Arte e spazio pubblico
Tre, sostanzialmente, le attitudini dell’opera d’arte nei confronti dello spazio pubblico. Autonomia, dunque distacco e indifferenza; consenso e condivisione; dissenso e opposizione. Sia nel caso si intenda lo spazio come cornice fisica, urbana e territoriale, cioè come site, sia nell’accezione storica, sociale, culturale, etnica, vale a dire come place.
La relazione tra artisti e architetti è raramente complice, quasi sempre problematica, a volte esplosiva. Vi è poi il caso in cui i ruoli si invertono: l’artista progetta la scena urbana e l’architetto le emergenze monumentali. Nel 2000 Claes Oldenburg (n. 1929) e Coosje Van Bruggen (1942-2009) hanno installato Ago, filo e nodo a piazzale Cadorna a Milano. In vetroresina e acciaio, è opera pubblica per eccellenza: abita una piazza, centrale e ad alto flusso di traffico; è stata commissionata dall’amministrazione comunale di concerto con l’architetto Gae Aulenti, autrice, nello stesso anno e nello stesso piazzale, del discutibile porticato rosso prospiciente la Stazione Nord. Eppure, nonostante la collocazione e la dimensione, è un corpo estraneo, un monumento, come lo stesso Oldenburg ama definirlo; cele-brativo, oltretutto, perché nella capitale della moda. Il problema non è tanto il soggetto, più o meno riconosci-bile, né la sua maggiore o minore capacità rappresentativa e mimetica, quanto la relazione con il contesto, la condizione di ospite, seppur permanente, del ‘piedistallo urbano’. La stessa problematica presentano infatti i monumenti moderni, astratti e autoreferenziali, quali La grande vitesse (1969) di Alexander Calder in Michigan, Red cube (1968) di Isamu Noguchi a Manhattan, le tante sculture di Henry Moore sparse per il mondo e, in Italia, quelle di Arnaldo Pomodoro, Carmelo Cappello o Pietro Consagra. «Non mi piace lavorare su commissione nel senso che vado, guardo un posto e poi penso a qualcosa. Se mi si chiede di tener conto di un luogo per la possibile collocazione di una mia scultura, cerco di scegliere qualcosa di adatto tra ciò che ho fatto o che sto per fare. Ma certo non mi siedo per cercare di creare qualcosa di apposito», dichiara sprezzante Moore (H.J. Seldis, Henry Moore in America, 1973, pp. 176-77).
L’opera è sì nello spazio pubblico ma, priva di capacità dialettica, non può dirsi opera di arte pubblica. O, meglio, è il ‘grado zero dell’arte pubblica’, come opina Daniel Buren (n. 1938) che, dal 1965, lavora in situ, cioè in simbiosi con il luogo che la esibisce: «Ci troviamo di fronte alla seguente sproporzione: o l’opera sta al suo posto, lo studio, e non ha luogo (per il pubblico) o si trova in uno spazio che non è il suo e allora ha luogo» (Fonction de l’atelier, «Ragile», 1979, 3, pp. 72-77; trad. it. in Daniel Buren. Scritti 1967-1979, a cura di G. Celant, 1979, p. 57). Di qui l’adozione, da parte di Buren, della striscia come matrice elementare, neutra, a una dimensione, adattabile ai supporti più diversi, dall’infinita variabilità cromatica. Si staglia sui muri della città, nelle stazioni della metropolitana, sui cartelli di un corteo, sulle barche di una regata o nella corte d’onore di Palais Royal a Parigi in Les deux plateaux (1986), la sua prima commissione pubblica. Nello spazio quadrato cinto da un imponente colonnato, la tentazione monumentale è sempre in agguato. Una certezza guida Buren: sfuggire il centro e l’unicità del punto di vista. Indagata la struttura della piazza, la sua forma leggermente convessa, la disposizione delle colonne e la larghezza degli intercolumni, copre l’intera corte con una griglia uniforme e indifferenziata ponendo al centro di ogni modulo alcuni cilindri, tutti di uguale diametro ma di diversa altezza, da zero a tre metri, foderati di strisce verticali bianche e nere. Emergono dal sottosuolo, ora per la prima volta visibile. Buren riprende la tipologia della colonna ma ne abbatte la protervia dimensionale, ne abroga la funzione portante e la ‘firma’ con le strisce. In tal modo, una corte simmetrica e statica si trasforma in piattaforma dinamica e basculante; l’opera è visibile, persino fruibile, ma senza arroganza.
Napoli
A Napoli, nella centralissima piazza del Plebiscito, gli artisti che dal 1995, nell’ambito della rassegna L’arte in piazza, si avvicendano ogni fine anno compongono una polifonia. Uno spazio geometrico e simmetrico, di grande rilevanza simbolica, storica e ambientale, chiuso da due emergenze monumentali quali il Palazzo reale e la Basilica di S. Francesco di Paola, è quanto mai insidioso. Due, sostanzialmente, le alternative: occupare il centro decidendo rischiosamente di competere in monumentalità, oppure disertarlo. Su tale scelta preliminare si misura l’efficacia degli interventi.
Non ha resistito alla tentazione del centro Giulio Paolini (n. 1940) quando, equidistante dai monumenti equestri di Carlo e Ferdinando di Borbone, sull’asse che collega Palazzo reale con la Basilica ha collocato Da un momento all’altro (1999), un parallelepipedo di ferro rivestito di legno nero che gareggia per forma e dimensioni con i basamenti dei due monumenti equestri. Al posto dei regnanti a cavallo, però, siede un cubo bianco sulle cui quattro facce un colonnato neoclassico, identico a quello della piazza, apre su uno spazio prospettico animato da personaggi. Assecondando, anzi moltiplicando la struttura monumentale della piazza, Paolini ha creato un’opera di pari segno, contraddicendo l’abituale carattere precario, temporaneo e incompiuto delle sue installazioni. Anche Mimmo Paladino (n. 1948), pioniere del progetto, ha collocato al centro una montagna di sale su cui tentano inutilmente la scalata cavalli e cavalieri bronzei disarcionati, di scarsa epicità (Montagna del sale, 1995). Taratantara (2000) di Anish Kapoor (n. 1954) ha aperto il nuovo secolo: due gigantesche torri Layher® (mo-derno sistema di ponteggi) sostengono un telone rosso in PVC, rafforzando l’asse Palazzo reale-Basilica.
Agli antipodi, gli interventi che disertano il centro sono numerosi e stimolanti. Molti eleggono il colonnato: se Mario Merz (1925-2003) vi ha sgranato sulla sommità numeri rossi appartenenti alla serie di Fibonacci, contestando la monotona ripetitività degli intercolumni (Senza titolo, 1997), Jannis Kounellis (n. 1936) ha discusso fissità e biancore delle colonne anteponendovi quelle mobili e discontinue costruite con migliaia di bilancini. Mentre nell’ambulacro ha sospeso con corde alla volta una moltitudine di armadi, a costruire un cielo barocco incombente e inquietante (Senza titolo, 1996). Se, ancora, Joseph Kosuth (n. 1945) nell’installazione Ripensare il vero ha vergato nel 2001 il fregio del colonnato con brani luminosi tratti da Etica e politica (1931) di Benedetto Croce, altri hanno optato per la piazza ma in posizione eccentrica. L’installazione di Gilberto Zorio (n. 1944) annuncia precarietà e dinamismo: una stella alta 12 m è affiancata da una canoa che ogni quarto d’ora scorre lungo un’asta inclinata, spinta dall’aria espulsa con forte sibilo da un otre in pelle di maiale (Senza titolo, 1998). Emozionante e suggestiva l’opera di Rebecca Horn (n. 1944): 333 teschi in ghisa sono inseriti nel selciato antistante la Basilica; guardano verso l’alto, verso 77 aureole luminose di neon color madreperla. Radicato nella tradizione popolare napoletana, il lavoro evoca la tragedia ancora recente e cocente dell’11 settembre 2001 (Spiriti di madreperla, 2002). L’Italia all’asta (2004) è il titolo allo stesso tempo tautologico, ironico e impegnato dell’installazione di Luciano Fabro (1936-2007), che gioca sul significato dell’asta come palo, tipico della festa barocca, e dell’asta come vendita all’incanto. Un’asta metallica alta 35 m regge effettivamente con un cappio la sagoma della nostra penisola in lamina d’alluminio. Un’Italia divisa, però, in una metà dritta e nell’altra capovolta, mentre le isole si abbarbicano al centro. Il Nord e il Sud, nello scambiarsi ruolo e posizione, finiscono con il combaciare. Non solo. La metà dritta riferisce di aziende pubbliche privatizzate, dall’Alfa Romeo all’ENI, da Telecom a Montedison, mentre invece su quella capovolta compaiono i nomi di occasioni mancate: Bronte, Campoformio, Savoia. Nel 2006 è stata la volta di Jenny Holzer (n. 1950) che ha proiettato sulla facciata della Basilica un testo a caratteri cubitali. Precario e revocabile, è antimonumentale per eccellenza (For Naples). Agli antipodi, Naples (2003) di Richard Serra (n. 1939) è invadente e prepotente: al cerchio perfetto della piazza contrappone, decentrata, una gigantesca spirale di ferro le cui alte pareti sghembe turbano e disorientano lo spettatore che vi si avventuri, isolandolo dall’intorno.
A differenza di piazzale Cadorna, dunque, dove l’opera è avulsa dal contesto, gli interventi periodici a piazza del Plebiscito vi traggono ispirazione, per assecondarlo o sfidarlo. Relativamente alla sola struttura fisica urbana, però, e alle sue emergenze monumentali. Più l’opera è compiacente, evidentemente, più il contesto prevale.
Reggio nell’Emilia
L’alternativa ospite/site-specific si conferma quando la scala dell’intervento passa da una sola piazza a più fulcri urbani. È il caso del progetto Invito a: Luciano Fabro, Sol LeWitt, Eliseo Mattiacci, Robert Morris, Richard Serra, realizzato a Reggio nell’Emilia tra il 2004 e il 2006. Opere permanenti, come a Milano, e in se-quenza, come a Napoli, ma in luoghi scelti dagli artisti. Con la caratteristica che a promuovere e animare l’iniziativa è stato un artista, Claudio Parmiggiani (n. 1943) di Reggio nell’Emilia, che ha selezionato e invitato, su incarico del Comune. Se gli interventi sono tutti di indiscutibile qualità, LeWitt (1928-2007) e Fabro si distinguono per capacità dialettica. Whirls and twirls 1 (2004) del primo, sulla volta della sala di lettura della Biblioteca Panizzi, aggiorna la lunga e nobile tradizione della pittura murale: una grande nuvola galleggiante costruita con lacci sinusoidali intrecciati, dai colori squillanti e a massimo contrasto. Dal 1968, quando ha eseguito il primo wall drawing, LeWitt, che riserva a sé l’ideazione e affida ad altri l’esecuzione, asseconda o confligge con l’involucro murario, ne rispetta o viola la bidimensionalità, a seconda che ricorra al bianco e nero o al colore, a forme semplici e piane o ad altre complesse e tridimensionali. A Reggio nell’Emilia ha creato un fulcro visivo possente che si snoda per l’intera lunghezza della volta compiacendone la curvatura.
Fabro ha scelto la Caserma Zucchi, oggi sede universitaria. Nel fitto colonnato che occupa il cortile ottocentesco ha collocato Araba fenice (2005), una colonna fatta con il cosiddetto travertino oro, alta circa 7 m, leggermente rastremata verso l’alto e costituita da tre parti sovrapposte, le cui scanalature, laddove la materia è uniforme, sono ordinate secondo la regola classica vitruviana, e laddove emergono invece le venature del marmo, sono irregolari, generando un effetto visivo elicoidale. «Narrare quanto di pitagorico sta nella colonna ma anche quanto di epico sta in Pitagora; dare il senso della staticità ma anche dell’imprevedibilità della staticità e cancellare quanto di decorativo sta nella colonna. Da ciò: esprit de géométrie, esprit de finesse» (J. De Sanna, Luciano Fabro. Biografia, 1996, p. 146).
Skulptur Projekte
Coinvolgere l’intera città è il passo successivo, come nello Skulptur Projekte di Münster in Germania, rassegna decennale di scultura, alla quarta edizione nel 2007. Artisti e opere sempre diversi, disseminati ovunque, raggiungibili, come in una caccia al tesoro, a piedi o in bicicletta. È nata dal rifiuto di una scultura di Moore negli anni Sessanta e di una cinetica di George Rickey a metà del decennio successivo da parte dell’amministrazione cittadina. Anziché fare marcia indietro, Klaus Bussmann (direttore del Westfälischen Landesmuseum di Münster) e il curatore Kasper König rincararono la dose, invitando Carl Andre, Michael Asher, Joseph Beuys, Donald Judd, Richard Long, Bruce Nauman, C. Oldenburg, Ulrich Rückriem e R. Serra a progettare opere all’esterno del museo.
In realtà aveva fatto da battistrada una vicenda avvenuta a Spoleto nel 1962. «Non più impettiti signori con lo stiffelius, uomini a cavallo, sovrani o generali, statisti o borghesi, musicisti o poeti, ma le forme della libertà dell’astrazione che ha configurato l’arte del 20° secolo»: così, a quarantacinque anni di distanza, il curatore Giovanni Carandente ricorda un’iniziativa inedita e coraggiosa, sostenuta dall’amministrazione comunale, con il coinvolgimento delle aziende locali per la produzione delle opere (Sculture nella città. Spoleto 1962, 2007, p. 9). Le 102 sculture, di cui sei ancora sul luogo, «intimorenti quando non minacciose» (p. 9), di maestri del calibro di Hans Arp, Alexander Calder, Eduardo Chillida, Ettore Colla, P. Consagra, Lucio Fontana, Giacomo Manzù, Leoncillo Leonardi, H. Moore, Jacques Lipchitz, A. Pomodoro, David Smith, Mirko, rivendicano il diritto di cittadinanza in siti storici e architetture antiche, in piazze, strade scoscese, nel teatro romano, dentro a portali, cortili, fontane. Nonostante la novità assoluta del numero e della dimensione, pur magistralmente ambientate, per esse vale l’obiezione mossa alla scultura di Oldenburg: essere ospiti del ‘piedistallo urbano’.
«Può l’arte scendere dal piedistallo e risorgere a livello stradale?», s’interrogava nel 1997 Buren, a Münster per la seconda volta (Can art get down from its pedestal and rise to street level?, in Contemporary sculp-ture. Projects in Münster 1997, ed. K. Bussmann, K. König, F. Matzner, 1997, catalogo della mostra, pp. 481-507). Benché 4 Tore, da lui realizzata nel 1987 (quattro portali in pieno centro, due tratteggiati da righe, due tappezzati di foto), sia tra le 37 opere permanenti, la sua posizione nei riguardi dell’iniziativa è estremamente critica. Carattere temporaneo dei lavori e assenza di commissione pubblica sono bastati a fargli definire polemicamente la rassegna come una mostra effimera commissionata da un museo. Giudizio perentorio ma stimolante. Trattandosi di una iniziativa protratta nel tempo, Skulptur Projekte offre uno spaccato esauriente di possibili declinazioni: arte nello spazio pubblico, arte come spazio pubblico, arte come memoria storica, arte coinvolta dalle problematiche del pubblico. Lo attestano i lavori permanenti. Installation Münster (Caravan) di Asher (n. 1943), per es., realizzata nel 1977 in occasione della prima edizione, è stata aggiornata in quelle successive in funzione del tempo della mostra e delle trasformazioni urbane. Un caravan vecchio stile ha cambiato posizione ogni settimana: 19 volte nel 1977, 17 dieci anni dopo, 15 nel 2007. Parcheggiato ma non abbandonato, funzionale ma non in funzione, inquieta e sorprende, scompare e ricompare, sempre uguale e sempre diverso, come le strisce di Buren, che non a caso giudica Asher tra i pochissimi artisti realmente site-specific. Al dinamismo di Asher fa da contrappunto la fissità di Oktogon für Münster (1987) di Dan Graham (n. 1942), un padiglione ottagonale foderato di superfici trasparenti/riflettenti: fruibile, in simbiosi con la natura, consente a chi è dentro di vedere fuori, e a chi è fuori di specchiarsi nell’involucro, o viceversa, a seconda dell’incidenza luminosa.
Profondamente radicati nella storia tedesca, trascorsa e recente, sono gli interventi di Lothar Baumgarten (n. 1944), LeWitt e Horn. Drei Irrlichter (1987), del primo, è un tributo alla memoria della rivolta degli anabattisti di Münster contro la Chiesa cattolica nel 1534-35: tre lampade sono imprigionate nelle stesse gabbie, appese sulla facciata della Lambertikirche, dove allora furono esposti al pubblico ludibrio i corpi dei rivoltosi. Nella Schlossplatz antistante il Castello, che ospita ora l’Università, LeWitt ha eretto invece nel 1987 Black form (Dedicated to the missing Jews), un austero parallelepipedo di mattoni neri dedicato agli ebrei scomparsi e ai tanti mai nati. Sono state proprio la sua assertività, assenza di retorica, dissonanza rispetto all’imponente organismo che fronteggiava, a farne oggetto di quello che Buren definisce vandalismo ufficiale: profanato dapprima da graffiti e slogan, rifiutato dall’Università, è stato infine distrutto a martellate da un gruppo di studenti. Oggi risiede ad Amburgo, nel luogo dove un tempo sorgeva una sinagoga. Si affaccia il quesito: è lecito che un lavoro pensato per un luogo specifico sia spostato, ricostruito e ricollocato? Se ne riparlerà.
Sconvolgente l’installazione Das gegenläufige Konzert (1987) di Horn nello Zwinger, la torre rotonda, dal tetto conico, eretta nel Cinquecento come parte delle fortificazioni cittadine, trasformata in prigione due secoli dopo e rimasta tale fino alla fine del 19° secolo. Affidata nel 1938 alla Gioventù hitleriana, venne utilizzata negli ultimi anni di guerra dalla Gestapo per le esecuzioni di prigionieri russi e polacchi, quattro alla volta, nella corte interna. A causa dei danni provocati dai bombardamenti, fu abitata per anni solo da una folta popolazione di felci, muschi e alberi. Horn ha restituito al luogo la sinistra drammaticità della sua storia. Se deboli lumi a petrolio rischiarano la rampa di collegamento fra i tre piani, lo spazio risuona dei rintocchi di piccoli martelletti di ferro affissi ai muri e al soffitto delle celle e dei passaggi, il cui ritmo è continuamente variabile e la cui intensità cresce con il procedere verso l’alto. Un capiente imbuto di vetro colmo d’acqua è appeso agli alberi, in corrispondenza del cratere prodotto dalle bombe. Ogni dodici secondi una goccia precipita per 12 m in un bacino nero rotondo, la cui superficie si distende e increspa con altro ritmo.
Di altro segno Square depression di Nauman (n. 1941), ideato nel 1977, ma realizzato per l’edizione del 2007 nei pressi del dipartimento di Scienze naturali dell’università. Si radica infatti indissolubilmente al terreno, dove una piramide rovesciata di 25 m di base affonda il suo vertice. Parimenti integrate sono sia le lastre di ferro di Andre (n. 1943), in linea o sparse intorno alla collina (Untitled, 1997), sia Pozzo di Münster (1987) di Giuseppe Penone (n. 1947), un ramo di bronzo nel parco, irrorato dall’acqua proveniente dal pozzo sottostante. Agli antipodi, Giant pool balls (1977) di Oldenburg, grandi sfere di cemento poggiate vicino al lago con forte impatto fisico e dimensionale, e Walk Münster (1997) di Janet Cardiff (n. 1957), dinamico e smaterializzato: una passeggiata intorno al Westfälisches Landesmuseum, guidata da suoni naturali e altri fabbricati. Emessi da auricolari, consentono di essere contemporaneamente in ambienti diversi nel tempo e nello spazio.
Contro il ‘piedistallo’
Gli ultimi due casi invitano a una digressione, suggerita peraltro dalla polemica di Buren contro il ‘piedistallo’. Se l’artista francese giudica infatti ‘grado zero’ dell’arte pubblica la soluzione ‘banale’ e ‘mediocre’ del monumento, sia in chiave figurativa sia astratta, non è meno critico con le ipotesi antinomiche che, mimetizzandosi, rasentano l’‘invisibilità’. Nomina in proposito i truisms di Jenny Holzer, diffusi attraverso i tabelloni elettronici di Times Square, ma è polemico soprattutto con il ‘contro-monumento’ progettato da Jan Dibbets (n. 1941) in memoria di François Arago (Hommage à Arago, 1995), l’eminente fisico e astronomo che nel 1806 venne incaricato del prolungamento fino alle Baleari del meridiano di Parigi (che dal 1667 al 1884 ha rappresentato il meridiano zero per la misurazione della longitudine). Nel 1893, a quarant’anni esatti dalla morte, Parigi gli dedicò una statua in bronzo, poggiata su un alto basamento, a place de l’Île-de-Sein, dove il meridiano di Parigi taglia boulevard Arago. Nella Parigi occupata dai nazisti, la statua venne rimossa per fonderne il piombo. Che fare del piedistallo orbo di statua? Sono passati altri cinquant’anni prima dell’incarico a Dibbets, che concepisce un monumento immaginario, realizzato percorrendo la linea del meridiano di Parigi. 135 medaglioni in bronzo del diametro di 12 cm recano il nome di Arago stretto tra le due lettere che indicano il Nord e il Sud: inseriti nella pavimentazione stradale tratteggiano un percorso che, dal piedistallo del monumento originario, si estende a Nord e a Sud attraverso sei arrondissements. Soluzione geniale: la memoria di Arago non è delegata all’immagine che lo rappresenta ma, parte integrante della città, della sua toponomastica, consente di ricordare un personaggio mitico nell’atto quotidiano del camminare. La memoria, cioè, è confiscata al monumento e affidata allo spettatore. Forse con pari durezza Buren giudicherebbe il ‘contro-monumento’ di Günter Demnig (n. 1947), molto simile al precedente ma dedicato alla Shoah. Stolpersteine, ovvero ‘pietre d’inciampo’, sono sampietrini del tipo comune e di dimensione standard (10 cm × 10 cm), sulla cui superficie superiore in ottone sono incisi: nome e cognome del/la deportato/a, data di nascita, data e luogo di deportazione e, se nota, data di morte. La pietra o le pietre sono collocate sul marciapiede di fronte alla casa in cui abitava la persona ricordata. L’inciampo non è fisico, ma essenzialmente visivo e mentale: costringe infatti chi passa a ricordare cosa è accaduto in quel luogo e a quella data, attraendo lo sguardo con la sola superficie lucente. Il progetto, che ha avuto inizio nel 1993 a Colonia, conta a tutt’oggi 22.000 pietre situate in numerosi Paesi europei tra cui Austria, Paesi Bassi, Ungheria, Francia e, da gennaio 2010, anche Italia (Roma).
Eppure, lo stesso Buren definisce «discreto ma notevole, che perturba e disturba in senso positivo» (Can art get down from its pedestal and rise to street level?, p. 487) il lavoro 2146 Steine – Mahnmal gegen Rassismus (1993) di Jochen Gerz (n. 1940) a Saarbrücken, altro ‘contro-monumento’ alla Shoah, ancora più radicale e invisibile del precedente. 2146 sampietrini, degli 8000 che tappezzano la piazza dove risiedeva il quartier generale della Gestapo, sono divelti, incisi alla base con i nomi di altrettanti ex cimiteri ebraici tedeschi, quindi nuovamente interrati e dunque invisibili. Unica traccia visibile, la rinominazione del sito, da piazza del Castello (Schlossplatz) a piazza del Monumento invisibile (Platz des Unsichtbaren Mahnmals). Come per il più noto Mahnmal gegen Rassismus (Amburgo, 1993), dello stesso autore (una colonna di ferro ricoperta di piombo, destinata a sprofondare dopo sette anni, ricoperta dalle firme e dalle scritte apposte dai visitatori), il monumento «cambia identità […] alla sparizione visibile del monumento alla memoria corrisponderà la trasformazione degli spettatori in memoria del monumento» (G. Wajcman, L’objet du siècle, 1998, p. 193). Rispetto ai luoghi dove la tragedia si è consumata o, al contrario, a quelli distanti dalla topografia dell’orrore (vedi gli Stati Uniti), che la stessa tragedia devono rendere visibile e credibile, la Germania è un caso a sé: la memoria dei crimini da essa stessa perpetrati oscilla tra ammissione di colpa e negazionismo, tra enfasi memorialistica e tabula rasa. Lo spiega bene Gerz: «Rispetto al passato, diverse persone della mia età provano la sensazione di non saper bene come comportarsi. È una forma di rimozione sublime. Ciò mi ha suggerito l’idea di rimuovere l’opera. Dopo Freud, sappiamo che il rimosso non ci abbandona mai. Quello che voglio fare è di rendere pubblico questo rapporto, che potrebbe essere il mio, con il passato» (in R. Robin, La mémoire saturée, 2003; trad. it. I fantasmi della storia: il passato europeo e le trappole della memoria, 2005, p. 94).
Tra i due estremi si pone la gamma di monumenti discreti, linguisticamente innovativi, ben ancorati soprattutto al luogo. Tre esempi.
Il Mausoleo delle Fosse Ardeatine a Roma (1949, architetti Giuseppe Perugini, Nello Aprile e Mario Fiorentino) è caso unico ed esemplare di monumento-luogo, sintesi di natura, scultura e architettura. Le cave di pozzolana dove nel 1944 i nazisti compirono il barbaro eccidio; il sacrario, un masso stereometrico che copre, librato su una lama di luce, i 335 sepolcri tutti uguali, tutti ossessivamente allineati; la scultura di Francesco Coccia, attigua all’ingresso, i cui tre personaggi dolenti volgono lo sguardo in altrettante direzioni, non sono episodi isolati ma stazioni di un circuito continuo che ruota attorno al piazzale. A ogni stazione la sua lingua: alle cave e al piazzale quella naturale e organica, al masso la geometrica, alla scultura di Coccia l’evocazione dolorosa, alle cancellate di Mirko la lacerazione espressionista.
Il Vietnam Veterans Memorial (1982) a Washing-ton, dell’artista Maya Lin, è un cuneo di granito nero su cui sono scolpiti i 58.000 nomi dei caduti americani in Vietnam dal 1959, anno di nascita di Lin, al 1975. Stretta tra i due monumenti che celebrano i presidenti George Washington e Abraham Lincoln, ma formalmente dissonante, rappresenta una spina nel fianco della storia americana: a eterno ricordo di una guerra sbagliata, ne addita il costo in termini di vite umane, senza enfasi né retorica.
Il Denkmal für die ermordeten Juden Europas, il memoriale all’Olocausto inaugurato a Berlino nel 2005 e progettato dall’architetto Peter Eisenman (n. 1932), ha la prerogativa di dissolvere l’emergenza monumentale nel tessuto urbano: 2711 stele di cemento, di inclinazione e altezza variabili, piantate su un terreno ondeggiante, disegnano una gigantesca griglia deformata e sbilenca, diagonale rispetto all’ordito urbano. Nessun fulcro tematico o poetico, ma un modulo elementare che si moltiplica uguale a sé stesso, fino a generare un brano di città indifferenziato ed estensibile. Se la griglia è sinonimo di razionalità e controllo, la versione disorientata di Eisenman affida agli spettatori l’esperienza della catastrofe.
Un’ultima notazione. Il memoriale di Berlino, almeno nella fase di ideazione e fino al primo grado di concorso, risulta firmato a due mani, un architetto e un artista. Se la griglia e il modulo elementare infinitamente iterabile sono certamente nelle corde dell’architettura minimalista-concettuale di Eisenman, lo smarrimento indotto dalle mutevoli prospettive visuali è appannaggio delle sculture di Serra. Ma la relazione tra quest’ultimo e gli architetti è tutt’altro che armonica: Serra annovera infatti gli architetti tra i peggiori nemici, insieme ai politici. Lo attesta la storia, tristemente nota, di Tilted arc (1981) nella Fed-eral Plaza di Manhattan, distrutto a furor di popolo nel 1989, su istigazione delle istituzioni. Meno noto è il dibattito che continua a suscitare.
Un arco di ferro, alto 3 m e lungo 35 m, tagliava e attraversava la piazza: la scultura creava uno spazio in cimento con quello dato, anonimo e indistinto. Era stata commissionata nel 1979 dalla General services administration (GSA), che già nel 1963 aveva istituito l’Art in architecture program, quattro anni dopo l’Art in public places program del National endowment for the arts (NEA), organismo che nel 1974 aveva stabilito il ruolo trainante del luogo nella concezione dell’opera, cioè il suo carattere site-specific. Eppure, nonostante la clausola di inamovibilità, Tilted arc venne demolito per ordine dello stesso committente. In mezzo, anni di polemiche, processi, linciaggi. La campagna, avviata da un giudice contestualmente alla sua installazione, fu fatta propria nel 1984 da William Diamond, l’amministratore regionale della GSA, appena nominato dall’amministrazione Reagan, il quale convocò tempestivamente un’udienza pubblica presso la Court of international trade, con sede nella stessa piazza, per decidere se la scultura dovesse essere rimossa e ricollocata per favorire ‘l’uso pubblico della piazza’. A dispetto di ogni legalità, Diamond si autonominò giudice e pubblico ministero e si assicurò l’appoggio della giuria, nella quale nominò membri del suo staff. Anche se la votazione premiò i fautori della permanenza, il verdetto fu irrevocabile: rimozione e ricollocazione. Rivendicandone il carattere site-specific, Serra ne ribadì però l’inamovibilità. Ma le azioni legali da lui intentate contro la violazione del contratto e per i diritti morali dell’artista (contro «ogni distorsione, mutilazione e modificazione del lavoro, pregiudiziale al suo onore e alla sua reputazione») previsti dalla Convenzione di Berna furono clamorosamente respinte. Così, la notte del 15 marzo 1989, Tilted arc venne smantellato. «È un giorno di festa – esclamò Diamond – perché la piazza ritorna finalmente e giustamente alla gente» (in R. Deutsche, Evictions. Art and spatial politics, 1996, p. 270).
Site-specific
A vent’anni di distanza, la vicenda suscita ancora scalpore, e il dibattito tra fautori e detrattori non accenna a placarsi. Le problematiche sono scottanti: cosa si deve intendere per spazio pubblico, per pubblico, per uso pubblico dello spazio, per opera d’arte pubblica, per site-specific; quale relazione intercorre tra l’artista e gli altri protagonisti della progettazione urbana; quali sono i suoi margini di libertà e autonomia; quali i veri destinatari dello spazio pubblico e dell’opera d’arte. Serra non ha dubbi: «I lavori site-specific si confrontano con le componenti ambientali di un luogo. La scala, la dimensione e la localizzazione sono decise dalla topografia del luogo, sia esso urbano, paesaggistico o architettonico. I lavori diventano parte integrante del luogo e ne ristrutturano sia concettualmente che percettivamente l’organizzazione. Non decorano né illustrano né rappresentano un luogo» ma lo trasformano (Tilted arc destroyed, «Art in America 77», 1989, 5, pp. 34-47, poi in R. Serra, Writings, interviews, 1994, p. 202). Ne consegue: i lavori site-specif-ic sono inamovibili e irriproducibili. C’è di più. Serra è consapevole che un luogo, soprattutto se pubblico, non è solo una somma di dati fisici e geografici: l’analisi preliminare implica infatti anche le varianti sociopo-litiche. «I lavori ‘site-specific’ esprimono un giudizio di valore sul contesto politico e sociale di cui sono parte […] si rivolgono al contenuto e al contesto in modo critico […]. È esplicita intenzione dei lavori ‘site-specific’ alterare il loro contesto» (pp. 202-03). Poiché nessun luogo è neutrale, è assai arduo schivare fraintendimenti e cooptazione ideologica; soprattutto in presenza di edifici governativi, industriali, scolastici o religiosi, come nella Federal Plaza, ‘luogo piedistallo’ per eccellenza, progettato, fontana compresa, a uso e consumo del Federal Building. «In questi casi è necessario lavorare in opposizione, in modo che il lavoro non possa essere letto come affermazione di ideologie discutibili e del potere politico. Non mi interessa l’arte come manifestazione di complicità» (p. 203), con i politici conservatori e con gli architetti. Se i primi criminalizzano Tilted arc socialmente – accumula sporcizia, è fonte di degrado, è pericoloso per la sicurezza, rifugio potenziale per i terroristi – la competizione con gli architetti non è nuova per Serra. Se è fallita la collaborazione con Eisenman, con il quale pure esiste una sintonia linguistica, era inevitabile che fallisse a Washington, per la Freedom Plaza (1980), quella con Robert Venturi, architetto la cui attitudine consensuale, citazionista e anacronista è collocata dallo stesso Serra «lungo la tradizione che da Babilonia approda alla Germania nazista» (Richard Serra’s urban sculpture. An interview by Douglas Crimp, prima in «Art magazine», 1980, 5, p. 120, poi in R. Serra, Writ-ings, interviews, 1994, pp. 130-31).
Fautori e detrattori, si diceva. Buren, convinto che l’arte pubblica imponga all’artista regole e comportamenti inediti, distribuisce equamente le responsabilità. Se il torto dei committenti è revocare il consenso a un’opera coraggiosa già approvata e realizzata, Serra avrebbe dovuto prevedere critiche e opposizioni e, nel corso dell’udienza, non concentrarsi esclusivamente sui diritti dell’artista.
Obiezione condivisa, sebbene con altri intenti, da quanti, pur difensori di Tilted arc, accusano l’artista e la gestione dell’intera vicenda di parzialità, omissione, prudenza, scarsa radicalità. Denunciando come ‘populismo autoritario’ l’appello ai diritti della ‘gente’, Rosalyn Deutsche, nel fondamentale Evictions. Art and spatial politics sopra citato, imputa a Serra una certa reticenza nell’affrontare temi cruciali quali la democrazia in relazione all’arte nello spazio pubblico. Nell’esplorare gli intrecci tra arte contemporanea, architettura, progettazione urbana e lotte politiche, l’autrice sostiene che lo spazio pubblico è essenzialmente uno spazio sociale e, come tale, si caratterizza per ciò che esclude. Sono infatti le evictions (esclusioni) a consentirne una rappresentazione unitaria e coerente. «Evictions tiene conto delle esclusioni per esporre le strategie autoritarie che costruiscono l’immagine unitaria dello spazio sociale. Io sostengo che il conflitto, lungi dall’essere la rovina dello spazio pubblico democratico, è la condizione della sua esistenza» (p. XIII). Ogni operazione di ristrutturazione e riqualificazione urbana implica infatti lo sradicamento profondo del tessuto sociale, quel processo di gentrification (espulsione degli abitanti di una zona destinata a ricostruzione e riqualificazione) che trasforma molti residenti in senzatetto, quindi, paradossalmente, in naturali destinatari dello spazio pubblico. Ipotizzare l’esistenza di una memoria condivisa dei luoghi, di un interesse comune tra la ‘gente’ e gli attori della ristrutturazione urbana – politici, imprenditori, agenti immobiliari, urbanisti, architetti e artisti – è pura menzogna; significa rendere d’ufficio ‘pubblico’ l’interesse di una sola parte, disinnescando ogni opposizione. «Lo spazio pubblico – incalza Deutsche – emerge con l’abbandono della fede nel fondamento assoluto dell’unità sociale, fondamento che attribuisce alla ‘gente’ un’unica identità o un solo e vero interesse» (p. XVI). Se Tilted arc svela l’ipocrisia di un’arte pubblica condivisa, se nessun luogo è neutrale, Deutsche proclama: «L’arte pubblica deve rompere la coesione apparente dei nuovi siti urbani […]. Lo spazio pubblico non è un’entità precostituita a disposizione dei suoi fruitori ma si costruisce attraverso l’uso che ne fanno i gruppi esclusi dal potere dominante» (p. XVI), al cui servizio deve porsi l’artista che sceglie di stare all’opposizione. Come Gordon Matta-Clark (1943-1978), che Deutsche omette di citare, ma la cui ‘anarchitettura’ è uno straordinario monito etico contro lo sfruttamento capitalistico e contro una concezione meramente utilitaristica dello spazio. Egli sceglieva infatti le architetture destinate alla demolizione per trasformarle e qualificarle con sorprendenti tagli metamorfici che abrogavano pavimenti, squarciavano pareti, aprivano inedite e insospettabili prospettive visuali. Al cospetto di un pubblico rapito, testimone di un non-ument, cioè di un non-monumento, caduco e transitorio. Altri esempi? Gli interlocutori di Homeless projection. A proposal for the city of New York (1986) di Krzysztof Wodiczko (n. 1943) sono già nel titolo: al progetto ‘unitario’ di ristrutturazione di Union Square in nome della continuità storica, della conservazione del contesto esistente e dei valori democratici conquistati dagli eroi immortalati nei quattro monumenti che perimetrano la piazza, l’artista risponde proiettando su quegli stessi eroi gli attributi degli homeless: una gruccia e un secchiello per l’elemosina su Lincoln, una benda e una gamba ingessata su Lafayette, una sedia a rotelle sul cavallo di Washing-ton. Se frammenti smaterializzati mettono in discussione l’eternità granitica delle statue neoclassiche, gli eroi che rappresentano l’intera nazione e i suoi valori di libertà e democrazia sono disturbati dalle immagini attuali di ingiustizia ed emarginazione, abilmente sovrapposte, braccio su braccio e gamba con gamba, e dotate della scala monumentale dei loro supporti.
Lo stesso spirito anima il contro-monumento alla Shoah The writing on the wall (1993) realizzato a Berlino da Shimon Attie (n. 1957). Anche se, agli antipodi di Wodiczko, Attie proietta il passato sul presente, le immagini d’archivio di una realtà scomparsa sui luoghi, oggi dimentichi, a cui quelle immagini appartenevano. Come a New York, anche se solo per il tempo della proiezione, la saldatura tra passato e presente è totale e la rimozione impossibile. Agli stessi destinatari Wodiczko dedica Homeless vehicle project (1988-89), un veicolo di alluminio, rete di acciaio e plexiglas, di misura variabile a seconda delle funzioni: viaggiare, dormire, lavarsi, raccogliere bottiglie e barattoli da restituire ai supermercati in cambio dei depositi. Duplice lo scopo: funzionale, alla vita e al lavoro dei senzatetto, e politico, contro l’isolamento e la ghettizzazione in rifugi disumani. Come una mina vagante – ha del resto la forma di un’arma – si aggira per la città anziché nascondersi, ha un aspetto rispettabile e tecnologico, consente di vivere dignitosamente e di svolgere un lavoro onesto e legale. Se, opina Deutsche (Uneven development: public art in New York city, prima in «October», 1998, 8, pp. 3-57, poi in Evictions, pp. 49-107), Battery Park City a Manhattan – una delle operazioni immobiliari più consistenti – usa il design per rinforzare l’organizzazione sociale dominante, il veicolo per gli homeless lo usa come contro-organizzazione, traducendo una realtà sociale in design, in progetto realizzato con gli utenti. Anche le opere di Michael Rakowitz (n. 1973) sono site-specific, motivate cioè da una situazione storica, sociale e architettonica di esclusione. La più nota, ParaSite (1998), consiste nell’appropriazione del sistema di ventilazione esterno degli edifici (HVAC, Heating, Ventilation, Air Conditioning) da parte dei senzatetto, per gonfiare e riscaldare rifugi provvisori, costruiti con materiali riciclati e deperibili come i sacchi di plastica per immondizia. Ogni abitacolo è ad personam, su commissione del destinatario; il materiale è trasparente, per vigilare contro eventuali aggressori e per rendere visibile una condizione che la società vorrebbe rimuovere. La posizione del rifugio è a terra, come un sacco a pelo. Come quest’ultimo, è ripiegabile e, grazie al manico, facilmente trasportabile, anche per aggirare la legge promulgata nel 1999 dal sindaco di New York Rudolph Giuliani, che considera illegale qualsiasi tenda di altezza superiore al metro.
Public art
Pioniere in tema di rifugi mobili, precari e flessibili è Vito Acconci (n. 1940), performer, designer, artista ‘pubblico’, quindi architetto. «Il precedente della public art è il monumento. Quando prova a sfuggire alla sua funzione di monumento, la public art deve stare attenta: se assomiglia a una casa o a un arredo, si avvicina all’architettura. Per mantenere le caratteristiche di public art, può conservare la figura che incarna il monumento, nella quale si deve però poter entrare, sedersi. Il monumento è ridotto a misura, è abbattuto, è buttato a terra, è reso orizzontale», teorizza (Home-bodies. An introduction to my work 1984-85, in Vito Acconci, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, a cura di A. Barzel, 1991, catalogo della mostra, p. 107). Acconci adotta cioè il lessico ordinario, banale, scanzonato dei monumenti pop ma, a differenza di Oldenburg, ne abbatte la scala e li rende fruibili. La public art non si sostituisce così né all’architettura né all’urbanistica, ma disturba e provoca entrambe: sovverte coordinate spaziali e temporali, vince abitudini consolidate, stimola il pubblico a vivere lo spazio in modo attivo e partecipe. «La public art deve stringersi dentro, introdursi sotto, sovrapporsi a ciò che già esiste nella città. Il suo comportamento consiste nell’eseguire operazioni su ambienti già costruiti» (Lo spazio pubblico in un tempo privato, in Vito Acconci, p. 132). «All’artista pubblico si richiede di intervenire non sugli edifici ma sui marciapiedi, non sulle strade ma sulle panchine ai lati della strada, non sulla città ma sui ponti fra città e città. La public art funziona come una nota a margine: può solo commentare o contraddire il testo principale di una cultura» (Andare all’esterno, in Vito Acconci, p. 140). House of cars (1988) è un habitat costruito con sei macchine usate, due per appartamento: si cammina nella parte centrale su una griglia metallica, per salire poi nell’unità superiore e scendere in quella inferiore. Ogni appartamento è fornito di tre unità: cucina, bagno e camera da letto. Mentre Mobile linear city (1991) è una piccola città telescopica: un caravan contiene sei unità abitative che si snodano quando è in sosta. Soluzioni creative e stimolanti, come pure i container coloratissimi e ironici del gruppo Atelier Van Lieshout, le case di cartone di Oskar Leo Kaufmann, quelle ‘abito’ di Lucy Orta, o quella gonfiabile di Altro_Studio, ma difficilmente fruibili e spazialmente poco intriganti: arte dunque, non architettura.
New genre public art
Tornando a Tilted arc, la sua rimozione ha segnato una svolta in direzione del coinvolgimento del pubblico. È l’opinione dell’artista concettuale e performer Suzanne Lacy (n. 1945), curatrice del fortunato Mapp-ing the terrain. New genre public art (1995), la quale, al pari di Deutsche, imprime un radicale cambiamento al modo di intendere e leggere lo spazio pubblico e l’opera d’arte a esso destinata. Indipendentemente dall’esito, cioè, la vicenda Serra avrebbe per la prima volta dato voce alla comunità dei residenti. Tant’è che già nel 1983, le direttive della NEA parlano di ‘coinvolgimento, preparazione e dialogo’ con il pubblico. La new genre public art, definizione da lei stessa coniata, implica «strategie pubbliche d’impegno come parte importante del linguaggio estetico. La struttura di tali lavori non è esclusivamente visiva né semplice informazione politica, ma piuttosto una necessità interna percepita dall’artista in collaborazione con la sua audience. Il nome la distingue sia nella forma sia nelle intenzioni da ciò che è stato chiamato ‘arte pubblica’, termine usato negli ultimi 25 anni per descrivere sculture e installazioni negli spazi pubblici. Diversamente da quanto è stato sinora definito arte pubblica, la ‘new genre public art’ è basata sull’impegno», spiega Lacy (Cultural pilgrimages and metaphoric journeys, in Mapp-ing the terrain, 1995, p. 19).
La priorità nelle strategie dell’artista diviene dunque la relazione con il destinatario, al punto da coincidere spesso con l’opera stessa. Progetto pilota della new genre public art è, nel 1993, Culture in action: new public art in Chicago. Cento enormi massi di calcare sparsi nel Loop, ognuno recante il nome di una donna della città, sono il contributo di Lacy. Altri otto attivano invece la partecipazione dei residenti delle diverse comunità e delle loro associazioni: una parata multiculturale, l’apertura di un nuovo negozio di dolci, una stazione urbana ecologica, una rete di medici volontari, un giardino idroponico. All’arte site-specific si sostituisce così quella community o audience-specific, la cui attenzione si sposta dalle valenze stilistiche e formali a quelle sociali. È il cittadino, ora, a suggerire l’intervento a partire dai suoi bisogni, passando da fruitore passivo a coautore, alla stessa stregua dell’artista. È tale prerogativa sociale e relazionale a costituire allo stesso tempo la forza e la debolezza della new genre public art, la sua qualità e il suo limite: il rischio cioè di appiattire l’impegno artistico su quello sociale. Non solo. Si parla, e a ragione, di analogie tra gli anni Settanta e oggi, a proposito di impegno. Ma la distanza da allora è altrettanto palese. Negli anni Settanta, infatti, la militanza politica dell’artista contro la guerra, il razzismo e l’autoritarismo era nettamente distinta dal suo impegno come artista, parimenti radicale e rivoluzionario, come attestano il Minimalismo, l’Arte concettuale, la Process art e la Land art negli Stati Uniti, l’Arte povera in Italia. Oggi, l’attitudine degli artisti nei confronti del potere è assai più conciliante e compiacente. All’impeto oppositivo che ha connotato e qualificato anni insofferenti a mediazioni e compromessi, è subentrato, nelle vicende recenti, una prassi che mette sì in luce contraddizioni e conflitti ma di concerto e non contro le istituzioni, le quali spesso assumono le vesti di committenti, sponsor o curatori. «Nelle ‘azioni’ degli anni Settanta, caratterizzate da una componente contestataria e oppositiva, il referente del lavoro era un corpo collettivo (cittadinanza, mondo operaio, donne, studenti) considerato nella sua identità politica [...]. Oggi, sebbene alcune modalità di lavoro siano simili, è diversa la concezione del referente: non più un ‘corpo politico’, ma persone portatrici di un vissuto. La relazione avviene in modo diretto e non più tra operatore culturale e collettività. Inoltre, gli interventi hanno una valenza mimetica, tendono a operare come virus senza dichiarare un’opposizione al sistema sociale, ma evidenziandone le contraddizioni», spiega efficacemente Alessandra Pioselli (Arte pubblica: esperienze e progetti europei, in Oreste alla Biennale / Oreste at the Venice Biennale, a cura di G. Norese, 2000).
Assai più severo il giudizio di alcuni critici americani. Se Hal Foster, nel capitolo The artist as ethnog-rapher di The return of the real (1996, pp. 171-203), mette in guardia circa il rischio di una nuova forma di colonialismo in cui le comunità marginalizzate, oggetto dell’attenzione dell’artista ‘sociale’, giocherebbero la parte del Terzo mondo, altri denunciano il ruolo di ‘delegato’ assunto dall’artista: parla a nome della comunità, ma per consolidare la sua posizione personale. Ciò che preoccupa maggiormente i detrattori della new genre public art è la funzione preponderante svolta dalle istituzioni nel limitare e condizionare la relazione tra artista e comunità, come pure l’esito dell’intervento. Senza contare che il carattere assistenziale, l’‘evangelismo estetico’ degli interventi è per loro del tutto funzionale all’‘economia morale del capitalismo’. È possibile verificare tali assunti in alcuni casi emblematici italiani. Il progetto Immaginare Corviale (2004-2006) è stato commissionato dall’Assessorato alle politiche per le periferie del Comune di Roma, nato nel 2001; è stato curato dalla Fondazione Adriano Olivetti e realizzato dal collettivo d’intervento Osservatorio nomade, filiazione del gruppo Stalker, attento alle aree marginali, ai vuoti urbani e agli spazi abbandonati, che attraversa e percorre con vere e proprie derive urbane. Ricordando Samudaripen nel giorno della memoria. Chiediamo scusa al popolo zingaro è, per es., una biblioteca itinerante che dal 24 al 27 gennaio 2004, in occasione della giornata della memoria, si è aggirata tra i campi-nomadi di Roma per raccogliere testimonianze sullo sterminio degli zingari e sulle loro condizioni attuali. Mentre Sui letti del fiume del 2007 è una ricerca sulle baraccopoli sorte lungo il Tevere, risalendone il corso per 57 km.
Negli obiettivi di Immaginare Corviale ricorre spesso la parola condivisione, tra i desideri degli abitanti e il programma di recupero urbano e riqualificazione territoriale inseguito dal Laboratorio territoriale dell’assessorato. Un organigramma che conferma le perplessità già espresse, e nel quale il ruolo degli artisti si riduce alla mediazione, seppure attiva e creativa, tra comunità e istituzione. Corviale, l’edificio lungo un chilometro alla periferia sud-ovest di Roma, abitato da circa seimila persone, progettato da Mario Fiorentino e realizzato tra il 1973 e il 1982 con la collaborazione degli artisti Nicola Carrino, Teodosio Magnoni e Carlo Lorenzetti, è un caso esemplare di architettura a scala urbana. Conferma che, in assenza di infrastrutture adeguate, anche la migliore architettura è condannata al degrado. Osservatorio nomade/Stalker prende le mosse proprio dal disagio sociale e dalla dimensione umana e relazionale. «Da un dialogo con gli abitanti a tratti entusiasmante e a tratti conflittuale è emersa l’importanza di tre dimensioni su cui concentrare la riflessione: la realtà vissuta, l’immagine e l’immaginario» (Osservatorio nomade, Dialogo tra la Fondazione Adriano Olivetti e l’Osservatorio nomade, «ON/Corviale», 2004, n. zero). La prima concerne le ‘microtrasformazioni’ messe in atto dagli abitanti per appropriarsi degli spazi e familiarizzare con essi: centri anziani, biblioteche, centri di formazione professionale, comitati di quartiere, circoli, associazioni, luoghi di culto, orti, giardini pensili, trattorie, cooperative di teatro, centri sportivi. Quanto all’immagine di Corviale, il quesito è se si può dar vita a un’immagine ‘immediatica’ da contrapporre a quella mediatica consolidata che ha fatto di Corviale lo stereotipo della periferia alienata e irrecuperabile. Corviale network è una stazione televisiva locale, nata dalla collaborazione con i giovani del quartiere per raccontare le trasformazioni in atto e quelle di un possibile futuro. L’immaginario di Corviale, infine, è la consapevolezza di abitare un monumento, una grande realizzazione di edilizia pubblica, economica e popolare, fondata sull’utopia comunitaria modernista.
Immaginare Corviale è parte del modello Nuovi committenti, concepito nel 1991 dalla Fondation de France, adottato nel 1998 in Belgio dalla Fondation roi Baudouin e introdotto in Italia nel 2001 dalla Fondazione Olivetti. Due i presupposti: il ruolo centrale della creazione artistica nella riqualificazione dei luoghi del vivere collettivo; la committenza affidata ai cittadini e alle loro associazioni per realizzare opere d’arte nei luoghi di residenza e lavoro, privilegiando aree dismesse, sistema sanitario e scolastico, verde, comunità di nuova immigrazione. Tre gli attori del progetto: ai committenti il compito di individuare tema e luogo, accettare l’artista proposto, discutere, modificare, persino rifiutare il progetto; al mediatore culturale quello di individuare la committenza, metterne a fuoco gli intenti, suggerire l’artista, collaborare alla ricerca di fondi, seguire l’iter di realizzazione dell’opera; agli artisti la responsabilità di tradurre un’istanza sociale in linguaggio artistico. Primo terreno di applicazione: Urban 2 – Mirafiori Nord, a Torino, parte del più vasto programma Urban 2 volto al recupero fisico e alla sostenibilità ambientale, alla creazione di infrastrutture, all’integrazione sociale, alla lotta all’esclusione e alla crescita culturale. Promosso dall’Unione Europea e dal Ministero dei Lavori pubblici, interessa un’area di 2 milioni di m2 abitati da 25.000 persone. Non stupisce che l’esperienza pilota sia nella città italiana più sensibile all’intervento pubblico sull’arte contemporanea (a Mirafiori, quartiere schiacciato negli anni Sessanta e Settanta dalla macchina produttiva FIAT – 60.000 operai contro i 25.000 residenti –) e che mediatore del progetto sia l’organizzazione non-profit a.titolo, fondata a Torino nel 1997 dalle storiche e critiche d’arte Giorgina Bertolino, Francesca Comisso, Nicoletta Leonardi, Lisa Parola e Luisa Perlo. Preliminari al progetto sono stati il Tavolo sociale, attivo per due anni, istituito nell’ambito del Progetto speciale periferie come laboratorio di quartiere tra abitanti e tecnici e, nel 2002, Cosa si vede a Mirafiori. Cosa vede Mirafiori, campagna fotografica di Paola Di Bello. Delle quattro opere previste dal progetto finora ne sono state realizzate due, entrambe inaugurate nel 2007. Massimo Bartolini (n. 1962) è intervenuto nella settecentesca cappella Anselmetti, unico edificio storico di pregio in un’area caratterizzata da edilizia popolare. Sia nello spazio aulico della cappella sia in quelli contigui destinati a Laboratorio di storia e storie del quartiere e ad archivio per gli studenti, ha costruito una scaffalatura bianca: vuota, simbolica nella cappella; per ospitare libri negli spazi di lavoro. Orta (n. 1966) ha ipotizzato invece un parco ‘lineare’ nell’area di corso Tazzoli, lungo lo stabilimento FIAT, ora attraversato da un flusso di traffico assai più ridotto.
Se Trans:it. Moving culture through Europe costituisce un interessante progetto di documentazione sulle esperienze artistico-sociali nello spazio pubblico in Europa, un caso molto particolare sull’uso pubblico dello spazio è rappresentato da Terraço do Trianon, sulla centralissima Avenida Paulista a San Paolo del Brasile, parco terrazzato alternativamente centro della vita politica, sociale e culturale, centro finanziario e degli affari o luogo di abbandono e degrado, fino alla demolizione nel 1951 che lasciò un grande spazio vuoto. Ma il vincolo urbanistico posto su questo cratere, che vieta l’ostruzione della vista della città, ha consentito che continuasse a vivere come presenza simbolica nell’immaginario sociale collettivo e come punto di riferimento per i gruppi del dissenso culturale e politico. Su quest’area vigila il Museo trasparente e sospeso ideato nel 1957 dall’architetta Lina Bo Bardi (inaugurato nel 1968) come spazio pubblico aperto, regolato da un principio democratico e inclusivo.
Arte e ‘progetto dominante’
Per comprendere cosa Deutsche intende invece per arte pubblica funzionale al progetto dominante, basta recarsi oggi nella Federal Plaza di New York, a vent’anni dalla rimozione di Tilted arc: cupolette di erba circondate da panchine a serpentina dipinte di verde (1997) sono a firma di Martha Schwartz (n. 1950), nota architetta del paesaggio. Dei conflitti esistenti e delle controversie passate, neppure l’ombra. È la vittoria dell’arte pubblica intesa come ‘uso’ e ‘servizio’, ossia come arredo urbano. Eccelle, in tale declinazione, Scott Burton (1939-1989), quando postula (in D.C. McGill, Sculpture goes public, «The New York times magazine», 1986, April 27, p. 66): «le questioni sociali mi interessano più di quelle artistiche. Quello che gli impiegati fanno nella pausa pranzo è più importante che spingere i limiti della mia espressione individuale». Le sue panche sono nelle piazze, negli atri di edifici rappresentativi come l’Equitable Assurance Building a New York e nel parco di Münster. Se pensiamo a Study garden (1987) di Siah Armajani (n. 1939), sempre a Münster, un vero e proprio progetto di giardino, è palese come l’accento posto sulla funzionalità e la scarsa ‘personalità’ dell’intervento riduca sino al limite dell’indistinzione i confini tra arte, architettura, landscape architecture e progetto urbano. Nel contrapporre arte e funzione, questi artisti assumono il dettame razionalista ‘la forma segue la funzione’, e abdicano al compito di un contributo artistico autonomo. L’arte pubblica come servizio, in voga soprattutto negli anni Ottanta, conclude Deutsche, «va oltre la decorazione, verso la progettazione dello spazio per creare, piuttosto che discutere, la coerenza del luogo, per nascondere i suoi conflitti sociali strutturali» (Evictions, p. 68).
Torino
La concertazione interdisciplinare è il vanto, in Italia, di un importante intervento urbano, in progress e infrastrutturale. Igloo fontana di Merz, iniziato nel 2000 e concluso due anni dopo, è il primo lavoro previsto dal progetto Artecittà - 11 artisti per il Passante ferroviario di Torino. Una cupola emisferica di 12 m di diametro e archi configurati a quarto di cerchio collegati da anelli circolari costituiscono la struttura metallica su cui poggiano, attraverso bracci articolati con ganasce, lastre irregolari di porfido, alcune delle quali vergate da scritte al neon che indicano i quattro punti cardinali, protette da lastre in vetro triangolari i cui vertici indicano gli stessi punti. Poggia al centro di una grande vasca rettangolare lunga 30 m nello spartitraffico tra corso Lione e corso Mediterraneo. Dodici isole bianche di marmo di Lasa galleggiano nella vasca, quasi catapultate dall’igloo; 17 lance di rame, 5 all’interno dell’igloo, le altre emergenti dalle isole, indirizzano invece l’acqua verso l’alto. Igloo fontana è parte del progetto, previsto dal nuovo piano regolatore approvato nel 1995, per la copertura del Passante ferroviario che separava la parte ottocentesca della città da quella moderna. Il progetto ha consentito la costruzione di un ampio viale, la Spina Centrale, lungo circa 12 km, dove due corsie a traffico veloce sono separate o alternate a zone pedonali, giardini, parcheggi, piste ciclabili, vasche d’acqua e opere d’arte in punti prestabiliti del percorso. Per questo, contestualmente all’inizio dei lavori del Passante, l’assessore per i progetti speciali del Comune ha affidato a Rudi Fuchs e Cristina Mundici la scelta di 11 artisti. La committenza è dunque pubblica e la realizzazione delle opere prevede l’utilizzazione delle facilitazioni offerte all’amministrazione dalle ditte appaltatrici. In più, dato che il contratto tra l’artista e l’amministrazione prevede che il primo ceda l’opera in cambio della realizzazione e della manutenzione, il Comune ha istituito un ufficio apposito per il mantenimento, l’Officina città di Torino, con compiti di archiviazione, documentazione e tutela. Giovanni Anselmo, Per Kirkeby, Luigi Mainolfi, Walter Pichler, Michelangelo Pistoletto, Kounellis, Merz, Paolini, Penone, Rückriem, Zorio sono gli artisti, selezionati secondo la seguente procedura: individuazione dei luoghi, confronto con gli autori del piano regolatore, messa a fuoco del tipo di intervento adatto a ogni luogo, possibile rosa di nomi, verifica e approvazione da parte della Commissione cultura del Consiglio comunale e, infine, invito ufficiale agli artisti per un’opera a tema: una fontana a Merz, un giardino a Penone, una porta d’ingresso alla città a Pistoletto, sculture su una piattaforma a Paolini e un monumento alla rivoluzione industriale a Kounellis. Non solo le opere d’arte seguono il progetto urbanistico anziché essere pensate contestualmente a esso, ma la libertà dell’artista è limitata e subordinata al tema. Tant’è che l’opera di Merz, ‘apparizione antica sulla pianura tecnologica’, è assai poco godibile: irraggiungibile a piedi, è stretta tra due canali di traffico intenso. «È sensato – sostiene Fuchs – porre delle li-mitazioni alla libertà individuale dell’artista, quan-do costui decide di accettare un incarico pubblico. Un’opera per la città è qualcosa di diverso da un’opera fatta nell’intimità del proprio studio. È un paradosso difficile da accettare ma riteniamo che, procedendo così come abbiamo fatto attraverso i canali della pubblica amministrazione, sia forse possibile prevenire eventuali problemi futuri», tipo la rimozione o la profanazione (in Artecittà - 11 artisti per il Passante ferroviario di Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, a cura di C. Mundici, 1998, catalogo della mostra, p. 12). L’amministrazione decide così ‘per’ i cittadini il gradimento dell’opera di un artista nello spazio suggerito dal curatore. Proprio quanto denunciato da Foster e Kester. Albero giardino di Penone, del 2002, sorta di albero-sentiero-corso d’acqua, le cui tre diramazioni assecondano la forma triangolare del terreno, cinto su due lati da siepi di carpino, si radica al luogo mimetizzandosi, mentre Opera per Torino (2005), il porticato in mattoni di Kirkeby (n. 1938), ne prescinde, eco metafisica dell’alveare residenziale che lo sovrasta.
La metropolitana di Napoli
Tra il 2001 e il 2005 ha avuto luogo il completamento del restauro e del posizionamento delle opere d’arte nelle sette stazioni della linea 1 della metropolitana di Napoli: prima tappa di un ambizioso e inedito piano regionale di trasporti su ferro che porterà, entro il 2011, alla creazione di ben 1400 km di binari e di 80 nuove stazioni, per un totale di 424, di cui 100 solo a Napoli, per consentire il collegamento agile e funzionale tra il capoluogo e i principali centri regionali. Un piano voluto e finanziato dalla Regione e attuato dalla società MN Metropolitana di Napoli Spa, in collaborazione con urbanisti, architetti, artisti e addetti ai lavori dei singoli settori. Nel riconoscimento dell’importanza e della qualità dell’impresa, duole riconoscere che i primi risultati, quanto meno sul piano architettonico e urbanistico, affidati a Gae Aulenti, Alessandro Mendini e Domenico Orlacchio, sono poco convincenti: a fronte dell’ambizione di progettare stazioni contestualmente agli spazi urbani coinvolti e limitrofi, troviamo, nel migliore dei casi, cioè a Rione Alto, tre uscite visibilmente ispirate a quelle progettate (1988-1995) da Norman Foster a Bilbao, ma completamente spaesate. Altrove, come alle fermate Museo e Dante di Aulenti, c’imbattiamo invece in una sequenza di scatole di mattoni color pompeiano nel primo caso, e trasparenti, nell’altro, accompagnate da un modesto restyling urbano: un giardino, una fontana, chioschi, panchine e, a piazza Dante, una discutibile ripavimentazione. Mentre alle fermate Materdei e Salvator Rosa trionfa la visione cinica ed eclettica dello Studio Mendini, già collaudata nella Villa comunale (1999). Nella prima, si accede alla stazione attraverso due archi in mosaico verde, lo stesso che tappezza l’interno, mentre nell’isola pedonale svetta un obelisco di acciaio e vetro colorato e la cabina dell’ascensore è rivestita dalle ceramiche di Lucio del Pezzo (Stagioni, 2003). Il pavimento di via Marsicano, poi, istoriato a rilievo da Luigi Serafini, è inaccessibile a bambini, anziani, portatori di handicap. La stazione Salvator Rosa, invece, è assai più ambiziosa, con due uscite, a monte e a valle. Nella prima, una scatola marmorea cinta da archi colorati rialzati, la stazione vera e propria, è parte di un insieme urbano stilisticamente composito: gli archi autentici di un vecchio ponte romano, ristrutturati e ‘integrati’, una cappella ottocentesca recuperata a piccolo museo, una scala mobile high-tech sovradimensionata che conduce al parco con le Sculture ludiche (2001) di Mimmo e Salvatore Paladino, mentre i palazzi circostanti sono decorati con i mosaici policromi di Renato Barisani, Mimmo Rotella, Gianni Pisani, Ernesto Tatafiore. Un obelisco analogo al precedente e uno più piccolo sul tetto della stazione coronano l’insieme. A valle, invece, un altro obelisco, fasciato dalle sculture di Enzo Cucchi, facciata con decorazioni musive auree di Mimmo Paladino e una bella aiuola tempestata di mosaici e abitata dal Pulcinella di Lello Esposito (Eccomi qui, 1993).
Se, dunque, postmoderno, kitsch e transavanguardia trionfano all’esterno, le opere dislocate nei sotterranei, destinate prevalentemente a cittadini frettolosi e distratti, offrono un panorama più ampio e differenziato, con maestri consacrati, giovani, soprattutto napoletani, e fotografi. Se opere troppo discrete, perfettamente mimetizzate, rischierebbero di passare inosservate, altre, troppo eccentriche e accattivanti, catturando l’attenzione del passante, lo costringerebbero a rallentare la corsa. Tra i due eccessi si situa la gamma delle opere ben allocate negli atri, lungo i percorsi di uscita, di collegamento con le altre stazioni, le banchine dei treni, sopra le scale mobili. Prevalgono quelle a parete; più esiguo il novero delle sculture, tra le quali spiccano la selva di stalagmiti coloratissime di LeWitt, già vittima della fuliggine (Splotch. Non geometric form # 8, 2002), i solidi neri di Ettore Spalletti (Colonna persa, 2003), le FIAT 500 di Emiliano Perino e Luca Vele (A subway è chiù sicura, 2001). Le stazioni più riuscite sono certamente Dante, Vanvitelli e Rione Alto. Nella prima, dove ci accoglie la parete musiva coloratissima di Nicola De Maria (Universo senza bombe, regno dei fiori, 7 angeli rossi, 2001), si distinguono nell’atrio le scritte al neon di Kosuth tratte dal Convivio di Dante (Quelle cose visibili, 2001), mentre lo specchio caleidoscopico di Pistoletto con il profilo del bacino mediterraneo (Intermediterraneo, 2001) sovrasta la scala mobile che culmina nella parete di ferro di Kounellis, su cui traversine dello stesso materiale serrano una moltitudine di scarpe (Senza titolo, 2001). Il pannello nero di Carlo Alfano nell’atrio, invece, solcato da una smagliatura diagonale, è purtroppo soffocato tra bar e chioschi e dunque invisibile (Luce – grigio, 1982). L’ampio ma compatto spazio della stazione Vanvitelli (ristrutturata da Lorenzo e Michele Capobianco, 2005), attraversato da due scale mobili a cielo aperto e da una scalinata centrale, ospita opere di grande qualità e perfettamente ambientate. Due stelle di Zorio (Le stelle, che siano di buon auspicio per un felice viaggio, 2005), una vuota con tanto di giavellotto e una campita da una rete, fiancheggiano le scale mobili, mentre la straordinaria spirale al neon blu di Merz (Senza titolo, 2003) sul soffitto della scalinata, accelerata dalla serie numerica di Fibonacci, evoca il groviglio al neon di Fontana sullo scalone della Triennale di Milano del 1951. L’opera di Merz prosegue sulla parete verticale di fondo con una sequenza di animali preistorici, trafitti da altri numeri al neon della stessa serie. Se le foto sfocate di Olivo Barbieri (Napoli 2005, 2005) e quelle lucide e a fuoco di Gabriele Basilico (Napoli 2005, 2005), tutte a soggetto napoletano, convivono in sequenza sulla stessa parete, inedito è il lavoro di Paolini: un enorme masso sospeso è visibile dietro una vetrina ridotta in frantumi dallo stesso protagonista dell’impossibile esposizione (Off limits, 2005). Poche ma efficaci le opere a Rione Alto: gli autoritratti fotografici di Katharina Sieverding (Die Sonne um Mitternacht schauen, 1973); i pannelli Rem e Jsr (2002) di Giovanna Bianco e Pino Valente sul soffitto delle scale mobili e, soprattutto, i Wall drawings (2002) di David Tremlett con figure geometriche dai colori terrosi che si intersecano. A questi ultimi fanno da contraltare, nella stazione Materdei, quelli dalla geometria più rigorosa e dai colori squillanti e fondamentali di LeWitt che si dispiegano su due pareti affrontate (Wall drawings # 1092, 2002). All’interno della stazione Museo, infine, importante snodo di collegamento con la linea 2, la stazione di piazza Cavour e il Museo Archeologico, s’incontrano lungo il percorso: un calco in bronzo della testa Carafa, la copia dell’Ercole Farnese, quella in bronzo del Laocoonte riecheggiata nelle fotografie retrostanti di Mimmo Jodice (Laocoonte, 2005) e, soprattutto, la sala di passaggio al museo dove sono magistralmente allestiti i reperti recuperati nel corso degli scavi.
Artisti e architetti
Se i numerosi casi di arte disseminata sul territorio – dalla rassegna Arte all’Arte, che dal 1996 coinvolge annualmente i comuni toscani di Poggibonsi, San Gimignano, Volterra, Colle di Val d’Elsa, Casole d’Elsa e Montalcino, sostenuta da istituzioni e aziende industriali e artigianali, a Tuscia electa, che interessa invece nove comuni nella zona del Chianti tra Firenze e Siena, a Dopopaesaggio, sempre in Toscana, anche queste ultime nate nel 1996 – ripropongono sostanzialmente tipologie e tematiche già affrontate relativamente alla scena urbana, concludiamo con il caso in cui artisti e architetti, anziché contendersi la primogenitura, si scambiano reciprocamente i ruoli. Due soli esempi. Acconci, in primo luogo, che nel 1988 ha costituito con un gruppo di architetti l’Acconci Studio per dedicarsi alla progettazione di spazi pubblici, strade e piazze, parchi e giardini, nodi viari e percorsi di circolazione, oltre a scuole, musei, centri comunitari. Con lo spirito di cambiare, complicare, moltiplicare spazi e funzioni. «Sbucciare, torcere, capovolgere, invertire interno ed esterno, dispiegare» (Intervista a Vito Acconci, a cura di E. Carlini, «Artland», http://architettura.supereva.com/artland/20020624/index.htm, 11 febbraio 2010), questa la me-todologia progettuale dello Studio. Con lo stesso spirito di House of cars e di Mobile linear city, la Bad dream house (1984) è composta da tre case che si scontrano, una capovolta, le altre due adagiate su un fianco o sulla falda del tetto; con pavimento e soffitto intercambiabili. Costante nel lavoro di Acconci rimane comunque la collocazione del corpo all’interno di una situazione piuttosto che all’esterno: «In che modo il corpo ha mantenuto la sua presenza nelle mie opere? Forse attraverso una sorta di close-up space, uno spazio ravvicinato, la nostra tendenza è di non considerare lo spazio come luogo della visione bensì come contesto dove ci si ritrova immersi, un luogo tangibile» (Intervista a Vito Acconci). Dichiarazione preziosa per chiunque si avvicini al tavolo da disegno. Moltissimi gli esempi possibili, dalla replica della sala centrale del MAK (Museum für Angewandte Kunst; 1933) di Vienna, inclinata in modo che ‘il museo caduto diventi paesaggio’, alla ristrutturazione (1993) della facciata dello Storefront for art and architecture a New York, insieme a Steven Holl; dal progetto del cortile di una scuola elementare nel Bronx (School of the ground, 1996), i cui muri sono replicati, ruotati e buttati a terra in modo che i bambini possano calpestarli e giocarci sopra, al parco per skateboard ad Avignone, vicino a una vecchia fabbrica, dove, nella proiezione dell’interno all’esterno, le colonne si mescolano con il pavimento, il pavimento con le pareti, i muri si gonfiano, si sollevano e abbassano per creare piste a diverse altezze (il progetto, elaborato tra il 1999 e il 2000, non è mai stato realizzato). Nel 2003, a Graz, allora Capitale europea della cultura, Acconci ha costruito un’isola sul fiume Mur per collegarne le sponde. Due gusci, uno concavo per ospitare un teatro e uno convesso dove ha sede un caffè, entrambi di acciaio e cristallo, sono collegati tra loro da una membrana elastica e alle sponde con due ponti che penetrano i gusci ad altezze diverse e con angolazioni differenti. L’anno successivo, a Milano, lo Studio ha ipotizzato invece di anteporre alla facciata stereometrica di una ex fabbrica ristrutturata una seconda pelle in rete metallica che si snoda con diverse ondulazioni (iniziata nel 2005, non è mai stata completata).
Il secondo caso è invece Gibellina, cittadina della valle del Belice distrutta dal terremoto del 1968, ora città d’arte, ma non nel senso comune del termine. Qui, infatti, per la prima volta, l’arte ha tentato di supplire all’assenza di pianificazione urbanistica. Grazie al mecenatismo del sindaco, Ludovico Corrao, artisti e scultori sono accorsi da tutta Italia per contribuire alla sua rinascita culturale e spirituale. Gibellina è diventata il simbolo della possibilità di reagire alle calamità naturali, alla paralisi burocratica e mafio-sa. Alberto Burri (1915-1995) ha ricoperto il cumulo di macerie del vecchio insediamento con un grande cretto bianco le cui crepe gigantesche riprendono i percorsi del vecchio tessuto urbano (Grande cretto, 1989). L’opera, di grande impatto visivo ed emotivo, suscita però qualche perplessità, sul piano etico non meno che su quello estetico. Se l’intento era preservare la memoria, perché seppellire quelle macerie sotto una coltre di cemento? Percorrere poi quei sentieri freddi e deserti ha un che di spettrale, ben lontano dall’animazione del centro antico. Se passiamo ora alla nuova Gibellina, l’idea è vincere l’anonimato del piano regolatore dell’ISES (Istituto per lo Sviluppo dell’Edilizia Sociale) con opere artistiche e architettoniche. Se tra le ultime spiccano la chiesa Madre (progettata nel 1972, realizzata nel 1985) di Ludovico Quaroni (1911-1987) e le ‘cinque piazze’ faraoniche (1982) di Franco Purini, le opere d’arte ricalcano i percorsi sin qui tracciati: sculture, dal sacrario ai caduti (1986) di Giuseppe Uncini al labirinto (1982) di Nino Franchina, sculture-architetture utili e fruibili come quelle ‘frontali’ (1976-1996) di Consagra. Indipendentemente dalla qualità di molte di esse, le opere restano nel complesso episodiche, isolate e smarrite. L’idea che, in assenza di un piano, senza la concertazione con architetti, urbanisti e popolazione, gli artisti possano dare un nuovo volto alla città, è illusoria e fallimentare; così, un’occasione unica e irripetibile è andata sprecata. Se l’architetto Pierluigi Nicolin, deus ex machina dell’operazione, dichiara: «mentre si moltiplicano gli interventi puntuali con opere di ‘qualità’, continua a mancare un’idea della città stessa; questo fatto ci ricorda che tanti edifici non possono da soli fare la città» (Tra le due città, in Dopo il terremoto, a cura di P. Nicolin, «Quaderni di Lotus», 1983, 2, p. 21), l’artista Achille Perilli parla di ‘collage di esperienze senza collante’ e Buren sostiene che «gli artisti non possono essere usati per fornire un piccolo contributo alla consapevolezza che la condizione urbana è oggi disastrosa e totalmente disumanizzata» (Can art get down from its pedestal and rise to street level?, p. 506). Così, artisti e architetti sono finalmente d’accordo, almeno su ciò che non si deve fare. Per il resto, il tentativo di queste pagine di dimostrare alcuni assunti non ha fatto che moltiplicare interrogativi, dubbi, perplessità.
Bibliografia
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Il luogo [non] comune. Arte, spazio pubblico ed estetica urbana in Europa, a cura di B. Pietromarchi, Roma-Barcelona 2005.
Participation, ed. C. Bishop, Cambridge (Mass.) - London 2006.
M. Costanzo, Museo fuori dal museo. Nuovi luoghi e nuovi spazi per l’arte contemporanea, Milano 2007
Skulptur Projekte Münster 07, hrsg. B. Franzen, K. König, C. Plath, Köln 2007 (catalogo della mostra).