ARTE.
- I nuovi ambiti dell’arte. Orientamenti dell’arte contemporanea. La delegated performance. Post medialità dell’arte contemporanea. Tendenze della ricerca artistica dopo la ‘fine’ dell’arte. Bibliografia. Critica istituzionale. Gli inizi e i pionieri della critica istituzionale. I successivi sviluppi. Bibliografia. Distopia. Mimesi letteraria. Critica politica. Modernismo fallito. Tecnodistopia. Bibliografia.
I nuovi ambiti dell’arte di Luigia Lonardelli. – Il campo delle cosiddette arti visive ha subito nell’ultimo decennio un profondo cambiamento, dal punto di vista sia del suo statuto sia della comune percezione di quelle espressioni usualmente associate a questo ambito. In particolare, si è messa fortemente in discussione la possibilità, dal punto di vista estetico, di poterne chiarire i confini a partire dalla specificità del mezzo e del linguaggio utilizzati. Sebbene questa crisi di denominazione sia iniziata in tempi non recenti, in particolare con l’emergere di una sensibilità postmoderna, è solo negli ultimi anni che si sono potute riscontrare le sue effettive conseguenze nell’area della creatività contemporanea. Fra i tanti tentativi di definizione è di particolare interesse quello di arte percettiva, non perché essa descriva meglio di altre un territorio che sembra non poter essere facilmente circoscritto, ma poiché rivela, nella ricerca artistica attuale, le istanze, i bisogni e l’importanza dell’‘altro’, sia esso pubblico, fruitore, spettatore e finanche cliente a seconda dei contesti ai quali ci si riferisce. La centralità dell’esperienza, che ha chiari riferimenti e talvolta connivenze con il pervasivo ambiente del marketing, viene sempre più spesso sottolineata nelle letture interpretative delle opere.
Per dare conto di una situazione così liquida e ramificata si è preferito, quindi, tralasciare la descrizione delle tecniche tradizionali – come pittura, scultura, grafica – per affrontare piuttosto campi semantici più ampi che, non casualmente, abbracciano aree all’apparenza non direttamente riferibili alla produzione artistica o che hanno la loro radice in contesti diversi, come, per es., la pratica dello storytelling o i fenomeni di ipermediazione e postmedialità (v. intermedialità). Nell’esaminare le correnti e i filoni di ricerca degli ultimi anni si è scelto di attenersi a quelli che hanno un’effettiva cogenza rispetto al sistema dell’a. (v.) contemporanea, che vive spesso una sua eteronomia rispetto all’esperienza creativa e che, negli ultimi anni, ha mostrato di essere arrivato a piena autonomia nel suo circolo di dipendenza reciproca fra curatori, critici, mercato (v. mercato dell’arte), trustees, fiere e rassegne periodiche. Un’autonomia che ha influenzato, con il suo peso di validazione dell’opera, anche i recenti e apparentemente non controllabili movimenti finanziari sviluppatisi a partire dalla crisi. In questo senso, le categorie tradizionali delle arti visive, pur continuando a essere fenomeni diffusi e con un seguito di pubblico costante, non risultano a oggi particolarmente adatte a essere verificate da teorie critiche che fanno della potenzialità di allargamento a campi diversi la loro forza, come, per es., è il caso dei visual studies (v.). La vastità di queste aree applicative ha la sua radice nel definitivo affermarsi dell’estetica relazionale (v.) come base di una dialettica fra opera e guardante che porta inevitabilmente con sé la percezione di transitorietà e provvisorietà, divenuta necessaria a qualunque forma di godimento estetico. Naturale corollario questo a una decisiva revisione del concetto di proprietà del bene di lusso che lascia spazio, piuttosto, al desiderio di accedere a contenuti, conoscenze ed esperienze ad altri preclusi.
Orientamenti dell’arte contemporanea di Stefano Chiodi. – Il panorama delle arti visive nei primi decenni del 21° sec. è caratterizzato da un’ulteriore accelerazione di processi già profilatisi alla fine del secolo scorso, a partire dalla compiuta ‘mondializzazione’ del sistema dell’a. – allargatosi a comprendere ormai, in stretta connessione con le dinamiche economiche e politiche generali, anche aree in precedenza considerate periferiche, in primo luogo la Cina, e quindi l’America Latina, il subcontinente indiano, il mondo arabo. Numerose sono anche le nuove istituzioni museali pubbliche e private specificamente dedicate alla creazione artistica contemporanea aperte nello stesso periodo – per es., la nuova sede della Fondation Pinault nella restaurata Punta della Dogana a Venezia (2009), il MAXXI (Museo nazionale delle Arti del XXI secolo) e il MACRO (Museo d’Arte Contemporanea ROma) a Roma (2010), il Centre Pompidou a Metz (2010), la Power Station of art a Shanghai (2012), il Museo-Fundación Jumex a Città di Messico (2013), la Fondation Vuitton a Parigi (2014), il Guggenheim Abu Dhabi (apertura prevista nel 2017) –, mentre le principali fiere internazionali hanno rafforzato la loro tendenza ad accreditarsi come ‘eventi’ complessi e influenti anche in senso culturale (esemplare il caso della fiera Art Basel con le sue tre sedi di Basilea, Miami e Hong Kong), a conferma del ruolo cardine del mercato e del collezionismo nell’orientamento della ricerca artistica più recente.
L’esponenziale aumento della sua visibilità non rende meno complesso per la critica il compito di definire i caratteri dell’arte contemporanea, un sintagma che non rinvia a categorie estetiche o formali né tantomeno si identifica con la mera attualità. Contemporaneo va inteso non come ciò che semplicemente nasce nel presente, ma piuttosto come una forma di interpretazione del presente stesso, che all’apparente autoevidenza dell’oggi, al sincronismo sempre rinnovato della moda, contrappone una capacità di accogliere e tematizzare temporalità e durate diverse. In quanto tale la creazione artistica contemporanea può essere immaginata come una struttura anacronica, come un tessuto di allegorie e di ritorni, di appuntamenti inattesi tra immagini, simboli, idee, come una frontiera mobile che trascende la cronologia e la riconfigura secondo parametri che compongono un’ipotesi alternativa per il presente, ovvero gli conferiscono una diversa visibilità e possibilità di significato (cfr. J.-L. Nancy,L’arte oggi, in Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo, a cura di F. Ferrari, 2007, pp. 1-20). Tratto caratteristico di questa temporalità asincrona, e strategia creativa essenziale delle pratiche artistiche più recenti, è l’appropriazione, vale a dire la citazione, l’annessione, il trasferimento o il furto di ‘oggetti’ culturali, siano essi immagini, testi, artefatti, memi, di provenienza ‘alta’ o vernacular. Una modalità intrinsecamente ironica e mimetica – in quanto tale non nuova né limitata al solo campo artistico – in cui è sempre implicita una relazione ambivalente con l’oggetto appropriato, dove la riproposizione coincide anche con la reificazione e il ‘consumo’. Attraverso l’appropriazione si apre nell’epoca postmoderna la possibilità di sviluppare una serie di dinamiche di risignificazione in cui il gesto artistico si dissolve a contatto con i processi di ripetizione e moltiplicazione tipici della produzione di merci e al tempo stesso si propone come loro momento di crisi e riapertura critica. Essa si rivela perciò non uno strumento per liquidare l’esperienza dell’a., ma per riattivare al suo interno una dinamica di trasformazione al di là della metafisica dello smascheramento e della ‘pretesa di verità’ propria delle esperienze moderniste (cfr. Welchman 2001).
La delegated performance. – Già dagli anni Ottanta del Novecento le pratiche artistiche si sono presentate come ambito di negoziazione tra narrazioni e rappresentazioni, tra ‘realtà’ e ‘finzioni’ in competizione tra loro, nel quale codici e modalità espressive ereditate dalle esperienze dei decenni precedenti – dalla pop art ai vari filoni concettuali, performativi e processuali –, dialogano, o entrano in attrito, con i modelli identitari e i meccanismi comunicativi della società di massa, sullo sfondo di impetuosi processi di globalizzazione economica e disidentificazione culturale. Rilevante in questo senso è la tendenza delle esperienze artistiche degli ultimi due decenni a espandersi al campo sociale attraverso strategie diversificate di partecipazione, dove la relazione tra artista, opera e pubblico viene ripensata alla luce di formati inediti, per es. la delegated performance, un peculiare tipo di ‘azione’ in cui dei soggetti ‘performano’ aspetti della loro identità o ruoli appositamente concepiti dall’artista (cfr. Bishop 2012, pp. 219-39).
Di questa modalità è un esempio precoce il lavoro di Maurizio Cattelan (n. 1960) AC Forniture Sud (1991), una squadra di calcio composta da immigrati senegalesi che recavano sulla maglietta il provocatorio logo «RAUSS» (riecheggiante il famigerato comando nazista poi diventato slogan xenofobo), attiva in Emilia Romagna, le cui iniziative vennero reclamizzate dall’artista in uno stand abusivo nella Fiera d’arte di Bologna del 1991. Con la squadra Cattelan immetteva nel contesto fintamente benevolo di uno sport popolare un fenomeno recente nell’Italia dell’epoca come l’immigrazione e la reazione ostile o apertamente razzista che esso suscitava, senza tuttavia che fosse possibile determinare con certezza il valore morale dell’operazione: nella sua ironica ambiguità, AC Forniture Sud mostra nei corpi vivi dei giovani calciatori il discredito di ogni prospettiva tradizionalmente ‘progressiva’ nell’interpretazione del presente. Ancora più controverso e provocatorio è un lavoro come Línea de 250 cm tatuada sobre 6 personas remuneradas (1999) dello spagnolo Santiago Sierra (n. 1966), in cui, durante una performance pubblica, sei giovani disoccupati dell’Avana si facevano tatuare la schiena in cambio di un modesto compenso. Se il tema politico è dichiarato – la condizione delle classi subalterne, i meccanismi di dominio economico e sociale – la presenza fisica e il gesto irreversibile del tatuaggio conferiscono all’azione una specifica crudeltà che chiama in causa lo stesso spazio discorsivo dell’arte. Ancora su questa linea di tendenza si situa il video Them (2007) del polacco Artur Żmijewski (n. 1966), in cui l’artista, riprendendo quasi il format di un reality show televisivo, riunisce di fronte alla telecamera quattro gruppi rappresentanti di opposti orientamenti politici e religiosi della società polacca (cristiani integralisti, nazionalisti, socialisti, ebrei), ai quali viene chiesto di dipingere immagini emblematiche delle rispettive visioni del mondo. L’esito dell’incontro è tuttavia catastrofico: i partecipanti finiscono per scagliarsi contro gli avversari ideologici distruggendone i ‘quadri’. All’investimento etico, al valore liberatorio e catartico tradizionalmente connesso alla tradizione dell’a. politica subentra in tutti questi casi l’assunzione di una politicità ambigua e cinica, colta nel suo farsi atto violento e contraddittorio.
Ancora diverso è l’approccio alla delegated performance di Marcello Maloberti (n. 1966), che nei suoi lavori investe direttamente lo spazio pubblico, la piazza e la strada, adottando di volta in volta le modalità della festa, del corteo, del concerto. I suoi lavori sollecitano spesso una forma di coinvolgimento diretto, come in C.I.R.C.U.S. (2003-07), un grande tendone da mercato e quattro automobili che illuminano la scena (una piazza o un altro luogo simile) con i fari accesi diffondendo musica ad alto volume, dove a realizzare l’opera sono direttamente i passanti, chiamati a una partecipazione distratta e tuttavia sufficiente ad attivare un sottile spostamento di visuale grazie al quale elementi familiari si ricompongono in uno spazio temporaneamente sottratto alle consuetudini sociali. In questa chiave si può leggere anche The ants struggle on the snow (2009), una performance realizzata nel cuore intellettuale e artistico di Manhattan. È una sorta di collage di elementi familiari del repertorio di Maloberti inseriti in una coreografia anarchica e festosa, un po’ corteo carnevalesco un po’ teatro di strada, metafora di un’umanità che sembra poter resistere ai processi di dominazione, che non accetta di ridurre all’orizzonte incombente di una ‘identità senza persona’ ogni ipotesi di mondo a venire.
Postmedialità dell’arte contemporanea. – Nel contesto contemporaneo le opere d’a. si presentano spesso come irriducibili singolarità che tematizzano – insieme al proprio contraddittorio status di merci dotate di indiscusso prestigio sociale – la relazione con lo spazio collettivo, il luogo di esposizione, lo spettatore, l’identità psichica e politica, facendone altrettanti snodi di una ridefinizione delle possibilità operative dell’a. spesso in una relazione ambivalente con i dispositivi spettacolari che danno forma all’esperienza sociale contemporanea. Figura chiave in questo senso è quella dello statunitense Mike Kelley (1954-2012), la cui opera utilizza un’esuberante commistione di linguaggi e media (disegno, pittura, installazione, performance, video) ed è incentrata su tematiche di ordine psichico e sociale – la repressione del desiderio, l’autorità, la religione, l’infanzia, il potere dell’immaginazione e la sostanza emotiva dell’esperienza quotidiana. Nutrita di psicoanalisi, cosparsa di riferimenti colti, insieme comica e lirica, quella di Kelley è una magistrale esplorazione della cultura popolare contemporanea in cui prevale un effetto di abbassamento, di irrimediabile deriva in un universo popolato da ‘adulti disadattati’, sottomessi a un’autorità o abbandonati al loro inevitabile fallimento. Le sue installazioni manifestano il carattere di un’esperienza creativa in cui forma e stile non hanno più significato e il cui posto è preso da un’incontrollabile proliferazione di residui, frammenti, scarti, materie ‘abiette’ che riflettono un’assoluta sfiducia nell’ordine sociale e nelle presunte virtù salvifiche dei linguaggi artistici.
Una delle sue opere più note, More love hours than can ever be repaid (1987), compendia temi tipici del suo lavoro (l’insufficienza affettiva, il desiderio di rassicurazione, l’accumulazione nonsense) e il suo personale uso dei materiali, in questo caso vecchi peluche, reperti sentimentali dal retrogusto amaro e struggente. Il giocattolo consunto dal troppo uso è in effetti il negativo, materiale e morale, degli scintillanti oggetti di consumo, degli elettrodomestici, dei soprammobili implacabilmente allineati nelle opere di Jeff Koons o di Haim Steinbach dello stesso periodo. Il peluche addita il sottofondo represso e distorto dell’esistenza consumista e al tempo stesso riammette temporaneamente qualcosa che non può essere mercificato: l’elemento affettivo, il dono, non quantificabile in termini di valore monetario e che appunto ‘non può essere ripagato’. Un tableau emotivo ambivalente – dato che, nella condizione contemporanea anche ciò che si compra e si vende è divenuto ‘emozione’ – in cui economia e psicoanalisi si intrecciano nella forma imprevedibile, e falsamente rassicurante, di un rendez-vous fatale.
Dagli anni Novanta in poi Kelley è andato sempre più concentrandosi sui temi dalla memoria personale e del potere dell’istituzione. Opera chiave di questa fase è Educational complex (1995-2008), un plastico in scala che riproduce, ricombinandoli, tutti gli edifici scolastici in cui si è svolta la formazione dell’artista, perno di una complessa installazione in cui è raccolta una costellazione di materiali d’archivio attraverso i quali si è obliquamente invitati a entrare in contatto con i meccanismi oppressivi che regolano l’apprendimento. Il modello è realizzato rigorosamente ‘a memoria’ e incorpora spazi vuoti, indefiniti, sfuggiti al ricordo; le lacune, come i traumi psichici, fanno emergere il processo attraverso il quale l’individuo viene ‘fabbricato’ dal sistema educativo, la successione di repressioni e disciplinamenti di cui è oggetto, la mescolanza di ansia, frustrazione, malinconia che esso produce. Il risultato è un’accumulazione informe di frammenti, di fantasmi, di ossessioni e ripetizioni, in cui l’obbligata negoziazione tra ‘io’ e ‘mondo’ appare nella forma di un’epica grottesca e non sublimata.
Nel suo complesso l’opera di Kelley illustra bene il carattere postmediale dell’esperienza artistica contemporanea, connotata dall’abbandono del carattere specifico dei media (pittura, scultura, fotografia ecc.), a favore di pratiche fondate su una nozione di arte-in-generale, vale a dire non solo indipendente da preoccupazioni tradizionali, e anzi spesso direttamente affidata a esecutori specializzati, ma anche pronta a oltrepassare la sfera visiva grazie a sistematici sconfinamenti in altri regimi estetici. Da tecnica di esecuzione, il medium si trasforma in una ‘matrice’, in uno spazio di possibilità, pronto a sua volta a essere riconfigurato. Così, per es., se la pratica pittorica ha perduto nella contemporaneità la sua posizione privilegiata, essa non va per questo considerata storicamente antiquata: al pari di altri media essa è oggi sottoposta a un processo di revisione e riappropriazione permanente che tende a mostrarne la sua natura internamente eterogenea, ibridata con altri campi di formazione dell’immagine (fotografia, cinema, televisione, architettura ecc.). È quanto accade nell’opera di pittori come il belga Luc Tuymans (n. 1958) o la statunitense Julie Meh retu (n. 1970) che, in modi diversi, mettono apertamente in questio ne il carattere in apparenza ‘ritardatario’ della pittura, precisamente inserita in quella dialettica tra obsolescenza e redenzione, tra specificità e generalità, che è al cuore della contemporaneità artistica (cfr. R. Krauss, ‘Specific’ objects, «Res», 2004, 46, pp. 221-24; trad. it. in Reinventare il medium, 2005, pp. 37-47). Nel lavoro dello statunitense Wade Guyton (n. 1972) il ‘dipinto’, realizzato al computer e stampato su tela con tecnologia a getto di inchiostro, diviene invece il luogo di un confronto tra controllo e caso, tra automatismo ed entropia, come nella serie Untitled (2011), dove l’immagine di partenza (un monocromo nero stampato con intensità al 50%) viene esposto all’accidentalità della realizzazione meccanica che ‘sporca’ e altera in modi imprevedibili l’originaria uniformità.
Tendenze della ricerca artistica dopo la ‘fine’ dell’arte. – Per dar conto delle tendenze della ricerca artistica più recente è opportuno privilegiare quelle personalità il cui lavoro tocca problematiche centrali nell’ecosistema culturale di inizio secolo, un cui parziale elenco potrebbe comprendere il rapporto con le altre discipline creative e con l’immaginario mediatico, il confronto tra culture diverse, le differenze sociali e di genere, l’impatto delle nuove tecnologie, la sfera biopolitica, i modelli di sviluppo economico, l’organizzazione urbana, le questioni ecologiche, l’eredità storica. Sono questi alcuni dei modi con cui gli artisti contemporanei tematizzano le nuove coordinate culturali del mondo globalizzato, un tempo che potremmo definire postumo, sopravvissuto alla ‘fine’ dell’a., e in cui, almeno in apparenza, tutto è possibile e nulla è veramente ‘differente’ (cfr. A.C. Danto, After the end of art, 1997; trad. it. 2008).
Dotata di una cifra espressiva molto diversificata, l’opera del belga Francis Alÿs (n. 1959) si concentra sui punti di attrito, politicamente sensibili, dell’attuale struttura sociale. I suoi lavori nascono sempre da esperienze dirette, da viaggi o ‘attraversamenti’ urbani documentati tramite video, ma anche disegni, fotografie, dipinti o materiali effimeri. Questa flessibilità di approccio è ben esemplificata dall’azione The modern procession, realizzata a New York nel giugno 2002, in cui Alÿs organizza un corteo che replica il trasloco delle opere d’a. dal Museum of modern art, nel cuore di Manhattan, a una sede espositiva temporanea, una ‘processione’ appunto, dove al posto di effigi sacre vengono trasportate riproduzioni di celebri capolavori del museo in quello che appare un ironico attacco al valore canonico dell’a. moderna. Iscritta in un contesto di drammatiche tensioni politiche e sociali è invece la performance When faith moves mountains (2002) realizzata a Lima, in Perù, in cui un gruppo di 500 volontari, equipaggiati di pale e disposti in una lunga fila ai piedi di una gigantesca duna di sabbia, lavora letteralmente a ‘muovere la montagna’, spostando il materialesabbioso a una certa distanza. È un gesto «futile ed eroico, assurdo e necessario», scrive l’artista, che «cerca di trasferire le tensioni sociali in una narrazione che a sua volta trasforma il paesaggio immaginario di un luogo» (F. Alÿs, A thousand words, «Artforum», Summer 2002, p. 167).
Il lavoro dell’inglese Jeremy Deller (n. 1966) è caratterizzato da uno spiccato valore etnografico. Formatosi come storico d’arte, Deller ha sviluppato un percorso basato sia sulla rivisitazione della memoria collettiva, sia sulla fertilizzazione di nuovi scenari sociali e culturali tramite interventi destinati ad agire in tempi lunghi. La sua opera più nota è The battle of Orgreave (2001), ricostruzione di uno scontro avvenuto il 18 giugno 1984 tra la polizia inglese e un gruppo di minatori in sciopero contro il governo Thatcher. Deller riunisce un gruppo di vecchi minatori e di poliziotti (che, in alcuni casi, invertono i propri ruoli originali) insieme a un certo numero di comparse per (re)inscenare uno scontro di piazza rimasto storico per la sua crudezza. La pratica del re-enactment permette a Deller di far rivivere la storia, sebbene la ricostruzione della memoria crei qualcosa di completamente nuovo. L’episodio è infatti rivissuto in accordo con cronache e testimonianze, ma senza nasconderne la natura controversa e di fatto irriproducibile. In questo senso, la pratica del re-enactment rappresenta una delle filiazioni dell’estetica relazionale (v.) teorizzata dal critico francese Nicolas Bourriaud (v.), «un’arte che assume come proprio orizzonte teorico il dominio delle interazioni umane e il suo contesto sociale, più che l’asserzione di uno spazio simbolico indipendente e privato» (Esthétique relationnelle, 1998; trad. it. 2001, p. 14), come appare anche in un’opera più recente, It is what it is (2009), in cui Deller crea un’occasione di dialogo informale sulla guerra in ῾Irāq, coinvolgendo un riservista dell’esercito e un artista iracheno in un viaggio attraverso gli Stati Uniti accompagnato dal relitto di un’automobile distrutta in un’esplosione a Baghdād.
Punto centrale della ricerca del francese Pierre Huyghe (n. 1962) è il rapporto tra realtà, rappresentazione e interpretazione, visto di preferenza attraverso il filtro del cinema e dei prodotti dell’entertainment industry. Così, per es., nella videoinstallazione The third memory (2000), John Wojtowicz, il vero autore della rapina a cui si ispira il film Dog day afternoon (1975; Quel pomeriggio di un giorno da cani), reinterpreta in un teatro di posa il drammatico evento, mentre in parallelo scorrono immagini del film di Sidney Lumet e brani delle riprese televisive originali. L’artista si confronta con la nozione di postproduzione (v.), un approccio creativo che non si limita a selezionare e rielaborare linguaggi e contenuti, ma riutilizza anche le stesse forme di esposizione e distribuzione alla stregua di inesauribili repertori di forme. Un esempio di questo approccio inconsueto e sottilmente provocante è This is not a time for dreaming (2004), un film in 16 mm che riprende un trasognato spettacolo di marionette su musiche di Iannis Xenakis ed Edgard Varèse in cui l’architetto Le Corbusier, al lavoro sul progetto del Carpenter Center for the visual arts dell’Università di Harvard, l’artista stesso e altri personaggi danno vita a un’ironica rilettura delle mitologie moderniste e delle condizioni materiali del lavoro creativo (cfr. G. Baker, An interview with Pierre Huyghe, «October», Fall 2004, 110, pp. 80-106). Nell’installazione Untilled (2011-12), presentata a Documenta 13, Huyghe crea in un’area marginale del parco pubblico Karlsaue a Kassel un cluster di segni, oggetti, materiali, animali (tra cui un alveare cresciuto su una scultura e due cani), piante velenose o dagli effetti psicotropi e così via, che compongono un insieme instabile e contingente di eventi, processi biologici e trasformazioni fisiche. Lo spazio untilled, cioè incolto, diviene così un campo aperto di possibilità percettive e di associazioni simboliche sul cui sfondo si disegna una diversa relazione tra vita individuale ed esistenza sociale.
Una diversa linea di ricerca è quella innervata da ciò che il critico statunitense Hal Foster ha chiamato «impulso all’archivio», vale a dire l’uso di raccolte di immagini, oggetti, testi, testimonianze di ogni genere da parte di artisti-archivisti in un’epoca dominata dal disfacimento accelerato della memoria e dalla caduta della tradizionale fiducia umanistica nei poteri terapeutici della storia (cfr. H. Foster, An archival impulse, «October», Fall 2004, 110, pp. 3-22). Si tratta di operazioni necessariamente prive di sistematicità, e spesso anzi basate su archivi informali o costituiti per l’occasione, presentati quasi sempre nel formato dell’installazione, il più adatto a preservare la natura eterogenea, discontinua, frammentaria degli oggetti ‘ritrovati’.
Un esempio di questa modalità è il lavoro dell’artista britannica Tacita Dean (n. 1965), articolato in film, video, fotografie, brani sonori, testi, che mettono spesso in relazione frammenti dal passato e scenari non avveratisi di un futuro alternativo. Nei suoi film la tecnica analogica di ripresa e di proiezione appare un elemento determinante: l’obsolescenza dei mezzi tecnici, le loro caratteristiche materiali (il rumore meccanico dei proiettori, la ‘grana’ delle immagini sullo schermo ecc.), fanno sì che le proprietà del medium agiscano in modo ricorsivo sui materiali visualizzati, sviluppando interconnessioni tra dimensione interiore e mondo esterno, tra elementi reali e proiezioni immaginarie, tra documentazioni e risonanze poetiche. Tra gli esempi più eloquenti di questo approccio vi è la trilogia di cortometraggi dedicata a Donald Crowhurst, un uomo d’affari che nel 1968 partecipò alla Golden globe race, scomparendo in mare durante quello che sarebbe dovuto essere il primo giro del mondo in solitario in barca a vela. Nel terzo dei tre film, Teignmouth electron (2000), l’artista si spinge sino ai Caraibi per documentare i resti del trimarano di Crowhurst, relitto emblematico di un’inevitabile sconfitta. In un altro film in 16 mm, Fernsehturm (2001), girato nel ristorante panoramico ruotante in cima alla torre della televisione a Berlino, Dean documenta invece le metamorfosi di un luogo simbolo della ex capitale della Germania orientale nei vari momenti della giornata. Il tempo breve del giorno, scandito dal movimento rotatorio del ristorante, e quello lungo della storia si congiungono problematicamente così come le due parti della città ormai riunificata.
In Italia, l’esplorazione della memoria, delle sue eclissi e dei suoi inattesi ritorni, è al centro del percorso di Elisabetta Benassi (n. 1966), come mostra un suo lavoro del 2007, Alfa Romeo GT Veloce 1975-2007, un’automobile simbolo della stagione del boom economico italiano, al tempo stesso incarnazione della mitologia della velocità e letale ‘macchina celibe’, identica al coupé grigio metallizzato appartenuto a Pier Paolo Pasolini che, nella notte del 2 novembre 1975, all’idroscalo di Ostia, si trasformò nelle mani del ragazzo di vita Pino Pelosi nello strumento della morte del poeta. Immobile, con i fanali accesi, l’Alfa Romeo appare un ostinato revenant, un fantasma non vendicato che continua a recarsi in modo ossessivo sul luogo del proprio martirio. In Memorie di un cieco (2010), l’artista compone invece un vasto archivio di fotografie di agenzia, letto letteralmente ‘dal rovescio’, dal lato cioè delle didascalie, dei timbri, delle etichette, delle marcature apposte sulle stampe, e senza mai rivelare l’immagine vera e propria. L’artista realizza a questo modo un’operazione archeologica, tracciando usi, interpretazioni e circolazione delle immagini nei media, ricostruendo così l’‘indice temporale’ delle singole immagini e trasformando infine la raccolta nel formato ormai obsoleto del microfilm che un lettore automatizzato scorre a caso in avanti e indietro: una peculiare macchina del tempo quest’ultima che mostra come si fa, come funziona la storia, rimontando in forma caotica le immagini e mostrandone la natura dialettica, il loro essere cioè il risultato dell’incontro, della collisione tra diverse prospettive temporali, quella della loro realizzazione e quella delle loro riletture a distanza (Cortellessa 2010, pp. 7-8).
Bibliografia: F. Bonami, N. Spector, B. Vanderlinden, Maurizio Cattelan, London 2000; N. Bourriaud, Postproduction, Dijon 2001 (trad. it. Milano 2004); J.C. Welchman, Art after appropriation. Essays on art in the 1990s, Amsterdam-London 2001; J.-Ch. Royoux, M. Warner, G. Greer, Tacita Dean, London 2006; C. Medina, R. Ferguson, J. Fisher, Francis Alÿs, London 2007; A. Barikin, Parallel presents. The art of Pierre Huyghe, Cambridge (Mass.)-London 2012; C. Bishop, Artificial hells. Participatory art and the politics of spectatorship, London-New York 2012, pp. 219-39; Contemporary art. 1989 to the present, ed. A. Dumbadze, S. Hudson, London 2013. Cataloghi di mostre: A. Cortellessa, Crediti, in E. Benassi, All I remember, Roma, Galleria Magazzino, Roma 2010, pp. 4-9; Maurizio Cattelan. All, ed. N. Spector, New York, Solomon R. Guggenheim Museum,2011-12, New York 2011; S. Chiodi, Una strana gioia di vivere, in Marcello Maloberti. Blitz, a cura di S. Chiodi, B. Pietromarchi, Roma, MACRO, Museo d’arte contemporanea Roma, Macerata2012, pp. 49-64; J. Deller, Joy in people, ed. R. Rugoff, London, Hayward Gallery, London 2012.
Critica istituzionale di Stefano Chiodi. – Gli inizi e i pionieri della critica istituzionale. – Tra gli orientamenti più significativi della produzione e della teoria artistica contemporanea, va segna lata la institutional critique, «critica istituzionale» secondo la dizione entrata nell’uso italiano, un indirizzo sviluppatosi in ambito europeo e nordamericano a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta del Novecento, codificata solo dagli anni Ottanta in avanti e ancora attiva nel panorama dell’a. attuale. A definire questa tendenza è l’analisi critica – condotta attraverso l’impiego di diversi media e altrettanto differenti assunti e strategie – del sistema dell’a. (inteso nella sua accezione più ampia, dagli spazi fisici della galleria e del museo a quelli discorsivi come cataloghi e riviste); v. sistema dell’arte.
Le premesse della institutional critique sono da rintracciare in alcune declinazioni dell’a. concettuale che avevano proposto come operazione artistica l’analisi della stessa nozione di a., e quindi temi come la figura dell’artista, i suoi mezzi e i diversi ambiti della sua attività, come pure nel pensiero poststrutturalista e in particolare nell’opera di Michel Foucault. In senso lato la critica istituzionale si pone come termine estremo del percorso del modernismo, dominato da un’attitudine autoriflessiva tesa alla definizione dei propri mezzi, ma al suo sorgere hanno contribuito anche fattori legati al contesto storico, come i movimenti di contestazione che nella seconda metà degli anni Sessanta hanno eletto a bersaglio polemico il principio di autorità. Il suo intento generale è in effetti mettere a nudo le strutture e gli apparati ideologici che governano l’intero apparato discorsivo dell’a., negandone l’ambizione a proporsi come spazio autonomo e neutrale, e connotandolo invece in senso politico, economico, sociale. Gli artisti intendono così rivelare, esporre, de-costruire tale apparato, estendendo progressivamente il loro campo d’azione, dagli spazi espositivi ai diversi luoghi deputati alla produzione, distribuzione e fruizione dell’arte, sino alla teoria estetica e alle pratiche curatoriali.
Accanto al lavoro degli artisti, la institutional critique ha rappresentato anche un importante filone di riflessione critica. Fondamentali restano in questo ambito i contributi di Brian O’Doherty sui più vasti problemi del contesto artistico e in particolare i saggi usciti tra il 1976 e il 1981 e poi raccolti nel volume Inside the white cube, in cui viene analizzata la creazione modernista del ‘cubo bianco’, un ambiente puramente ottico in cui i legami con lo spazio e il tempo storico, la densità sociale e fenomenologica delle opere, la stessa presenza fisica degli spettatori vengono trascesi in una dimensione astratta, purificata, proiettata sulla scala dell’eternità, che ha come proprio fondamento ideologico la normalizzazione della portata eversiva dei linguaggi dell’avanguardia.
Fra i primi artisti a operare esplicitamente nei termini di critica istituzionale è il francese Daniel Buren (n. 1938). Dapprima nell’ambito del gruppo BMPT (insieme a Olivier Mosset, Michel Parmentier, Niele Toroni), poi indipendentemente, l’artista ha elaborato una concezione teorica e una pratica di lavoro che, in opposizione alla pratiche pittoriche tradizionali e al primato dello studio come luogo di produzione, sceglie di operare esclusivamente in situ. A partire dal 1965 Buren ha adottato un outil visuel («utensile visivo») invariante, bande verticali bicolori alternate della larghezza di 8,7 cm. Questo segno, costante nella sua ricerca fino a oggi, viene declinato in vari materiali – tessuto, carta, plexiglas ecc. – e applicato sui più diversi supporti – poster, facciate di edifici, spazi pubblici. L’autore interviene tanto in spazi espositivi quanto in siti non legati all’a., spesso mettendo in comunicazione interno ed esterno, dove l’utilizzo reiterato del segno modifica la percezione del contesto. Famosa è rimasta in questo senso la sua opera in situ Peinture-Sculpture (1971), una grande tela a strisce bianche e blu appesa al centro della rotonda del Guggenheim Museum a New York e rimossa ancor prima dell’apertura della sesta Guggenheim international exhibition per le proteste degli altri artisti coinvolti; alterando la percezione dello spazio disegnato da Frank Lloyd Wright, il lavoro interrogava la relazione tra museo, opere e pubblico. Fra le opere che segnano la consacrazione di Buren vi è il più tardo Les deux plateaux (1986), installazione permanente nel cortile del Palais Royal di Parigi in cui l’outil visuel bianco e nero è utilizzato su colonne di diversa altezza, mentre il pavimento è solcato da bande bicolori e da griglie che danno accesso visivo e sonoro a vasche d’acqua sotterranee.
Un altro fra i pionieri della critica istituzionale è il belga Marcel Broodthaers (1924-1976). Dopo gli esordi come poeta, Broodthaers si spostò nel territorio delle a. visive. La riflessione sull’a. scandì il suo itinerario fin dall’invito alla prima personale nel 1964, in cui espresse umoristicamente l’intento di «vendere qualcosa e avere successo nella vita» e per questo di aver voluto «inventare qualcosa d’insincero». Il suo progetto maggiore legato a questo filone di ricerca è la fondazione di un museo fittizio denominato Musée d’art moderne, Département des Aigles, di cui si nominò direttore. Dal 1968 al 1972 varie sezioni di questa ‘istituzione’ furono presentate in diversi luoghi, dalla propria casa di Bruxelles a Documenta di Kassel. Queste esposizioni raccoglievano materiali differenti, da oggetti comuni a riproduzioni di opere d’arte, stampe, fotografie, tutti accompagnati da una targhetta che specificava «questa non è un’opera d’arte». Mimando le strategie museali, Broodthaers condusse la propria critica nel terreno della finzione, nella convinzione che quest’ultima fosse lo strumento più adatto a mostrare la natura enigmatica dell’a., il suo situarsi sulla soglia tra ‘vero’ e ‘falso’ e in uno spazio che può essere definito solo in termini negativi.
Negli Stati Uniti i temi della critica istituzionale sono al centro dell’opera di Michael Asher (1943-2012). Nei suoi interventi site-specific, l’artista provocava una temporanea modificazione dei luoghi espositivi attraverso l’aggiunta, la sottrazione o la modificazione di elementi. Nel 1973, per es., rimosse l’intonaco all’interno della Galleria Toselli di Milano; l’anno successivo eliminò la separazione fra l’ufficio e lo spazio espositivo della Claire S. Copley Gallery di Los Angeles, ‘esponendo’ così l’attività commerciale che solitamente si svolge dietro le quinte. Fra i suoi progetti maggiori figura quello concepito per l’esposizione decennale Skulptur Projekte di Münster: a ogni edizione della mostra (19772007), l’artista presentava una roulotte parcheggiata in vari luoghi della città tedesca (Installation Münster [Caravan]), suggerendo una sottile riflessione sulla relazione tra contesto fisico e ‘luogo’ mentale dell’esperienza estetica.
Nel lavoro del tedesco da tempo residente negli Stati Uniti Hans Haacke (n. 1936) la critica dell’istituzione s’intreccia da subito a un orizzonte più ampio di problematiche politiche, sociali, economiche. In uno dei suoi lavori più noti,Shapolsky et al. Manhattan Real estate holdings, a real timesocial system, as of May 1, 1971 (1971), Haacke documenta con testi e immagini le proprietà di uno dei più importanti speculatori immobiliari di New York, denunciandone implicitamente le pratiche affaristiche. L’opera, che doveva essere esposta nella personale dell’artista al Guggenheim Museum, cancellata proprio a causa delle imbarazzanti relazioni esistenti tra Shapolsky e i trustees del museo, finisce così per chiamare in causa l’indipendenza dell’istituzione museale ed esporre la sua inconfessabile contiguità con il potere.
I successivi sviluppi. – Gli anni Ottanta e Novanta hanno segnato un nuovo sviluppo delle pratiche di critica istituzionale, grazie alle ricerche degli artisti che negli ultimi decenni si sono misurati con la normalizzazione delle istanze critiche più radicali all’interno di un sistema istituzionale che nel frattempo ha reso più sfuggente e ‘tollerante’ il proprio meccanismo. La facilità postmodernista, la morbida disponibilità alla provocazione, lo stesso successo dell’a. contemporanea sono diventati i temi di una rinnovata critica dell’istituzione al cui centro si pone la fondamentale questione della natura e del ruolo sociale di una pratica artistica oggi più che mai esposta al rischio di trasformarsi in un’esperienza irrilevante, in intrattenimento inoffensivo, in cui evapora il valore cognitivo che ne aveva caratterizzato la vicenda moderna. Il raggio problematico si estende così sino a includere anche la figura dell’artista e altre tipologie di spazi istituzionali, come pure i meccanismi sociali di esclusione e inclusione, e le forme di autorità riflesse nei codici visivi e linguistici. La generazione che emerge in questo momento è segnata inoltre da una maggiore considerazione nei riguardi dell’interazione e della performatività. La statunitense Andrea Fraser (n. 1965) ha basato, per es., la propria pratica sulla performance site-specific, facendo ricorso anche a video e installazioni, sostenuti da una estesa riflessione teorica. Nella performance Museum highlights. A gallery talk, realizzata nel 1989 al Philadelphia Museum of art, l’artista impersona una guida che conduce un gruppo di ospiti in una visita al museo, parodiandone la retorica e utilizzando come fonti svariati testi critici.
Ancora diverso è l’approccio della statunitense Renée Green (n. 1959), che si concentra in particolare sul rapporto fra immaginazione e invenzione, tra invenzione narrativa e genealogia storica. Il lavoro di Green si configura nella forma di complesse installazioni in cui testi, immagini, oggetti, diventano lo spunto per esaminare i processi di selezione, elaborazione e archiviazione alla base dei fenomeni culturali, e dove l’artista invita lo spettatore a farsi soggetto attivo della decostruzione e ricostruzione del significato. L’istituzione cessa così di essere individuata nello spazio dell’a. e la prospettiva può allargarsi a uno spettro assai ampio di esperienze culturali. Esempi di questa attitudine sono lavori come Secret (1994), un nucleo di fotografie e video realizzati da Green nella Unité d’habitation di Le Corbusier a Firminy, e Partially buried in three parts (1995-97), in cui l’opera di land art di Robert Smithson Partially buried woodshed (1970) viene accostata all’esame di alcuni episodi di repressione cruenta delle rivolte studentesche negli Stati Uniti e nella Repubblica di Corea.
Bibliografia: B. O’Doherty, Inside the white cube. The ideology of the gallery space, Santa Monica 1986 (trad. it. Milano 2012); B. Buchloh, Conceptual art 1962-1969. From the aesthetics of administration to the critique of institutions, «October», 1990, 55, pp. 105-43; J. Meyer, What happened to the institutional critique?, New York 1993; J. Bryan-Wilson, A curriculum of institutional critique, in New institutionalism, ed. J. Ekeberg, Oslo2003, pp. 89-109; A. Fraser, From the critique of institutions to aninstitution of critique, «Artforum», 2005, 1, pp. 278-83; Institutional critique and after, ed. J.C. Welchman, Zürich-New York 2006; Institutional critique. An anthology of artists’ writings, ed. A. Alberro, B. Stimson, Cambridge 2009.
Distopia di Simone Ciglia. – Pur se ha avuto origine nel discorso letterario (v. distopica, letteratura), la distopia ne ha valicato presto i confini per invadere il vasto regno delle a. visive. È nel dialogo fra i differenti linguaggi espressivi che dobbiamo seguire il filo della distopia, in costante dialettica con la controparte utopica, spesso contaminata con altre forme dell’immaginario e intrecciata con istanze diverse (femminismo, ecologia, tematiche di gender). Tale complessità pone la distopia sotto il segno della pluralità e della polisemia. In linea generale essa sembra assolvere a una funzione di critica in senso lato politica, proiettando un riflesso oscuro in cui la società può rispecchiarsi. La mappatura delle diverse declinazioni della distopia nell’ambito delle arti visive contemporanee è stata organizzata per nuclei tematici.
Mimesi letteraria. – La prima e più semplice strategia attraverso la quale gli artisti lavorano con la distopia consiste nella mimesi del discorso letterario. Solitamente, attraverso l’impiego di vari media, gli artisti plasmano il disegno globale di una società che si pone sul piano finzionale. Fra i progetti più rappresentativi dell’ultimo decennio è Slave city del collettivo olandese Atelier Van Lieshout (fondato da Joep van Lieshout nel 1995): una città fondata sulla schiavitù, i cui criteri sono improntati alla razionalità, all’efficienza e al profitto; un’integrale riformulazione dell’economia e dell’organizzazione sociale, di valori etici ed estetici. Iniziato nel 2005, il progetto è ancora in corso e ha preso finora la forma di disegni, quadri e modelli architettonici (in alcuni casi realizzati). Slave city segnala il mutamento di status della diade utopia/distopia nella seconda metà del 20° secolo. Per un verso l’opera s’iscrive nella tradizione distopica, di cui riproduce il meccanismo fondamentale: l’estremizzazione di alcuni tratti della società contemporanea (in questo caso soprattutto la ricerca del profitto alla base dell’attuale capitalismo multinazionale). Per un altro ne scardina alcuni fondamenti, introducendo al suo interno anche elementi positivi come, per es., il carattere ecologico. Il risultato è quella che potremmo definire una distopia ambigua. Nel complesso, l’intera produzione di Atelier Van Lieshout – come quella di molti autori contemporanei – testimonia un intreccio e un mescolamento di utopia e distopia, nella convinzione espressa dal fondatore «che ci sia una parte distorta in ogni utopia almeno quanto c’è una parte razionale e positiva in ogni distopia» (J. van Lieshout, M. Mauer,Tutto potrebbe cambiare, «Abitare», 2012, 523, p. 99).
Le fonti – letterarie, ma anche cinematografiche – dell’immaginario distopico sono citate in maniera esplicita nel progetto (TH.2058) che Dominique Gonzalez-Foerster (n. 1965) concepisce nel 2008 per la Turbine Hall della Tate Modern di Londra. L’artista immagina un futuro in cui la capitale inglese è sotto una pioggia incessante: il museo è stato trasformato in ricovero per le persone, le opere d’arte, i libri (ospitati su una serie di letti a castello). La narrativa distopica è nuovamente al centro dell’installazione dello stesso anno Reading rug (Dystopia).
Critica politica. – Un altro gruppo di autori elabora differenti tipologie di fonti (anche al di fuori della finzione), declinando la distopia in una dimensione prevalentemente politica. L’artista statunitense Paul McCarthy (n. 1945) fa deragliare l’immaginario disneyano e hollywoodiano verso una deriva distopica, pervertendolo in chiave sessuale, violenta e scatologica, in un’esplorazione del lato oscuro del sogno americano.
La storia degli Stati Uniti è anche al centro dell’opera di Sam Durant (n. 1961). La dialettica utopia/distopia viene interpretata in termini antinomici nell’installazione Partially buried 1960s/70s: dystopia revealed (Mick Jagger at Altamont) & utopia reflected (Wavy Gravy at Woodstock), del 1998. Due specchi rettangolari poggiati sul pavimento sono coperti da una pila di terra, all’interno della quale è nascosto un registratore: il primo diffonde la voce di Mick Jagger (cantante dei Rolling Stones) durante il concerto di Altamont del 1969, trasformatosi in tragedia per la morte di quattro spettatori; il secondo nastro trasmette il discorso dell’attivista Wavy Gravy in occasione del festival di Woodstock dello stesso anno. A quattro mesi di distanza l’uno dall’altro, i due concerti sono appaiati da Durant a simboleggiare l’utopia e la distopia: da un lato Woodstock rappresenta infatti l’apice della cultura hippy, dall’altro Altamont l’emblema della fine di tali ideali utopici. Il mischiarsi delle due voci fa sì che l’iniziale dicotomia si sciolga in un’unità entropica (nozione che l’artista riprende da Robert Smithson).
A un altro momento della storia del proprio Paese si riferisce Michael Landy (n. 1963). Bersaglio polemico del progetto Scrapheap service (1995) – che si sviluppa attraverso disegni, video e una grande installazione – è il thatcherismo e la sua dottrina economica neoliberista. Mimando integralmente le strategie commerciali, l’artista crea un’azienda fittizia che si propone lo scopo di liberare la società da quella che viene definita feccia, ovvero i ceti non produttivi e marginalizzati.
Modernismo fallito. – Il modernismo – inteso nelle sue molteplici incarnazioni nel campo dell’architettura, del design e dell’a. – è al centro della pratica di una generazione di artisti che emerge a partire dalla metà degli anni Novanta del 20° secolo. Questa rivisitazione si caratterizza prevalentemente sotto il segno della negatività: fallimento delle utopie moderniste è una delle formule critiche ricorrenti per descrivere il nucleo di queste ricerche. Attraverso strategie differenti – citazione, alterazione, ricombinazione di elementi tratti da Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, Gerrit Rietveld, Charles e Ray Eames, Arne Jacobsen – autori come Martin Boyce (n. 1967), Ryan Gander (n. 1976) e numerosi altri sembrano indicare come la visione ottimistica che fondava il credo modernista abbia sortito nella realtà un opposto esito distopico.
Tecnodistopia. – Il 1° gennaio 1984 l’avvento dell’anno orwelliano venne salutato a livello mondiale dall’artista Nam June Paik (1932-2006) con Good morning, Mr. Orwell: uno spettacolo di varietà d’avanguardia che includeva musica, danza e performance, in cui spezzoni video e immagini dal vivo venivano trasmessi via satellite raggiungendo un’audience di più di dieci milioni di persone. Al vertiginoso sviluppo tecnologico degli ultimi decenni le arti visive hanno guardato tanto in chiave utopistica quanto distopica.Il potere e le forme di controllo che esso esercita – tra i caratteri peculiari della distopia – sono stati frequentemente al centro del lavoro di artisti operanti nel campo della videoarte o della New media art, che hanno impiegato dispositivi di controllo elettronici.
Alle conseguenze distopiche della scienza e della tecnica – in particolare della genetica e della chirurgia plastica – ha alluso anche la tendenza definita post-human, che nel corso dell’ultimo decennio del Novecento si è interrogata sul superamento della tradizionale nozione di umano. Nelle loro sculture e installazioni i fratelli Jake (n. 1966) e Dinos (n. 1962) Chapman raccontano un mondo mostruoso ridisegnato dalle mutazioni genetiche.
Bibliografia: P. Greenhalgh, The modern ideal. The rise and collapse of idealism in the visual arts. From the Enlightenment to Postmodernism, London 2005; Utopias, ed. R. Noble, London-Cambridge (Mass.) 2009; Utopia & contemporary art, ed. C. Gether, S. Høholt, M. Laurberg, Ostfildern 2012. Cataloghi di mostre: Die Moderneals Ruine. Eine Archäologie der Gegenwart/Modernism as a ruin. An archaeology of the present, ed. S. Folie, Wien, Generali foundation, Wien 2009; M. von Schlegell, New dystopia, Bordeaux, CAPC Musée d’art contemporain, Berlin 2011.