianco su fondo bianco, 1919). La definitiva rottura con la pittura della «rappresentazione» si consuma con P. Mondrian, inizialmente ispirato dai cubisti, ma poi confluito nel movimento artistico del neoplasticismo nato attorno alla rivista «De Stijl» che si propone di trovare una nuova forma di espressione plastica nell’«astrazione di tutte le forme e di tutti i colori, cioè nelle linee rette e nei colori primari nettamente definiti». Mondrian crede che «sia possibile che, attraverso linee orizzontali e verticali costruite con coscienza, ma non con calcolo, guidate da un’alta intuizione, e portate all’armonia e al ritmo, queste forme basilari di bellezza, aiutate da altre linee o curve, possono divenire un’opera d’arte, così forte quanto vera». In questo clima di radicale metamorfosi culturale, appaiono illuminanti le riflessioni di Vasilij Kandinskij nei due saggi considerati il manifesto dell’astrattismo lirico. Convinto assertore della possibilità di fondere l’esperienza estetica visiva con la musica, perfetto equilibrio di rapporti matematici, nel suo saggio del 1912 Lo spirituale nell’arte Kandinskij pone le premesse di un’arte nella quale l’immaginazione dell’artista sarà sostituita dalla concezione matematica, mentre in Punto, linea, superficie (1926) individua nuove regole della ricerca compositiva a partire da alcuni elementi base che definisce, descrive e commenta quasi allo stesso modo in cui Euclide introduce all’inizio degli Elementi gli enti fondamentali della geometria.
Molti altri artisti del Novecento sottolineano nelle loro opere il legame con la matematica di cui riprendono temi e suggestioni. Max Bill, protagonista di una ricerca formale basata su rigorosi principi matematico-geometrici, arriva a «riscoprire» per vie autonome nei suoi Endless ribbons (Nastri senza fine) le superfici di Möbius. Utilizza la quarta dimensione nel Corpus Hypercubus del 1954 S. Dalí che aveva già introdotto i poliedri nelle sue rappresentazioni soprattutto a sfondo religioso (si pensi al dodecaedro nell’opera Ultima cena). R. Magritte, in particolare nel lavoro Les promenades d’Euclide, presenta diversi livelli spaziali; i molteplici piani degli oggetti nello spazio sono difficilmente individuabili – sono osservabili, per esempio, rette parallele che si intuiscono tali ma che appaiono convergenti – sviluppando la lezione di Max Weber che già nel 1910 affermava che «due oggetti possono avere dimensioni simili, ma non apparire della stessa misura non per qualche illusione ottica, ma per la maggiore o minore percezione della cosiddetta quarta dimensione, la dimensione dell’infinito».
Nel corso del Novecento altri ponti vengono gettati tra scienza e arte. La sperimentazione e l’uso di materiali innovativi rivoluzionano le tecniche artistiche, così come nuove teorie si impongono nella speculazione matematica, dalla teoria delle catastrofi alla geometria frattale, dalla teoria del caos a quella dei giochi. Mentre si afferma un’“estetica frattale” che punta sul presunto valore artistico di queste suggestive figure presenti in natura ma generabili anche con il computer, si ricerca la frattalità anche dentro l’arte astratta. Nell’opera Blue Poles, Number 11 (1952) di Jackson Pollock, massimo esponente dell’espressionismo astratto, l’intreccio di linee tracciate sulla tela analizzato con strumenti matematici attraverso l’elaboratore elettronico evidenzia una trama frattale e rivela la caratteristica fondamentale del frattale: la «autosomiglianza», per cui ogni più piccola parte è simile, ma non necessariamente identica, alle forme più grandi della stessa struttura. Le tele di Pollock eseguite tra gli anni 1943 e 1952 – ben prima della formulazione della teoria da parte di B. Mandelbrot – rappresentano un caso di frattali non reperibili in natura ma prodotti dall’uomo e rivelano una dimensione frattale crescente (un numero non razionale che varia da 1,5 a 1,72). Lo sgocciolamento (dripping) della vernice fluida attraverso i fori praticati nel contenitore o dal pennello imbevuto è un processo naturale che, pur esprimendo liberamente l’energia naturale dell’artista, obbedisce a leggi precise all’interno di un sistema studiato negli anni Sessanta da quella teoria del caos di cui tra Otto e Novecento H. Poincaré aveva posto le basi avvertendo la necessità di un’ipotesi scientifica atta a spiegare gli aspetti irregolari e incostanti della natura e della realtà in campo fisico.
Artista atipico che spazia con felici intuizioni dalla geometria alla logica è il grafico olandese M.C. Escher. Nei suoi lavori, di evidente ispirazione matematica, sono rintracciabili il concetto di limite e di continuità, le figure impossibili alla Penrose, gli echi di studi di topologia e cristallografia, le tassellazioni, la geometria iperbolica del modello di Poincaré, il nastro di Möbius, le trasformazioni nella continuità, l’ambiguità del concavo e del convesso, il concetto di infinito e di percorso infinito. Gli iperspazi sono fonte di ispirazione anche per artisti più recenti quali Max Bill e Attilio Pierelli. Ma chi riserva la maggior sorpresa è Salvador Dalí, artista eccentrico e difficilmente catalogabile in una corrente artistica del Novecento. Nel 1982 annuncia: «Tutto ciò che farò d’ora in avanti si concentrerà sul tema delle catastrofi». Si mette così a studiare la teoria elaborata dal matematico francese R. Thom nella sua opera Modèles mathématiques de la morphogenèse per classificare alcuni cambiamenti repentini osservabili anche in natura. Annuncia la sua ultima opera nel Ratto topologico d’Europa - Omaggio a René Thom e poi la compone nel maggio 1983. Si intitola Le queu d’aronde e rappresenta la forma di una delle sette catastrofi catalogate da Thom, forma inequivocabile anche perché accompagnata nello stesso dipinto dall’equazione differenziale che matematicamente descrive appunto la catastrofe chiamata “coda di rondine”. È un bell’esempio di legame tra matematica e arte fornito da un artista che, per tutta la vita, ha rifiutato qualsiasi regola canonica.