Arti marziali
La denominazione arti marziali comprende un ampio numero di discipline di combattimento e autodifesa, prevalentemente di origine orientale. Si ritiene, infatti, che le arti marziali, intese come sistema di studio delle tecniche belliche e allenamento del corpo, siano nate tra l'India e la Cina e si siano di qui diffuse in altre regioni dell'Asia. Notizie documentate sulle discipline marziali in Cina trapelano dalle descrizioni delle prime guerre tribali, al tempo del leggendario Imperatore Giallo (2697-2597 a.C.). Nel periodo della dinastia Zhou (11° secolo-221 a.C.), le tecniche a mani nude e il tiro con l'arco furono catalogati tra le discipline da guerra, accanto all'utilizzo dei carri trainati da cavalli. Guardando con attenzione alle testimonianze risalenti ai primi periodi della storia cinese documentata, si nota già un'importante distinzione tra le arti marziali e la lotta comune. Tale distinzione non riguarda il campo di applicazione o le tecniche usate, quanto piuttosto lo scopo a cui esse sono rivolte; le arti marziali, infatti, erano considerate come facenti parte di un sistema globale di educazione non solo militare, avente per scopo finale la trasformazione radicale dell'allievo. Per questa ragione, in tutte le diverse culture in cui si sono poi sviluppate, le arti marziali sono state sempre considerate uno strumento di crescita morale e spirituale, con una concezione non dissimile dall'ideale di atleta nella Grecia antica o dai codici cavallereschi del nostro Medioevo. Secondo lo stesso principio, in Cina, a partire dalla dinastia Tang (618-907 d.C.), ufficiali e soldati venivano formati secondo l'etica e le tecniche delle arti marziali.
Oltre alle 29 principali discipline di origine cinese, giapponese, coreana, vietnamita, thailandese, indonesiana e brasiliana qui analizzate, nel mondo se ne annoverano altre centinaia: soltanto per il kung-fu in Cina sono registrati più di cento stili diversi.
Due sono i concetti che regolano l'aikido: l'unione dell'energia individuale con l'energia dell'universo e il senso dell'equilibrio. Per unione delle due energie (ki), individuale e cosmica, si deve intendere uno stile di vita in totale sintonia con sé stessi, con gli uomini e la natura, ovvero secondo i principi supremi del buddhismo e del taoismo. Infatti, tra le arti marziali giapponesi, l'aikido è quella che più ha subito e conservato intatta l'influenza delle discipline spirituali orientali, che ne sono diventate parte integrante anche nello studio delle tecniche.
Secondo il suo fondatore Morihei Ueshiba (1883-1969), la vera forza del budo (nella tradizione millenaria delle arti marziali la 'via del combattimento') è l'amore spirituale. Quindi, lo scopo ultimo non è vincere l'avversario, ma arrivare a una completa realizzazione individuale (satori), sentirsi in armonia con l'Universo e promuovere questa consapevolezza negli altri. Sulla base di questi principi Ueshiba, dopo una lunga formazione in altre arti marziali come il ju jitsu della scuola Kito, il kenjutsu (arte della spada), il daitoryu aikijujutsu e il kendo, e dopo aver cercato conforto e sostegno spirituale nell'Omoto-kyo ‒ una setta religiosa shinto che considera Dio "come lo spirito che pervade tutto l'universo e l'uomo il suo ministro che governa il cielo e la terra" ‒ ha codificato, verosimilmente nel 1925, un'arte marziale basata esclusivamente sulla difesa, dove si controlla la forza dell'avversario attraverso i movimenti e i principi dell'energia individuale e cosmica. Così è nato l'aikido (ai "unione"; ki "energia"; do "via", quindi "la via per conseguire l'unione dell'energia"), oggi guidato a livello mondiale dal figlio di Ueshiba, Moriteru, erede del ruolo per linea dinastica. Tra i maestri più importanti a livello internazionale sono da ricordare il defunto Morihiro Saito, che apprese l'aikido proprio a Iwama, nel villaggio in cui Ueshiba si era ritirato, e fu caposcuola dello stile dell'Iwama ryu, ovvero la versione più tradizionale e fedele a quella codificata dal fondatore. Gli altri stili più diffusi sono lo yoshinkan aikido del maestro Gozo Shioda, il shinshin toitsu aikido di Koichi Tohei, il tomiki aikido di Kenji Tomiki e lo yoseikan aikido di Minoru Mochizuki. In Italia, il massimo esponente dell'Iwama ryu è Paolo Nicola Corallini, presidente e direttore tecnico dell'Iwama ryu Italy, e dal 1994 consulente tecnico nazionale per l'aikido della FIJLKAM (Federazione italiana judo, lotta, karate, arti marziali), aderente al CONI. In Italia i praticanti sono circa 8000, mentre nel mondo sono circa un milione.
Contrariamente alle altre arti marziali, nell'aikido non si applicano tecniche di pugno o di calcio, ma solo leve e proiezioni che, sfruttando la forza dell'avversario, mirano a neutralizzarlo. L'annientamento delle intenzioni bellicose dell'aggressore avviene attraverso movimenti circolari, repentini cambi di direzione e dolorosissime pressioni sui punti vitali (atemi) poiché, per eseguire correttamente le tecniche di aikido, a un attacco portato con forza non si deve rispondere con altrettanta potenza fisica, ma occorre applicare il potere dell'energia interna concentrata nel centro vitale: l'hara (che fisicamente coincide con il tanden, punto situato tre dita sotto l'ombelico). Entra allora in gioco il secondo principio fondamentale dell'aikido: il senso dell'equilibrio, inteso come il punto di massima energia vitale attraverso cui eseguire le tecniche senza perdere la protezione della propria guardia e rimanendo radicati al suolo.
La difficoltà maggiore di quest'arte risiede non nell'eseguire le tecniche con la pur necessaria coordinazione tra braccia e gambe, ma nel muovere gli arti sbilanciando l'avversario con la propria energia interna. Le tecniche sono composte da immobilizzazioni (katame-waza) e proiezioni (nage-waza), da prese ai polsi, alle braccia, alle spalle o in qualsiasi altra parte del corpo e vengono eseguite tramite diverse azioni variamente finalizzate (irimi e tenkan, ossia, genericamente, entrata e uscita), che si avvalgono di tipi di spostamento differenti (per es. tai-no shintai, camminare normalmente, taisabaki, movimento circolare e rotatorio). Gli stessi principi e azioni vengono poi applicati anche ad attacchi portati con armi, come coltelli (tanto), bastoni (jo) e spade (ken). Fra le centinaia di tecniche di proiezione, una particolare è quella che agisce sulle articolazioni (soprattutto spalle, braccia, polsi e mani), sollevando da terra l'avversario e lanciandolo ad alcuni metri di distanza. Queste tecniche seguono soprattutto linee circolari, perché con i movimenti rotatori si riesce meglio ad annullare la forza d'attacco dell'avversario. Sfruttando l'energia interna, i migliori maestri riescono a proiettare l'aggressore con pochissimo sforzo fisico. Le proiezioni, che fanno parte del bagaglio tecnico anche di altre arti marziali come il judo, il ju jitsu e il kung-fu, sono tecniche particolarmente indicate per la difesa personale, ma l'automatismo del movimento e quindi l'efficacia dell'azione non sono immediati e richiedono diversi anni d'allenamento. Da ricordare anche gli irimi (spostamenti con entrata), che mirano a prendere il controllo del baricentro dell'avversario. Queste tecniche agiscono fisicamente al di là degli arti superiori e lo scambio energetico avviene sull'asse principale. Così, oltre a favorire la presa di coscienza del centro dell'energia vitale, la mobilità interna contribuisce a far diminuire le tensioni di tutta la struttura psicosomatica. Per eseguire correttamente una proiezione occorre poi tenere presente che la situazione è in ogni istante in imprevedibile evoluzione. La chiave del successo dipende quindi anche dal controllo del processo di cambiamento.
La capoeira è una disciplina nata e sviluppata durante il periodo della schiavitù in Brasile. È una danza rituale, un gioco e al tempo stesso un'arte marziale caratterizzata dall'uso funambolico dei calci. La nascita non è databile con precisione perché, dopo il 1888, quando nelle colonie portoghesi fu abolita la schiavitù, l'amministrazione coloniale distrusse tutti i documenti relativi al periodo precedente, specialmente quelli che riguardavano le pratiche schiavistiche. Le teorie sul significato del nome sono varie: capoeira in portoghese vuole dire "pollaio", mentre nell'idioma amerindio delle popolazioni Tupi Guarani indica un bosco di basso ramaggio; altri autori sostengono invece che il termine derivi dalla parola kipura, che nel dialetto africano kikongo significa "svolazzare", ma anche "combattere", se riferito ai galli da combattimento. Incerte sono anche le origini, che una delle teorie più accreditate collega a un rito iniziatico africano per gli adolescenti che si accingevano a entrare nella società degli adulti. Al fine di dare pubblica prova di forza fisica e astuzia che ne attestasse l'entrata nella virilità, i ragazzi si esibivano davanti alla comunità scalciando e compiendo movimenti acrobatici zoomorfi alla maniera di una zebra, da cui il nome di 'danza della zebra' attribuito al rito. In Brasile, dove le navi degli schiavisti, provenienti dall'Angola, approdavano direttamente sulla costa del Nord-Est, nel porto di Salvador de Bahia, le comunità africane crearono questo gioco a due (dove entrambi i contendenti erano chiamati a dimostrare la propria abilità fisica e tattica), fondendo gli antichi riti guerrieri, i canti e le danze tribali con lo spirito di ribellione che nasceva dalla situazione coercitiva. Tale forma di autodifesa e di lotta si arricchì di tecniche più elaborate quando, verso la fine del 1600, gruppi di schiavi fuggiti dalle piantagioni si rifugiarono sulle montagne dando vita a villaggi autonomi multietnici, detti quilombos. La capoeira fu associata alla rivolta degli schiavi e dunque valutata pericolosa per l'ordine pubblico; per questo motivo la sua pratica fu vietata fino al 1888. Intorno al 1930 fu legalizzata e si fece conoscere come patrimonio folcloristico brasiliano. A tale riguardo va soprattutto ricordato il notevole apporto di due grandi maestri: Bimba (Manuel dos Reis Machado) e Pastinha (Vicente Joaquim Ferreira Pastinha). Ancora oggi la capoeira che viene insegnata deriva dalla loro sistematizzazione.
La capoeira è un gioco che nasce dalla lotta, mimetizzata sotto forma di danza per ragioni di sopravvivenza che imponevano segretezza, un gioco di astuzia e abilità, dove l'agilità non è tutto. Nata dalla ribellione verso una condizione di sfruttamento e sottomissione, si è sviluppata in una società estremamente violenta. Proprio per questo è intrisa di valori lontanissimi da logiche di intrattenimento. Nella cultura della capoeira è presente una forte spinta alla competizione e al tempo stesso il giusto riconoscimento verso chi si è battuto con coraggio e lealtà. Il suo valore centrale è l'amore che nasce dalla sofferenza e dal rapporto con gli altri.
La capoeira può essere praticata ovunque, su qualsiasi superficie, più o meno liscia o dura, all'interno di una struttura sportiva polivalente oppure in vere e proprie 'accademie'. L'abbigliamento è bianco (il colore tradizionale) ma è possibile incontrare scuole che adottano altri colori. In ogni caso è costituito da una maglietta, un paio di pantaloni e scarpe comode e leggere.
L'attività si svolge al ritmo di musica con un rituale preciso, all'interno di una roda (ruota o cerchio) formata da un insieme di persone sedute in circolo per delimitare lo spazio di azione dei lottatori. Nel perimetro della roda trova posto una batteria musicale composta da tre birimbao centrali (viola, medio, gunga) che determinano il ritmo; all'estrema destra del trio vi sono vari tipi di strumenti a percussione: pandeiro, agogò, reco-reco. All'estrema sinistra altri pandeiro e congas (originariamente atabaque). In questa batteria il birimbao viene considerato uno strumento sacro: solitamente è il suonatore del birimbao centrale a intonare il canto (ladainha) che dà inizio alla lotta. Lo stesso strumento sarà quello che determinerà il ritmo della lotta, il tipo di canzone da cantare (saudação, corrido, chula) e la fine della roda. L'abilità del suonatore di birimbao è quella di dare energia alla batteria musicale e ai due lottatori. I capoeiristi esperti intonano spesso canzoni che hanno a che fare con quanto sta avvenendo fra i lottatori. Tutti comunque sono chiamati a partecipare sia con percussioni, sia con la sola voce, per dare energia (axè) alla roda stessa. Intanto i giocatori, a due a due, si affrontano all'interno del cerchio.
Non esistono regole ma c'è una disciplina che insegna a difendersi e contrattaccare attraverso sequenze, colpi, spostamenti, scherzi, acrobazie. Non sono previsti movimenti obbligati: bisogna creare gioco con il proprio avversario combinando intelligenza e creatività. Tuttavia, a differenza di molte altre arti marziali, non esistono parate ma solo accompagnamenti del movimento che colpisce. Il gioco può essere interrotto da uno dei due giocatori attraverso una chamada de angola: questa permette di prendere fiato, guadagnare tempo, cambiare gioco, riequilibrare l'energia. La strategia per affrontare un avversario viene elaborata considerando le caratteristiche fisiche, le sue presumibili doti di potenza e lo spazio di gioco. Per questo ogni avversario corrisponde a un gioco diverso. Il suo passo base è la ginga da cui partono i colpi di difesa, di attacco e di contrattacco. Si tratta di un movimento continuo che coinvolge tutto il corpo: dallo sguardo, alle mani che difendono, ai piedi che scivolano mantenendo una base sempre solida, ancorata alla terra. Tuttavia l'arte si pratica essenzialmente con calci; gli arti superiori sono usati per eseguire ruote e verticali. Esistono finte, schivate e scherzi per distrarre l'avversario. Ogni lezione è sempre diversa. La roda è il momento in cui si mette in pratica l'apprendimento. Le manifestazioni tipiche di capoeira solitamente vengono organizzate dai maestri in occasione della presentazione dei loro allievi. Questi eventi (batezados) sono occasioni di incontro fra le varie scuole.
L'unico paese in cui la capoeira viene praticata a livello agonistico è il Brasile dove dal 1974 è il secondo sport nazionale, dopo il calcio. Le organizzazioni ufficiali di riferimento sono l'ABRAC (Associação brasileira de capoeira) e la FCDRJ (Federação desportiva de capoeira de Rio de Janeiro), mentre non esiste una Federazione internazionale, anche se questa disciplina è praticata in quasi tutto il mondo da decine di milioni di persone. In Italia opera l'Associazione italiana di capoeira (dal 2003 Associazione italiana capoeira Angola), fondata nel 1991 da Luiz Martins de Oliveira.
Se si vuole risalire al significato originario delle arti marziali, ossia della pura difesa personale, l'arte marziale coreana hapkido risulta sicuramente una disciplina estremamente completa ed efficace. Il suo nome deriva da hap " unione", ki "energia", do "via", e significa quindi "la via per l'unione delle energie" o "il metodo per armonizzare la propria energia" con quelle dell'avversario.
L'hapkido si è sviluppato verso la metà del 20° secolo dalla combinazione di differenti arti marziali tradizionali, anche se gran parte del bagaglio tecnico deriva dal daito ryu aikijujiutsu, un'arte marziale giapponese reinterpretata e integrata con numerose tecniche di discipline coreane. Le origini si fanno risalire a 13 secoli fa, quando in Corea durante la dinastia Silla ogni re raccolse intorno a sé un gruppo di giovani nobiluomini coraggiosi duramente addestrati a uccidere a mani nude. Queste guardie reali, conosciute con il nome di Hwarang, diedero vita allo hwa rang do. Successivamente, durante la dinastia Yi, molte di esse, costrette all'esilio, si rifugiarono in monasteri isolati nelle montagne coreane, dove per 500 anni i monaci appresero e perfezionarono questo patrimonio tecnico sviluppando propri stili di combattimento.
Il moderno hapkido deriva dall'evoluzione dello yawara, lo stile di arti marziali che il maestro coreano Choi Yong Sul (1904-1986) ‒ rimasto per trent'anni in Giappone dove apprese l'aikijujiutsu dal maestro Takeda ‒ iniziò a insegnare al suo rientro in Corea. Verso la fine degli anni Cinquanta, alcuni dei migliori allievi di Choi diedero nuovi contributi alla disciplina. In particolare Jin Han Jae arricchì il bagaglio tecnico con gli insegnamenti del monaco taoista Lee, dal quale imparò le tecniche d'armi e l'utilizzo dei calci in puro stile coreano, fino a creare un proprio stile di arti marziali, il Sin Moo Hapkido. In seguito Myung Jae Nam, un altro allievo di Choi, diede vita a un altro stile di hapkido particolarmente vicino all'aikido tradizionale giapponese, l'han ki do.
L'hapkido è caratterizzato da un vasto insieme di tecniche: le leve articolari sono influenzate dall'aikijitsu, le tecniche di calcio (ch'a-gi) hanno evidenti similitudini con il taik kyun, mentre le percussioni sui punti vitali sono di chiara matrice cinese. In quanto arte marziale eclettica, si è sviluppata in differenti stili. Quelli attualmente raggruppati dalla Korea kido association, fondata in Corea nel 1963 da Choi Yong Sul al fine di controllare gli insegnamenti e i requisiti delle cinture nere di arti marziali, sono 33. Jin Han Jae, che all'inizio ha partecipato attivamente alla nascita della Korea kido association, nel 1965 ha fondato la Korea hapkido association (oggi Korea hapkido federation), riconosciuta dal governo coreano e dedicata alla conservazione dell'hapkido tradizionale.
Il paese occidentale dove l'hapkido ha maggiore diffusione sono gli Stati Uniti. Uno dei primi istruttori coreani di hapkido ad andare in America è stato Ki Jun Lee nel 1957. Nel 1971 un suo allievo, l'americano James S. Benko, ha fondato l'International hapkido federation, assai diffusa nel mondo. Nel 1990 è stata fondata la World kido federation, che si occupa di seguire tutti i praticanti di arti marziali coreane nel mondo e il cui presidente è Hin Sun Seo. Nel 1992 John Pellegrini ha fondato l'International combat hapkido federation. Frutto di oltre trent'anni di studi e applicazioni di diverse arti marziali, fra cui l'hapkido, il tae kwon do e il jeet kune do, il combat hapkido si propone come scienza della difesa personale, escludendo ogni implicazione sportiva o agonistica; il fine di ogni tecnica è avere il massimo controllo e poter infliggere il massimo danno all'aggressore con il minimo dispendio di energie.
In Italia l'hapkido, pur introdotto solo di recente, ha una buona diffusione. Se ne occupano tre principali federazioni: la Europe hapkido vale tudo organization, diretta da Alessio Peluso, esperto di difesa personale e campione di lotta grecoromana e libera, fa capo all'International hapkido federation; la Federazione italiana hapkido, nata nel 2000, ha come direttore tecnico nazionale Giampiero Leonardi e fa riferimento all'International dae-myung moo-do federation; infine Dante Agostini, esperto di difesa personale, tae kwon do e ju-jitsu, allievo di John Pellegrini, è stato nominato responsabile italiano ed europeo del combat hapkido.
I principi filosofici di questa disciplina si possono racchiudere in tre concetti fondamentali, che derivano dalla filosofia asiatica: teoria dell'armonia (hwa), teoria dell'acqua (yu) e teoria del cerchio (wõn). Il primo obiettivo è quello di armonizzare la mente, il corpo e lo spirito con l'ambiente circostante, perché quando tutti questi elementi operano in completa armonia la tecnica diviene fluida e istintiva. Il riferimento all'acqua riporta all'idea della dolcezza, dello scorrere come un ruscello, ma non esclude una grande capacità di energia, come nel caso di una cascata. Secondo questo concetto, un praticante di hapkido non tenderà a fermare un attacco con la forza, ma cercherà piuttosto di far fluire l'energia dell'aggressore per unirla alla propria e utilizzarla a proprio favore. Il concetto del cerchio si manifesta in tutte le tecniche di hapkido, poiché tanto i colpi quanto le leve e le proiezioni prevedono un movimento rotatorio.
L'obiettivo di chi pratica hapkido è quello di sapersi difendere, in ogni situazione possibile, da uno o anche più aggressori. Sono previste sia tecniche dure, di rottura, sia tecniche morbide, rotatorie; in tutte risulta fondamentale il ricorso al ki, l'energia interiore. Le tecniche dure comprendono sia i calci, che sono gli stessi utilizzati nel taik kyun, con l'integrazione di calci bassi e spazzate, sia i colpi, dalle parate dure ai pugni (jji-rû-gi). Le tecniche morbide sono volte a sfruttare la forza dell'avversario attraverso leve articolari, proiezioni, squilibri, parate morbide. È previsto anche l'utilizzo di armi, sia attive sia passive; da un lato, infatti, si studia come difendersi da un aggressore armato di un bastone oppure di un'arma da taglio o da fuoco; dall'altro si fa ricorso ad antiche armi coreane per la difesa personale: bastone lungo (jang bong), medio (jung bong) e corto (dan bong), bastone a doppia giuntura (sang jyel) e spada (kal sul). Fondamentale risulta l'applicazione sui punti di pressione per infliggere il massimo dolore all'avversario e immobilizzarlo.
Gli allenamenti sono molto duri. Essendo un'arte marziale completa, ogni istruttore, in base allo stile praticato, tende a sottolineare un aspetto piuttosto che un altro. C'è chi predilige le tecniche di leve articolari, chi le proiezioni e chi le tecniche di calcio. Nel complesso sono state catalogate più di 1100 tecniche, ma ne esistono molte altre, e per arrivare al grado di cintura nera un atleta ne deve conoscere almeno 360.
L'hapkido si pratica in palestre attrezzate di tatami, in quanto sono previste numerose tecniche di proiezione (tõn-ji-gi) e di caduta. Nell'allenamento inoltre si fa uso di protezioni per il corpo, bersagli per l'addestramento ai calci e ai pugni e pesi per il potenziamento fisico. L'uniforme (to-bok) consiste solitamente nella classica casacca utilizzata nelle arti marziali, bianca, nera o bianca a quadri neri a seconda dello stile praticato. Tuttavia, alcune federazioni moderne, soprattutto americane, tendono a far allenare i propri atleti con semplici tute da ginnastica, sottolineando l'aspetto di difesa da strada di questa arte marziale. Per questo motivo non esistono competizioni. Numerose sono invece le manifestazioni in cui i praticanti si esibiscono, principalmente a coppie, nell'esecuzione di tecniche acrobatiche. Questo è l'obiettivo del primo torneo International Sardinia open di hapkido e tae kwon do, che si è svolto a Monti (Sassari) nel marzo 2003.
Sebbene le loro tecniche e la loro filosofia siano tramandate da centinaia di secoli, lo hwa rang do e il tae soo do sono tra le più giovani discipline orientali. Le tecniche dello hwa rang do ("la via dei giovani cavalieri"), infatti, sono state rese pubbliche solo a partire dagli anni Sessanta dalla World hwa rang do association che, presieduta dal fondatore della scuola, Joo Bang Lee, ha come obiettivo principale la selezione e la formazione di istruttori altamente qualificati, capaci di diffondere l'arte scegliendo con grande accuratezza gli allievi successivi. Il programma di studi di Joo Bang Lee è stato realizzato al fine di proteggere l'identità dell'arte e sono state impostate specifiche politiche gestionali per garantire, attraverso la tutela con trademark del nome 'hwa rang do®', la sua integrità e qualità.
Le radici dello hwa rang do si rifanno alle tecniche di combattimento degli Hwarang, cavalieri dell'antica dinastia coreana Silla (4°-9° sec.), denominate Um Yang Kwon e tramandate senza interruzioni per 58 generazioni. La loro origine è tuttavia ancora più antica e risale a circa 5000 anni fa, quando durante il regno Kochusun lo sviluppo di un metodo organizzato di combattimento fu dovuto alla necessità di proteggere il territorio dalle invasioni. Dall'evoluzione di quello esistente, sotto il regno Silla derivò un metodo ancora più raffinato, che si diffuse probabilmente anche nel Giappone dell'epoca influenzando il sistema di combattimento dei samurai e quindi del bushido. La notevole influenza culturale del sistema Hwarang nella tradizione coreana fu dovuta inizialmente al re Chinhung (540 d.C.), egli stesso addestrato nelle file degli Hwarang, che lo introdusse nella struttura militare governativa accrescendone il prestigio e incrementandone gli studi e il livello tecnico. Al regno di Chinhung seguì un periodo di guerre nelle quali furono coinvolti anche i tre regni coreani di Silla, Koguryo, Paekche. Grazie ai guerrieri Hwarang di Silla i tre paesi della penisola coreana furono uniti per la prima volta in un'unica fiorente nazione.
Gli Hwarang, attraverso un duro allenamento mentale, fisico e spirituale, si proponevano come il modello del guerriero cavalleresco dal punto di vista sia culturale sia marziale. Ricevevano insegnamenti riguardanti la religione, la danza, il canto, la letteratura, le arti, la scienza, la strategia di guerra, il tiro con l'arco, la scherma e una molteplicità di tecniche di combattimento che si basavano sul concetto di unità degli opposti tipico dello um-yang (yin-yang). Erano conosciute tecniche a mani nude sia circolari sia lineari, sia per la durezza sia per la morbidezza. Si narra che gli Hwarang fossero in grado di lanciare calci a una velocità tale che i nemici ritenevano trattarsi di attacchi di spada. Inoltre, a completamento del curriculum marziale, dovevano studiare ben 108 armi tradizionali.
Dal 1392 al 1960 le tecniche degli Hwarang, che venivano studiate nelle montagne della Corea, sono state tramandate segretamente da maestro a discepolo. Nel 1942 il monaco Suahm Sunsa (conosciuto anche come Suahm Dosa) iniziò l'insegnamento di tali tecniche ai fratelli Joo Bang Lee e Joo Sang Lee (che allora erano due bambini di quattro e cinque anni), il primo dei quali, nel 1960, rese pubblico questo metodo di combattimento strutturandolo in un programma tecnico diviso in gradi e cinture. La metodologia tramandata da Suahm Dosa, chiamata um yang kwon ("combinazione di morbido e duro"), è suddivisa in quattro parti fondamentali: il nae kong, il wae kong, il moo gi kong e lo shin kong. Il nae kong riguarda i rapporti con la propria energia interna (ki), il cui sviluppo avviene tramite specifiche tecniche di respirazione e meditazione e l'attuazione di particolari esercizi fisici: può essere considerato anche un metodo di crescita spirituale e guarigione. Il wae kong è una sorta di sviluppo all'esterno del nae kong, che rappresenta la codificazione di migliaia di tecniche di combattimento offensive e difensive attuate con tutte le parti del corpo, in particolare parate e deviazioni, calci, proiezioni; il wae kong comprende lo studio di alcuni principi di fisica e anatomia finalizzati alla migliore esecuzione e alla massima efficacia delle tecniche. Il moo gi kong è l'uso di oltre cento armi tradizionali suddivise in varie categorie e l'applicazione delle tecniche a esse relative, mirata al rafforzamento fisico e a ottenere la capacità di impiegare in combattimento anche oggetti comuni. Lo shin kong riguarda le modalità di crescita e miglioramento delle capacità della mente umana (concentrazione, conoscenza di sé, raggiungimento delle massime possibilità di ideazione).
Joo Bang Lee ha codificato anche un'altra arte, il tae soo do, che funge da sistema introduttivo allo hwa rang do. Si è resa necessaria perché il programma di studi è molto complesso e richiede una notevole preparazione di base che un principiante in genere non possiede. Fanno parte del programma i calci circolari e lineari, i colpi con le mani e i blocchi circolari e lineari, le combinazioni di kickboxing, le tecniche elementari di difesa personale, le leve articolari, l'atterramento, la proiezione, la lotta a terra, gli strangolamenti e le armi tradizionali di base come il ssang jyel bong (nunchaku), lo jang bong (bastone lungo) e la jang gum (spada); seguono poi forme con armi, a mani nude, sparring, tecniche fondamentali di acrobatica e di cadute. Quando il praticante raggiunge la cintura nera acquisisce di conseguenza la cintura gialla nello hwa rang do e viene introdotto a uno studio superiore delle tecniche.
Un altro aspetto molto importante delle due discipline è quello relativo alle tecniche di guarigione, che si affiancano agli elementi marziali. Se si è in grado di causare danni all'avversario occorre anche conoscere le tecniche per guarire, che sono divise in sei categorie: ji ap sool (agopressione), chim gu sool (agopuntura), yak bang bop (medicina basata sulle erbe), jup gol sool (intervento sulle ossa), hwal bop (tecniche speciali di intervento) e ki ryuk sool (guarigione tramite l'energia interna).
Lo hwa rang do e il tae soo do possono essere praticati sia su pavimento rigido (come nel karate) sia su materassini (tipici del judo). Per il tae soo do si indossa un kimono leggero (dobok) simile a quello del karate, con la parte superiore nera e quella inferiore bianca. Il dobok dello hwa rang do è più articolato: pantalone nero, una parte superiore bianca e una lunga giacca lucida con impressi i simboli dell'arte e strisce i cui colori cambiano a seconda del grado.
La più grande manifestazione annuale di entrambe le arti marziali si tiene a Los Angeles ogni estate. Si tratta di un torneo che dura alcuni giorni, aperto a tutti, cui fa seguito un seminario di otto giorni per istruttori e maestri, tenuto direttamente da Joo Bang Lee e da suo figlio. Le competizioni prevedono combattimento leggero (light contact), lotta a terra (grappling), combattimento con la spada (kumdo), forme individuali e di squadra.
La sede italiana è presieduta da Marco Mattiucci, allievo diretto del fondatore e con esperienze in diverse altre arti marziali tra cui aikido, ju jitsu e kung-fu.
"Un uomo non ti farà mai vedere la punta della sua spada. Questa è l'essenza della velocità. Neanche il fulmine può esserle pari". Takuan Soho, monaco zen vissuto in Giappone verso la fine del Cinquecento, ma anche calligrafo, pittore, poeta, maestro nell'arte del giardinaggio e del tè, descrive così in uno dei suoi poemi l'abilità verso la quale dovevano tendere i veri samurai, i guerrieri che dell'arte della spada avevano fatto la propria missione. Dopo 500 anni, gli stessi principi che allora governavano le gesta dei grandi guerrieri giapponesi ispirano i praticanti dello iaido (da iru "essere"; ai "accordare"; do "la via", quindi "la via dell'accordo con una spada", ovvero "la via della spada giapponese"), disciplina diffusa in tutto il mondo (soprattutto in Giappone, dove i praticanti sono circa 15.000; in Italia sono circa 400). Anticamente lo iai era chiamato in molti modi diversi che variavano a seconda della scuola: oltre che iai ("stare insieme"), nukiai ("sfoderare in armonia"), zaai ("stare seduti in armonia"), bakken ("sfoderare la spada"), rihô ("modo di fare"), battôjutsu ("arte di sfoderare la spada"). Si trattava in ogni caso di una tecnica di spada per prevalere sull'avversario opponendosi a un suo attacco inaspettato, sfoderando senza un attimo di esitazione e senza dargli l'occasione di prendere il sopravvento.
Secondo alcuni l'origine dello iaido si colloca nell'ultima fase dell'epoca di Nara (710-794), oppure all'inizio dell'epoca Heian (794-1185), ma in generale si può dire che una tecnica della spada fu inventata solo nell'epoca Sengoku (1477-1568), inizialmente nel campo di battaglia per difendersi dall'avversario qualora la lancia (yari) o l'alabarda (naginata) fossero state spezzate o fossero cadute. Non restava in questi casi che sfoderare all'improvviso la spada lunga (tachi), che si portava al fianco, o la spada corta (tantô). In seguito questa ricerca si sviluppò nei vari stili di bujutsu (arte marziale).
Inventore dello iaido sarebbe stato Shigenobu Jinsuke Hayashizaki, il quale studiò profondamente la tecnica della spada per poter vendicare la morte del padre. In seguito inventò delle tecniche, le organizzò in una scuola e le trasmise ai suoi discepoli. Queste tecniche furono chiamate hayashizakiryû (Shinmusôryû o Shigenoburyû). Verso la metà del 18° secolo i maestri Tadaki Ono, Zesuiken Iba, Kanshin Teranishi e soprattutto Chuta Nakanishi idearono delle protezioni adeguate che permettessero una pratica senza pericolo, grazie all'uso di un'armatura in grado di neutralizzare i datotsu (colpi e puntate).
Il cambiamento quasi radicale dei metodi di allenamento, di pratica e di insegnamento, l'utilizzo della protezione e più ancora, nel corso del tempo, di una spada in bambù tagliato a metà, lo shinai, dovevano portare a numerose scissioni all'interno dei dojo: molti allievi, assolutamente contrari a questo nuovo metodo (che avrebbe poi dato vita al kendo moderno, cioè la pratica senza pericolo, con protezioni per il corpo ma soprattutto con la trasformazione dell'arma), abbandonarono i maestri per diventare ronin (samurai o guerrieri senza maestro) e provare le loro tecniche di spada per tutto il Giappone.
Fra la fine dell'era Meiji (1868-1912) e l'inizio dell'era Taisho (1912-1926), lo iaido continuò a essere insegnato, praticato e protetto pressoché segretamente nelle province del Sud, in particolare nella regione di Tosa, anche se alcune ryu ha ancora esistevano nelle altre regioni del Giappone. A Tosa si è diretto per perfezionare il suo studio della via della spada Hansi Hakudo Nakayama (1869-1958), grazie al quale la disciplina negli anni Trenta ha iniziato a diventare popolare in tutto il Giappone.
Lo iaido ha un fascino molto particolare. I suoi adepti si allenano ore e ore per imparare a maneggiare la spada (katana) nel modo più corretto, avendo come unico obiettivo lo sferrare un solo colpo. L'arte consiste infatti nell'anticipare o respingere un'aggressione per difendersi, tagliare e colpire di punta. Non si prospetta che la vittoria, conseguita peraltro attraverso una grande diversità di applicazioni. La suprema abilità dei samurai era quella di non estrarre la katana e vincere il combattimento senza combattere, facendo capire all'avversario, solo con la propria energia, che non avrebbe avuto scampo e che quindi era inutile che mettesse a repentaglio la vita.
L'uso e l'applicazione dello iaido e delle sue waza (tecniche) si basano su di un sistema di anticipazione, di difesa e di risposta in funzione dell'attacco immaginato di uno o più avversari, del maai (distanza), del te no uchi (presa dell'impugnatura della spada), del nuki tsuke (estrazione e taglio in un solo gesto), del kiri tsuke (taglio finale), dello tsuki (colpo di punta) e dell'hasuji (direzione del taglio della lama).
Anticamente, fin dalla prima lezione si usava una spada vera. Oggi si preferisce iniziare con il boken, una spada di legno, per poi passare rapidamente all'utilizzo di uno iaito, che è uguale alla katana in tutti i suoi componenti tranne che nella lama, che non è affilata. Dopo alcuni anni si passa allo shinken (katana forgiata per lo iaido), la cui lunghezza può variare da 66 a oltre 80 cm e di peso di circa 1 kg. Il modo corretto di sganciarla deve essere impercettibile all'avversario e per questo il movimento viene eseguito in modo lento, spingendo l'elsa in avanti con il pollice sinistro. La velocità all'atto dello sfoderare è moderata, poi cambia improvvisamente e diventa elevata. È importante essere in anticipo sull'avversario. Dopo aver colpito si rinfodera tranquillamente e con sicurezza.
Nelle palestre di iaido, oggi, l'antico spirito guerriero viene rivissuto attraverso la ripetizione estenuante delle stesse poche tecniche, ovviamente senza avversario, soli contro la propria ombra, per essere sempre più veloci. Dopo un breve riscaldamento, durante la lezione si eseguono gli esercizi di base e le forme, brevi sequenze di movimenti, una quarantina in tutto, che racchiudono il significato dello iaido. Ripetere sempre la stessa azione consente al fisico di assimilare la tecnica per poterla esprimere nel modo più corretto possibile. La mente così si libera e ci si può concentrare sul vero significato dell'arte.
Le azioni di base sono quattro: estrarre, colpire, pulire la spada e rinfoderare. L'estrazione della spada è la fase più importante e può essere eseguita anche contemporaneamente a una tecnica di parata. Colpire l'avversario con un taglio netto, verticale od obliquo, dalla testa allo stomaco, è poi l'obiettivo dell'azione. La terza e la quarta tecnica fanno invece parte del cerimoniale, anche se mentre si pulisce la spada e la si rinfodera l'attenzione sull'obiettivo non deve mai diminuire. Come regola generale, in ogni tecnica l'azione inizia quando si è completata l'inspirazione del terzo respiro ed è consigliabile completare la tecnica in un solo respiro. Se questo non è possibile, allora si deve fare in modo che l'avversario non avverta la ripresa di fiato.
Il praticante di iaido veste con una hakama, una gonna pantalone con cinque ampie pieghe sul davanti, un keikogi, una casacca simile a quella del judo ma di stoffa più leggera, sotto la quale si porta una canottiera bianca di taglio simile al keikogi. Intorno alla vita viene avvolto un obi, una cintura di stoffa molto lunga che serve a sostenere il fodero della spada.
Nel 1948 venne creata la Zen Nihon Iaido Renmei ("Federazione di iaido di tutto il Giappone"), nata dalla fusione di diverse associazioni di budo, mentre la Federazione di kendo di tutto il Giappone (Zen Nihon Kendo Renmei) fu creata nel 1952 e lo iaido fu annesso in seguito. Nel 1966 ebbe luogo la prima riunione di iaido di tutto il Giappone. Nel maggio 1968 fu costituito il Seitei Iai. In Italia lo iaido è promosso dalla Confederazione italiana kendo, iaido e jodo, della quale è responsabile tecnico nazionale Mario Menegatti.
La storia del jeet-kune-do coincide con quella del suo ideatore, Bruce Lee, il 'Piccolo Drago', propriamente Jun Fan Lee, lo stesso che fece conoscere al mondo per la prima volta il kung-fu cinese. Nato a San Francisco nel 1940, nella sua adolescenza a Hong Kong Jun Fan Lee studiò taiji quan con il padre, poi pugilato, wing chun (stile di kung-fu noto per le tecniche di braccia efficaci a corta distanza), tam toj (stile di kung-fu che privilegia le tecniche di calcio) e chin na (tecniche di leva articolare che hanno dato origine al ju jitsu). Giunto negli Stati Uniti nel 1962, proseguì la sua ricerca anche con le arti occidentali di combattimento, come il pugilato, la scherma e la lotta. Il metodo che insegnava a Seattle e a Oakland nei primi anni Sessanta, il 'non classical gung fu' divenuto successivamente Jun Fan gung fu ("kung-fu di Jun Fan Lee"), era una sua personale interpretazione delle arti marziali cinesi. Con la nascita del jeet-kune-do ("la via del pugno che intercetta"), avvenuta nel 1968, ebbe inizio la trasformazione dell'arte di Bruce Lee verso un metodo totale di combattimento che può essere considerato precursore del kickboxing e dei combattimenti senza regole. In un'epoca in cui tutte le discipline insegnavano a combattere controllando i colpi, Bruce Lee esaltava l'importanza dell'allenamento a pieno contatto, utilizzando l'attrezzatura fino ad allora impiegata solo nel pugilato (guanti da passata, palla tesa, pera, sacco) e nel football americano (scudi colpitori). Morì a Hong Kong nel 1973 per edema cerebrale, conosciuto in tutto il mondo grazie ai suoi film (cinque, di cui l'ultimo non portato a termine).
Bruce Lee ha avuto diversi allievi nelle città statunitensi nelle quali ha insegnato, ma ne ha diplomati istruttori soltanto tre: Tacky Kimura a Seattle, James Y. Lee a Oakland e Dan Inosanto a Los Angeles. Inosanto, già capo-istruttore di kenpo karate e poi divenuto allievo e grande amico di Bruce Lee, è l'unico insegnante professionista e, con i suoi istruttori affiliati in tutto il mondo, ha contribuito fortemente alla diffusione del jun fan gung fu/jeet-kune-do. è stato lui a insegnare a Bruce Lee l'uso del nunchaku (flagello composto da due sezioni in legno unite da una catena) che lo ha reso popolare sul grande schermo ed era lui a tenere le lezioni presso la leggendaria palestra di Chinatown a Los Angeles, quando Bruce Lee era impegnato sui set cinematografici. Tacky Kimura continua a insegnare a Seattle a un piccolo gruppo di allievi scelti ed è consulente tecnico della Bruce Lee educational foundation, volta a preservare la filosofia, la memoria e l'arte di Bruce Lee.
"Usare nessun metodo come metodo. Avere nessun limite come limite" sono le parole che Bruce Lee ha usato per spiegare la sua filosofia delle arti marziali. Insegnava ad analizzare tutto ciò che funziona in un confronto uomo contro uomo, rifiutando i movimenti puramente artistici di molte arti marziali tradizionali. Su questa base ogni tecnica di jeet-kune-do doveva essere semplice e diretta: un'arte marziale che diventa filosofia di vita, esalta la centralità dell'individuo sul metodo, la capacità di adattamento unita alla creatività rispetto alle rigidità delle regole.
Interpretando alla lettera il significato di jeet-kune-do, la strategia principale consiste nell'anticipare l'azione dell'avversario. Per fare ciò il praticante utilizza cinque metodi d'attacco. Il single direct attack, una tecnica costituita da un solo movimento che può raggiungere il bersaglio per la via più diretta o con un'angolazione inaspettata; l'attack by combination, un'azione offensiva composta da due o più movimenti, di solito capace di colpire più bersagli dell'avversario; il progressive indirect attack, strategia utilizzata anche nella scherma occidentale, quando si lancia un falso attacco in modo da provocare una reazione difensiva nell'avversario, che in questo modo creerà un'apertura nella sua difesa; lo hand immobilization attack, conosciuto come tecnica di trapping (intrappolamento), un metodo che ha lo scopo di immobilizzare momentaneamente gli arti superiori o inferiori dell'avversario al fine di colpire i bersagli principali; e l'attack by drawing, che consiste nell'offrire un'apertura per provocare un attacco dell'avversario: nel momento in cui quest'ultimo si appresta a colpire, cade nella trappola e subisce il contrattacco.
La tecnica principale consiste nel colpire, anche se i praticanti esperti apprendono ugualmente tecniche di leva articolare e proiezioni al suolo. Il programma prevede che l'allievo impari la guardia (bai-jong) con il braccio più forte e preciso disposto in avanti (la guardia falsa della boxe) e gli spostamenti delle gambe (footwork) indispensabili sia per la difesa sia per l'attacco. La capacità offensiva viene sviluppata attraverso lo studio dei colpi con tutte le parti del corpo. A seguire vengono introdotti gli strumenti difensivi come le parate, le schivate, le deflessioni. Quindi le tecniche di trapping (come il pak-sao, lop-sao, jao-sao). Solo quando il praticante ha raggiunto la maturazione tecnica e la preparazione fisica adeguata potrà accedere ai combattimenti che diventano sempre più impegnativi fino ad arrivare alla pratica a pieno contatto. In questa fase vengono studiate anche le strategie di combattimento.
L'abbigliamento consiste in un paio di pantaloni di tuta, una maglietta a maniche corte e scarpe da ginnastica. L'attrezzatura necessaria è composta da guanti a dita libere, guantoni da boxe, paradenti, conchiglia e paratibie. Come voleva il suo fondatore, il jeet-kune-do non ha alcuna forma agonistica.
In Italia la tradizione marziale di Bruce Lee viene proposta dall'AKEA (Arnis kali escrima association), presieduta da Roberto Bonomelli, primo e unico istruttore in Italia di jun-fan gung-fu/jeet-kune-do e di kali-eskrima-arnis, diplomato a Los Angeles direttamente da Dan Inosanto.
Il ju jitsu è una disciplina molto antica che costituiva la base del combattimento corpo a corpo dei guerrieri giapponesi fin dall'epoca feudale e alla quale facevano ricorso i samurai se durante il combattimento si trovavano senza la spada.
Le origini del ju jitsu (ju "adattabile, cedevole, dolce"; jitsu "arte" o "scienza", quindi "arte della cedevolezza, dell'adattabilità" o, più romanticamente, "dolce arte") si perdono nella notte dei tempi. Una teoria, tra storia e leggenda, parla di una radice originaria cinese, elaborata poi da un medico giapponese, di nome Shirobei Akiyama, che era andato in Cina per studiare le arti mediche e marziali. Akiyama cominciò a pensare a un sistema di difesa basato sulla non resistenza, dopo aver visto in viaggio, nel corso di una nevicata, i rami di una possente quercia cedere sotto il peso della neve, mentre quelli del flessibile salice si piegavano senza spezzarsi, scaricando la forza del peso accumulato. Akiyama assimilò e adattò le tecniche da combattimento delle scuole cinesi e più tardi fondò la scuola Yoshin Ryu. ll ju jitsu iniziò a svilupparsi alla fine dell'era di Sengoki e la sua popolarità crebbe durante il periodo Kanei, Munnji e di Kandu (1624-1673). Sviluppandosi sia come arte di lotta sia come forma di pratica e cultura fisica e mentale, il ju jitsu tra il 1604 e il 1867 arrivò a prevedere circa 160 stili. Tra le scuole (ryu) più conosciute, oltre la già citata Yoshin Ryu, la Araki Ryu, la Tenjin Shinyo Ryu, la Muso Jiken Ryu, la Kito Ryu e la Katori Shinto Ryu.
In Italia si è iniziato a parlare di ju jitsu, o 'lotta giapponese', così come veniva chiamato allora, grazie a due sottufficiali della Regia Marina, Raffaele Piazzolla e Luigi Moscardelli, che lo proposero per la prima volta a Roma nel 1908 affrontandosi in esibizione nei giardini del Quirinale, alla presenza del re Vittorio Emanuele III. Nel 1921 fu istituita la cattedra di ju jitsu presso la Scuola centrale militare di educazione fisica della Farnesina sotto la guida del pioniere sottufficiale Carlo Oletti. Nel 1923 questa lotta giapponese fece la sua comparsa in un circolo sportivo civile, presso la palestra Cristoforo Colombo, sempre a Roma. Nella stessa palestra il 30 marzo 1924 venne costituita la Federazione jiu-jitsuista italiana, trasformatasi nel 1927 in Federazione italiana lotta giapponese sotto la presidenza di Giacinto Pugliesi. Nel 1948 si costituì il Gruppo autonomo lotta giapponese (trasformato in Gruppo autonomo judo nel 1951) che venne inserito nella FIAP (Federazione italiana atletica pesante), primi passi per l'inserimento del judo come sport olimpico. Poi le strade del judo e del ju jitsu dal punto di vista organizzativo si divisero.
Il vero pioniere del ju jitsu in Italia fu Gino Bianchi (1914-1964), che si recava spesso in Oriente in qualità di sottufficiale della Marina militare italiana e diventò ben presto un sostenitore delle tradizioni orientali e un cultore del judo e del ju jitsu. Nel 1946 Bianchi costituì l'OLDJ (Organizzazione ligure divulgativa di ju jitsu), che tesserò oltre 5000 fra atleti, maestri e simpatizzanti. Da quel momento prese vita ufficialmente il metodo Bianchi. Allievo di Bianchi fu Rinaldo Orlandi, al quale si deve la suddivisione moderna del metodo in 5 settori di studio e soprattutto l'inserimento del ju jitsu in Italia nel CONI attraverso la Federazione italiana karate (1971). Dal 1984 in poi il ju jitsu viene assorbito nella FILPJ (Federazione italiana lotta pesi judo), ora FIJLKAM (Federazione italiana judo lotta karate arti marziali), come sezione del settore judo, abbandonando l'espressione agonistica e mantenendo quella più strettamente stilistica di arte marziale madre del judo e di studio della difesa personale. Nella FIJLKAM responsabile dell'attività del ju jitsu è una commissione tecnica nazionale presieduta da Luigi Spagnolo, i cui membri sono Giancarlo Bagnulo e Stelvio Sciutto. Attualmente in Italia si contano circa 8000 praticanti, mentre nel mondo sono più di 100.000.
Il ju jutsu consiste in un esercizio composito, costituito da molti sistemi d'attacco, come l'atterramento, i colpi con mani, piedi, pugnale o spada, il soffocamento o l'immobilizzazione dell'avversario, il piegamento o la torsione di braccia o gambe dell'avversario e un'ampia varietà di modi di difendersi da questi attacchi. Un'arte, dunque, di grande varietà tecnica, in cui viene contemplato anche l'uso delle armi tradizionali giapponesi come la spada (katana), il bastone (bo), i tridenti (sai), i manganelli (tonfa), l'alabarda (naginata), la lancia (nuntibo), il bastone snodato a due sezioni (nunchaku). Il ju jutsu si adatta a ogni praticante perché innanzitutto agisce sul principio fondamentale di sfruttare la forza dell'avversario.
Le tecniche che esprimono al meglio questo concetto sono le leve articolari, che devono essere portate senza l'uso della forza in base al principio taoista wu wei ("non azione"). I punti da colpire sono le braccia, le spalle, i gomiti, i polsi, le ginocchia, le dita e le vertebre cervicali. Tutte le leve hanno un proprio punto critico, prima del quale l'aggressore può ancora riuscire a liberarsi, mentre una volta che il punto limite sia stato raggiunto l'aggressore è costretto a lasciare la presa perché sottoposto a un fortissimo dolore; se invece resiste può subire la lussazione o la frattura dell'arto. L'efficacia delle leve viene garantita anche dal fattore sorpresa: le leve infatti sono una reazione che l'aggressore non si aspetta.
Lo studio della difesa personale nel ju jitsu avviene attraverso diversi programmi a seconda delle scuole di appartenenza dei praticanti. Nella FIJLKAM, affiliata al CONI, la diffusione del ju jitsu avviene attraverso lo studio delle tecniche del metodo Bianchi, secondo un'impostazione più moderna e attuale di quella originaria e attraverso lo studio dei kata (forme) della scuola tradizionale giapponese Hontai Yoshin Ryu.
I 5 settori del metodo Bianchi sono distinti dalle lettere dell'alfabeto e composti ciascuno, originariamente, da venti tecniche. Il settore A comprende le azioni elementari, che introducono alla conoscenza delle reazioni di un avversario; il settore B tratta le azioni che, attraverso lo studio dello sbilanciamento, mirano al caricamento, al sollevamento e alla proiezione dell'avversario; il settore C esamina la azioni impostate sulle articolazioni dell'avversario; il settore D è dedicato alle azioni impostate sul collo dell'avversario, mentre il settore E fonde i principi di azione dei primi quattro settori e tra tutti è quello che avvicina di più il praticante alla difesa personale. Attraverso questi insegnamenti si arriva alla fase applicativa, cioè alla realizzazione da parte del praticante di una autodifesa che gli permette di trovare la soluzione più vantaggiosa per togliersi dalle difficoltà di un'aggressione utilizzando la forza dell'avversario e non opponendosi a essa.
Il ju jitsu brasiliano, lotta corpo a corpo prevalentemente sviluppata nel combattimento al suolo, si differenzia da quello giapponese per la mancanza di tecniche di calci, di pugni e delle armi, e per la presenza di qualche presa di judo.
L'introduzione del judo e del ju jitsu in Brasile viene attribuita a Mitsuyo Maeda, conte di Koma, che nel 1914 in Brasile conobbe Gastão Gracie, un uomo politico del luogo di origine scozzese che curava i rapporti con la comunità giapponese. Maeda insegnò i fondamenti delle arti del judo e del ju jitsu al figlio di Gracie, Carlos, che a sua volta trasmise i rudimenti appresi ai fratelli. Il più giovane, Helio, fu quello che si appassionò di più a questa forma di combattimento. I Gracie approfondirono le strategie di lotta modificando la disciplina originale, eliminando alcune tecniche e aggiungendone altre più adatte al concetto di real combat: il risultato fu un'arte marziale finalizzata allo studio della lotta a terra.
La quantità di immigrati giapponesi nell'America del Sud contribuì alla diffusione delle arti marziali tradizionali, anche se il Brazilian jiu jitsu ‒ come venne denominato successivamente con la specifica nazionale e la modifica dell'ortografia del termine ‒ ha avuto una propria evoluzione. La popolarità e lo sviluppo della disciplina come forma marziale si deve anche al mito del conte di Koma, grande lottatore, il quale si dice abbia sostenuto, vincendoli, circa 2000 incontri, ma soprattutto a Helio Gracie che ne ereditò l'atteggiamento combattivo, sfidando chiunque, non importa quale stile praticasse o che peso avesse, rimanendo sconfitto solo due volte. Nel 1925 a Botafogo, un distretto di Rio de Janeiro, Carlos fondò la prima Accademia di Brazilian jiu jitsu. In seguito i figli di Helio, con i loro cugini della famiglia Machado, furono determinanti per affermare la validità di questo metodo come forma di combattimento al suolo, per tecnica, metodologia e pratica negli incontri senza regole. Accresciuta con l'avvento, negli anni Novanta, degli UFC (Ultimate fighting championships), la fama del Brazilian jiu jitsu si deve soprattutto a Royce Gracie, che lottò con praticanti delle più diverse discipline di combattimento e di arti marziali, senza limiti di peso, in incontri quasi senza regole che lo hanno visto vittorioso in diverse edizioni.
Nel Brazilian jiu jitsu è fondamentale lo studio della lotta a terra: gli atleti che praticano questa scuola devono portare l'avversario al suolo utilizzando tecniche mutuate dal judo, dal sambo o dalla lotta, con o senza l'ausilio di prese a indumenti. Il fine della disciplina è infatti preparare l'allievo a forme di combattimento reale, dove i due contendenti, lottando, per la gran parte delle volte finiscono al suolo. Le tecniche fondamentali di groundfighting, di semplice applicazione, costituiscono la base di quasi tutte le altre tecniche del Brazilian jiu jitsu, consentendo di ottenere il controllo del corpo dell'avversario e raggiungere la sua sottomissione mediante strangolamento o leva articolare.
La monta, che è la posizione di base del combattimento a terra, si raggiunge sedendosi a cavalcioni dell'avversario e può essere eseguita sul torace, sul fianco o sulla schiena dell'avversario e anche quando questi è seduto. La guardia, che è la posizione principale, si effettua con la schiena a terra e le gambe rivolte verso l'avversario e si può fare con le gambe allacciate alla vita dell'avversario o a distanza. C'è poi la posizione col ginocchio sullo stomaco, un controllo temporaneo, molto efficace e doloroso che si ottiene mettendo la tibia di traverso sul petto dell'avversario, mentre l'altra gamba è posizionata con il piede a terra. Il gancho consiste nell'agganciare da qualsiasi posizione con una gamba l'avversario e può essere eseguito con il collo del piede o con il tallone. Esistono anche molti tipi di immobilizzazioni per lo più sul fianco dell'avversario. Da queste posizioni, suscettibili di cambiamenti dovuti alla necessità di adattarsi all'avversario, si parte per portare i numerosi attacchi. Prendono il nome di raspagem invece tutte le tecniche di ribaltamento che dalla guardia portano alla posizione di monta: si dividono in 'terra' e in 'piedi'; particolarmente scenici sono quelli eseguiti con la ruota e toreando. Vi sono infine le tecniche di finalizzazione: strangolamenti (con le braccia, con il kimono e con le gambe), triangolo (un particolare tipo di strangolamento con le gambe), mata leão (lo strangolamento con il bicipite abbracciando la testa), armlock o armbar (è la tecnica principale del Brazilian jiu jitsu, di solito costituita da una leva al gomito fatta utilizzando il corpo, ma con numerosissime varianti), americana (un armlock fatto con il braccio piegato) e omoplata (una leva alla spalla fatta con le gambe). Particolare attenzione meritano le tecniche di uscita dalle varie posizioni, tra cui la upa, che è un'uscita dalla monta. Le tecniche di proiezione sono moltissime; tuttavia, poiché si pone l'accento sul combattimento al suolo, non hanno nomi specifici per indicarle e sono chiamate genericamente takedown. L'allenamento è svolto sul tatami con judogi o jutsugi. Esistono 5 livelli: cintura bianca, blu, porpora, marrone e nera. Molto spesso su un lato della cintura c'è un pezzo di stoffa nero (rosso per le cinture nere) su cui si mettono delle strisce di stoffa bianca che indicano il livello all'interno della cintura: 4 gradi di bianca, 4 di blu, 4 di porpora, 4 di marrone fino alla cintura nera, che ha 10 gradi superiori. Per ottenere il grado di cintura nera sono necessari mediamente dai 6 ai 15 anni.
Nelle competizioni gli atleti sono suddivisi per età, peso e cintura. Il limite di tempo dell'incontro può variare dai 4 agli 8 minuti a seconda del livello e dell'età dei partecipanti. Le proiezioni fanno guadagnare 2 punti. La posizione di monta mantenuta 3 secondi vale 4 punti. Se si viene presi nella guardia dell'avversario e si riesce a passarla si guadagnano 3 punti; se la si mantiene solo 3 secondi o si passa una gamba si conquista il vantaggio. Il regolamento obbliga a finalizzare una tecnica entro 3 secondi. La vittoria viene data per sottomissione, somma di punti o per vantaggio. Durante il combattimento è fondamentale prendere l'avversario nella propria guardia per poter portare dei nuovi attacchi, ma ai fini del punteggio chi è tenuto nella guardia si aggiudica il vantaggio. C'è vittoria per vantaggio quando nessun punto viene segnato durante il combattimento o quando c'è parità di punti. Cercare di evitare il combattimento al suolo o non portare il combattimento al suolo è motivo di richiamo da parte del giudice di gara. L'atleta che cerca solo di immobilizzare e non attacca dopo 20 secondi è penalizzato di un punto.
Attualmente la Commissione europea di Brazilian jiu jitsu organizza due tipi di competizioni: con il kimono, con due categorie di atleti (esordienti alla prima gara e senior, che sono quelli già classificati nelle precedenti edizioni; gli atleti classificati ai primi tre posti entrano nella categoria élite); senza kimono (data la maggiore difficoltà riservate alla categoria élite).
In Italia operano alcuni piccoli gruppi, tra cui spicca l'Associazione italiana jiu jitsu brasiliano, nata nel 1998, associata alla Commissione europea di Brazilian jiu jitsu. Il responsabile tecnico è Maurício Gomes.
I nomi kali, eskrima e arnis de mano indicano la stessa arte marziale, originaria delle Filippine, differenziandosi solo a seconda della zona in cui viene praticata. Kali (ka "mano o "corpo"; li "movimento", quindi "corpo in movimento", anche se alcuni esperti sostengono che il termine derivi dal nome di un'arma da taglio a lama serpentina detta kalis) si rifà all'antico nome dell'arte guerriera filippina prima dell'arrivo dei colonizzatori spagnoli ed è senza dubbio il termine più popolare a livello internazionale, soprattutto grazie all'opera di diffusione del maestro Dan Inosanto (v. sopra, Jeet-kune-do). Al contrario, nel paese d'origine l'arte marziale autoctona è conosciuta nel Nord come arnis de mano (dallo spagnolo arnes, un chiaro riferimento alle bardature e ai costumi impiegati dai filippini nelle danze, le quali nascondevano movenze marziali agli occhi degli invasori) e al centro come eskrima (o escrima, dallo spagnolo esgrima, in quanto l'arte praticata dai filippini con bastoni e armi da taglio ricordava ai colonizzatori la scherma europea).
Le origini coincidono con la nascita della civiltà nell'arcipelago filippino, dove i primi insediamenti malesi risalgono al 1250, quando secondo la leggenda dieci capi-guerrieri (datu), provenienti dal Borneo, si insediarono nell'isola di Panay (centro delle Filippine). In conformità con l'educazione tradizionale malese, gli abitanti di ciascun villaggio nelle scuole (bothoan) appresero, insieme alle altre materie, le arti della guerra. La prima prova sul campo dell'esistenza di una forte cultura marziale del popolo filippino viene indicata nello scontro a Mactan tra i guerrieri locali, guidati dal raja Lapulapu, armati di spade e lance di bambù, e gli spagnoli, capeggiati da Ferdinando Magellano. Era il 27 aprile 1527. L'esploratore portoghese perse la vita in quello scontro e Lapulapu divenne il primo eroe nazionale della storia delle Filippine. Nel libro De los delitos di don Baltazar Gonzales (1800) Datu Mangal, padre di Lapulapu, è indicato come colui che portò il kali nell'isola di Mactan, mentre a Lapulapu viene attribuito un sistema di combattimento armato che classificava sei colpi di taglio e due di punta. Durante la dominazione spagnola furono proibite le armi da taglio e questo indusse i locali alla pratica clandestina e allo sviluppo di un metodo con il bastone corto in legno rattan, usato per l'allenamento, oppure in legno duro e pesante come l'ironwood (kamagong) e quello dell'albero del cocco (bahi), usato per i combattimenti reali e per la difesa personale.
Il kali è sempre stato concepito come uno strumento di difesa personale; solo recentemente ne è stata creata una versione sportiva. La NARAPHIL (National arnis federation of the Philippines), la prima federazione nazionale mirata a diffondere l'aspetto sportivo dell'arte marziale autoctona filippina, è nata nel 1975 e nel 1979 ha promosso il primo torneo open di combattimento sportivo a Cebu City e il primo campionato nazionale a Manila. L'11 agosto 1989 a Cebu City è stato aperto il primo congresso mondiale, con la partecipazione di 11 delegazioni nazionali, ed è nata la WEKAF (World eskrima kali arnis federation), oggi presieduta da Arif Shaikh (la sua scuola è stata rappresentata a tutti e sette i Campionati del Mondo e ha ricevuto il premio Millenium per l'attiva partecipazione).
La prima associazione italiana dedicata alle arti marziali autoctone filippine è stata l'AKEA, nata a Milano nel 1991 per iniziativa di un gruppo di appassionati. Grazie all'unione negli Stati Uniti tra kali e jeet-kune-do anche in Italia, infatti, le due discipline filippine vengono spesso insegnate insieme. La Federazione annovera tra i suoi affiliati Andrea Solimei, il primo campione del mondo italiano nella storia delle arti marziali filippine (medaglia d'oro nel 2000 nelle Filippine nella specialità dei doppi bastoni; campione italiano 1998-99 bastone singolo e doppi bastoni nel 2000-2001-2002; campione europeo doppi bastoni nel 2001).
Il kali si propone come una disciplina completa, anche se privilegia nel suo programma didattico l'impiego delle armi. L'allenamento con strumenti, quali un bastone (olisi o baston) o un coltello (daga o baraw), permette di sviluppare qualità come coordinazione motoria di entrambi i lati del corpo quando si impiegano due bastoni, rapidità di riflessi, grande tempismo e percezione sensoriale.
L'attrezzatura indispensabile è il bastone in rattan (canna di manao), il quale può variare per misura (55, 60, 70 e anche 80 cm) a seconda delle scuole, e può presentare delle decorazioni eseguite con il fuoco. Molte scuole ne impiegano due (sinawali) per le tecniche e il combattimento. A seguire è necessario un coltello d'allenamento in legno o alluminio, per studiare il maneggio e la difesa da arma da taglio nonché le tecniche di bastone e coltello. Solo i praticanti avanzati studiano l'uso delle lame più lunghe, cioè delle spade tradizionali come il kris (spada a lama serpentina a doppio taglio), il kampilan (spada a doppia punta), il pinute (spada dritta a un solo filo) e il bolo (machete). Esistono anche tecniche a mani nude particolarmente sofisticate per disarmare un avversario armato con bastone o coltello. Seguendo le stesse traiettorie dell'arma è possibile anche combattere a mani nude usando tutte le parti del corpo o applicando leve articolari e proiezioni sull'avversario sia in piedi sia a terra.
L'abbigliamento è liberamente scelto dalla scuola: normalmente una maglietta a maniche corte e un paio di comodi pantaloni per la pratica. Nelle dimostrazioni a volte viene indossato un giacchettino a maniche corte che ricorda il costume tradizionale del Sud delle Filippine. Nell'arcipelago asiatico, quest'arte viene spesso praticata nei grandi parchi cittadini.
La versione sportiva del kali si riferisce solo al combattimento con il bastone, suddiviso nelle specialità bastone singolo e doppi bastoni. Le categorie di peso sono al massimo 13, ma in base al numero dei partecipanti possono essere ridotte. La competizione si svolge in 3 round da un minuto ciascuno con 30 secondi di pausa tra uno e l'altro. I contendenti indossano corpetti protettivi in materiale sintetico e caschi in cuoio con griglia metallica e guanti da hockey su ghiaccio, oltre a varie protezioni per gomiti e ginocchia. I bersagli ammessi sono il capo, esclusa la nuca, il corpo e le gambe fino al ginocchio escluso.
La valutazione viene espressa in punti con un sistema simile a quello del pugilato. Tre disarmi o perdite del bastone dell'avversario decretano un k.o. tecnico e quindi il termine dell'incontro. In Italia è stato introdotto dall'AKEA un regolamento che privilegia i colpi al capo: 3 colpi messi a segno in un solo round mettono fine all'incontro. Questo accorgimento favorisce una maggiore strategia difensiva e rende il combattimento più facilmente intuibile dal pubblico. Rimane comunque valido il sistema di valutazione internazionale nel caso in cui l'incontro non finisca per colpi portati al capo. Non sono mai state fatte gare di forma (sayaw) nei campionati italiani, ma a livello internazionale continuano a essere proposte nelle due specialità arma singola e arma doppia, tradizionale (cioè con costumi filippini) e non (con indumenti e musica contemporanei). I Mondiali, di cui al 2003 sono state organizzate sette edizioni, si svolgono una volta ogni due anni. I Campionati Europei si tengono ogni due anni in alternanza ai Mondiali. I Campionati italiani, organizzati dall'AKEA, si svolgono ogni anno.
Sessanta milioni di praticanti in tutto il mondo: basta questo numero per illustrare il successo del karate. Questa disciplina trae le sue origini dall'isola giapponese di Okinawa, nell'arcipelago delle Ryu Kyu nell'Oceano Pacifico, a metà tra il Giappone e la Cina, e proprio dal Grande Impero Celeste ha subito l'influenza maggiore. Infatti si ritiene che il kung-fu del monastero di Shaolin (nel Nord della Cina) rappresenti la radice di tutte le arti marziali orientali (v. oltre: Wushu kung-fu). Fu in questo tempio che il monaco buddista indiano Bodhidarma introdusse nel 527 d.C. la pratica meditativa zen, di cui fu il fondatore, fornendo alle discipline marziali quell'aspetto filosofico-religioso che le ha trasformate da semplici metodi di autodifesa a strumenti completi di allenamento fisico e mentale.
Per quanto riguarda la nascita del karate è difficile identificarne la data esatta. Anche tra i ricercatori più documentati c'è molta cautela. Kenji Tokitsu, sulla base di antichi documenti, afferma che dal 1372 al 1866, periodo che coincide con l'allacciamento di stretti rapporti commerciali tra i regnanti delle isole Ryu Kyu e l'imperatore della Cina, furono molte le occasioni per scambi anche culturali, ed è quindi probabile che proprio nel corso di queste i cinesi abbiano trasmesso l'arte del combattimento agli isolani. Nonostante le origini cinesi, il karate si formò comunque a Okinawa, traendo le sue origini dal tode, antica arte di combattimento corpo a corpo, senza l'ausilio di armi, importata dall'antica Cina a Okinawa nel 14° secolo. All'inizio il metodo veniva semplicemente chiamato te ("mano") e in seguito, subendo forti influenze dalle forme di combattimento cinesi, fu anche denominato tode ("mano della Cina"). I kanji (ideogrammi) della parola tode letti con il metodo giapponese kun si pronunciano karate, e i giapponesi iniziarono a usare questa pronuncia. Durante il periodo del regno Ryu Kyu, il tode sviluppato e praticato nella regione di Shuri venne chiamato shuri-te, l'arte di difesa che si sviluppò nel centro commerciale di Naha fu chiamata naha-te e la combinazione di entrambi fu detta tomari-te da Tomari, località situata tra Naha e Shuri.
La prima vera scuola di karate di cui si ha traccia scritta fu quella di Sokon Matsumura (1809-1899), quasi certamente il primo che trasformò il karate in un metodo, basandosi sugli insegnamenti del maestro cinese Iwa. Il vero impulso alla diffusione del karate venne dato all'inizio del 20° secolo dal maestro Anko Itosu, che riuscì a far accettare il karate come programma di educazione fisica per le scuole di Okinawa. La disciplina marziale in breve tempo passò in Giappone, dove conobbe un secondo importantissimo sviluppo grazie agli studi di colui che è considerato il padre del karate moderno: Gichin Funakoshi. Fu proprio Funakoshi che, per amore della tradizione, sostituì l'ideogramma kara (Cina), con quello di 'vuoto', secondo la concezione buddista: "Tutti gli aspetti della realtà visibile equivalgono al vuoto (nulla). Il vuoto (nulla) è l'origine di tutta la realtà". Quindi, se all'inizio il termine karate stava a significare la "mano della Cina", da Funakoshi in poi viene ad assumere il significato di "mano vuota".
Con Funakoshi nasce lo stile shotokan ("la casa del fruscio della pineta"), dal nome dell'abitazione sull'isola di Okinawa dove codificò il suo stile di karate, ma anche dallo pseudonimo Shoto con cui usava firmare le sue poesie. Nel 1921 il principe imperiale giapponese Hirohito, in visita a Okinawa, assisté a una dimostrazione di Funakoshi e dei suoi allievi. L'imperatore rimase talmente colpito dall'abilità di Funakoshi e dal suo metodo di combattimento che l'anno successivo lo convocò a Kyoto per presentare il karate di Okinawa. Poco dopo, il maestro Jigoro Kano, fondatore del judo, lo chiamò nella sua palestra a Tokyo. Il successo fu tale che Funakoshi fu invitato a rimanere in Giappone e quello fu il trampolino che gli consentì di far conoscere il karate in tutto il mondo.
Nello shotokan, le posizioni di guardia sono tendenzialmente basse e stabili, pur dovendo permettere movimenti rapidi e frustati, come pure tecniche di compressione e spinta. Le tecniche sono molto lunghe e veloci, in quanto lo shotokan è basato sul concetto del colpo singolo e definitivo. Le tecniche di parata e di schivata sono mirate a deviare l'attacco piuttosto che ad assorbirlo, a spezzare il ritmo dell'avversario e a consentire il contrattacco in modo quanto più devastante possibile. Sono presenti in grande abbondanza le tecniche di percussione (calci e pugni, colpi col palmo della mano), ma fanno la loro comparsa anche tecniche di proiezione dell'avversario (sbilanciamento e atterramento), mentre rare e poco considerate sono le tecniche di lotta a terra e di controllo dell'avversario. In Italia, Hiroshi Shirai è il maestro giapponese che maggiormente ha contribuito a sviluppare questo stile.
Oltre allo shotokan di Funakoshi, esistono altre scuole: l'arte di Shuri e quella di Tomari si fondono e promuovono lo shorin-ryu, la "scuola del pino flessuoso", che vede in Chotoku Kiyan il suo maggior interprete e rappresentante, nonostante fosse un maestro di tomari-te. Il naha-te diventa invece goju-ryu, la "scuola dura e morbida", mentre nasce anche una tradizione a Okinawa e in Giappone dove gli stili vengono fusi e proposti col nome di shito-ryu, arte codificata dal maestro Mabuni. Più in generale, sono due le correnti tradizionali del karate di Okinawa: shorin e shorei, che molti identificano nella stessa scuola. Tuttavia alla prima dovrebbero ricondursi gli stili più leggeri e rapidi come il wado-ryu e lo shotokan, mentre della seconda fanno parte quelli che pongono l'accento sullo sviluppo della forza fisica, come il goju-ryu. Lo shito-ryu deriva da entrambe le scuole.
Dopo diciassette anni dalla sua prima codificazione, nel 1925 Kanbun Uechi accolse un primo gruppo di allievi, dando così ufficialmente vita allo stile uechi-ryu, che si sviluppa solo tra persone estremamente fidate, in dojo con porte e finestre oscurate. L'idea è simile a quella del goju-ryu, il cui metodo è basato sul principio della durezza e della cedevolezza.
Il goju-ryu, il wado-ryu e lo shito-ryu, oltre allo shotokan, sono gli unici stili ufficialmente riconosciuti oggi dalla World karate federation, e sono scuole accomunate tra loro da alcune caratteristiche tecniche ma che si differenziano in stili morbidi o duri, dinamici o statici, fluidi o rigidi.
Il goju-ryu (go, "scuola forte; ju, "cedevole") è l'evoluzione di un metodo di boxe cinese introdotto a Okinawa nel 1828: i fondatori del moderno goju-ryu karate do sono considerati Kanryo Higaonna e Chojun Miyagi. In questo stile i movimenti di braccia e gambe sono più circolari, le tecniche sono corte e rapide, con posizioni a volte più basse rispetto alle altre scuole di karate; viene anche data grande enfasi alle tecniche a mano aperta e soprattutto alla respirazione.
Il wado-ryu (wa, "pace"; do, "via", ryu, "scuola", quindi "la scuola della via della pace") è stato fondato nel 1938 da Hironori Otsuka, divenuto allievo di Funakoshi nel 1922 dopo aver praticato ju jitsu per 17 anni. Otsuka si separò da Funakoshi per il desiderio di modernizzare quanto imparato. Il wado-ryu è caratterizzato da posizioni alte e movimenti leggeri e veloci, uniti a schivate e leve articolari che lo rendono particolarmente adatto al combattimento: è infatti dal wado-ryu che nasce la moderna concezione di gara sportiva nel karate. Otsuka ebbe come primi allievi Mochizuchi, Kono, Suzuki, Yamashita e Toyama. A loro, poiché erano i migliori ed erano capaci di insegnare sapientemente, affidò il compito di trasmettere e divulgare in Europa il wado-ryu. A Toyama fu data come destinazione l'Italia: insegnò a Roma e si occupò della preparazione agonistica degli atleti della scuola di Ivo De Santis nel periodo in cui era presidente della Wado Kai in Italia. Oggi la tradizione è portata avanti da Sergio Di Folco, docente federale FIJLKAM.
Lo shito-ryu venne fondato nel 1938 da Kenwa Mabuni dopo la morte dei suoi due grandi maestri, Anko Itosu e Kanrio Higaonna, che danno allo stile il loro nome: in giapponese l'ideogramma che indica ito (di Itosu) si può pronunciare anche shi, e quello higa (di Higaonna) si può pronunciare to. Così la combinazione dei primi due ideogrammi dei nomi dei due maestri forma la parola shito, stile caratterizzato da finezza tecnica e velocità e da un elevato numero di forme (kata). Oltre alle 12 del goju ryu, se ne contano altre 37, anche se alcuni maestri contemporanei ne praticano più di 60, poiché altre sono state introdotte in aggiunta a quelle che Kenwa Mabuni aveva codificato.
Nel 1953 Masutatsu Oyama, allievo di Funakoshi, dopo molti anni di pratica anche nel goju-ryu e un lungo ritiro spirituale sul Monte Kiyosumi, in Giappone, aprì il suo primo dojo di kyokushinkai (kyokushin, "ultima verità"; kai, "casa", quindi "la casa dell'ultima verità"), uno stile molto duro, che deve la sua fama principalmente al fatto che il suo fondatore provò l'efficacia delle sue tecniche di karate e dell'energia interna contro i tori: in tutto combatté con 52 tori, uccidendone tre e prendendo le corna di altri 49 con colpi dati con il taglio della mano. In questa logica, una delle prove più dure della scuola è il kumite dei 100 uomini, dove il praticante avanzato deve combattere contro 100 avversari. In Italia il direttore tecnico dell'Associazione italiana karate kyokushinkai è Tsutomu Wakiuchi, che insegna a Messina.
Lo shotokai (shoto, "flusso del vento tra i pini"; kai, "casa", quindi "casa delle onde di pino"; come nel caso dello shotokan il riferimento a Funakoshi è evidente) è stato fondato da Shigeru Egami nel 1958. Egami è stato allievo di Funakoshi e ha fatto nascere il suo stile poiché era in disaccordo con la concezione del karate assunta dalle nuove generazioni dopo la morte del maestro. In questa scuola le posizioni sono molto esasperate e l'allenamento è molto duro e particolarmente impegnativo sotto l'aspetto psicologico. Lo shotokai evita la competizione, ripete l'idea di Funakoshi secondo la quale il combattimento di karate è solo per la vita o la morte.
In epoca più recente, un ruolo importante nella formazione di due nuovi stili ha avuto Yoshinao Nanbu, caposcuola del nanbudo (nan dal cognome del fondatore; bu, "guerra, arte marziale"; do, "via") e patriarca anche del sankukai (unificazione delle arti marziali con la pace e la serenità). Forgiato prima con lo shito-ryu e poi con lo shokukai del maestro Tani, Nanbu codificò nel 1970 il sankukai, che in seguito abbandonò per il nanbudo, creato nel 1978, una disciplina nuova in costante evoluzione, che non circoscrive i suoi insegnamenti alle tecniche di combattimento ma mette in primo piano la ricerca d'equilibrio del corpo e dello spirito. Il sankukai si differenzia dallo shotokan perché le tecniche di un atleta non si oppongono mai a quelle dell'avversario, non vi sono mai scontri diretti, ma si privilegiano gli spostamenti a 45 gradi e i colpi sono più circolari.
La divisa del praticante di karate è il karategi, più conosciuto come kimono. La giacca e i pantaloni sono molto ampi per permettere una libera esecuzione delle tecniche di calcio e di pugno. Sopra al karategi si allaccia una cintura che indica il livello di conoscenza. Giunti al grado di cintura nera si avanza nei gradi superiori (dan), fino al 6° dan, quando la cintura diventa a strisce bianche e rosse. Il massimo livello è il 10° dan.
Il karate prevede lo studio delle tecniche di base a partire dalle posizioni (dachi), particolari posture abbinate a tecniche di attacco e di difesa. Tra le più usate, lo zenkutsu dachi (posizione basata sulla gamba anteriore, piegata, mentre l'altra è tesa e rigida), il kokutsu dachi (dove il peso del corpo grava per il 70% sulla gamba posteriore) e il kiba dachi (posizione del cavaliere), in cui il peso del corpo è ripartito equamente tra le due gambe ed esse sono arcuate proprio come quando si va a cavallo. Quindi si passa allo studio delle tecniche; prioritarie sono quelle difensive (uke, parate): basse, alte e medie, sia interne sia esterne, sono movimenti che dopo ore e ore di allenamento libero vengono eseguiti a coppie, con un compagno che sferra attacchi pressoché reali. Tra i movimenti vi sono le tecniche fondamentali di pugno (zuki) e di calcio (geri); esistono poi quelli eseguiti con varie altre parti del corpo, per es. shuto (taglio della mano), empi (gomito), teisho (base del polso), hittsui (ginocchio). Quasi tutte le tecniche si differenziano in frontali, laterali, circolari e all'indietro a seconda della loro traiettoria e della parte del corpo che colpisce l'avversario.
Il bagaglio storico-tecnico del karate è racchiuso nelle forme (kata), simulazioni di combattimenti immaginari contro più avversari. Si inizia con un livello di esecuzione semplice per passare a uno più complesso, sia per la tecnica sia per la durata della forma, con un notevole sforzo fisico e mentale. Altro aspetto è quello del combattimento (kumite), specialità dove due atleti si confrontano e si scambiano tecniche all'insegna della sicurezza e della comunicazione: tutti i regolamenti del kumite, infatti, sono tesi a garantire al massimo l'incolumità degli atleti; è un sistema aperto a continui scambi e aggiornamenti in base all'evoluzione della tecnica stessa. Lo scambio di colpi con l'avversario avviene su tre distanze fondamentali: lunga (con i calci), media (con i pugni) e corta (con le proiezioni che vengono utilizzate non come tecnica finale, ma per conseguire un vantaggio nei confronti dell'avversario: a queste segue sempre un calcio o un pugno risolutivo).
In Italia il karate cominciò ad avere una certa diffusione negli anni Sessanta: in quel periodo si ebbero le prime associazioni a Roma (AIKI), a Firenze (FIK, Federazione italiana karate) e a Milano (AIK, Associazione italiana karate). Fra i promotori sono da segnalare Vladimiro Malatesti, Augusto Basile e Hiroshi Shirai. Nel maggio del 1966, in occasione dei primi Campionati Europei, l'Italia partecipò con una squadra mista formata da atleti della AIKI e della FIK e si classificò al terzo posto; nel luglio dello stesso anno AIKI e FIK si fusero dando vita alla Federazione italiana karate, con Augusto Ceracchini presidente dal 29 gennaio 1967; lo stesso Ceracchini il 10 maggio 1969 venne eletto alla presidenza dell'Unione internazionale di karate. Oggi le sorti del karate sono curate dalla Federazione italiana judo lotta karate arti marziali, presieduta da Matteo Pellicone, con vicepresidente Giuseppe Pellicone, vero fautore del riconoscimento del karate all'interno del CONI, e direttore tecnico Pierluigi Aschieri. La FIJLKAM è l'unica federazione di arti marziali riconosciuta dal CONI e aderisce alla World karate federation (organizzazione mondiale riconosciuta dal Comitato olimpico internazionale, anche se il karate non è ancora disciplina olimpica). I praticanti della disciplina sono almeno 60.000 e arrivano a oltre 90.000 se si considerano le federazioni private.
La FIJLKAM prevede la possibilità di seguire i praticanti del karate sin dalla più giovane età. In campo sia femminile sia maschile i pre-agonisti vanno dai 5 ai 12 anni, suddivisi nelle categorie bambini, ragazzi ed esordienti 'A'; gli agonisti prevedono gli esordienti 'B' (13 e 14 anni), i cadetti (15-16-17 anni), gli juniores (18-19-20 anni), i seniores (dai 21 ai 35 anni) e i master da 36 a 50 anni.
Il karate italiano si è sempre comportato da protagonista in campo internazionale. Anche se ai fini statistici nel medagliere federale si tiene conto solo dei risultati conseguiti dal 1995, anno in cui il karate divenne settore dell'allora FILPJK (Federazione italiana lotta pesi judo karate), non si possono ignorare i tre titoli mondiali vinti da Giovanni Ricciardi nel 1980, da Gian Luca Guazzaroni nel 1988 e da Davide Benetello nel 1994. Anche a livello continentale naturalmente i colori azzurri sono stati difesi da atleti di prestigio. Campioni europei sono Davide Benetello (1995, 2000), Massimiliano Oggianu (1995), Michela Nanni (1995), Salvatore Loria (1997, 1998), Roberta Minet (1997, 1998), Roberta Sodero (1997, 1998, 1999, 2000), Gennaro Talarico (1998, 1999, 2001), Chiara Stella Bux (1999), Luca Valdesi (2000, 2001, 2002), Giovanni Di Domenico (2002). Inoltre nei Giochi del Mediterraneo sono da ricordare i vincitori Michela Nanni (1997), Roberta Sodero (1997), Chiara Stella Bux (1997), Zaira Sottanelli (1997), Gennaro Talarico (1997) e Davide Benetello (1997).
Nelle competizioni a squadre, l'Italia ha vinto i Campionati Europei nel 1980 (kata maschile e femminile), nel 1981 (kata maschile e femminile), nel 1982 (kata maschile), nel 1984 (kumite maschile), nel 1985 (kata maschile), nel 1986 (kata maschile e femminile), nel 1987 (kata maschile e femminile), nel 1988 (kata maschile e femminile), nel 1989 (kata maschile e femminile), nel 1990 (kata maschile), nel 1994 (kumite maschile), nel 1996 (kumite femminile), nel 1997 (kata femminile) e nel 2002 (kata maschile); e i Campionati Mondiali nel 1997 (kata maschile e femminile).
Tra le arti marziali nelle quali è più radicato il concetto di combattimento inteso come scontro per la sopravvivenza di uno dei due contendenti il kendo merita una valutazione particolare. Innanzitutto perché quest'arte ha forgiato i gloriosi e leggendari samurai e poi perché sintetizza alla perfezione tecnica marziale e filosofia orientale, come si deduce dalla traslitterazione dei due ideogrammi che lo compongono (ken, "spada", do, "via", ovvero "la via della spada", dove per via è inteso quel percorso spirituale che porta, attraverso lo studio della spada, a uno stile di vita basato sui precetti buddhisti e la filosofia taoista).
Questa disciplina è stata codificata alla fine del 20° secolo, ma ha radici nel 15° secolo, con influenze delle varie scuole di scherma. Con il declino della casta dei samurai, coinciso con la cessione del potere dall'ultimo shogun Tokugawa Yoshinobu all'imperatore (1867), il kendo soffrì un periodo di decadenza. All'inizio del Novecento però, con le rinnovate mire espansionistiche del Giappone, si alimentò un nuovo spirito nazionalistico che ridiede vigore alle arti marziali e al kendo in particolare. Data la grande forza simbolica che lo permeava, il kendo divenne materia d'insegnamento nelle scuole secondarie giapponesi e conobbe un periodo di grande popolarità. Dopo gli anni Cinquanta ebbe un nuovo e definitivo sviluppo anche grazie a una codifica agonistica che ne divulgò i valori anche all'estero. La federazione giapponese, la Zen nihon kendo renmei, nata all'inizio del 20° secolo per iniziativa di alcuni grandi maestri (Nakayama Hakudo e Takano Sasaburo tra i più rappresentativi), cominciò a riorganizzare la disciplina della spada cosicché il kendo riprese a fiorire. Con la fondazione dell'International kendo renmei avvenuta nel 1971, si ufficializzò la nascita di una Federazione internazionale con l'intento di esportare i valori di quest'arte marziale.
L'arma di base del kendo è il bokken, una spada di legno che si ricava dalla quercia, bianca o rossa, dall'ebano e dal mogano; viene solitamente preferita per apprendere l'uso dell'arma senza incorrere in inutili rischi. Con il bokken si impara a sferrare i colpi fondamentali della spada, che consistono principalmente nelle tecniche di taglio verticale, orizzontale, in diagonale e di punta.
Dopo aver conseguito una certa abilità, si passa allo studio dello shinai, l'arma che viene usata nei combattimenti simulati e nelle competizioni sportive e che è composta da quattro stecche di bambù, con un'impugnatura e una punta rivestita di pelle unite da un filo (tsuru), che indica il dorso della lama. A un quarto di distanza dalla punta è fissato un legaccio, che indica il limite della parte utile per il taglio (in riferimento alla spada vera). Nel kendo, come in tutte le arti marziali, le armi vengono considerate un prolungamento del corpo e non degli arnesi esterni a esso. Anche lo shinai, in quanto rappresenta la spada, l'arma nobile per eccellenza, ha questa valenza, anche se è solo un attrezzo sportivo. Il bokken, lo shinai e la spada si impugnano nello stesso modo: un destro stringerà con la mano sinistra l'estremità dell'impugnatura ‒ per un miglior controllo dell'arma e per evitare che la mano scivoli ‒ mentre la mano destra sarà posta vicino all'elsa e controllerà la direzione degli attacchi.
Nei combattimenti moderni, i praticanti si vestono con una giacca di cotone (uwagi) e dei pantaloni molto ampi (hakama). A protezione del corpo si indossa poi un'armatura (bogu), formata da una maschera di metallo con un'imbottitura fino alle spalle e una gorgiera sotto il mento a salvaguardia della gola, e da una corazza di bambù per il torace, rivestita di pelle non conciata ma laccata e con un ulteriore rinforzo in cuoio. Inoltre, ci sono delle protezioni per la zona della vita e per le mani, con guanti particolarmente imbottiti. Testa, addome, fianchi e braccia sono tutti bersagli validi da colpire.
Tecnica e concentrazione sono i due elementi fondamentali per un buon praticante di kendo. Nel combattimento sono determinanti la velocità di esecuzione e la precisione dei colpi. Un discorso a parte deve essere fatto invece per la potenza del colpo espressa non dalla forza delle braccia ma dallo spostamento del corpo: di solito la proiezione è in avanti, ma esistono anche delle tecniche (hiki) che vengono portate indietreggiando. Il momento più importante del combattimento è senz'altro l'impatto con il bersaglio, quando tutto il corpo è teso e contratto in avanti per applicare una forza sufficiente a 'tagliarlo'. Quindi non basta toccare e fuggire, ma lo shinai deve simulare un attacco preciso.
Il kendo in Italia ha iniziato a diffondersi nei primi anni Settanta. La prima organizzazione, l'Associazione italiana kendo (AIK), è stata fondata nel 1972 ed era composta da sei società. I primi corsi sono stati tenuti a Milano, presso il Busen Dojo, da Cesare Barioli, e a Torino, presso la palestra Belletti, dal maestro Kimura, nel 1970. Per diversi anni la situazione associativa italiana è rimasta piuttosto fluttuante, con molte organizzazioni che si affiancavano all'AIK, come le sezioni kendo della Federazione italiana karate e della Federazione italiana scherma e l'Associazione italiana diffusione kendo (AIDKE). Nel 1988 è stata costituita a Milano la FENIKE (Federazione nazionale italiana kendo) e lo stesso anno dall'accordo fra AIK e FENIKE è nata la Confederazione italiana kendo (CIK). L'unica altra organizzazione presente sul territorio italiano in quel momento era la Federazione italiana kendo, riconosciuta dal CONI. Nel 1988, ai Campionati Mondiali di Seul, la EKF (European kendo federation) e la IKF (International kendo federation) hanno assegnato in via definitiva il riconoscimento internazionale alla CIK, che è stata scelta per l'organizzazione dei Mondiali del 2012. L'EKF organizza ogni anno, tranne quando ci sono i Mondiali, i Campionati Europei. La CIK ha organizzato quelli del 2001, edizione in cui ha ottenuto tre secondi posti con la squadra maschile, quella femminile e nell'individuale femminile. Mirial Rivolsi, del Do Academy di Torino, ha vinto per tre anni il trofeo.
Agili, veloci, potenti, spettacolari: così sono gli atleti del kickboxing (kick, "calcio"; boxing, "scambio di pugni"), termine che indica quelle discipline di derivazione marziale da cui è stato eliminato l'aspetto filosofico e cerimoniale dell'arte stessa, privilegiando invece l'ambito sportivo, dove gli atleti si scambiano calci e pugni in varie parti del corpo, a seconda della specialità, su un quadrato di gara o su di un ring. Sono anche previste delle protezioni, di vari tipi e livelli, un modo che la ricerca del contatto non comprometta l'incolumità dei praticanti. All'interno di questa famiglia, chiamata anche degli sport da combattimento, troviamo il semi contact, il light contact, il full contact, il low kick, il thai kickboxing e la savate. A parte quest'ultima, la matrice storica è uguale per tutte.
La diffusione del kickboxing si deve all'intuito di un italiano, Ennio Falsoni, pluricampione italiano ed europeo, nonché vicecampione del mondo di karate, che nel 1981 codificò le discipline e le propose in Italia e nel mondo sotto diverse sigle. Oggi, in qualità di presidente, le promuove a livello internazionale sotto le insegne della World association of kickboxing organizations (WAKO) e a livello nazionale con la Federazione italiana kickboxing.
Liberatosi dai condizionamenti delle filosofie orientali legate alle arti marziali, il kickboxing è ormai sport assolutamente occidentale che si avvale di tutti i più aggiornati metodi di allenamento: così, accanto ai maestri che trasmettono la tecnica vera e propria, è facile trovare preparatori atletici, psicologi dello sport, dietologi e fisiologi. Tuttavia, le palestre in cui si pratica hanno mantenuto il grande valore educativo del rispetto che ogni atleta deve mantenere nei confronti del proprio insegnante e dei propri compagni di allenamento, caratteristica propria delle arti marziali.
Il semi contact, nato nel 1976, è la diretta eredità della gara di karate: il combattimento viene interrotto ogniqualvolta l'atleta riesce a piazzare un colpo; i due avversari si affrontano nell'arco di una, due o tre riprese (a seconda del tipo e dell'importanza del torneo) indossando protezioni alle mani e ai piedi. Rispetto al karate, i colpi devono essere portati a contatto ed esistono differenti punteggi a seconda della tecnica portata a segno. I calci al viso e i colpi saltati, notoriamente più difficili, sono così incoraggiati a tutto vantaggio della dinamicità e della spettacolarità della gara. È vietato il k.o. e in caso di mancato controllo l'atleta incorre in penalità e squalifiche. Le gare sono condotte da un arbitro centrale coadiuvato da due giudici; vince l'incontro chi totalizza più punti al termine delle riprese. Per la pratica si indossa una divisa sociale con pantaloni lunghi. Il livornese Emanuele Bozzolani, per ben tre volte vincitore della medaglia d'oro ai Campionati Mondiali WAKO, è il direttore tecnico della squadra italiana.
Il light contact, nato nel 1987, è il passo intermedio che conduce ai combattimenti a contatto pieno. I due avversari si affrontano scambiandosi vicendevolmente colpi senza interruzione in un fluire di tecniche giudicate sempre secondo il criterio della precisione. Anche qui la tecnica arriva a segno senza esprimere tutta la sua potenza. Si svolge in un'area non delimitata da corde; il match è composto da due riprese di due minuti ciascuna e non viene interrotto ogni volta che un atleta fa punto. L'arbitro centrale ha il compito di vigilare sulla sicurezza del combattimento, mentre a bordo del quadrato di gara siedono tre giudici che prendono nota dei colpi andati a bersaglio. Al termine la vittoria viene aggiudicata per maggioranza semplice. È vietato il k.o. e in caso di non osservanza si può venire squalificati. Per la pratica si indossa una divisa con pantaloni lunghi. Federico Milani, di Bergamo, pluricampione italiano sia di semi contact sia di light contact, più volte campione europeo e vicecampione del mondo WAKO, è il direttore tecnico della squadra italiana.
Il full contact, nato nel 1976, è la formula agonistica più dura: gli atleti si affrontano su un ring delimitato da corde, come nel pugilato, e i colpi portati a segno sono a contatto pieno. Vale l'utilizzo dei calci ma solo al di sopra della cintura. Gli atleti si suddividono in tre classi: esordienti (regionali), seconda serie e prima serie. Gli incontri variano da due a tre riprese di due minuti. È valido il k.o. I tornei sono a eliminazione diretta senza ripescaggio. Per la pratica si indossano pantaloni lunghi e si combatte a petto nudo. Il direttore tecnico della squadra italiana è il romano Massimo Liberati, campione del mondo WAKO (Budapest 1986). Passato al professionismo, ha perduto una sola volta contro l'inglese Trevor Ambrose nel 1988 a Roma.
Nel low kick, nato nel 1993, gli atleti combattono su un ring come nel full contact: i calci possono essere portati anche all'interno della coscia, oltre che all'esterno e sulle altre parti del corpo. Gli atleti indossano calzari, guantoni e paratibie e calzoni corti. Gli incontri si svolgono nell'arco di due o tre riprese di due minuti ciascuna e il k.o. è valido. Le categorie sono uguali al full contact: esordienti (regionali), seconda serie e prima serie. Il livornese Massimo Rizzoli è il direttore tecnico della squadra italiana; è stato campione del mondo WAKO di full contact nel 1990 (a Mestre) e, passato al low kick, ha un record impressionante di vittorie: ben 80, contro 8 sole sconfitte.
Il thai kickboxing, nato nel 2000, deriva dall'arte orientale della muay thai. In tutto simile a questa, si differenzia per la proibizione dei colpi di gomito, alla nuca e alla colonna vertebrale. Inoltre l'uso del clinch (corpo a corpo) è limitato alla sola fase attiva, cioè quando uno dei due sferra colpi di ginocchio all'altro, altrimenti viene interrotto dopo pochi secondi. Si combatte su un ring ed essendo il thai kickboxing concepito solo come sport non sono previste la danza rituale (ram muay) prima di ogni combattimento e la musica tradizionale di sottofondo durante lo svolgimento dello stesso. Gli atleti devono presentarsi sul ring indossando pantaloncini corti e a torso nudo. Coordinatore italiano del settore è Mauro Samperi, coadiuvato da Diego Calzolari e Ugo Forti, tutti pluricampioni italiani.
Prendendo spunto dagli sport da combattimento, negli ultimi anni si sta affermando anche un'altra disciplina, l'aerobic kickboxing, con campionati sportivi a livello italiano, europeo e mondiale. Attraverso la musica e gli attrezzi dell'aerobica come lo step, vengono insegnate le combinazioni e le tecniche del kickboxing, accrescendo il bagaglio conoscitivo del praticante, evitandogli lo scontro diretto con un avversario, ma formandolo sulla completezza delle tecniche. La disciplina può essere utilizzata come formazione per l'autodifesa o come preparazione agonistica agli scontri diretti. La musica che accompagna le tecniche rende l'allenamento più divertente, garantendo un ottimo esercizio aerobico.
Ha invece origini molto più antiche la savate, o 'boxe francese', il cui nome ("ciabatta") fu coniato dal parigino Michel Casseux. Inizialmente la savate era il modo di combattere e di difendersi dei malandrini che popolavano i rioni più squallidi di Parigi. Casseux, nato nel 1794 a Parigi, ne studiò i movimenti, semplificò le parti più complesse delle tecniche di esecuzione e gettò le basi per una sua diffusione, tanto che con il passare degli anni divenne uno sport conosciuto e praticato anche dalla nobiltà della capitale francese. Charles Lecour, un allievo di Casseux, ne continuò l'opera e nel 1808 prese parte al primo dei numerosi incontri interdisciplinari. Lecour perse il confronto con un campione di pugilato inglese ma fu proprio questo che fece scoccare la scintilla per l'evoluzione tecnica della savate, che fino a quel momento si basava quasi esclusivamente su colpi di piede e che invece da allora vide l'introduzione anche dei pugni. Nel 1850 esistevano già due differenti concezioni di boxe francese: una più attenta allo stile e all'eleganza dei movimenti, nella quale gli assalti erano dimostrazioni con colpi controllati, un'altra in cui predominava la forza. Ciascuno dei due modelli funzionava dal punto di vista dello spettacolo, ma alla lunga prevalse il primo. Verso il 1870 Joseph Charlemont, codificandone le regole, riportò la savate all'apice della popolarità. Epica fu, nel 1899 a Parigi, la sfida interstile di suo figlio Charles contro il campione inglese di pugilato Jerry Driscoll, che voleva confermare la superiorità della boxe. Ma non fu così. La savate divenne popolare a tal punto che alle Olimpiadi di Parigi nel 1924 venne presentata come sport dimostrativo. Da quel momento in poi iniziò un irreversibile declino.
La sua caratteristica, rispetto agli altri sport da combattimento, è che si pratica con una tuta accademica e con scarpette ai piedi, che consentono di portare colpi di punta, di pianta, di lato o di collo. Non si può colpire invece di tibia. I colpi di mano sono mutuati dal pugilato. I bersagli sono gli stessi del low kick (sempre esclusi inguine e nuca), incluse le articolazioni del ginocchio e della caviglia. Le mani sono protette da guantoni, che variano a seconda del livello tecnico. I combattimenti si svolgono sulla distanza di due o tre riprese, ciascuna da un minuto o da un minuto e mezzo. Non vale il k.o.
La maggior parte delle società sportive dove si praticano sport da combattimento sono oggi strutture private. Si combatte su qualunque superficie liscia, pertanto su linoleum, parquet, materassino (tatami), o sul ring. Il praticante necessita di una qualunque tuta da ginnastica per apprendere i primi rudimenti, ma se la sua intenzione è quella di continuare i corsi, deve munirsi di un'attrezzatura specifica. In generale, per tutte le discipline servono guantoni da 8 o 10 once (in base alle categorie di peso), caschetto (nella savate solo in alcune categorie minori), paradenti, paraseno (per le donne), conchiglia, paratibia e calzari. A certi livelli, l'atleta deve anche fasciarsi le mani.
Sull'esempio delle arti marziali, anche per gli sport da combattimento sono stati codificati dei programmi tecnici, con esami e passaggio di cintura dopo 3-4 mesi di pratica. La terminologia impiegata è espressa nella lingua del paese dove si pratica, a eccezione della savate, per la quale si usa il francese, e del thai kickboxing, dove spesso la tecnica viene indicata in thailandese.
La WAKO, che annovera 74 paesi con oltre due milioni di praticanti (in Italia sono oltre 13.000), è giunta alla quattordicesima edizione dei Mondiali, disputati per la prima volta nel 1978 a Berlino. L'Italia è certamente tra le grandi nazioni di kickboxing: gli atleti azzurri sono vittoriosi nel semi contact da tre edizioni consecutive dei Mondiali e comunque finiscono sempre ai primi cinque posti in tutte le specialità. I Campionati di Europa si svolgono ogni due anni, alternativamente ai Mondiali. In Italia si organizzano numerosissime competizioni, a livello sia regionale sia interregionale e nazionale. Le principali gare sono la Coppa Italia, la Coppa del presidente, i Campionati italiani, ma si tengono anche molte serate di gala, con incontri internazionali validi anche per titoli professionistici (a livello italiano, europeo e mondiale). Famosa tra tutte la manifestazione Kickboxing superstar che viene proposta sei volte l'anno al Palalido di Milano.
Fino all'inizio del 20° secolo il kobudo ("antica via marziale") di Okinawa, isola dell'arcipelago Ryu Kyu, oggi provincia giapponese ma fino al 1870 autonomo, era un'arte alquanto frammentaria. La sua origine risaliva al periodo dei floridi rapporti commerciali tra i sudditi del re Shô Hashi (13° secolo) e i cinesi, che insegnarono la loro disciplina ai nobili okinawesi. Ogni due anni, fino al 1874, la dinastia delle Ryu Kyu mandò in Cina navi cariche di preziosi tributi per l'imperatore. Per metterle al sicuro dai pirati, sia l'equipaggio sia gli emissari erano armati e allenati nelle arti marziali. Una delle ragioni per le quali le discipline marziali si svilupparono in un'isola piccola come Okinawa sarebbe stata proprio la necessità di proteggere queste missioni. L'abilità dei guerrieri derivava dagli insegnamenti di una comunità di monaci e artigiani cinesi che nel 1392, durante il regno del re Sattô, si era stabilita nel villaggio okinawese di Kume. Successivamente, la gente di questo villaggio divenne responsabile del commercio e delle comunicazioni tra Okinawa e la Cina. L'arte marziale cinese si diffuse rapidamente nell'arcipelago, contribuendo alla nascita di un'unica forma di Okinawa karate (anticamente chiamato ti) e di Okinawa kobudo.
Poi le cose cambiarono e il kobudo, come il karate, vennero proibiti e le loro tecniche tenute segrete. Quando Okinawa venne ufficialmente incorporata al Giappone come prefettura, nuove leggi tolsero il velo di segretezza a queste discipline e il sistema di istruzione dell'era Meiji (1868-1912) adottò il karate e il kobudo come parte del programma di educazione fisica nelle scuole. Da allora queste due arti marziali furono esibite pubblicamente e durante l'era Taisho (1912-1926) furono introdotte nelle isole maggiori del Giappone. Nell'era Showa (1926-1988) si diffusero nel resto del mondo.
Tra i grandi maestri di kobudo, una menzione particolare spetta a Shinko Matayoshi, la cui famiglia apparteneva, fino al 1879, alla classe degli shizoku (nobili). Matayoshi nacque nel 1888 a Naha, Okinawa. Fin dall'infanzia, studiò il bo (bastone) d'Okinawa, l'êku (remo), il kama (falcetto) e il sai (tridente) sotto la direzione dei maestri Chokuho Agena, Ryuko Shiishi, Yamani Chinen e di suo padre Shinchin, mentre il maestro Matsutaro (Ogii) Irei gli insegnò il tunkuwa (manico para-avambraccio) e il nunchaku (bastone snodato a due sezioni). Dalle tribù nomadi di Hokkaido, Sahalin e della Manciuria apprese l'uso di altre armi, dell'equitazione e l'impiego del lazo. Poi, con altri maestri, studiò agopuntura e lo Shorin-kempo. Nel 1915, in occasione di una grande cerimonia al tempio Shinto, davanti alla corte imperiale Gichin Funakoshi (fondatore dello shotokan) presentò il suo karate e Shinko Matayoshi il tunkuwa-jutsu e il kama-jutsu del kobudo. Nel 1921 in occasione della visita del principe ereditario Hirohito nell'isola di Okinawa, Chojun Miyagi dello stile goju-ryu e Matayoshi proposero con successo una dimostrazione di karate e kobudo. Nel mondo delle arti marziali Matayoshi fu soprannominato Kama no Mateshi ("Matayoshi dei kama") per la sua grande abilità nell'uso di quest'arma.
Altro grande maestro è stato suo fratello maggiore Shinpo Matayoshi, che nel 1970 ha fondato la Federazione di kobudo (Ryukyu kobudo renmei) per favorire, per mezzo di un insegnamento ortodosso mirato al corpo e allo spirito dei praticanti, lo sviluppo di veri valori morali. Così, passando attraverso Okinawa e il Giappone, il kobudo autentico si è diffuso nel mondo intero. Nel 1972 la scuola fu riconosciuta dal governo giapponese con il nuovo nome di Zen Okinawa kobudo Renmei. Unico okinawese e unico maestro di kobudo di Okinawa, Shinpo Matayoshi entrò a far parte della Dai Nippon butokukai, l'associazione dei maestri di arti marziali giapponesi, da sempre presieduta da un membro della famiglia imperiale. Nel 1987 Sua Altezza Imperiale Higashi Fushimi Jigo, presidente della Dai Nippon butokukai, lo nominò 10° dan hanshi. Matayoshi morì nel 1997. All'epoca i praticanti nel mondo erano circa un milione e mezzo. In Italia il maestro Andrea Guarelli è il presidente dell'Associazione italiana kobudo di Okinawa, che conta circa 1500 iscritti. La principale organizzazione mondiale è la Matayoshi kobudo kyokai, rappresentata in Europa dalla EOKA (European Okinawa kobudo association).
Il solo modo di studiare kobudo con successo è praticarlo con un'attitudine composta da cinque elementi: pazienza, fiducia, umiltà, scioltezza di spirito e disponibilità, secondo un principio ideale espresso attraverso la nozione chiamata jûnanshin (jûnan, "flessibile, malleabile, duttile, plasmabile"; shin, "spirito"). Su questi cinque elementi si concentrano inizialmente le correzioni dell'insegnante.
Lo studio del kobudo inizia con il bo, o bastone lungo, che è sicuramente l'arma principale utilizzata nella disciplina. Il materiale impiegato è il legno di quercia, rossa o bianca, di nespolo del Giappone, di areca e di kuba (tipo di palma), alberi solidi e flessibili, originari della zona subtropicale di cui anche Okinawa fa parte. La lunghezza standard del bo è di circa 182 cm, ma esistono versioni più corte (yonshakubo) e più lunghe (bajobo). Il primo bastone era cilindrico (marubo) e si trattava probabilmente di un tembin, il bastone-bilanciere portato sulle spalle dai cinesi per trasportare i carichi più pesanti, quasi sicuramente in bambù (takebo). Con il passare del tempo forme e sezioni si sono evolute. Così, in combattimento, vennero spesso utilizzati bastoni a sezione quadrata (kakubo), esagonale (rokkakubo) o ottagonale (hakkakubo). La forma usata attualmente è di nuovo quella tonda ma a sezione biconica. Il centro del bastone (chukon-bu) è di circa 3 cm, mentre le due estremità (kontei) misurano entrambe circa 2,5 cm. Fanno ugualmente parte del kobudo alcune armi che hanno in comune con il bo il maneggio di base: l'êku (remo), il nunti-bo (lancia), il kuruman-bo (bastone lungo snodato) e il rokushaku-gama (falce lunga sei piedi). Queste quattro armi tipiche richiedono uno studio separato e approfondito. Si studiano inoltre il sosetsukon o nunchaku (bastone snodato a due sezioni), il sansetsukon (bastone snodato a tre sezioni), la suruchin (corda con due pesi alle estremità), la kuwa (zappa), il sai (tridente), il Matayoshi sai (sai con elsa a S), il tunkuwa (manico para-avambraccio), i kama (falcetti), il nunti (tridente a S), il tinbei (scudo), il tekko (tirapugni a staffa) e il tecchu (tirapugni cilindrico).
Il kobudo normalmente viene praticato su una superficie rigida ed elastica a piedi scalzi, indossando una particolare divisa chiamata gi, keikogi o kobudogi, composta da una giacca nera, un pantalone bianco e una cintura del colore relativo al grado conseguito.
Le gare sono di due tipi principali: kata (modello tecnico) e kumite (combattimento). Le gare di kata consistono in una prova individuale alla quale cinque giudici attribuiscono un punteggio in base alle caratteristiche di precisione tecnica, forza, ritmo e respirazione. Per le gare di kumite è invece previsto l'uso di armi leggere e di speciali protezioni che consentono il contatto senza alcun pericolo per i praticanti. In questo tipo di gara due atleti si affrontano in un combattimento della durata di 3 minuti. Vince l'atleta che porta a segno il maggior numero di colpi validi. I Campionati italiani si svolgono ogni 2 anni dal 1990, quelli Europei ogni 4 anni dal 1991, quelli Mondiali ogni 6 anni dal 1997.
Il krav maga ("combattimento di contatto") è il sistema ufficiale di combattimento corpo a corpo e di autodifesa usato in Israele dalle forze armate, dai servizi di sicurezza, dalle unità speciali antiterrorismo, recentemente inserito nei programmi del Ministero dell'Educazione nazionale di Gerusalemme. Anche la popolazione civile, infatti, è addestrata fin dall'infanzia ai rudimenti della disciplina, il cui creatore è stato negli anni Trenta Imi Lichtenfeld, che riunì intorno a sé un gruppo di atleti intenzionati a proteggere la comunità ebrea locale. A causa dei numerosi scontri affrontati, Lichtenfeld si rendeva conto della differenza tra combattimento sportivo e combattimento da strada e su questa base stabilì i fondamenti del krav maga che in seguito si è diffuso anche in Francia, negli Stati Uniti e in altri paesi, soprattutto nelle organizzazioni militari e di sicurezza. Attualmente è in uso in circa venti corpi di polizia. In Italia, il primo contatto con la disciplina, fino al 2000 sconosciuta, è avvenuto per opera di alcuni istruttori di arti marziali (tra cui Marco Buschini, agente della polizia di Stato e direttore tecnico dell'Accademia di sicurezza operativa) che sono stati addestrati in Francia da un ex istruttore dell'armata israeliana, appartenente alla International krav maga federation.
L'obiettivo di questa disciplina consiste nell'insegnare tecniche, principi e tattiche realmente efficaci quando ci si trovi in situazioni di pericolo, anche in condizioni di oscurità, con limitata libertà di movimento, mentre si dorme o si è in auto. Nello specifico, si studiano le tecniche di difesa da presa, da strangolamento, da coltello, da bastoni, di difesa e attacco al suolo. Poiché i movimenti sono basati su gesti di riflessi naturali e il metodo complessivamente è semplice e istintivo, il krav maga è indicato per uomini e donne di ogni età. La strategia consiste nel chiudere la distanza all'avversario, anticipare il suo attacco, usare traiettorie lineari e colpire sempre con l'arto più vicino al bersaglio. Se gli aggressori sono più di uno, si insegna a colpire sempre il più vicino e chi non se lo aspetta.
Negli allenamenti non vi sono forme 'a vuoto', ma il praticante comincia sin dal primo momento ad assimilare le varie tecniche colpendo o i colpitori tenuti nelle zone di bersaglio dall'avversario o direttamente l'avversario. I bersagli sono solo punti sensibili non allenabili: ginocchia, genitali, gola, mento, naso, occhi. L'unica protezione consentita e raccomandata è la conchiglia per i genitali. Una volta imparata la tecnica si usa proseguire gli allenamenti a occhi chiusi. Al contrario di molte arti marziali, sin dal primo giorno si insegnano tecniche di difesa contro coltello o minaccia di armi da fuoco.
I luoghi in cui ci si allena variano a seconda della finalità: in caso di addestramento militare e per le forze dell'ordine, si usano palestre e spazi all'aperto, ma anche luoghi chiusi e stretti, con o senza arredamento, pullman, automobili, aerei; l'abbigliamento è esattamente quello che si indossa durante il servizio. Per i praticanti comuni, invece, si utilizzano palestre o spazi aperti; l'abbigliamento è costituito da un paio di pantaloni comodi e scarpe da ginnastica.
Le gare esistono solo in Israele e vengono effettuate soltanto da bambini. Consistono nell'entrare in un'apposita struttura con molte stanze, in ognuna delle quali c'è un aggressore di cui i bambini non sanno né dove né quando colpirà. Se riescono a reagire prendono punti, altrimenti li perdono.
"Ogni colpo, una vita" usano ripetere coloro che forgiano la propria esistenza sui principi del kyudo. Si tratta di un'antica arte giapponese di tiro con l'arco, nata centinaia di anni fa per scopi puramente militari e oggi praticata in tutto il mondo da migliaia di persone. Di essa esistono diverse scuole, frutto delle gesta di arcieri giapponesi come Heki Danjo Masatsugu, un eroe mitico della tormentata storia giapponese del 15° secolo, che con la sua straordinaria abilità rivoluzionò l'arte del tiro con l'arco creando una nuova tecnica. Alcuni guerrieri ne seguirono l'insegnamento, codificandolo e trasmettendolo per generazioni. In questo modo l'insegnamento di Heki si diffuse in tutto il Giappone, differenziandosi in varie scuole. Una di queste aveva la sua sede a Kyoto, dove risiedeva il maestro Yoshida Issuiken Insai, che dopo la battaglia di Sekigahara (ottobre 1600) fu chiamato dallo shogun Tokugawa perché gli insegnasse il kyudo. Da allora questa scuola, che prese il nome di Heki Ryu Insai Ha, ha potuto fregiarsi del titolo di Heki To-Ryu, ovvero la scuola della casata dello shogun.
Attualmente le scuole maggiormente rappresentative sono due: la scuola Heki To-Ryu e lo stile Shomen. La Heki To-Ryu può vantare una discendenza diretta da maestro a maestro per 19 generazioni e ha mantenuto sostanzialmente inalterati i fondamenti della tecnica. È la più diffusa in Italia, dove è presente dal 1976, quando Ioshihiro Ichikura, allievo di Inagaki Genshiro, scoccò a Milano la prima freccia. La maggior parte dei praticanti si trova sotto le insegne dell'Associazione italiana kyudo (AIK), affiliata alla European federation kyudo e alla Federazione giapponese ZNKR.
Lo stile Shomen è frutto di una sintesi, operata nel 1900 in Giappone per codificare e uniformare in un unico nuovo stile le altre scuole. Ha un carattere più cerimoniale e non ha come fine il colpire, mentre lo stile della scuola Heki, di tradizione militare, considera determinante centrare il bersaglio. La scuola Heki, pertanto, prevede gare e tornei, come in una disciplina sportiva, anche se il fine della competizione non è propriamente l'agonismo, bensì una strategia per l'apprendimento e la crescita dell'arciere.
Il kyudo non si può praticare nelle palestre come le altre arti marziali. C'è bisogno di grandi spazi, di stare a contatto con la natura, secondo quanto insegnano gli antichi cerimoniali shintoisti, di cui si trova traccia in quest'arte, e la filosofia zen. Il kyudo punta all'armonia, alla capacità di fondersi con l'arco e il bersaglio, insegna ad armonizzare i movimenti con gli strumenti, le distanze, l'obiettivo, il mondo esterno. L'arte giapponese del tiro con l'arco non pone di fronte due contendenti, ma un arciere e un bersaglio, che attesta la corretta esecuzione del tiro. In un certo senso si può quindi dire che il kyudoka si pone di fronte a sé stesso, ai propri limiti, alle proprie potenzialità. Colpire il bersaglio è importante, ma solo di riflesso, perché la vera sfida è avere il corpo e la mente in assoluta armonia. Per questo, da arma di offesa l'arco giapponese si è trasformato in uno strumento di realizzazione spirituale, un mezzo per raggiungere uno stato di concentrazione e armonia interiore. Meglio sbagliare il bersaglio, ma con un atteggiamento corretto, piuttosto che fare centro senza il giusto equilibrio psicofisico.
Questa è la distinzione maggiore dal moderno tiro con l'arco, oltre alle dimensioni dell'arma stessa (yumi), che nel kyudo è di circa 2,25 m ed è realizzata in bambù, per un peso tra i 10 e i 30 kg. Inoltre, visto che i primissimi arcieri giapponesi combattevano a cavallo (yabusame), l'arco è asimmetrico, con la parte inferiore più corta, per non intralciare le gambe dell'animale. Attualmente in Giappone sono disponibili anche archi in fibra di carbonio e di vetro, più resistenti e meno costosi, ma complessivamente di minore qualità.
Anche le frecce (ya) dovrebbero essere di bambù, ma essendo troppo delicate e costose, la tradizione ha ceduto al moderno alluminio e carbonio. L'arciere indossa un guanto (kake) con tre dita, con un rinforzo in legno (boshi) e una tacca sul pollice per la trazione della corda, e l'hakama, la tradizionale gonna giapponese, usata anche nel kendo e nell'aikido, con una casacca (keikogi) e una cintura (obi). Gli antichi samurai vestivano anche l'armatura e, pertanto, il tiro da guerra, che viene ancora oggi praticato solo dagli appartenenti della Heki Toryu, ha delle posizioni leggermente modificate perché l'armatura limita alcuni movimenti.
In anni recenti Inagaki Genshiro Yoshimichi, titolare della cattedra di kyudo all'università di Waseda, ha inaugurato una serie di studi tecnici sperimentali per spiegare e confermare, anche dal punto di vista scientifico, la profonda qualità dell'insegnamento degli antichi testi della scuola Heki To-Ryu. Inagaki ha inoltre promosso con grande impegno lo sviluppo del kyudo in Europa, in particolare in Germania, Italia e Finlandia. La sua opera continua grazie al suo successore, Mori Toshio, titolare della cattedra di kyudo all'università di Tsukuba, che ogni anno visita l'Italia tenendo dei seminari.
La caratteristica della tecnica dell'Heki To-Ryu risiede nel lavoro della mano sinistra (tsunomi no hataraki) che spinge e torce l'arco: una tecnica segreta tramandata nei secoli, la cui efficacia è stata verificata anche tramite moderni esperimenti nelle università giapponesi. Dopo alcuni movimenti preparatori molto precisi, la freccia tocca lo zigomo per arrivare in quella fase detta nobiai, ovvero gli ultimi secondi prima dello sgancio, in cui si concentra tutta l'essenza del tiro. Quindi si scocca la freccia (hanare). Dopo anni di allenamento assiduo l'arciere è in grado di sganciare con efficacia e naturalezza. Colpire il bersaglio (mato) è possibile se la tecnica è corretta e se lo spirito (kokoro) dell'arciere è sincero. Per raggiungere questa perfezione di tiro occorre allenarsi duramente ogni giorno: si inizia con due frecce a una balla di paglia (makiwara) posta alla distanza di 2 m per saggiare l'arco e poi si prosegue con 100 frecce al bersaglio (mato) di 36 cm di diametro posto a 28 m di distanza. Un gesto ripetuto allo sfinimento, fino a quando l'arco diventa parte di sé stessi e la mente guida la freccia. In caso di particolari ricorrenze o in presenza di ospiti, vengono lanciate due frecce cerimoniali (tai hai) al bersaglio, una in piedi e una in ginocchio. Saltuariamente viene effettuato un tiro a 60 m (enteki) a un bersaglio di paglia di circa 1 m di diametro. La tecnica è la medesima, ma vengono utilizzate frecce più leggere, con penne più basse, e la mira viene leggermente alzata.
Nella 'terra dei popoli liberi', la Thailandia, lo sport nazionale è la muay thai che, nata come arte militare, parte del patrimonio delle conoscenze marziali dei guerrieri del Siam, si è sviluppata tra il popolo come un sistema di lotta per la sopravvivenza. Essendo i thailandesi un popolo amante del combattimento, anche in tempo di pace lo studio della muay thai non si è interrotto, tanto che nel 1995 il Dipartimento di Educazione fisica, sulla base di antichi manuali di pedagogia, l'ha inserita nelle scuole.
Le affascinanti tradizioni della muay thai, tramandate per generazioni, trovano le loro origini in un'era in cui il guerriero era baluardo e fondamento della civiltà e della libertà. I thai hanno dovuto lottare in continuazione per affermare e, successivamente, per difendere la loro unità nazionale; l'effetto di questo stato di guerra pressoché costante è stato quello di creare un fortissimo legame tra il popolo e la casa reale. Intorno alla figura del re si riunivano le energie di tutti i suoi sudditi per riuscire a sconfiggere nemici il più delle volte militarmente superiori. Dal sovrano stesso sono sempre giunti segnali di grande favore verso lo sviluppo di una forma autoctona di lotta con e senza armi (molti definiscono tuttora la muay thai come 'l'arte dei re'); emblematico fu il caso della redazione, imposta dal principe Uthong Ayudhaya, del più famoso manuale di muay thai noto come Chuppasart, risalente al 1350. Convocati con lo scopo di assicurare la sopravvivenza dello Stato thailandese, da poco resosi indipendente, i più grandi maestri dell'epoca codificarono e registrarono le tecniche di lotta che per secoli erano state usate dai guerrieri thai e tramandate solo oralmente, spesso in linea familiare diretta. Il Chuppasart, che divenne il testo ufficiale per tutti i guerrieri siamesi, rappresentò una sorta di sconvolgimento nelle modalità di trasmissione della conoscenza marziale, cambiando il rapporto tra maestro e discepolo, spesso ammantato di segretezza e misticismo. Con il manuale, infatti, le nuove tecniche vennero rese pubbliche e disponibili a tutti gli insegnanti, senza segreti. La pratica era limitata ai soli guerrieri thai, escludendo per secoli da tale processo i farang (gli stranieri).
Un'altra fase cruciale dello sviluppo della muay thai fu l'ascesa al trono del principe nero Naresuan: fino al suo avvento le arti di guerra thai prevedevano l'uso di armi, spade, lance, giavellotti, pugnali, bastoni (tecniche riunite sotto il nome di krabi krabong) e tecniche a mani nude (muay boran); il principe Naresuan, che aveva passato anni come prigioniero in Birmania (l'odierna Myanmar) dove si era dedicato allo studio dell'arte della guerra, volle separare nettamente le due specialità, ritenendo che l'unica arma sempre a disposizione del guerriero fosse il proprio corpo. Da allora le strade della muay thai e del krabi krabong si separarono nettamente, segnando il successo definitivo della lotta thailandese a mani nude. Grazie alla successiva diffusione della maniera di combattere con l'uso di pugni, calci, gomitate e ginocchiate i thailandesi vennero soprannominati dalle popolazioni confinanti 'la razza dalle otto braccia'.
L'insieme dei rituali seguiti durante la pratica e prima di un combattimento lascia trasparire elementi di origine buddhista e animista insieme a un profondo orgoglio per l'arte praticata. Il mongkon, sorta di corona di corda posta intorno al capo dell'atleta dal maestro, precedentemente benedetta in sette monasteri buddhisti, ricorda all'allievo che egli combatte rappresentando sia il maestro sia la scuola. Un altro importante amuleto usato da molti combattenti è il prajaet, un bracciale di stoffa o corda avvolto all'altezza del bicipite e contenente una reliquia o un oggetto caro al pugile. La muay thai inoltre si distingue per il particolare rituale che si esegue prima del combattimento: dopo un giro iniziale della superficie del ring, la cerimonia prosegue con il waai khruu ovvero l'omaggio al maestro, che è la figura centrale della pratica di questa come di tutte le arti marziali. Con i guantoni uniti vicini al viso, il guerriero thai esegue tre inchini recitando una breve preghiera per onorare il maestro, il proprio campo di appartenenza e i combattenti che lo hanno preceduto. Dopo l'inchino devozionale inizia la ram muay, o danza guerriera, una sequenza di movimenti lenti e aggraziati eseguiti muovendosi sul ring lungo i quattro lati del quadrato. Tale uso risale all'epoca degli scontri senza regole (prima dell'introduzione del ring), quando era fondamentale tastare il terreno prima di uno scontro per individuare buche o sassi o altri ostacoli che potessero interagire con il risultato. Inoltre, il cerimoniale permette all'allievo una sorta di raccoglimento delle energie psicofisiche necessarie alla competizione, oltre a riscaldare tutti i muscoli sollecitati nell'esecuzione delle tecniche di combattimento.
L'abbigliamento del thai boxer è costituito, nella madrepatria, da un paio di calzoncini corti a mezza coscia con scritte in caratteri thailandesi sulla parte frontale o laterale; in Europa si distingue una tenuta da palestra per i normali allenamenti (maglietta blu o nera e calzoncini), una tenuta da gara per i dilettanti (con protezioni per testa, torace, tibie e gomiti) e una per gli atleti professionisti (solo i guantoni).
I gradi tecnici nella muay boran utilizzati in Europa e nel resto del mondo sono: per gli allievi, dal colore giallo al verde, blu, marrone e rosso (evidenziato dal prajaet portato intorno al braccio); per gli istruttori, primo, secondo e terzo livello (evidenziato dal colore del prajaet e del mongkon, rispettivamente bianco e rosso, giallo e rosso e giallo e argento); per i maestri, mongkon e prajaet argentato; per i gran maestri, mongkon e prajaet dorato.
L'allenamento base della muay thai dura circa un'ora e mezza. Dopo una prima fase di riscaldamento si passa al salto della corda per circa 10 minuti suddivisi in riprese da 3 minuti ciascuna e intervallati da piegamenti sulle braccia. Si prosegue con lo stretching, seguito da 3 o 4 riprese di colpi a vuoto (boxe con l'ombra) e poi si passa alla parte tecnica vera e propria: tecniche a coppia, lavoro ai colpitori (palo, sacco, focus gloves), lotta corpo a corpo e, una volta alla settimana, sparring (combattimento leggero con protezioni). Si termina con esercizi di potenziamento della fascia addominale e del collo.
Gli incontri sportivi si disputano su un ring da pugilato (circa 6 m di lato) tra atleti suddivisi in categorie di peso (da 45 kg a oltre 91 kg) e di esperienza (dilettanti e professionisti). I dilettanti combattono sulla distanza di 3 riprese da 2 minuti l'una, mentre i professionisti sulle 5 riprese di 3 minuti. Gli incontri possono terminare con una vittoria ai punti (nel qual caso il verdetto è stilato dai giudici di sedia) o prima del limite (per fuori combattimento, intervento del medico o manifesta inferiorità di uno dei contendenti) o con un pareggio (quest'ultimo caso non è ammesso nel corso di tornei a eliminazione diretta). Gli ufficiali di gara sono un arbitro centrale e tre giudici di sedia (cinque nel caso di tornei dilettanti internazionali).
La muay thai si basa su 108 tecniche fondamentali eseguite con i pugni (colpi chern mahd), le gambe (chern thao), le ginocchia (chern kao), i gomiti (chern sok), la testa (hua), oltre alle tecniche di lotta (chap ko) e di proiezione (wiang). Utilizzando queste tecniche, il thai boxer è in grado di lottare sfruttando le tre distanze fondamentali di combattimento: la lunga distanza, in cui si usano colpi di piede come il tiip trong e di tibia come il tae dtad, oltre a ginocchiate, gomitate, pugni, eseguiti saltando verso l'avversario; la media distanza, in cui si usano pugni come il mahd kohk e ginocchiate come il kao chieng, oltre alle gomitate e ad alcuni calci alle gambe e al tronco; la corta distanza, in cui si eseguono prese di lotta, si colpisce con gomiti come con il sog gnad e ginocchia e si proietta a terra. A ognuna delle tre distanze, gli attacchi vengono portati su tre livelli di altezza: livello basso (dal piede alla cresta iliaca); livello medio (dalla cresta iliaca alla spalla); livello alto (dalla spalla alla sommità del capo).
Attualmente la muay thai viene praticata in oltre 90 paesi da circa 300.000 atleti ‒ di cui 10.000 solo in Italia ‒ principalmente nella sua spettacolare versione sportiva, definita spesso impropriamente con il termine anglosassone di thai boxing o thai boxe, anche se da alcuni anni è tornata in auge anche la versione marziale nota come muay boran. Nel mondo è l'IMTF (International muay thai federation) con sede a Bangkok a curare, per incarico del Ministero dell'Educazione della Thailandia, la corretta diffusione e lo sviluppo della muay thai nei cinque continenti. La muay boran (arte marziale tradizionale) è invece sotto il diretto controllo della Commissione Cultura del Ministero dell'Educazione thailandese; da alcuni anni è stata creata la prima organizzazione internazionale dedita al suo studio e al suo sviluppo, l'IMBA (International muay boran academy), presieduta dall'italiano Marco De Cesaris. In Italia le due organizzazioni internazionali riuniscono la maggioranza dei praticanti sia nella versione sportiva sia in quella marziale tradizionale.
I campionati internazionali della muay thai vengono organizzati con cadenza biennale dalla IMTF: ad anni alterni si disputano i titoli continentali e quelli mondiali. A tutt'oggi i tornei mondiali sono stati sempre disputati a Bangkok (si è giunti nel 2003 alla sesta edizione) mentre gli europei si sono disputati per tre volte (in Spagna, a Cipro e in Portogallo).
La nazionale italiana dilettanti, allenata dal direttore tecnico Marco De Cesaris (uno dei tre maestri occidentali insignito del grado di arjarn, massimo livello tecnico nella muay boran, direttamente dalla Commissione Cultura del Ministero dell'Educazione della Thailandia) ha ottenuto fino al 2002 una medaglia d'oro (con Matteo Minonzio), due d'argento (Stefano Ricci e Sandro Buccolieri), quattro di bronzo (Franco Lai, Giampaolo Faelli, Clyde Parenti, Stefano Ricci) e tre coppe speciali per la migliore ram muay (Buccolieri, Faelli, Usai). Tra gli italiani che hanno conquistato il titolo di campione mondiale professionisti Matteo Minonzio, Franco Lai, Diego Calzolari, Sandro Buccolieri, Franz Haller.
Il ninjutsu, che racchiude in sé ben nove discipline da combattimento, è l'arte marziale praticata dai Ninja, noti nel mondo occidentale in quanto protagonisti di molti film d'azione in cui compaiono come abili agenti segreti al servizio del Bene (e alcuni anche del Male). Affonda le sue origini nella storia giapponese più antica, iniziando a prendere forma dopo l'unificazione del Giappone. Tra il 12° e il 13° secolo partecipa ai cambiamenti storici del Giappone e comincia a giocare un ruolo decisivo in battaglie, strategie e intrighi. È bene ricordare che in Giappone vigevano due diversi tipi di culture guerriere, quella 'ufficiale' dei samurai e quella 'invisibile' dei Ninja. Le famiglie Ninja delle regioni di Iga, Koga e Negoro (situate tra Kyoto e Nagoya) furono impiegate dai feudatari per le loro conoscenze di strategia, infiltrazione e metodo di combattimento e si guadagnarono la fama di spietati e invisibili mercenari, dei quali non si conosceva l'identità e che non si riuscivano mai a catturare (preferivano il suicidio alla prigionia). Sulle origini del ninjutsu influirono in particolare gli Yamabushi, monaci-guerrieri che vivevano in montagna e avevano conoscenze di esoterismo che, si diceva, applicavano al combattimento, e i Ronin (samurai senza padrone) che vivevano come cavalieri erranti ed esuli. Entrambi erano perseguitati dal potere centrale e dovevano escogitare un modo per sopravvivere e lottare contro samurai, daimyo e shogun, scambiandosi conoscenze ed esperienze.
L'ideogramma giapponese di ninjutsu è formato da nin, che può essere tradotto in "resistenza, pazienza, tenacia e perseveranza", ma può anche avere il significato di "segreto, nascosto, furtivo" (all'interno dello stesso ideogramma troviamo altri due elementi, spada e cuore, decisamente in contrapposizione tra loro, ma che esprimono le qualità necessarie per sopravvivere e la spiritualità; in sintesi il controllo dello spirito sul corpo), e da jutsu, vuol dire "arte"; quindi il ninjutsu è l'arte della perseveranza o l'arte dell'invisibilità.
Il ninjutsu è un'arte marziale completa, codificata da programmi (scritti in pergamene) tramandati nei secoli e aggiornati da capo scuola in capo scuola fino a oggi. L'attuale gran maestro (soke) mondiale e fondatore della Bujinkan budo taijutsu ("casa del divino guerriero") è Masaaki Hatsumi, nato nel 1931 e che fin dalla giovinezza ha praticato diverse arti marziali; per lui fu determinante l'incontro con il precedente soke Takamatsu Toshitsugu. Studiò per 15 anni prima di venire a sua volta investito del ruolo di soke delle nove tradizioni marziali riconosciute dal governo giapponese: Togakure-ryu ninpo happo biken (34a generazione), Gyokko-ryu kosshijutsu happo biken (28a generazione), Koto-ryu koppojutsu happo biken (18a generazione), Shindenfudo-ryu dakentaijutsu happo biken (26a generazione), Kukishin-ryu taijutsu happo biken (28a generazione), Takagiyoshin-ryu jutaijutsu happo biken (17a generazione), Kumogakure-ryu ninpo happo biken (14a generazione), Gyokushin-ryu ninpo happo biken (21a generazione), Gikan-ryu koppojutsu happo biken (15a generazione). Hatsumi, conosciuto in tutto il mondo, ha ricevuto innumerevoli onorificenze e titoli a livello mondiale ed è considerato 'tesoro culturale vivente' dal governo giapponese.
Bujinkan Italia (nome coperto da trademark) è stato il primo dojo italiano di ninjutsu bujinkan riconosciuto dal Giappone, sotto la diretta autorità di Hatsumi. Il responsabile è Enzo Rossi (14° dan), allievo diretto di Hatsumi e membro ufficiale della Shidoshi-kai (Albo ufficiale degli istruttori bujinkan). Lo sviluppo della bujinkan in Italia e nei vari paesi (è presente in tutti i continenti) si articola, infatti, attraverso istruttori che trasmettono nei propri dojo l'insegnamento ricevuto dalla sede giapponese o da altri istruttori bujinkan e svolgono il programma secondo il proprio livello di conoscenza e personalità. Non esistono federazioni nazionali ed è gradito un rapporto diretto con la sede giapponese.
A differenza di altre arti marziali che si sono trasformate in veri sport, il ninjutsu ha mantenuto integro il suo aspetto tradizionale, ispirandosi alla semplice filosofia di proteggere la vita, nel senso di pensare alla vita come al valore più importante e vivere in accordo con le leggi della natura. Gli autentici Ninja si riconoscono nell'armonia universale praticando il bufu ikkan (le vie marziali come filosofia di vita quotidiana) per la protezione della giustizia naturale e della felicità, senza utilizzare le conoscenze per scopi o desideri personali. Nella bujinkan non ci sono competizioni, gare o titoli da conquistare, ma solo due o tre seminari di aggiornamento all'anno, detti tai kai ("grande incontro") e diretti da soke Hatsumi.
Le lezioni di ninjutsu bujinkan si tengono abitualmente in palestre. È necessario uno spazio ampio per praticare allenamenti con le molteplici armi. Lo shinobi-gi (divisa d'allenamento) è nero con calzature a infradito (tabi). I colori delle cinture sono: verde, per i gradi dal 9° al 1° kyu, nera per i gradi dal 1° al 15° dan. Le donne (kunoichi) possono indossare la cintura rossa indipendentemente dai gradi. I gradi vengono letti dai diversi colori dello stemma, cucito abitualmente sulla giacca del kimono.
Il programma tecnico è molto ampio, comprendendo tecniche di combattimento armato e non armato, strategia, filosofia e storia. Oltre al tai jutsu (combattimento a mani nude), le arti e le armi più conosciute sono il ken jutsu (combattimento con la spada), bo jutsu (maneggio dei bastoni), shuriken jutsu (tecniche di lancio di lame con forme differenti come coltelli, stelle, stiletti), yari jutsu (lance), naginata jutsu (alabarde), kusarigama justu (tecniche con la catena).
Le prime arti marziali (kempo) presero forma in India 5000 anni fa. Si dice che Buddha, che lo praticava, fu talmente colpito dal kempo come metodo per unificare mente e corpo che lo inglobò nel buddhismo, anche se alla sua morte lo sviluppo successivo fu completamente indipendente. Infatti il buddhismo si diffuse rapidamente in Cina, ma il kempo vi arrivò solo molti anni più tardi, portato dall'India dal monaco Bodhidharma, 28° patriarca del buddhismo, che all'inizio del 6° secolo d.C. cominciò a trasmettere i suoi insegnamenti religiosi ai monaci del monastero di Shaolin-ssu (in lingua giapponese Shorin-ji) situato nella prefettura di Honan. Dal tempio di Shaolin lo studio delle tecniche marziali si diffuse successivamente in Cina e in tutto l'Oriente.
La nascita del Nippon kempo, come lo si conosce oggi, risale al 20° secolo e si deve all'opera di Masaru Muneomi Sawayama (1906-1977), il quale osservò che dal judo, codificato da Jigoro Kano, erano stati aboliti movimenti rischiosi come tsuki (pugni) e keri (calci) e che il karate di Gichin Funakoshi si concentrava più sui kata (forme). Cominciò quindi a pensare a un tipo di combattimento reale nel quale però non vi fossero pericoli. Il risultato della sua ricerca fu un corpo a corpo in cui la presenza di una protezione permette al praticante di cimentarsi in tecniche (waza) 'pericolose' come tsuki, keri, nage (proiezioni) e gyaku (leve). Nel 1932 questo tipo di combattimento assunse il nome di Nippon kempo. Nella storia dei combattimenti a mani nude l'introduzione di una protezione per il corpo rappresentò una vera e propria svolta.
Nel 1936, a Osaka, si tenne il primo torneo di Nippon kempo fra gli studenti dell'università Kansai e quelli dell'università Kuansei Gakuin. Nel 1953 Ryonosuke Mori, discepolo di Sawayama, favorì la diffusione del Nippon kempo nella zona di Tokyo. Attualmente il Giappone vanta, soprattutto nelle tre città principali (Osaka, Tokyo, Nagoya), la presenza di circa 100 università, 50 scuole superiori e più di 100 centri in cui si pratica questa disciplina. Accanto a queste, i membri del Corpo di autodifesa (jieitai) e del Corpo di polizia, oltre ad altri, fanno parte dei circa 30.000 praticanti. Fuori dal Giappone, per primo il Messico, nel 1970, e poi Italia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno assistito alla nascita di federazioni ufficiali.
In Italia il Nippon kempo è approdato negli anni Settanta grazie ad Armando Santambrogio che ospitò il maestro Toshio Koike. Dopo di lui un altro maestro, Hicoichi Tokumitsu, affiancato dallo stesso Santambrogio, ha consolidato l'insegnamento del Nippon kempo affinando il livello tecnico nei kata e nel combattimento. Nel 1982 Santambrogio diede vita a un'associazione con l'ausilio delle prime cinture nere. Dopo circa un anno nacque l'Associazione italiana Nippon kempo (AINK).
Nonostante la sua modernità il Nippon kempo conserva lo spirito e i valori delle antiche forme di combattimento dei samurai. Il saluto è parte fondamentale e ha il compito essenziale di vincere la prima lotta, quella contro sé stessi. Non meno importante è il mokuso, la meditazione silenziosa che ha luogo all'inizio e alla fine di ogni lezione e mira a lasciare all'esterno ciò che può impedire la concentrazione. Nel dojo (la palestra, che nel Giappone dei samurai indicava il luogo dell'isolamento e della meditazione) si entra scalzi passando la soglia con il piede sinistro, mentre si esce con il piede destro. Il gesto ha la funzione di marcare il passaggio interiore da un'attitudine mentale a un'altra, per imparare meglio.
La lezione è composta da kata (forma) e kumite o shiai (combattimento): è indispensabile praticare entrambi per arrivare a un livello accettabile di conoscenza. I kata riassumono al loro interno tecniche di shintai (spostamenti), atemi (colpi), kumi (prese), ukete (parate), nage waza (proiezioni) e kansezu waza (leve o lussazioni). I kata sono ottimi esercizi per il fisico, tendono alla ricerca della perfezione gestuale e sono l'anima del Nippon kempo. In ogni lezione qualche elemento del kata deve passare allo shiai (posizione, respirazione, armonia, distanza e velocità) e lo shiai deve influenzare i kata (decisione, potenza, tempo e continuità dell'azione).
Per la pratica è necessario un materassino simile o uguale a quello del judo per permettere, oltre al combattimento in piedi, anche le proiezioni e il combattimento a terra. Infatti la particolarità del Nippon kempo è la sua completezza, con pugni, calci, leve, ginocchiate e proiezioni in piedi e pugni, leve e ginocchiate anche a terra. Ci si avvale di speciali protezioni (corazze), composte per il viso da una maschera con griglia metallica, ben imbottita nella parte a contatto con la testa e trattenuta mediante corde resistenti (è necessario indossare anche un cappellino o un asciugamano sulla testa e un drappo di colore bianco sul mento per poter avere una perfetta protezione del capo e rendere innocui i colpi), e per il corpo da un'armatura imbottita, legata al tronco saldamente ma non in maniera da impedirne la piena mobilità, contenente al suo interno uno scudo di plexiglas o di materiale metallico flessibile e rivestita di pelle nella parte esposta ai colpi. Per proteggere le mani si indossano guantoni da boxe, per le gambe si usano i paratibie. Infine le scarpette permettono di colpire in maniera potente anche tramite i calci. La disciplina si pratica con un kimono specifico, il kempogi (gi, "bianco"), composto da una giacca (uwagi) e da un paio di pantaloni (zubon) di cotone bianco e da una cintura (obi), il cui colore indica il grado del praticante.
I gradi sono divisi in kyu (gradi inferiori) e dan (gradi oltre la cintura nera) come quasi tutte le arti marziali giapponesi. Si possono praticare competizioni sia di kata sia di shiai. Le corazze devono essere del tipo riconosciuto dall'AINK, complete di maschera, piastra, conchiglia e guanti da 8-10-12 once di colore nero. Per le cinture colorate sono obbligatori paratibie lunghi che coprano anche i piedi. Le protezioni e gli indumenti di gara devono essere di colore bianco o prevalentemente bianco e non sono ammesse protezioni rigide (oltre alla corazza). Le gare di kata si svolgono sopra il materassino e non vi sono limiti di età. Gli atleti eseguono sempre almeno due kata e un terzo in caso di parità. Il vincitore viene decretato in base alla somma del punteggio che i tre arbitri assegnano, moltiplicato per un coefficiente di difficoltà stabilito dalla commissione tecnica.
Alle gare di shiai possono partecipare atleti che abbiano raggiunto la maggiore età e non abbiano compiuto i 36 anni, di sesso sia maschile sia femminile (in competizioni separate). Si possono svolgere competizioni sia a squadre sia individuali. Nel caso di gare individuali si possono avere competizioni con o senza limiti di peso e la tipologia classica è definita sanbon shobu. Il combattimento dura tre minuti e l'incontro, oltre che in casi d'irregolarità o infortunio, è interrotto quando uno dei due atleti si aggiudica due ippon (punti). Nel caso di gare a squadre il numero degli atleti può variare da un minimo di quattro a un massimo di dodici persone e la vittoria si assegna al gruppo che colleziona il maggior numero di ippon nel tempo stabilito per la competizione (da 10 a 45 minuti).
L'allenamento non richiede particolari doti fisiche. Lo svolgimento delle lezioni è mediamente di un'ora e mezzo per due o tre volte alla settimana per i non agonisti. Per gli atleti che praticano gare di shiai sono previsti allenamenti supplementari organizzati di volta in volta secondo le necessità. Nel caso di atleti esperti c'è la possibilità di provare le tecniche con il metodo dello sparring condizionato o addirittura mettere in pratica realmente le nozioni imparate vestendo direttamente la corazza protettiva.
La più importante manifestazione a livello mondiale è il Nippon kempo international championship tournament, che viene disputato a Tokyo ogni anno, da circa tre decenni. Dal 1998 si svolgono, ogni due anni, i Campionati Europei FENKA, arrivati alla terza edizione. Una menzione particolare va fatta per il 'Trofeo Nestore Benatti alla memoria' che, arrivato all'undicesima edizione, annualmente raggruppa i migliori atleti italiani e viene organizzato in ricordo di un atleta, cintura nera 3° dan, deceduto insieme alla sua famiglia, a 36 anni, nel 1989 per esalazioni di ossido di carbonio. Nel 2003 è prevista una gara intercontinentale a Sainte-Margarite in Francia.
Presidente dell'AINK è Franco Gnocchi, che ha contribuito alla diffusione dell'arte marziale sia in Italia sia nel resto d'Europa, soprattutto in Francia.
Il pencak silat è un'arte marziale dell'arcipelago indonesiano abbastanza diffusa in Oriente e negli Stati Uniti, molto meno in Europa e in Italia. Si ritiene che il nome pencak derivi dal termine cinese mandarino pung-cha che significa "parare un attacco e contrattaccare". Gli stili più antichi di pencak silat provengono da Giava Occidentale e Sumatra Occidentale.
Quattro sono gli aspetti che la Federazione internazionale persilat intende promuovere: l'aspetto mentale e spirituale, visto che attraverso la pratica dell'arte marziale indonesiana si sviluppano una forte personalità e un carattere nobile; l'aspetto della difesa personale (beladiri), perché il pencak silat risulta essere uno dei sistemi di combattimento più efficaci; l'aspetto artistico (seni), perché la bellezza dei movimenti di quest'arte marziale ricorda la danza (sono accompagnati dalla musica locale), mentre i costumi e le armi tradizionali costituiscono una delle più colorate e ricche forme culturali di tutta l'Asia; l'aspetto sportivo (olahraga), perché la preparazione per le competizioni permette di formare un corpo sano e l'attività organizzata offre l'opportunità di conquistare un traguardo sportivo di livello internazionale.
Il pencak silat è una vera galassia di stili (aliran) e scuole (perguruan), paragonabile al kung-fu cinese. Una distinzione tecnica può essere fatta tra i metodi che privilegiano il colpire (pukulan) e quelli che preferiscono le leve articolari e le proiezioni al suolo dell'avversario (permainan). Nelle scuole di oggi, però, spesso i due aspetti si miscelano. Una grande differenza nelle strategie di combattimento può essere data anche dal luogo d'origine: lo stile della tigre (harimau), per es., proprio di Sumatra, privilegia il combattimento al suolo, dato che l'isola è molto umida ed è difficile mantenersi stabilmente in piedi su un terreno scivoloso.
Il pencak silat tradizionalmente viene praticato sia all'aperto, nei villaggi così come accanto alla moschea o al tempio indù, sia dentro le abitazioni private oppure in una struttura costruita appositamente (padepokan). In Occidente viene praticato, come le altre arti marziali, in palestre pubbliche e in centri di fitness.
Il combattimento (tanding, conosciuto anche come olahraga) viene effettuato a contatto pieno, i due atleti si affrontano a mani nude indossando un corpetto protettivo. Tutti i colpi, sia di mano sia di piede, possono essere diretti solo sui bersagli protetti dal corpetto: petto, stomaco, fianchi e schiena. I bersagli proibiti sono la testa, i genitali e la colonna vertebrale. La durata dell'incontro è di tre round di 3 minuti ciascuno e risulta vincitore il combattente che ha raggiunto il maggior numero di punti. Si ottengono punti sia colpendo sia parando i colpi dell'avversario e anche atterrandolo con tecniche di spazzata, forbice con le gambe e proiezione. Il tunggal (detto anche seni, cioè "arte") è invece una competizione di 'forma' (jurus), che si suddivide in tre categorie: a mani nude, armati di golok (spada o machete locale), o armati di toya (bastone lungo). Il jurus deve essere eseguito esattamente in 3 minuti. Il punteggio viene assegnato in base all'abilità, alla tecnica e alla gestione del tempo di esecuzione. Vi è poi il ganda, dove due atleti devono mostrare la loro abilità a mani nude o con le armi mediante un combattimento coreografato della durata di 3 minuti che privilegia l'aspetto artistico (seni), e il regu, che corrisponde alle gare di forma a squadre, dove tre atleti eseguono in sincronia lo stesso jurus, esclusivamente a mani nude, in round della durata massima di 5 minuti.
I Campionati del Mondo si svolgono ogni due anni, alternati agli Europei. Fin dal 1987 il pencak silat è stato incluso ufficialmente tra le discipline sportive dei Giochi del Sud-Est Asiatico, che coinvolgono nove paesi. Lo stile più diffuso è il serak, originario di Giava Occidentale e particolarmente apprezzato negli Stati Uniti grazie ad alcuni esperti indo-olandesi emigrati.
La Persilat, l'unica federazione mondiale di pencak silat, è stata fondata nel 1980 dalle associazioni nazionali di Indonesia, Singapore, Malesia e Brunei. Da allora si è ingrandita fino a raggiungere 40 paesi. È ospitata, con la federazione nazionale IPSI, dal Padepokan a Giakarta. In Europa nel settembre 2001 si è costituita la European pencak silat federation (EPSF). In Italia esistono poche associazioni che diffondono il pencak silat. Tra queste la più conosciuta è l'AKEA di Milano, i cui maggiori dirigenti, Roberto Bonomelli e Attilio Acquistapace, sono due dei pionieri italiani delle arti marziali indonesiane. Tuttavia l'associazione non promuove l'agonismo.
Il qwan ki do (o quan khi dao) è una delle più recenti arti marziali vietnamite, le cui origini però affondano nella secolare storia delle discipline cinesi e vietnamite, e costituisce uno degli stili di kung-fu più apprezzati e praticati al mondo. Suo artefice è il maestro Pham Xuan Tong, che fin da giovanissimo fu iniziato alle arti marziali cinesi da Chau Quan Ky e a quelle vietnamite da suo zio Pham Tru. L'unione di queste due esperienze, oltre a una preparazione culturale francese, in particolare nel campo dell'educazione fisica, lo hanno spinto a promuovere un'arte marziale nella quale ha racchiuso il meglio della sua esperienza di praticante e di maestro.
Pham Xuan Tong conobbe Chau Quan Ky quando aveva dieci anni e da lui apprese nozioni di medicina tradizionale, digitopressione e osteopatia. Frequentò poi la scuola di kung-fu cinese, la Vo Duong Ho Hac Trao, dove in quindici anni imparò vari stili: il he pai (stile locale degli Hakkas), il thiêu lâm nam phai, il nga mi phai e il châu gia duong lang phai, o metodo della mantide religiosa. Dalla sua famiglia apprese invece gli stili di kung-fu vietnamita come il vo quang binh, il vo binh dinh e il vo bac ninh.
Dopo la morte di Chau Quan Ky, Tong fu chiamato a succedergli, ma a causa della lontananza lo sostituì Pham Minh Kinh che, insieme coi maestri Quach Van Ke, Nguyen Tan Dang, Le Dai Hoan e Bao Truyen, portò la scuola all'interno della Tong Hoi Vo Hoc Viêt Nam, la confederazione di studio delle arti marziali del Vietnam. In Europa, nel 1973, Tong fondò insieme al Consiglio dei maestri vietnamiti il movimento Viet Vo Dao internazionale (che raccoglieva le quattro principali scuole vietnamite: han bai, vovinam, thanh long e quan ky) e fu nominato direttore tecnico internazionale dal Consiglio dei maestri, carica che mantenne per otto anni circa raggiungendo il grado internazionale di 8° dang. Nel 1981 decise di dimettersi e di dedicarsi alla sua federazione, la World union of qwan ki do.
Il nome qwan ki do-quan khi dao ha diversi significati: è un omaggio al maestro Chau Quan Ky; conserva il nome del vecchio metodo vo bac ninh, trasmesso ermeticamente dalla sua famiglia; mette in evidenza due elementi fondamentali di tutte le arti marziali: il ki (energia interna) e il do, ovvero la via che si propone come la strada dell'energia vitale. Il simbolo del qwan ki do è un drago, emblema del popolo vietnamita ma anche dello spirito cavalleresco.
Vista la sua doppia origine, il qwan ki do offre una grande ricchezza tecnica. Tra i suoi differenti metodi si ritrovano gli attacchi di pugni e di piedi, i bloccaggi, le proiezioni, le tecniche di presa e di percussione comuni a tutte le arti marziali. Ma l'originalità consiste nell'applicazione di due principi: la teoria dell'avvicinamento (thuât cân chiên) che privilegia la mobilità, i movimenti circolari, la velocità dei movimenti e degli spostamenti rispetto alla forza diretta e il principio delle polarità am e duong (o cuong nhu tuong thôi), l'armonia continua tra la forza e la morbidezza. Nel qwan ki do sono contemplate anche le tecniche degli animali (drago, gru, serpente, mantide religiosa), proprie degli stili che compongono il metodo. In quest'arte vengono studiate inoltre le armi, utensili di origine agricola o feudale (vo khi o cô vo dao). Si utilizza il nam côn (bastone del sud), il dai côn (bastone molto lungo), il tu môn dao (quattro pratiche del coltello), il mai hoa dao (coltello mai hoa), il song dao (due scimitarre), il tam tiêm soa (tridente), il song gian o long gian (bastone a due pezzi), il tam thiêt gian (bastone a tre pezzi), il nhuyên tiên (catena), il phu (ascia), il mâu (lancia), il bua (rastrello), il thuân (scudo), il biên dan (bastone lungo dei portatori), il xu dâu (pala), il ghê (sedia o sgabello per sedersi). Ci si può allenare da soli (don luyên) e a coppie (dôi luyên).
La divisa è il classico kimono nero (vo phuc), con larga cintura bianca a strisce blu per gli adulti e rosse per i bambini; quest'ultimi, dopo aver ottenuto la quarta striscia, possono preparare l'esame di cintura viola, sulla quale metteranno le strisce bianche (al massimo 4). Gli adulti dopo quattro strisce blu passano alla cintura nera con bordo rosso e strisce rosse che indicano i vari livelli, fino al 5° dang. Dal 6° all'8° la cintura è bianca e rossa con bordo giallo; il 9° e il 10° indossano invece una cintura bianca bordata di giallo e con una striscia rossa al centro. Infine c'è la cintura del fondatore. Dai 7 anni, i bambini possono partecipare agli incontri tra i club, regionali e nazionali; dai 13 anni, i gradi ottenuti vengono convertiti in strisce adulti.
Esistono gare sia di forme, sia di combattimento. Le gare di combattimento, che si svolgono su un'area di minimo 8 x 8 m e massimo 10 x 10 m formata da materassini particolarmente resistenti e imbottiti, sono regolate da una terna arbitrale, composta da un arbitro centrale cui spetta la direzione dell'incontro, coadiuvato da due giudici d'angolo al bordo del quadrato di gara. L'attribuzione del punteggio nei combattimenti avviene secondo criteri ben precisi, considerando che solo la mano protetta, di solito quella più forte, può toccare il viso, con esclusione degli occhi, del naso e della bocca; i colpi di piede al viso devono essere portati con contatto ma con pieno controllo. Si ottengono due punti (hai diem) per es. quando un combattente esegue una proiezione, seguita da un attacco al suolo e la proiezione è effettuata in modo perfetto con l'avversario che stacca entrambi i piedi dal suolo; un punto (mot diem), quando un combattente porta un attacco di pugno al tronco dell'avversario costringendolo a piegarsi su sé stesso, oppure un attacco di piede controllato al viso; mezzo punto (nua diem) quando uno dei combattenti esegue una tecnica di pugno al viso nella parte consentita o una tecnica al corpo poco convincente. Alcune azioni o tecniche non sono considerate valide e portano alla perdita di punti.
L'arte marziale del maestro Tong oggi è proposta attraverso la World union of qwan ki do-quan khi dao, presente in più di 20 paesi con circa 50.000 atleti. Il qwan ki do è riconosciuto ufficialmente dal Vietnam. In Italia, dove la disciplina conta circa 2500 praticanti, il promotore dell'Unione italiana qwan ki do è Roberto Vismara, che è anche consigliere permanente della World union of qwan ki do-quan khi dao.
Il sambo nacque dopo la Rivoluzione di ottobre nella futura Unione Sovietica quando, nel clima di rinnovamento politico che toccava come ogni altro settore anche quello sportivo, il ministero dello Sport promosse lo sviluppo di un sistema di lotta in grado di assicurare un'adeguata formazione psicofisica sia alla neonata Armata Rossa, soprattutto ai suoi reparti scelti, sia alle forze di polizia e del KGB e, nello stesso tempo, di contribuire all'unificazione dei popoli destinati a costituire il nuovo e immenso Stato sovietico.
Tecnicamente il sambo (termine nato dall'espressione russa: samosascita bes rujea, che significa "difendersi senza armi"), è la fusione di tante discipline da combattimento, di origine mongola, georgiana, azera e occidentale, con tecniche di judo, lotta libera e lotta grecoromana. Si compone di una versione sportiva e una di autodifesa. Il sambo sportivo è articolato in due settori: il primo è definito 'lotta sambo' e la sua finalità è vincere attraverso una presa di sottomissione, realizzata con una portata a terra (leva articolare o una compressione prodotta sui tendini o sui nervi) oppure attraverso una proiezione (nel caso in cui non si verifichino queste due condizioni la vittoria viene decretata con un sistema di punteggi che premia in modo differente le varie azioni tecniche del combattimento); il secondo stile, detto 'combat sambo' e che prevede colpi a distanza (pugni, gomitate, ginocchiate e calci), si sta diffondendo rapidamente soprattutto nei paesi occidentali.
Nell'autodifesa lo scopo è giungere alla rapida sottomissione o addirittura all'eliminazione fisica dell'avversario. A differenza della versione sportiva questa versione possiede tecniche, come le prese di sottomissione, che vengono applicate in piedi, con soffocamenti e leve articolari al collo.
Il sambo sportivo si pratica su una superficie coperta da materassini. Gli atleti vestono in rosso o in blu per essere facilmente riconosciuti e indossano giacca (kurtka), pantaloncini, cintura e scarpette (barzofki). Durante il combattimento il lottatore deve cercare di immobilizzare l'avversario con una chiave articolare al braccio, azione che gli consente di realizzare il massimo punteggio (8 punti), mentre una proiezione corretta gli rende 4 punti e una caduta dell'avversario solo 1 punto; se invece l'avversario cade seduto viene attribuito mezzo punto. Per vincere il lottatore deve superare l'avversario di almeno 4 punti.
Hanno praticato il sambo diversi campioni olimpici, come per es. Alexander Medved, più volte campione europeo e mondiale e medaglia d'oro alle Olimpiadi del 1964, 1968 e 1972 nella lotta stile libero. Levan Tediasvilj, campione olimpico nella lotta stile libero nel 1972 e nel 1976, si è aggiudicato anche il primo Campionato Mondiale di sambo svoltosi a Teheran nel 1972.
In Italia il sambo ha conosciuto una breve parentesi federale. In seguito, svanita la possibilità di diventare disciplina olimpica, si è ridimensionato. Gli atleti più noti sono stati Giorgio D'Alessandro (campione mondiale master), Angelo Arlandi (vice campione d'Europa e del mondo), Roberto Ferraris (campione italiano), Pietro Sperduti, pluricampione italiano, atleta dell'Associazione Speranza Azzurra 2000, ente che ha ha promosso la diffusione del sambo non solo come disciplina sportiva ma anche al servizio del recupero sociale, in accordo con un progetto pilota dell'Unione Europea.
Lo shorinji kempo è la continuazione dell'antica arte marziale tramandata per centinaia d'anni dai monaci buddhisti (v. sopra, Nippon kempo), che la praticavano per autodifesa e come esercizio fisico e spirituale. In Cina il kempo costituì il nucleo della resistenza antimperiale fino agli inizi del 20° secolo, quando ebbe termine la dinastia Ch'ing o Manchu che, ancor più di quelle che l'avevano preceduta, promulgò vari editti contro la pratica di questa disciplina, determinandone quasi la scomparsa. La coltivavano solo gli adepti delle organizzazioni segrete, alcune fondate su sette religiose e collegate tra loro. Il kempo rappresentò per esse l'elemento catalizzatore più importante. La cosiddetta rivolta dei Boxer, avvenuta nel 1900, fu il risultato dell'attività di alcune di queste organizzazioni che avevano a capo gli esponenti della scuola Giwaken, riunitisi per costituire i militanti della Giusta Armonia (chiamati dagli occidentali Boxer).
Il moderno shorinji kempo è opera dell'ultimo grande esponente della tradizione shorinji, Doshin-So. Di origini giapponesi, nel 1928 Doshin-So si recò in Cina dove visse per 17 anni, appassionandosi allo studio del kempo cinese. A Pechino incontrò Wen'tau Tsung, 20° maestro dell'ordine dello shorinji giwamonken del nord e, dopo esserne stato a lungo allievo, venne nominato suo successore come 21° maestro dell'ordine. Nell'ottobre del 1947 fondò l'attuale shorinji kempo nella città di Tadotsu sull'isola di Shikoku e decise di dare al suo insegnamento una forma meno ermetica rispetto al passato, pur mantenendone intatta tutta la sua natura, fondata sulla più pura tradizione, che vuole la meditazione zen e la filosofia del kongo zen praticate allo stesso livello e con la stessa dedizione rivolta alle tecniche del kempo. Nel dicembre 1951 Doshin-So fondò il Kongo zen sohonzan ("insegnamento filosofico-religioso") e nel 1953 creò la Federazione giapponese di shorinji kempo, mentre nel 1974 costituì l'Organizzazione mondiale shorinji kempo (WSKO). Morì nel 1980. Sua figlia So Doshin Shike ne ha proseguito l'opera con la collaborazione di quelli che furono i suoi principali allievi. Oggi l'organizzazione conta in Giappone circa 3000 dojo e si è diffusa in 29 paesi, avvalendosi del contributo di 13 Federazioni nazionali. In Italia la Federazione italiana shorinji kempo (FISK) esiste dal 1995 e si articola in sezioni, di cui 14 distribuite sul territorio nazionale, per un totale di circa 1000 praticanti.
Le tecniche dello shorinji kempo, in tutto circa 600, si dividono in tre sezioni: goho, juho e seiho. Quelle del goho comprendono a livello offensivo pugni e calci, a livello difensivo parate, schivate del busto, spostamento dei piedi, oltre lo studio delle cadute. Quindi fanno parte di questo tipo di allenamento tutte le tecniche di difesa opportune in attacchi di uno o più avversari che si mantengono a distanza. Questo sistema viene anche definito 'duro', in quanto si avvale di movimenti veloci per evitare i pugni e i calci e per eseguire parate, deviazioni e bloccaggi di ogni genere.
Nel juho le tecniche prevedono il contatto con l'avversario. Si parla quindi di tecniche di svincolo da qualsiasi presa, torsione, proiezione, leva sulle articolazioni, immobilizzazioni a terra e strangolamenti; vi è inoltre lo studio dei punti di pressione che permettono di controllare l'avversario attraverso attacchi mirati. Una particolare sezione di queste tecniche ha come obiettivo lo svenimento dell'avversario. Questo sistema viene anche denominato 'morbido'. L'obiettivo del sistema globale di combattimento è la combinazione di queste due componenti che entrano in armonia l'una con l'altra.
Il seiho è invece basato sullo studio e utilizzo dei punti vitali situati sui meridiani (keimyaku hiko) del corpo umano. Trae le sue origini dalla medicina tradizionale cinese e giapponese ed è caratterizzato dal fatto che tali punti possono essere usati sia per curare sia per danneggiare. Dei 708 punti vitali identificati sui 14 meridiani e impiegati anche nell'agopuntura, nelle tecniche di autodifesa dello shorinji ne vengono usati 138.
L'addestramento può essere suddiviso in esercizio della tecnica (ekkin-gyo) e pratica del chinkon (chinkon-gyo), incentrato sulla meditazione zazen, che si esegue per attuare una respirazione corretta e cosciente, per esercitare il rilassamento e per sviluppare la calma nella mente. Nel corso della meditazione zazen si recitano gli insegnamenti del dokun, ovvero la meditazione (seiku), il giuramento (seigan) e i principi (shinjo). Nel chinkon-gyo si utilizza inoltre un metodo particolare di controllo del respiro, il cui apprendimento richiede al praticante un impegno assiduo. Lo zazen si fonda sull'inscindibile unione e interazione tra corpo e spirito, azione e quiete. Imparando a controllare il respiro si possono coltivare la compostezza mentale e la stabilità, caratteristiche necessarie per aspirare a vivere serenamente anche in un ambiente complesso e teso.
Graficamente tale concezione è resa con il manji, un antico simbolo buddhista che rappresenta la fluidità dell'universo e le radici della vita. Nello shorinji kempo diventa la rappresentazione grafica del kongo zen e indica sostanzialmente gli opposti che organizzano i nostri pensieri: cielo e terra, giorno e notte, maschile e femminile; la linea verticale unisce simbolicamente cielo e terra, la linea orizzontale rappresenta l'unione tra luce e buio; tali linee formano una croce che allude all'armonia dell'universo oltre i limiti di tempo e spazio, mentre il suo punto centrale rappresenta il sito da dove proviene l'energia che crea e alimenta tutte le cose. In Oriente il manji è noto come uno dei principali simboli del buddhismo zen tanto che per es. sulle cartine stradali delle città e nella segnaletica stradale indica la posizione dei templi buddhisti. In Occidente ha assunto ben altro significato dopo che è stato adottato dai nazisti come emblema della loro ideologia.
Il luogo di pratica dello shorinji kempo non richiede particolari caratteristiche. L'abbigliamento consiste nel dogi, pantaloni e giacca in cotone bianco, con una cintura colorata in base al grado. Sopra il dogi si indossa una sorta di veste nera con un'ulteriore cintura, un grossa corda che ha la funzione di contenere i movimenti dell'abito, ma può essere utilizzata anche per eseguire alcune tecniche di autodifesa. Tale veste tradizionale viene indossata solo dai praticanti di grado più alto.
Una buona parte dell'allenamento viene riservata alla sperimentazione delle tecniche di autodifesa e a tale scopo vengono utilizzate varie protezioni che rendono possibile colpire l'avversario con il massimo dell'efficacia senza procurare danni: il do, una corazza leggera a protezione della zona centrale e frontale del busto; il face guard, un caschetto con visiera trasparente frontale leggera; i guanti imbottiti sulle nocche della mano, che lasciano libere le dita in modo da poter afferrare l'avversario.
La pratica include anche lo studio del bastone lungo (shakujo, di circa 180 cm, caratterizzato da una punta come una lancia su una estremità e un contrappeso anch'esso appuntito sull'estremità opposta), del bastone corto (nyoi bo, lungo circa 50 cm) e del dokko ken (attrezzo di 15 cm che si usa per l'attacco specifico ai punti vitali).
In quest'arte marziale giapponese sono previste delle competizioni con combattimenti eseguiti generalmente in coppia (kumi embu). Questa forma di collaborazione tra due praticanti prende il nome di kumite shutai e non si limita solo ai gesti tecnici ma implica una vera e propria sintonia, rendendo tangibili tutti i principi filosofici sui quali è fondato lo shorinji kempo: il ken zen ichinyo (ken rappresenta il corpo; zen la mente; ichinyo lo stato di armonia che il praticante deve raggiungere attraverso l'allenamento delle due componenti), il riki ai funi (riki rappresenta la forza intesa come la vera forza interiore dell'uomo; ai l'amore universale; funi lo stato di equilibrio tra le due componenti che deve trovare la sua espressione in ogni azione umana) e il kuffuku undo ("vivi metà per te stesso e metà per la felicità degli altri").
La competizione si svolge su un quadrato di 7 m di lato. La performance di ciascuna coppia deve avere una durata non inferiore al minuto e mezzo e non superiore ai 2 minuti. Ogni uscita dall'arena di gara e ogni sforamento dal tempo previsto implicano delle penalità. Le valutazioni sulla qualità della esecuzione vengono date dai quattro giudici situati agli angoli del quadrato di gara, che si esprimono a coppie di due. Così, due giudici considerano la qualità della esecuzione delle varie tecniche, calci, pugni, parate, distanze, e l'effettiva correttezza delle tecniche eseguite, mentre gli altri due giudici valutano la qualità dell'esercizio proposto, osservando la composizione delle sequenze delle tecniche, le posizioni di guardia assunte, gli spostamenti, il giusto uso della respirazione, la giusta direzione dello sguardo.
L'attività ufficiale si svolge a livello mondiale, europeo e nazionale. A livello mondiale, ogni 4 anni si organizza il raduno dei praticanti provenienti da tutte le nazioni (ogni due anni l'incontro europeo e ogni anno il nazionale). Tali raduni sono articolati in giornate di gare e seminari tecnici di aggiornamento. Attualmente lo shorinji kempo non comprende nelle proprie manifestazioni sportive il combattimento agonistico. In Italia lo sviluppo e la diffusione della disciplina si devono principalmente a Maurizio Carugati (presidente FISK e membro del consiglio del WSKO), Riccardo Marchetti (vice presidente FISK), Giancarlo Rossetti (consigliere FISK), Rosario Previti (segretario generale FISK) e Giuseppe Battista.
Il sumo ("lotta di forza") è la forma di lotta più tradizionale del popolo giapponese, anche se pare che le sue origini debbano essere ricercate in India e poi, alcuni decenni più tardi, in Cina, dove si diffuse come forma di intrattenimento per la corte imperiale. Il documento più antico che lo cita è un testo giapponese, il Kojiki (712 d.C.), in cui si narra della disputa tra gli dei per aggiudicarsi il Giappone, risolta con un incontro di sumo tra le divinità Takemikazuchi no kami e Takeminakata no kami. La prima testimonianza di un vero combattimento è riferita, immediatamente dopo, nel Nihonshoki o Nihonji (720 d.C.) che descrive l'incontro disputato in onore dell'imperatore giapponese Suinin (29 a.C. -70 d.C.) dai due più famosi lottatori di quell'epoca, Nomi no Sukeme e Taima no Kehaya. Quest'ultimo perse la vita nel durissimo combattimento, mentre al vincitore si attribuì la paternità di questo metodo di lotta.
Il sumo si sviluppò soprattutto tra le popolazioni rurali, come momento di svago e come rituale propiziatorio per i raccolti secondo i canoni della religione shinto, dove hanno un ruolo di rilievo i Kami, divinità, eroi, defunti, ma anche forze e elementi della natura, senza i quali il mondo non esisterebbe; sotto questo profilo il sumo rappresentava una vera e propria cerimonia (shinji zumo), che aveva lo scopo di chiedere pace e prosperità per tutto il popolo. Più tardi prevalse la connotazione marziale, dopo che la disciplina fu inserita negli allenamenti dei militari e dei samurai, che dedicavano molto tempo alla pratica del sumo a fianco dello studio di sistemi completi come il ju jitsu. Furono proprio i gloriosi guerrieri giapponesi a trasformare, all'inizio del 17° secolo, il sumo in sport spettacolo (kanjin zumo). Organizzati in gruppi, i samurai promossero tornei cittadini per raccogliere fondi per la costruzione di templi e opere pubbliche. Più di recente, nel giugno del 1909, il sumo è stato insignito del titolo di sport nazionale giapponese.
Il sumo ha mantenuto intatto l'antico rituale che lo rende una delle poche arti marziali che seguono scrupolosamente la tradizione filosofica e religiosa orientale, sicuramente unico tra gli sport dell'era moderna. La cerimonia che precede gli incontri, per es., serve ad attirare i favori degli dei. Durante questa cerimonia (shikiri) i lottatori (sumotori), vestiti solo con un perizoma (mae-tate-mitsu) e una grossa cintura (mawashi), prendono del sale e lo gettano prima sul proprio corpo, e poi nell'area di gara, per purificare sé stessi e il luogo del combattimento, scacciando gli spiriti maligni. Quindi entrano nel campo di gara (il dohyo, un cerchio con un diametro 4, 55 m composto da uno strato di argilla ricoperto da sabbia finissima e circoscritto da una grossa corda di paglia), in base a una scala meritocratica, ovvero dall'atleta meno bravo al migliore, lo yokozuna (appellativo che si dà ai più forti lottatori professionisti), che si presenta vestito del kesho-mawashi, una sorta di copricostume di seta preziosa finemente ricamato in oro. Dopo che ogni rikishi (lottatore) o sumotori ha ringraziato gli dei, è la volta dello yokozuna a entrare nel cerchio portando con sé una spada, l'arma nobile dei guerrieri. Posata l'arma, lo yokozuna si flette sulle gambe e inizia a sbattere forte le mani davanti a sé per attirare l'attenzione degli dei, stende le braccia di lato, ruota i palmi verso l'alto per mostrare che le sue mani sono vuote, senza armi, e che è pronto a lottare con la sola forza delle sue braccia e del suo corpo nudo. A questo punto solleva verso l'alto una gamba, poi l'altra, sbattendo con forza i piedi per terra, per simboleggiare la sottomissione del diavolo al suo volere. In questa posizione, oltre a eseguire una sorta di stiramento delle fasce muscolari delle gambe, si raccoglie in un momento di concentrazione, alla ricerca della calma interiore. Quindi inizia il combattimento e vince, spesso in brevissimo tempo, chi costringe l'avversario a toccare il tappeto oppure a uscire fuori dell'area di gara.
A prima vista, questa disciplina sembra essere composta solo da semplici spinte eseguite esclusivamente a mano aperta. In realtà le tecniche di sumo sono molteplici: 70 quelle tradizionali praticate soprattutto dai professionisti, 78 quelle invece a disposizione dei dilettanti, oltre ad altre 10 in uso anticamente. Semplificando, le tecniche si possono suddividere in due grandi famiglie: tecniche di oshi-zumo in cui la componente principale dell'azione è la spinta; tecniche di yotsu-zumo, in cui compaiono azioni di presa alla cintura o al corpo dell'avversario con successive azioni tecniche che possono portare a una sua perdita d'equilibrio o in altri casi terminare con una vera e propria proiezione. Alla fine degli incontri, gli yokozuna entrano insieme nel cerchio di gara per eseguire la bow dance, la danza dell'arco, e ballano facendo roteare l'arco in segno di vittoria.
I combattenti sono divisi in due categorie: il mae-zumo, o pre-sumo, è riservato agli atleti dilettanti che sono divisi dall'11° al 9° livello; l'ozumo, il grande sumo, che va dal 8° al 1° livello, è riservato ai professionisti, i sekitori, che si riconoscono anche dall'acconciatura particolarmente curata ed elaborata. Il sumo dei professionisti, prerogativa del Giappone, più che uno sport è uno spettacolo, mentre il sumo sportivo si differenzia per la presenza di categorie di peso e della versione femminile.
Un bravo yokozuna deve sviluppare tutta una serie di tecniche finalizzate alla ricerca del punto di equilibrio dell'avversario. Esaminati con un occhio attento, questi 'giganti' mostrano doti atletiche impensabili per la loro mole. Hanno soprattutto una notevolissima mobilità delle anche, che consente di eseguire una staccata frontale con estrema naturalezza.
Tra le scuole più conosciute è quella di Kokonoe Oyakata, il yokozuna Chiyonofuji, che nella sua prestigiosa carriera ha vinto oltre mille incontri. Conosciuto anche con l'appellativo di 'lupo', per via dello sguardo feroce, magnetico e penetrante, Chiyonofuji è stato uno dei miti degli ultimi decenni del 20° secolo, nonostante le sue dimensioni non siano mai state esagerate: 1, 83 m di altezza per 127 kg.
Per la loro alta spettacolarità, i combattimenti di sumo sono molto seguiti, soprattutto nei paesi orientali a cominciare ovviamente dal Giappone, che ogni anno ospita ben sei tornei con i più forti lottatori del circuito. Uno degli avvenimenti sportivi più famosi è certamente la Coppa dell'imperatore, manifestazione a cui assiste la famiglia imperiale al completo. Nel resto del mondo il sumo è praticato in Cina, Mongolia, Stati Uniti, Egitto, Sudafrica, Isole Tonga, Francia, Germania oltre che nelle Repubbliche ex-sovietiche e nei paesi baltici. Ultimamente è cresciuta molto la richiesta di incontri femminili.
Nel 1983, a seguito di un'intesa tra le federazioni del Giappone e del Brasile, si è costituita l'ISO (International sumo organization) che da allora ha promosso la diffusione del sumo sportivo nel mondo, arrivando a organizzare nel 1992 la prima edizione dei Campionati Mondiali. Nel 1997 a Tokyo si è svolta la sesta edizione che ha visto la partecipazione di delegazioni provenienti da oltre 50 paesi, compresa l'Italia. Nel settembre 1995 è nata l'ESU (European sumo union) composta dalle nazioni europee già affiliate alla ISO. Il 22 settembre 1995 si sono svolti a Ingolstad (Germania) i primi Campionati Europei; nel 1996 Ginevra ha accolto la seconda edizione; la terza edizione si è svolta nel settembre 1997 a Riesa (Germania) e ha visto l'Italia, sotto la sigla della FIJLKAM, conquistare la medaglia d'oro negli 85 kg con Cristian Scarci, che si è fatto onore più a colpi di judo che di sumo, mentre due azzurre sono salite sul terzo gradino del podio agli Europei del 1998: Barbara Andolina e Clementina Papa, che insieme a Chiara Campioni hanno conquistato anche il bronzo a squadre. A livello internazionale, invece, il nostro miglior atleta si è dimostrato finora Giovanni Parutta, quinto ai Mondiali del 1996. Nella FIJLKAM il sumo è coordinato da una commissione nazionale presieduta da Antonino Caudullo, con i membri Pierluigi Comino ed Elio Scuderi.
Il tang su do (ovvero "la via della mano cinese", conosciuto anche come il karate coreano tradizionale) affonda le sue radici nelle filosofie orientali del taoismo e del buddhismo. Ha cominciato a essere conosciuto dopo la Seconda guerra mondiale, quando le varie scuole di arti marziali coreane (ciung-do-kwan, mu-duk-kwan, song-mu-kwan, ci-do-kwan e ciang-mu-kwan), la cui pratica per trentacinque anni era stata proibita dalle forze d'occupazione giapponesi, uscirono dalla clandestinità. Il tang su do rappresenta una sintesi di diversi stili di combattimento: quelli originari della Corea, come il subak e il tae kyon, quelli derivati dalla Cina (taiji quan) e quelli importati dai giapponesi (karate e ju jitsu). Dopo la suddivisione della penisola coreana in due Stati successiva alla guerra del 1950, in Corea del Sud si cercò di ricreare un'arte marziale nazionale, ricollegandola all'antica storia del paese, e per tale motivo vennero tralasciati i legami con i maestri cinesi. Nel 1962 il patrimonio tecnico dell'antico tang su do venne smembrato. I combattimenti sportivi con l'uso di salti, calci e pugni formarono il tae su do, che nel 1965 divenne tae kwon do; le tecniche di difesa personale con l'impiego di leve e proiezioni formarono l'hapkido (v. sopra); invece le tecniche di nei gong, come il controllo della respirazione, dell'energia (qi) e della concentrazione mentale, furono eliminate.
A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta il tae kwon do si diffuse in tutto il mondo. Molti maestri furono inviati negli Stati europei, americani e asiatici per insegnare questa versione più moderna e sportiva delle antiche arti marziali coreane, ed emigrarono, principalmente in America, anche molti maestri di tang su do. Nel 1974 il caposcuola dello stile mu duk kwan, Hwang Kee, fondò insieme a Jae Chul Shin la prima organizzazione internazionale di tang su do, la USA tang soo do moo duk kwan federation. Da allora molte altre organizzazioni si sono aggiunte, per la maggior parte create da Hwang Kee e dai suoi allievi, come la United States soo bahk do (tang soo do) moo duk kwan federation, di cui ora è a capo il figlio di Hwang Kee, Hyun Chul Hwang; la World tang soo do association, con a capo Jae Chul Shin; la World moo duk kwan tang soo do association di Jae Joon Kim; l'International tang soo do federation di Chun Sik Kim; la United Kingdom tang soo (soo bahk) do federation Uktsdf di Kang Uk Lee; l'International tang su do academy di Roberto Daniel Villalba. Quest'ultimo ha introdotto la disciplina in Italia nel 1977 diventando presidente e direttore tecnico dell'Accademia italiana tang su do.
Le condizioni che regolano quest'arte marziale, la cui pratica inizia dal corpo (wei gong, "lavoro esterno") per poi equilibrare e potenziare la mente (nei gong, "lavoro interno"), e risalire fino allo spirito (shen gong, "lavoro spirituale") sono sette: lo spirito, la condizione fisica, la disciplina, la forma, la tecnica, il controllo dell'energia e la teoria. Il primo punto, lo spirito, cioè l'origine e il fine di tutto, è essenziale.
Le tecniche del tang su do vanno da quelle di base a mani nude alle più complesse forme tradizionali eseguite con le armi. L'antica origine cinese è avvertibile dall'occhio esperto, così come lo sviluppo delle tecniche di calcio tradisce la natura coreana. I contenuti sono arricchiti dallo studio delle antiche armi tradizionali e dalle tecniche di corpo a corpo (proiezioni, leve articolari e strangolamenti). Il risultato è un sistema di lotta efficace, sia come metodo di autodifesa sia come potenziamento dell'equilibrio psicofisico. Soprattutto quest'ultimo aspetto è messo in rilievo dalle tecniche di lavoro interno, il cui studio è complementare alla pratica eseguita con il corpo. L'unione e l'equilibrio tra lavoro esterno e lavoro interno si raggiungono attraverso la perfetta esecuzione da una parte degli hyong (forme tradizionali) e dall'altra del ciayu teryon (combattimento libero).
Il tang su do non pone eccessiva enfasi sull'agonismo. Le competizioni, sotto forma di tornei, servono soprattutto come tappa nella formazione del praticante. Ogni anno, in concomitanza con il termine delle lezioni per la pausa estiva, si svolge il trofeo Parsifal, nel caso del quale vengono premiati sia i migliori atleti sia coloro che si sono maggiormente distinti per impegno, serietà e dedizione durante l'anno. La manifestazione consiste in prove di forma (singolo e a squadre), tecniche a un passo (singolo), prove di rottura (singolo) e combattimento light contact con l'uso di protezioni (singolo e a squadre). Si sono formati nel tang su do atleti che hanno raggiunto notevoli traguardi in altre discipline, come Chuck Norris, più volte campione di karate sportivo negli Stati Uniti e che si è esibito anche in film e nella serie televisiva Walker Texas Ranger. Un allievo di Villalba, Christian Laudati, ha conquistato nel 1995 il titolo di campione europeo di karate per la categoria juniores con il kimono della nazionale italiana.
Il viet vo dao (viet, "trascendente, superiore", ma anche il nome del popolo vietnamita; vo, "arti marziali"; dao, "via", l'insieme dei principi di vita e di saggezza che conducono a uno scopo supremo) rappresenta l'espressione culturale di una popolazione, quella vietnamita, che nel corso del tempo ha dovuto lottare costantemente per sopravvivere e, come spesso accade nelle arti marziali, anche la sua storia è strettamente legata a quella del popolo che lo ha codificato. A differenza di altre discipline asiatiche, però, prevalentemente prerogativa di una classe sociale agiata, in Vietnam il viet vo dao ha avuto origine e sviluppo tra i contadini.
È difficile precisare la sua data di nascita che certamente risale a oltre 5000 anni fa, quando il Vietnam si estendeva nella parte meridionale dell'attuale Cina, fino al fiume Duong Tu Gian (Yan Tse Kiang). Di norma se ne attribuisce la paternità all'imperatore Hung Vuong I, fondatore del Vietnam. In effetti, sotto la dinastia degli Hung Vuong (2879-258 a.C.), l'arte marziale vietnamita, come la medicina tradizionale e la filosofia, ricevette una sistematizzazione. In seguito subì diverse influenze culturali e militari. Dopo essere stata proibita per un certo periodo, deve la sua rinascita principalmente a Nguyen Loc, che nel 1938 presentò ufficialmente ad Hanoi il movimento, dandogli il nome vovinam viet vo dao (v. oltre). Nel 1975 il maestro Phan Hoag riunì a Limoges, in Francia, i maestri vietnamiti che in tutto il mondo insegnavano viet vo dao con nomi differenti e costituì la Federazione internazionale viet vo dao, cui aderiscono oggi più di 30 paesi in rappresentanza di alcune decine di milioni di praticanti.
L'attività in Italia ha avuto inizio nel 1975, quando alcuni maestri provenienti dal Vietnam iniziarono a insegnare la loro arte a piccoli gruppi di allievi. Nel gennaio 1980 si è costituita la Federazione viet vo dao Italia, con sede a Roma, al fine di coordinare le attività svolte nei vari club presenti in Veneto, Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna, Lazio, Campania e Sardegna; oggi i praticanti italiani sono circa 2000. Il consiglio dei maestri è composto da Nguyen Van Viet, direttore tecnico nazionale (secondo la tradizione, ha ricevuto da Phan Hoang, presidente della Federazione internazionale, un nome nuovo: è stato chiamato Kham Long, appellativo che lo collega alla mitologica figura del drago e alla cosmologia degli otto trigrammi), da Bao Lan, responsabile dei centri viet vo dao della Lombardia e del Veneto (il suo nuovo nome è Kim Long, che unisce alla simbolica figura del drago, la purezza e il valore dell'oro) e da Nguyen Thien Chinh, responsabile dei centri piemontesi (il suo nuovo nome è Hung Long che significa "drago forte e coraggioso").
Il viet vo dao ha tre specialità di gara: il combattimento (dau tu do), le forme (quyen) e le forme con le armi tradizionali (quyen vu khi). I combattimenti sono divisi per gradi (dalla cintura bianca alla nera esclusa e dalla cintura nera in su), per peso, per età (pulcini, cadetti, juniores e seniores) e per sesso. Esistono anche le competizioni a squadre, con cinque titolari (tre per le donne) più una riserva. Ogni match è sulla distanza di un round di 2 minuti (2 round per le cinture nere). Il combattimento è continuo e i giudici al termine dell'incontro assegnano la vittoria a uno dei due atleti, con la regola dei 10 punti (A vince su B per 10 a 9 quando si emerge con superiorità; 10 a 8 quando si ha una superiorità schiacciante), oppure il pareggio (10 a 10). Si può colpire dalla cintura alla gola e solo sulla parte anteriore del corpo e sui fianchi. Valgono i colpi al viso, ma solo se non comportano danni all'avversario.
Nelle forme, oltre alle tecniche con mani e calci, l'addestramento del viet vo dao insiste sulle tecniche di proiezione, di spazzata e di respirazione. Le forme sono generalmente acrobatiche e viene data enfasi ai calci in volo, alle forbici e alle tecniche di strangolamento eseguite con le gambe. Ogni quyen vuole essere, tuttavia, non solo un insieme di tecniche, ma anche un insegnamento di strategia, un allenamento spirituale e un messaggio di saggezza. Allo stesso modo le tecniche mirate alla rottura di tavolette, tegole e mattoni, molto acrobatiche e spettacolari, hanno un significato simbolico, esprimendo la capacità di infrangere gli ostacoli che si frappongono alla scoperta del chan dao (la giusta via) grazie al superamento dei propri limiti ottenuto con la volontà e l'allenamento. La rottura è una dimostrazione di cosa può l'armonia tra la forza spirituale e la forza fisica, in accordo il motto del viet vo dao: "mano d'acciaio e bontà di cuore". C'è dunque molta filosofia nell'arte marziale vietnamita: i concetti di essere umano e di mondo sono espressi secondo il principio fondamentale dell'armonia, opposta alla manipolazione, alla sopraffazione o al dominio, e come immagine sono usate le canne di bambù, che rappresentano la rettitudine, la flessibilità, la costanza e il disinteresse materiale.
Nelle gare con le armi tradizionali si usano quelle lunghe come il bastone (bong phap), il bastone a tre sezioni (tam thiet con), la lancia (thuong) e l'alabarda (dai dao), e quelle corte come il bastone corto (gian), il bastone a due sezioni (long gian), la sciabola (dao), la spada (kiem), il pugnale (dao) e i coltelli a farfalla (ma dao).
La pratica avviene a piedi nudi in una palestra priva di tappeto, indossando il vo phuc nero, stretto in vita da una cintura con strisce (cap) diverse per colore e per numero a seconda del grado: i primi livelli hanno la cintura bianca, con fino a quattro strisce, blu per gli adulti e gialle per i bambini; i livelli successivi hanno la cintura nera con altrettante strisce quanti sono i dang (gradi superiori) fino al quinto, livello nel quale la cintura diventa bianca e rossa.
Nella grande famiglia del viet vo dao una scuola rivendica in particolare l'esclusività del carattere vietnamita della disciplina: è il vovinam (vo "arte marziale", vi e nam sono i due ideogrammi che rappresentano il Vietnam). I suoi praticanti, che si distinguono per l'uso del vo phuc azzurro, sostengono che gli altri cultori del viet vo dao (che indossano il vo phuc nero) si cimentano in un kung-fu sì vietnamita, ma di origine cinese.
Promotore del vovinam fu Nguyen Loc, che fondò questa scuola ad Hanoi nel 1938. Nguyen Loc era esperto nel vo, arte marziale vietnamita che ha fornito la maggior parte delle basi del vovinam viet vo dao, e nel vat, disciplina di lotta vietnamita. Dopo la sua morte, avvenuta a Saigon nel 1960, la sua eredità fu ripresa da Le Sang, il suo allievo più bravo e più assiduo, che ne continuò l'opera di diffusione in tutto il Vietnam, nonostante la guerra. In seguito, anche grazie a un gran numero di capaci praticanti, il vovinam si è fatto conoscere anche in altri paesi e oggi è l'arte marziale vietnamita più praticata nel mondo.
Il vovinam è una disciplina molto completa dove è previsto l'utilizzo di numerose tecniche. Lo studio si suddivide in tre settori principali: il lavoro di base individuale, il lavoro di base a coppie e le applicazioni. Molte le tecniche che lo compongono: quyen (forme), khoa go (tecniche di chiave e leva), vat (lotta tradizionale vietnamita), nhu khi (tecniche di energia interna), don chan (tecniche di forbice), phan don (tecniche di contrattacco), chien luoc (tecniche di combattimento) e dau tu do (combattimento libero).
Nei primi tre o quattro anni di pratica (fino ad arrivare alla cintura nera) il programma si basa sui fondamentali (calci, pugni, parate, posizioni, gomitate, ginocchiate), sul lavoro a coppie e su tutto ciò che concerne la difesa personale. Il lavoro delle forme è solo introdotto (fino alla cintura nera ce ne sono soltanto quattro) per essere poi affrontato in modo molto più approfondito a partire dal 1° dang.
L'Unione vovinam viet vo dao Italia è stata fondata nel settembre 1993 con l'intento di unificare tutte le scuole di vovinam sotto una sola associazione. Ha stretti contatti con la Federazione vietnamita di vovinam viet vo dao (è proprio quest'ultima che ha designato direttore tecnico Michele Garofalo, già campione europeo di combattimento) e fa parte dell'Intercontinental vovinam viet vo dao association, l'organizzazione che si occupa dello sviluppo del vovinam a livello internazionale, seguendo le direttive del Ministero dello Sport del Vietnam e della Federazione vietnamita, e conta migliaia di praticanti in tutto il mondo.
Il vovinam viet vo dao viene insegnato in qualsiasi tipo di palestra preferibilmente dotata di materassini. Le gare si distinguono in due categorie: gara tecnica e combattimento. Le gare tecniche sono di due tipi, individuali e a coppie o di gruppo. La gara individuale consiste nell'eseguire un quyen (forma) davanti a una giuria. I principi di valutazione sono basati sulla correttezza tecnica, la precisione dei movimenti, la potenza, l'espressività, l'agilità. La gara a coppie consiste nell'eseguire un song luyen (forma a coppie) seguendo gli stessi principi del quyen; viene valutata anche l'affinità della coppia. In tutti e due i casi le competizioni sono proposte sia per i bambini sia per gli adulti. Le categorie dei bambini vanno dai 6 ai 10 anni e dagli 11 ai 14 anni.
La gara di combattimento si svolge con vari tipi di regolamento a seconda dell'età e del grado dei praticanti. Le categorie dei bambini (da 6 a 13 anni) combattono con un sistema molto simile a un gioco, che consiste nel riuscire ad attaccare delle palline sulla copertura in velcro del corpetto dell'avversario; si tratta di un buon metodo di allenamento per imparare a schivare i colpi e a portarli senza farsi male. La categoria dai 14 ai 17 anni invece prevede un combattimento più reale detto 'punto e stop', che si avvicina a quello degli adulti ma obbliga a un contatto leggero e viene fermato ogni volta che un colpo va a segno.
Il combattimento degli adulti è diviso in varie categorie (per grado, peso e sesso). Quelle sotto la cintura nera combattono con un contatto medio, senza interruzioni, non valgono le tecniche di ginocchio e sono obbligatori il casco con la grata e il corpetto. Dalla cintura nera in poi il contatto è pieno, con la possibilità di portare ginocchiate; il casco è senza grata e non si utilizza il corpetto. Le stesse regole sono valide anche per il combattimento femminile con l'unica differenza che in questo è obbligatorio l'uso del paraseno o del corpetto.
Nei primi gradi la cintura è azzurro chiaro, con strisce su un lato in funzione del livello, poi diventa nera, quindi gialla con le strisce rosse (da 1° a 3° dang). Dal 4° dang è rossa con strisce bianche. Il gran maestro 10° dang ha la cintura bianca.
Il trofeo internazionale più importante è il Campionato internazionale del Vietnam (la prima edizione si è svolta nel luglio del 1998). Il Campionato europeo è biennale e comprende sia la tecnica sia il combattimento. Il Campionato italiano si tiene ogni anno e prevede combattimento, tecnica e tecnica e combattimento riservato ai bambini. La prima edizione del campionato adulti si è svolta nel 1995, quella dei bambini nel 2002 (prima era inserito nel campionato adulti). In Italia dal 2000 ha luogo inoltre un trofeo internazionale dedicato al maestro fondatore Nguyen Loc.
Circa 250 anni fa la passione di una giovane cinese, Wing Tsun, per le arti marziali praticate nel monastero di Shaolin la spinse a chiedere a Ng Muy, una monaca buddhista dell'antico tempio, di accettarla come allieva. Visto il profondo desiderio che la giovane nutriva, la monaca accettò. Quindi iniziò a insegnarle soprattutto le tecniche che, a suo giudizio, erano più adatte alla struttura della giovane, piccola e fragile. In poco tempo Wing Tsun divenne così abile che Ng Muy decise di dare il suo nome al sistema di lotta che aveva ideato appositamente per lei. Così nacque il wing tsun (o wing chun).
L'arte marziale rimase segreta fino alla morte di Yip Man (1884-1972), patriarca del moderno wing tsun, che negli ultimi anni di vita ebbe per allievo anche Bruce Lee. Tra gli altri allievi vi furono William Cheung e Leung Ting. Quest'ultimo, che vive a Hong Kong ed è considerato da molti l'erede di Yip Man, ha contribuito a far conoscere il wing tsun il tutto il mondo. I praticanti sono ormai diversi milioni, di cui oltre 4000 in Italia, dove il promotore è Filippo Cuciuffo.
Il wing tsun ("bella primavera") è nato come metodo di difesa personale, adatto alle persone di piccola statura e di costituzione fragile, quindi particolarmente indicato per le donne, anche se in realtà è praticato da persone di ambedue i sessi che desiderano apprendere un valido sistema di protezione. Il concetto base è non opporre la propria forza a quella dell'aggressore, ma assecondare la forza dell'avversario con la cedevolezza per passare poi a un efficace contrattacco.
I principi base, che stabiliscono per il praticante anche le regole di comportamento, sono otto con due peculiarità: i pugni a catena e il chi sao. I pugni a catena, che possono essere indirizzati contro ogni parte del corpo dell'avversario, sono sferrati uno dietro l'altro in linea retta e colpiscono ripetutamente e rapidamente. La velocità è anche la caratteristica dell'inch-punch, un pugno portato chiudendo improvvisamente le dita della mano e scaricando tutta la forza in un punto. Per l'allenamento di questa tecnica ci si mette di fronte a un sacco a muro con la mano tesa, toccandolo appena con le punte delle dita, poi si chiude di scatto la mano a pugno e si colpisce il sacco con le nocche del dito medio, anulare e mignolo; il braccio deve essere sciolto e fluido, nessun muscolo deve essere contratto, perché altrimenti rallenterebbe il colpo, la cui potenza si accresce con l'allenamento grazie alla padronanza delle tecniche di respirazione. Quindi, a differenza di molti stili di kung-fu cinese, il wing tsun non lavora su linee d'attacco circolari poiché si agisce sempre per linee dirette sulla linea centrale del corpo.
All'inizio ci si allena principalmente sulla corta distanza, ma progredendo l'allievo impara anche a lavorare sulle altre distanze. Solo dopo molti anni di studio si può passare al chi sao ("mani appiccicose"), il cuore del wing tsun. È un esercizio che sviluppa la sensibilità, si esegue a coppie e serve per 'sentire' la forza, la pressione dell'avversario, e a controllarla per trovare una strada dove contrattaccare. Nel wing tsun sistema leung ting, ogni chi sao è composto da una piccola sequenza di tre tecniche, le 'tre sicurezze': si para, si assorbe l'attacco con lo spostamento del corpo e quindi si contrattacca. A tal fine non si utilizzano solo tecniche di pugno o di palmo, ma anche di gambe. Esiste infatti un livello superiore, il chi gl, in cui si controlla la forza dell'avversario con gli arti inferiori.
Il wushu kung-fu è l'arte marziale più antica del mondo e da esso derivano tutte le altre. Impropriamente è conosciuto in Occidente ‒ soprattutto attraverso dei film di Bruce Lee ‒ come kung-fu, che invece è un termine generico usato in molte situazioni e il cui significato è "esercizio eseguito con abilità".
Il wushu kung-fu è di origine cinese. Come sistema di lotta ne troviamo tracce fin dal 11° secolo a.C., durante la dinastia Zhou, quando faceva parte di un programma di educazione scolastica. Ma si suppone che già esistesse in epoche più antiche, soprattutto nelle caste militari. Come sistema codificato di arti marziali nasce invece nel 527 d.C., quando nel leggendario monastero di Shaolin, nella regione di Henan nel nord della Cina, giunse il monaco indiano Bodhidarma (o Ta Mo in cinese), 28° patriarca buddhista. A Shaolin, Bodhidarma trovò monaci particolarmente abili nei sistemi di lotta, ma con la salute minata da allenamenti estenuanti, al limite delle capacità umane. Bodhidarma insegnò loro pratiche meditative finalizzate al recupero e allo sviluppo dell'energia. In seguito i monaci combatterono per vari imperatori, ma sotto la dinastia Qing caddero in disgrazia, tanto da essere perseguitati e uccisi. Solo alcuni riuscirono a mettersi in salvo, rifugiandosi in Giappone, in Vietnam, in Corea e in altri paesi dell'Asia, dove iniziarono a diffondere, anche se solo a pochi eletti, le loro conoscenze. Nel corso dei secoli, le arti marziali assunsero una connotazione più locale che prevalse su quella cinese, favorendo la nascita delle diverse discipline. A sua volta il wushu kung-fu 'originale' subì le interferenze dei singoli maestri che ne modificarono le tecniche, personalizzandole e dando luogo alla nascita di moltissimi stili diversi, tanto che ora se ne contano più di cento.
Il wushu kung-fu di oggi ha una connotazione decisamente sportiva, pur mantenendo riferimenti alle antiche caratteristiche marziali e filosofiche, ed è tra l'altro materia scolastica i cui docenti si laureano all'Istituto di educazione fisica di Pechino. Due sono le specialità: le forme (taolu), ovvero esercizi liberi a mani nude o con le armi il cui scopo è dimostrare la propria abilità tecnica, e il combattimento agonistico (sanda).
Il taolu si suddivide a sua volta in due categorie: le forme ufficiali da gara e gli stili dimostrativi. Della prima categoria fanno parte il chang quan (stile del Nord), il nan quan (stile del Sud a mani nude), il nan dao (stile del Sud con la sciabola), il nan gun (stile del Sud con il bastone), il taiji quan (antica arte marziale eseguita in modo molto lento), il tai jian (la spada del taiji quan), il dao shu (sciabola), il jian shu (spada), il gun shu (bastone) e il qiang shu (lancia).
Nel termine chang quan sono comprese diverse scuole. Le principali caratteristiche sono l'eleganza delle posizioni, l'agilità e la velocità dei movimenti. I praticanti eseguono le tecniche alla massima estensione permessa dalle braccia, si muovono veloci, saltano e combinano potenza e morbidezza, accelerazioni e pause, movimenti rapidi e altri morbidi.
Il nan quan esalta le posizioni accosciate con un baricentro basso e un lavoro delle gambe tale da garantire grande stabilità. È caratterizzato da pugni potenti, combinazioni corte e con pochi salti.
Il taiji quan è diffusissimo in tutto il mondo nella sua versione sia tradizionale sia moderna. Secondo le ricerche dello storico del wushu Tang Hao, venne praticato per la prima volta dai membri della famiglia Chen nella valle di Chenjia. Il primo insegnante fu Chen Wangting. Di questa arte marziale esistono cinque scuole: Chen, Yang, Wu, Wu (Hao) e Sun, che prendono i nomi delle famiglie dei patriarchi. Sono differenti nelle forme e simili nelle tecniche, tutte richiedono ai praticanti tranquillità, calma, rilassamento e concentrazione. I movimenti sono eseguiti lentamente, con armonia e continuità, seguendo il ritmo della respirazione, vero motore dell'energia (qi).
La sciabola (dao shu) è una delle armi maggiormente diffuse nel wushu cinese. Si utilizzano sciabole a impugnatura corta e a impugnatura lunga, doppie sciabole, sciabole a nove anelli e a lama lunga. Richiedono un uso vigoroso, potente e veloce in attacco e in difesa. Le principali tecniche sono stoccate, fendenti, colpi discendenti, avvitamenti attorno al corpo con il dorso della lama a contatto con il corpo, parate, colpi circolari e giri dell'arma sopra la testa.
La spada (jian shu) è detta "l'arma gentile" ed è la più nobile delle armi corte. È veloce, agile ed elegante in azione: i movimenti sono flessuosi, graziosi e fulminei. Forza ed elasticità interagiscono. Le tecniche più comuni sono le stoccate, i colpi di taglio, le parate, i colpi di punta con il polso in flessione, i movimenti circolari, i fendenti, le rotazioni e i giri sopra la testa.
La lancia (qiang shu) è invece la più nobile delle armi lunghe. Ve ne sono differenti tipi con diverse forme: a punta grossa, a punta segmentata, a punta acuminata e lama su un solo lato, a doppia punta. Le tecniche di base consistono nell'infilzare, disegnare cerchi, parare, bloccare e avvitare. La pratica richiede che la lancia sia usata in maniera ferma e flessibile, avanzandola e arretrandola velocemente ma elegantemente, con infilzate dirette veloci con la forza focalizzata sulla punta.
Il bastone (gun shu) è detto il 'padre delle armi' in quanto si ritiene che tutte le altre armi derivino da esso ed è l'arma con la quale di solito si inizia lo studio. Le tecniche di bastone più comuni si sviluppano principalmente in senso circolare e consistono nel fendere, nel colpire in modo diretto od obliquo o dal basso, nel saltare, nel colpire a terra, nel parare, nel trafiggere, nell'eseguire dei cerchi. Il bastone viene usato velocemente, combinando offesa e difesa e cambiando spesso direzione. È generalmente di legno, ma può essere anche di metallo, come nello stile della scimmia.
Oltre alle armi impiegate negli stili ufficiali ne esistono tantissime nelle scuole tradizionali, tra cui il pang (bastone corto), il ch'ang kun (bastone molto lungo), lo shuang chieh kun (bastone snodato a due sezioni), il san chieh kun (bastone snodato a tre sezioni), lo shao kun ("bastone delle sentinelle": snodato, costituito da un pezzo molto lungo e uno corto, uniti da una catenella), il kuan tao (alabarda), lo shuang kou (spada uncinata), il kang pien (catena d'acciaio), il kuai (bastone corto con manico trasversale utilizzato come impugnatura), il t'ieh ch'ih (asta di ferro appuntita, con una caratteristica impugnatura), lo sheng piao (corda con una punta metallica a una estremità), il fu (ascia di guerra), il ch'ui (mazza) e il pi shou (pugnale).
Negli stili dimostrativi, o tradizionali, rientrano il tongbei quan (stile delle braccia a frusta), il ditang quan (stile delle cadute), il bagua zhang (palmo degli otto trigrammi), lo xingyi quan (stile della forma e della mente), lo hou quan (stile della scimmia), lo ying zhao quan (stile dell'aquila), il tanglang (stile della mantide religiosa), il long xing quan (stile del drago) e, ovviamente, lo Shaolin quan (lo stile della giovane foresta), disciplina che deriva direttamente dal monastero di Shaolin.
Per le sue caratteristiche il wushu kung-fu ha un alto valore sportivo ed educativo: può essere praticato sia per acquisire una buona forma fisica, perché una parte determinante dell'allenamento è composta da potenziamento muscolare e sviluppo delle capacità coordinative e motorie, sia come efficace sistema di difesa personale, attraverso lo studio di pugni, calci e armi bianche. A livello agonistico la sua diffusione è capillare in tutto il mondo, con campionati nazionali, continentali e mondiali. I primi regolamenti agonistici risalgono al 1958 e furono stilati in Cina dalla Commissione di Stato di cultura fisica e sport. Già nel 1936 una squadra dimostrativa di atleti cinesi aveva partecipato alle Olimpiadi di Berlino suscitando grande ammirazione.
Nelle competizioni nazionali e internazionali gli atleti eseguono una o più forme e un pool di giudici assegna un punteggio in base alla perfezione della tecnica, all'equilibrio, al ritmo dell'esecuzione, come accade per la ginnastica artistica. E proprio dalla ginnastica artistica deriva tutta una serie di tecniche acrobatiche che rendono il wushu kung-fu particolarmente spettacolare.
La seconda specialità è quella del combattimento libero, dove gli atleti, divisi in categorie di peso, si fronteggiano con calci, pugni e proiezioni, con possibilità di k.o. Essendo un metodo di lotta molto completo dove i colpi sono portati alla massima intensità, l'atleta indossa caschetto e paradenti, corpetto, protezioni ai piedi, alle tibie, ai genitali. Gli incontri durano 2 round di 2 minuti ciascuno, senza interruzione, e i giudici assegnano i punti in base alle parti del corpo colpite. In caso di parità, si prosegue per altri 2 minuti.
Visto l'alto numero degli stili, non esiste un'uniforme comune: nello stile tradizionale l'abito di kung-fu (kung-fu chuan) più utilizzato è di colore nero, ma molte scuole, come per es. il taiji quan, hanno adottato anche il colore bianco. Molto complicato è anche il sistema di identificazione dei gradi: alcune scuole usano per i gradi inferiori (ji) delle strisce, altri la cintura bianca semplice, altri ancora le cinture colorate. La Federazione italiana wushu kung-fu ha adottato quattro cinture (bianca, gialla, blu, rossa) per i gradi inferiori, mentre quelli superiori (jieh) sono segnati sulla cintura, che può essere nera, rossa oppure color oro, fino al 10°. Le gare di forme, avendo molte componenti acrobatiche, si praticano su tatami o su moquette. I combattimenti vengono effettuati su un quadrato di 8 m per lato, rialzato da terra di circa un metro, senza corde laterali.
Nel mondo il wushu kung-fu ha decine di milioni di praticanti. Forte di questo ingente numero, l'International wushu federation, riconosciuta dal Comitato internazionale olimpico dal 2002, ha proposto di inserire nei Giochi Olimpici di Pechino del 2008 il taolu.
Per quanto riguarda l'Italia, la Federazione italiana wushu kung-fu risale al 1982 ed è associata al CONI dal 1996. La disciplina conta oggi circa 20.000 praticanti. Agli Europei organizzati a Povoa de Varzim (Portogallo) nel 2002 la squadra azzurra è giunta seconda, con 6 medaglie d'oro, 6 d'argento e 4 di bronzo. Altre competizioni dove gli italiani hanno raggiunto ottimi risultati sono state gli Europei del 1996 (3 ori, 3 argenti, 4 bronzi), i Mondiali del 1997 (1 bronzo), gli Europei del 1998 (3 ori, 2 argenti, 3 bronzi), i Mondiali del 1999 (1 bronzo), gli Europei del 2000 (3 ori, 7 argenti, 5 bronzi), i Mondiali del 2001 (2 argenti). Tra gli atleti di punta spiccano il pluricampione italiano ed europeo Lorenzo Paglia, campione del mondo nel 1992, Massimiliano Licopodio (pluricampione italiano), Jonathan Bemporad (pluricampione italiano), Davide Reggiani (pluricampione italiano), Giulio Malagoli (campione del mondo nel 1992 e pluricampione italiano), Guido Gelatti (pluricampione italiano), Luca Citron (pluricampione italiano ed europeo), Roberto Ruggeri (pluricampione italiano ed europeo), Xu Hui Hui (pluricampione italiano ed europeo) e Angelica Cukon (pluricampionessa italiana ed europea). Il commissario tecnico nazionale è Hao Xu; il direttore tecnico del taolu moderno è Luca Piazza, quello del taiji quan Guang Guang Xu e quello del sanda Osvaldo Taresco.
Lo yoseikan budo (yoseikan, "scuola del rigore"; yoseikan budo "laboratorio delle arti marziali") è un'arte marziale che affonda le sue radici nella tradizione giapponese, offrendone una chiave di lettura moderna adatta alla cultura occidentale. È stata ideata negli anni Settanta da Hiroo Mochizuki, che ha sviluppato gli insegnamenti del padre Minoru Jigoro Kano (fondatore del judo) e di Morihei Ueshiba (fondatore dell'aikido). Nel 1975 fu fondata la Federazione francese di yoseikan budo, cui ha fatto seguito nel 1978 il Centro internazionale yoseikan budo, con sede a Parigi. Dalla Francia la disciplina si è diffusa nelle altre nazioni. In Italia ha fatto la sua comparsa nella seconda metà degli anni Settanta e conta alcune migliaia di praticanti.
Lo yoseikan budo è nato dalla ricerca di un tratto comune che unifichi alla radice tutte le discipline marziali. Mochizuki lo ha individuato in una catena di movimenti in grado di trasmettere l'energia del corpo nel punto di applicazione. Ne deriva un movimento ondulatorio, a cui sono riconducibili tutte le tecniche sia a mani nude (proiezioni, colpi, chiavi articolari) sia con armi. Su questa base, comune a tutte le arti marziali ma anche a molti sport, s'innesta lo spirito di rinnovamento degli insegnamenti tradizionali, partendo dal presupposto che la tradizione del samurai non è mai stata l'immobilismo, ma l'adattamento alle nuove situazioni. In questa chiave nello yoseikan budo coesistono diversi aspetti, che vanno dallo studio della tradizione e della filosofia orientale, all'agonismo, alla semplice pratica.
Si tratta di una disciplina accessibile a tutti, a prescindere dall'età, e prevede diverse forme codificate che consentono di avvicinarsi al metodo: yoseikan aiki, yoseikan goshin-jutsu, yoseikan kenjutsu-kobudo, yoseikan kenpo, yoseikan iaido, yoseikan karate, yoseikan bajutsu, sparring e training. Il sapere tecnico è sistematizzato nei kata a coppie e singoli sia a mani nude sia con le armi tradizionali. Il kata fondamentale, tanto happo, costituisce la chiave di tutte le forme tecniche del metodo con o senza armi. Vi è un continuo lavoro di ricerca sulle radici delle arti marziali e di aggiornamento delle tecniche e delle attrezzature per meglio avvicinarle alla sensibilità moderna.
Nell'allenamento in palestra si praticano tecniche a mani nude su punti vitali, proiezioni, chiavi articolari e immobilizzazioni. Le armi, rivestite con materiale protettivo, sono essenzialmente di tre tipi: tchobo (bastone a due mani, lungo 105 cm), tambo (bastone a una mano di 75 cm), e kombo (bastone a una mano di 35 cm). Sono previste protezioni come conchiglia, paraseno, casco con griglia e sottocasco, guanti aperti o chiusi, paratibie e parapiedi con tallone protetto, corpetto. Le competizioni prevedono di norma tre specialità: emono randori (con armi scelte a sorte), sude randori (a mani nude), emono sude randori. Esistono anche competizioni per le forme specifiche.
La divisa consiste in un kimono blu marino (simbolo dello yin) e pantaloni bianchi con bande laterali blu marino (yang). La cintura, a bande blu e bianche alternate, simboleggia l'onda e non differenzia in alcun modo i gradi.
La Yoseikan world federation, il cui presidente è Hiroo Mochizuki, ha sedi in Svizzera e in Francia. Da essa dipendono le organizzazioni nazionali di circa 40 paesi. L'Accademia italiana yoseikan budo, con sede a Brunico (Bolzano), si propone la promozione della disciplina attraverso l'organizzazione di manifestazioni e competizioni di alto livello (tra i principali eventi, la prima edizione assoluta della Coppa del Mondo a Parma nel 1986 e la seconda edizione del Campionato del Mondo a Bressanone nel 1993) e svolge altresì un'apprezzata attività di ricerca pedagogica con progetti educativi che coinvolgono le strutture scolastiche e iniziative editoriali che fanno capo ai Quaderni dell'Accademia Italiana e alla Piccola Biblioteca, curati da Valentino Straser (presidente dell'Accademia), Romano Patuzzi (campione del mondo) e Armando Conti.
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