Artigianato e manifatture
Le fonti fridericiane non riservano all'economia artigiana e manifatturiera dell'Italia meridionale e della Sicilia lo stesso grado di attenzione che manifestano per la crescita agraria e per il controllo dei traffici commerciali, in particolare di quelli con l'estero. Dal punto di vista della corte, nessun'altra risorsa interna poteva procurare entrate dirette e indirette paragonabili a quelle derivanti dalla produzione e dall'esportazione dei victualia, di cui il Regno e il demanio abbondavano. Federico II mantenne inoltre un atteggiamento complessivo di estraneità, se non di diffidenza, nei confronti della società urbana, in cui arti e manifatture avrebbero dovuto dispiegarsi. A tutto ciò si aggiungeva la realtà di strutture economiche nelle quali lo sviluppo del settore secondario non aveva assunto una chiara funzione di primo piano. Nel loro insieme, questi fattori sono presenti nella stessa lunga costituzione De fide mercatorum in mercibus adhibenda, compresa nella raccolta di Melfi del 1231 (Const. III, 49), con la quale il sovrano sottoponeva alla sua supervisione qualità e commercializzazione della produzione artigiana. Il testo presenta il lavoro dei maestri "mechanicarum artium, quorum operis et operibus homines carere non possunt", secondo una prospettiva apertamente cavalleresca e nobiliare. Nell'elenco spiccano orafi e argentieri, sellai, scudai, fabbri e armaioli: tutti genericamente chiamati a operare "legaliter et fideliter", con la sola specifica ‒ e rivelatrice ‒ ingiunzione a sellai e scudai di non spacciare per argento eventuali decorazioni in stagno dei loro prodotti. Per il resto la costituzione ‒ chiaramente indirizzata all'economia quotidiana di città e centri anche minori ‒ si occupava delle possibili frodi di beccai e pescivendoli, di tavernai e di candelai, nonché di assegnare ai baiuli regi il compito di stabilire il salario da imporre ai prestatori d'opera, braccianti e vendemmiatori. La prevenzione delle frodi degli artigiani e dei bottegai era quindi affidata, in ciascuna località, a due rappresentanti giurati ‒ scelti dal baiulo con l'aiuto dei notabili ‒ i cui nomi erano trascritti nei registri della Curia. È possibile che la norma mal rispecchiasse la più complessa struttura produttiva delle maggiori comunità urbane. Ma il fatto stesso che essa ritenesse di dovere e potere entrare nel merito di aspetti regolamentati, in altre aree e contesti politici, da magistrature e associazioni di mestiere locali, sembra derivare più dai limiti dello sviluppo manifatturiero e artigiano nelle comunità del Regno che da quelli del punto di vista imperiale.
Tessuti di lino e di seta (e non pannilana, nonostante l'abbondanza di materia prima) sono gli unici manufatti esplicitamente ricordati nelle tariffe doganali sulle esportazioni contenute nei nova statuta, pure promulgati nel 1231. Con la vasta riforma finanziaria promossa in quell'occasione, la corte rafforzava d'altra parte la sua presenza ‒ non solo fiscale, ma anche commerciale e produttiva ‒ in settori decisivi delle attività di trasformazione nel Regno. Stabilendo che tutta la seta grezza dovesse essere venduta a emissari regi ‒ ovvero società di ebrei appaltatori ‒ incaricati poi di smerciarla a prezzi maggiorati e fissati dall'amministrazione (v. Commercio), Federico II da un lato si garantiva forniture adeguate per i consumi della corte e per la ripresa della tradizione normanna delle manifatture regie, dall'altro operava una sorta di prelievo fiscale anticipato sulla successiva lavorazione della materia prima da parte dei sudditi. Lo stesso avveniva con il ferro e l'acciaio, sul commercio dei quali ‒ così come probabilmente per il rame, la pece e la canapa lavorata ‒ era anche stato instaurato il monopolio regio. Nel caso dei metalli l'utilizzo diretto da parte della corte avveniva nelle officine e nelle forge installate all'interno delle fortezze e dei palazzi imperiali, e negli arsenali. Conosciamo la presenza di fabbri e fornaci nel castello di Napoli, così come quella di fabbriche d'armi nel castello a mare e nel palazzo di Messina ‒ per il quale si cercavano a Pisa nuovi maestri armaioli e corazzai. Ai cantieri della flotta era verosimilmente destinata pure buona parte della pece e della canapa lavorata incettata dagli agenti del sovrano. La stessa richiesta nel 1239 di specialisti della produzione dello zucchero provenienti dal Levante latino, così come quella di esperti coltivatori di alcanna e indaco tra gli ebrei immigrati a Palermo da Gerba, sembrerebbero pertanto rispondere innanzitutto ai bisogni della corte, piuttosto che a un generico interesse alla ripresa di settori tradizionali e in declino dell'economia siciliana.
A condizione che fossero effettivamente applicate, è anche molto probabile che ‒ proprio nei due comparti principali, tessile e metallurgico, dell'industria medievale ‒ le nuove disposizioni dell'amministrazione fridericiana costituissero essenzialmente un aggravio dei costi di produzione e transazione, e dunque un ostacolo per gli operatori economici privati. L'assoluta preminenza del vantaggio fiscale della Corona, su ogni eventuale e ipotetica preoccupazione per l'incremento della produzione manifatturiera e tessile, è in ogni caso evidente nella riacquisizione al demanio di tutte le tintorie del Regno, ugualmente promossa nel corso del 1231. Nel ciclo della lavorazione dei tessuti, la fase finale della coloritura e della apprettatura ‒ praticata da artigiani specializzati ebrei ‒ era quella su cui tradizionalmente si esercitava il diritto di prelievo fiscale, in molte delle principali città ceduto alla Chiesa episcopale, che lo incamerava appaltando la gestione della tintoria a singoli, a consorzi o alla intera comunità ebraica locale. I funzionari di Federico incaricarono 'maestri' ebrei di loro fiducia di riordinare e restaurare per conto della Curia regia gli opifici dei due o tre centri principali di ciascuna provincia (valutando se fosse necessario installarne di nuovi in altre città), in modo da potervi far obbligatoriamente affluire tutti i panni della zona, in particolare sete, lini e fustagni ‒ come si specificava nelle istruzioni per le tintorie di Terra di Lavoro installate a Napoli e a Capua. Doveva trattarsi in buona misura di tessuti realizzati nell'ambito di un'industria domestica, ai quali la colorazione e la rifinitura aprivano lo sbocco dei mercati locali, ma in parte anche ‒ come abbiamo visto ‒ di una produzione per l'esportazione. A Taranto la riattivazione della tintoria sotto il controllo regio determinò il ritorno in città delle attività dislocate nel territorio, attraverso il rientro di tutti gli ebrei della giudecca tarantina "qui erant tinctores per diversas civitates et loca" (Girgensohn-Kamp, 1961, nr. IX, p. 194). Proprio nel caso della città pugliese ‒ uno dei maggiori centri urbani del Regno ‒ lo sforzo di accrescere l'attività della tintoria urbana e l'utile del sovrano non sembrerebbe tuttavia aver avuto grande successo. Federico II aveva riconosciuto all'arcivescovo il diritto di ricevere come rendita fissa le dieci onze di consueto incassate attraverso l'appalto, riservando a sé tutto il maggior guadagno atteso dal recupero e dal riordino della tintoria tarantina. Ma in un'inchiesta del 1247, promossa per accertare il diritto dell'arcivescovo, un funzionario regio avrebbe dichiarato che ‒ detratto quanto dovuto alla Chiesa ‒ nell'ultimo anno del proprio ufficio l'avanzo per la corte era stato di appena un'onza, e un altro che in entrambi gli anni della propria gestione l'appalto non aveva superato le dieci onze, ossia il livello consueto prima della riforma del 1231. Solo per l'età angioina abbiamo dati relativi a un utile della Corona più consistente, tra le poco meno di otto onze del 1269-1270 e le cinque del 1277-1278.
fonti e bibliografia
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