ARTIGIANATO
Nell'accezione linguistica moderna il termine a., applicato alle diverse epoche della storia, indica un'attività di produzione di oggetti prevalentemente legati all'uso quotidiano, anche se non necessariamente con finalità pratiche. Sempre in senso storico, il termine designa direttamente anche tali oggetti, preferibilmente quando essi siano connotati in senso estetico o quando la loro produzione abbia comportato l'adozione di tecniche esecutive di una certa complessità o richiedenti particolari abilità manuali. La principale problematica metodologica relativa allo studio dell'a. in generale - e di quello del periodo medievale in particolare - consiste nell'individuazione delle specificità di produzione, di destinazione d'uso e di fruizione da parte dei contemporanei delle varie forme di a., quasi sempre dialetticamente contrapposte, in una valutazione storica tradizionale, alla produzione artistica 'maggiore'.Per ciò che concerne l'Antichità classica e gran parte del Medioevo, tracciare una linea di demarcazione precisa tra artista e artigiano è estremamente difficile, anche a causa di radicate tradizioni storiografiche secondo cui il concetto di artista non si sarebbe formato prima dell'età rinascimentale. Non manca tuttavia nel Medioevo la capacità di riconoscere il valore di alcuni artisti che, in diretta relazione con la qualità dell'opera, si traduceva in aggettivi particolarmente qualificanti. Del resto, pur mancando la definizione di 'artista', ne esisteva tuttavia il concetto, come è dimostrato dalla capacità di isolare figure eccezionali di artefici. Solo in questo modo è possibile spiegare iscrizioni come quella, famosa, di Gisleberto ("Gislebertus hoc fecit") incisa sotto i piedi del Cristo nella Maiestas Domini al centro del timpano del Saint-Lazare di Autun.Quando l'artigiano raggiungeva l'autonomia e la padronanza del mestiere, di solito gestiva per proprio conto una bottega e riscuoteva la totalità o la massima parte del reddito del lavoro che egli realizzava, come un vero imprenditore e con l'aiuto di salariati da lui scelti e pagati. Nei diversi livelli sociali dell'a. si devono ugualmente considerare tutti quei salariati specializzati in compiti molto precisi o capaci di esercitare diversi mestieri, stagionali o temporanei, attivi nelle botteghe o nei cantieri. L'artista appariva come un tecnico di livello superiore e si definiva come una persona che possedeva l'arte del proprio mestiere e questo perché, qualunque fosse il mestiere, nella mentalità medievale le arti meccaniche erano assimilate alle altre: così la parola 'arte' appariva nelle fonti applicata, per es., alla siderurgia. Grandissima è dunque l'ambiguità nell'impiego moderno delle nozioni di lavoro artistico o artigianale riferito al Medioevo. Si utilizza così ormai sempre più spesso, per certi mestieri, il termine di a. d'arte, come pure si parla di a. dell'edilizia.Per lo studio dell'a. medievale si dispone di numerose fonti documentarie, che tuttavia variano a seconda delle regioni e delle epoche prese in considerazione. Le informazioni più importanti provengono dallo studio dei registri contabili o ancora, laddove si sono conservati, di quelli notarili. Tra i resoconti delle autorità territoriali, quelli del comune indicano le spese quotidiane relative ai diversi servizi e mestieri, mentre la contabilità di opere o lavori è completata dai conti generali e da quelli delle circoscrizioni amministrative. Così, è dal quadro delle finanze municipali, soprattutto per la seconda metà del Medioevo, che si ricavano le informazioni relative alla costruzione e manutenzione di torri, porte, cinte murarie, ponti; vi si devono aggiungere i resoconti per la costruzione delle chiese o conti di fabbrica, che chiariscono l'andamento quotidiano del cantiere e di tutti i mestieri che si svolgevano al suo interno. Per le ricerche che riguardano i livelli più alti della scala sociale dell'a. d'arte, si possono utilizzare innanzi tutto i registri notarili che, in Italia, risalgono fino alla metà del sec. 12° e che forniscono informazioni non soltanto biografiche (contratti di matrimonio, testamenti, inventari post mortem, acquisizioni di beni, ecc.), ma anche di carattere professionale (ordinazioni, contrattazioni, contratti, ecc.). Si deve inoltre ricordare che lo studio dei resoconti delle tassazioni fissate dalle autorità municipali permette anche di censire la popolazione relativamente ai diversi mestieri. Inoltre, in ambito ecclesiastico, nelle liste di necrologi possono - ma qui si tratta solo di casi eccezionali - essere citate persone la cui attività nell'esercizio di un mestiere d'arte ha lasciato un ricordo nella comunità. Infine, le fonti archeologiche si rivelano sempre più ricche di informazioni perché permettono una conoscenza concreta più approfondita delle botteghe, delle opere prodotte e della loro zona di diffusione. Queste fonti sono indispensabili, soprattutto per quei periodi o quelle regioni per i quali non si abbiano fonti scritte.La rivalutazione del lavoro fu, nel corso dell'Alto Medioevo, essenzialmente opera del clero e più particolarmente dei monaci; le fonti agiografiche attribuiscono a questi ultimi la responsabilità dell'organizzazione del lavoro manuale, il quale veniva svolto soprattutto come penitenza, ma che da allora contribuì a una rinascita sociale e spirituale di colui che lo praticava. Si assistette peraltro a un certo allentamento del rigore delle regole degli Ordini religiosi per quel che concerneva i regimi alimentari ascetici e i modi di vestire penitenziali, a beneficio di coloro che svolgevano determinate attività nell'ambito monastico. Nella gerarchia ecclesiastica o laica, l'artigiano-fabbro o l'orafo occupavano il posto più elevato, insieme con i fabbricanti di monete.L'utensile era una componente preziosa ed essenziale per il lavoro: la legislazione proteggeva gli attrezzi, in particolare quelli con alcune parti in ferro. La Regola di s. Benedetto assimila infatti i ferramenta (utensili o parti di utensile in ferro) del monastero ai vasi e agli arredi sacri.Con l'età carolingia, lo sviluppo delle tecniche, dell'organizzazione e dell'inquadramento del lavoro assunse un'importanza singolare. Lo si può constatare, a cominciare dalla metà del sec. 8°, nel moltiplicarsi dei contratti agrari e poi, soprattutto, nella regolamentazione del lavoro che si trova sia nelle fonti laiche sia nei documenti ecclesiastici. I capitolari infatti regolamentavano il riposo domenicale o le abitudini monastiche, attraverso le quali si deduce la notevole specializzazione dei monaci in particolari compiti, rispetto a una crescente mano d'opera di servi e di salariati. Tali cambiamenti possono essere osservati anche nell'iconografia dei mesi. Durante il periodo carolingio il lavoro agricolo fu evidentemente l'attività principale, ma già allora il lavoro artigianale godeva di uno statuto particolare. Mentre apparivano i primi trattati tecnici del Medioevo, di fronte alle arti liberali si affermavano le nuove attività artigianali.Nel corso dei secc. 11° e 12° si assistette a una rivalutazione progressiva del lavoro fondata sull'idea che esso fosse utile agli uomini in quanto capace di condurli alla salvezza; nello stesso periodo si verificò l'inurbamento dei laboratores, che, come gli oratores e i bellatores, costituivano uno dei poli sociali del mondo romanico. Rispetto alle sette arti liberali, le arti meccaniche aumentarono d'importanza; Ugo di San Vittore ne enumera sette nel corso del secondo quarto del sec. 12°: tessitura, architettura, navigazione, agricoltura, caccia, medicina, teatro.La nascita delle corporazioni è difficile da situarsi nel tempo e varia a seconda delle regioni e delle città (a Rouen, per es., già prima del 1130 esisteva una corporazione dei calzolai). Un documento eccezionale, risalente alla fine del regno di Luigi IX il Santo, illustra la situazione delle corporazioni parigine nel corso della seconda metà del 13° secolo: si tratta di una raccolta di statuti di mestieri, redatta su richiesta del prevosto reale di Parigi, Etienne Boileau, nota come Livre des métiers. Il lavoro vi appare ben suddiviso in gruppi, dato che vi sono citati cento e uno mestieri regolamentati, la cui prassi è spesso illustrata dalle opere d'arte offerte dalle corporazioni alle grandi istituzioni religiose. La città fu l'ambiente nel quale si sviluppò, a partire dal sec. 12°, la maggior parte delle attività professionali legate alle pratiche artigianali e la sua stessa evoluzione fu condizionata sul piano della topografia dalla ripartizione degli artigiani per strade o quartieri, che di fatto corrispondeva a una specializzazione del lavoro; tali raggruppamenti erano principalmente dovuti a esigenze tecniche, come la presenza di attrezzature per tingere o conciare, la vicinanza dell'acqua o delle vie di transito. A Parigi, il grande porto fluviale e le strade vicine, molto frequentate, attiravano i cambiavalute, i mercanti di oggetti di lusso, quelli di abbigliamento e di mobili o di oreficeria, mentre intorno alle chiese di Saint-Barthélemy e di Saint-Eloi si trovavano i calzolai, i guantai e i mercanti di pelli e di pellicce; sulla rive gauche, attorno a Saint-Séverin, invece i miniatori, gli artigiani della pergamena e dello smalto, gli ymaigiers-tailleurs. Quest'ultimo mestiere, che esisteva ancora nel sec. 15° in numerose città, divenne, a partire da questo momento, meno diffuso.Per chiarire l'organizzazione e la suddivisione del lavoro artigianale nelle città tra il sec. 13° e il 15° sono necessari molti esempi. Quello di Parigi è particolarmente noto: si tratta di una città la cui produzione non era paragonabile alla specializzazione delle città fiamminghe né all'organizzazione dei centri tessili italiani; comunque, alla fine del sec. 13°, i registri delle tasse elencavano, su 15.000 soggetti imponibili, ca. 5.000 artigiani. Le botteghe erano piccole e indipendenti e la famiglia costituiva la principale unità di produzione. Esse erano insieme centri di produzione e di commercio; è infatti noto che anche in altre città gli artigiani lavoravano dietro la finestra del proprio laboratorio (ouvroir) o della propria boticque. Le botteghe erano generalmente dotate di banconi di pietra o di legno che servivano da mostra per la merce; con questa funzione si sfruttarono pure le ante inferiori delle finestre che, abbassandosi, formavano una tavola o un banco di vendita.Le botteghe avevano attrezzature relativamente semplici, dato che ogni artigiano portava con sé i propri utensili. La specializzazione tendeva progressivamente ad accentuarsi; determinate categorie artigianali erano strutturate in modo molto complesso, quando necessitavano di impianti più costosi o qualora le operazioni che intervenivano nel corso della produzione fossero lunghe e complicate. È il caso della lavorazione del panno con le sue quattro attività principali (tessitura, follatura, cimatura e tintura), in cui si lottava per il controllo della produzione. Verso il 1300, su ca. 600 artigiani occupati a Parigi nella fabbricazione del panno, si contavano 360 tessitori, 83 follatori, 56 drappieri, 38 cimatori, 35 tintori, 34 mercanti di lana e 28 artigiani occupati in altri piccoli mestieri legati alla lavorazione della lana. Nell'ambito dell'edilizia tutta l'attività si articolava intorno al cantiere. All'inizio del sec. 14° vi erano a Parigi 122 muratori, 108 carpentieri, 54 costruttori di casseforme di legno, 31 conciatetti, 31 tagliapietre, 22 stuccatori, 6 calcinai, 9 cavapietre. Evidentemente nell'edilizia la mobilità degli artigiani era maggiore perché determinata dall'evolversi interno del lavoro nei cantieri. Al di fuori di quelli che concentravano un gran numero di artigiani per lunghi periodi, i lavori di riparazione e di manutenzione permettevano comunque di per sé a un numero abbastanza cospicuo di artigiani dell'edilizia di sopravvivere. Per questi si specificava il costo dei vari lavori che venivano pagati a cottimo; la distinzione tra muratore e carpentiere è testimoniata soltanto per i piccoli lavori di riparazione. L'organizzazione dei mestieri era ben strutturata a livello gerarchico in maestri, apprendisti e garzoni; solo i primi tuttavia godevano appieno dei diritti corporativi. La durata dell'apprendistato variava; l'apprendista era nutrito e alloggiato dal padrone e riceveva da lui insegnamento, formazione e una certa somma di denaro. Il maestro traeva un doppio profitto da questo sistema, perché non soltanto riscuoteva le rette pagate per l'apprendistato, ma disponeva così anche di mano d'opera a buon mercato. Circa la metà degli statuti raccolti nel Livre des métiers definisce le condizioni dell'apprendistato, la sua durata e il numero di apprendisti estranei alla famiglia che il maestro poteva prendere nella sua bottega. La 'vendita' dell'apprendista, e cioè la cessione a un altro artigiano, non poteva avvenire che in caso di grave malattia del maestro, di sua partenza per un pellegrinaggio, di abbandono definitivo del mestiere o di fallimento. Dopo il periodo di apprendistato, il giovane esercitava per un anno il mestiere come lavorante o garzone. Per diventare maestro, a cominciare dal sec. 14°, l'apprendista doveva creare un'opera originale.La distinzione tradizionale tra le discipline storiche ha comportato una separazione tra gli studi di storia socioeconomica sui mestieri e l'a. e quelli più propriamente di storia dell'arte. Negli ultimi anni alcune ricerche si sono orientate allo studio congiunto delle strutture associative, dei mercati o dei costi, nonché delle tecniche, del modo di lavorare e dell'organizzazione del lavoro. Così, accanto allo studio della gerarchia nell'a., si sviluppa quello delle realtà socioeconomiche, in rapporto alle analisi tecnologiche e di laboratorio. Allo studio dei salari e dei prezzi, delle condizioni di vita dei salariati, degli orari di lavoro, si aggiunge quello dell'organizzazione delle botteghe e del lavoro, attraverso le analisi tecnologiche delle opere che appaiono frutto di collaborazione nella fase progettuale o rivelano nuove tecniche esecutive, tese a incrementare la produttività. La ricerca prosopografica permette ugualmente di approfondire le relazioni familiari o professionali, gli elementi di casualità, la stabilità o mobilità dell'impiego. Uno studio dedicato all'attività artigianale in Sicilia nel corso dei secc. 14° e 15° (Bresc-Bautier, 1979) ha posto in luce la grandissima varietà dei luoghi di provenienza degli artigiani, parallelamente alla stabilità di quelli già insediati. Accanto a qualche grande nome, moltissimi pittori sconosciuti - itineranti e non - producevano in gran numero opere di medio livello. Il registro delle imposte pagate nel 1442 dagli abitanti del quartiere palermitano del Cassaro mostra che nessun artigiano/artista era compreso tra la popolazione più povera che non pagava le tasse; gli artigiani appartenevano alla classe media. Il mestiere si trasmetteva di padre in figlio con grande stabilità. In Sicilia, dalla cospicua documentazione risulta che alcuni grandi artigiani d'arte monopolizzavano le committenze più importanti e facevano fortuna. Tra i piccoli artigiani gli stranieri costituivano gruppi numerosi. L'acquisto della casa, conferendo all'artigiano una propria autonomia, significava l'inizio della sua fortuna. In questa condizione di discreta agiatezza i diversi gruppi dei mestieri d'arte appaiono solidali tra loro e lavorano insieme all'esecuzione di particolari opere.Il sistema nel suo insieme, tenendo presenti anche i costi di produzione, come l'acquisto di materie prime o la commercializzazione delle opere, spesso intrapresa dall'artigiano stesso, comprendeva anche la protezione individuale. L'artigiano era soggetto a incidenti - ricordati regolarmente dalle fonti - e ad altri rischi, come le malattie o la crisi economica; quindi, nell'ambito di ciascun mestiere o corporazione, nel Medioevo era previsto un sistema di donazioni e benefici destinati ad aiutare gli artigiani in difficoltà.In città, come altrove, i grandi cantieri degli edifici religiosi o civili impegnavano un numero cospicuo di artigiani; vi si trovavano generalmente, accanto a un capomastro, i cavapietre incaricati di segare, tagliare e preparare i blocchi, scoprire la pietra buona e sfruttare le cave, aiutati da operai più o meno specializzati; i terrazzieri professionisti aiutati da garzoni; i muratori specializzati che lavoravano sotto la direzione del capomastro; i carpentieri; i fabbricanti di tegole; i carrettieri, che potevano essere professionisti o chiamati a giornata con le loro bestie da tiro; i fabbri. Per le costruzioni più importanti si colgono con maggiore evidenza, grazie alle testimonianze dei libri contabili, le differenze dei salari e delle spese e si può meglio confrontare, da un cantiere all'altro, il livello della vita e del lavoro del muratore, del tagliapietre, del carpentiere o del manovale. Lo studio dei cantieri del duomo di Milano o della certosa di Pavia mostra che il primo reclutamento di personale interessava maestranze provenienti dalle località vicine sotto la direzione di un caposquadra; questi era pagato, per contratto, in relazione al numero di uomini a lui sottoposti e al tipo di lavoro. Tagliapietre, muratori e carpentieri lavoravano in squadre la cui composizione variava ogni giorno. Questi grandi cantieri rappresentavano, tuttavia, un'eccezione; la maggior parte di quelli piccoli andava avanti lentamente con numerose interruzioni, impiegando solo di rado più di cinque o sei operai nello stesso momento. Le rappresentazioni mostrano generalmente due gruppi ben distinti: nel primo si trova il committente accompagnato da un architetto o capomastro, nel secondo si vedono gli artigiani al lavoro. Le immagini raffiguranti cantieri presentano, in genere, non più di una decina di artigiani contemporaneamente. I rapporti proporzionali tra ciascuna corporazione sono indicativi dell'organizzazione del lavoro e dell'attività reale del cantiere. Mentre i resoconti mostrano la fluttuazione della manodopera in rapporto alla stagione o al lavoro da effettuare, le rappresentazioni fissano invece l'immagine del cantiere in un preciso momento dell'attività. I manovali costituivano più della metà degli operai attivi in un cantiere; essi assicuravano il trasporto del materiale, il terrazzamento, le demolizioni, il funzionamento dei macchinari per il sollevamento del materiale e degli uomini; garantivano ugualmente il collegamento tra il tagliapietre, il calcinaio e il muratore, aiutando anche i conciatetti. I carpentieri invece erano chiamati soltanto durante determinate fasi della costruzione.Questa organizzazione collettiva del lavoro, i materiali prefabbricati e la standardizzazione dei modelli giocavano un ruolo importante nella produzione artigianale che si poneva così al limite con il prodotto artistico.Sul piano monumentale quanto detto si può dimostrare anche per il lavoro del pittore o per le tappe preliminari dell'esecuzione degli arazzi o dei grandi complessi scultorei: si possono citare i chiostri costruiti dalle botteghe cosmatesche romane o il lavoro dei mosaicisti. Quest'ultimo, organizzato come quello dei pittori in giornate, era il risultato del lavoro di gruppi di artigiani operanti contemporaneamente su differenti zone della superficie, secondo un programma d'insieme concepito e preparato in precedenza; l'esecuzione era collettiva e l'individuazione della specializzazione, all'interno di uno stesso gruppo di mosaicisti, sfugge tuttora all'analisi.In casi come questo, è all'interno di uno stesso tipo di produzione artigianale che si osserva una specializzazione sul piano tecnico e al contempo una suddivisione del lavoro; in altri casi, invece, ci si serviva dell'opera dell'artigiano specializzato in diversi mestieri. Così, per es., nel campo della lavorazione del legno il Livre des métiers di Etienne Boileau documenta l'esistenza di una specializzazione sempre maggiore tra i secc. 12° e 13°, epoca a partire dalla quale la falegnameria e la carpenteria erano ormai pienamente diversificate. Nel Medioevo i principali aspetti del lavoro svolto nel campo dell'intaglio del legno erano costituiti dalla decorazione architettonica, dalla fabbricazione di mobili e dalla scultura; non è chiaro tuttavia se prima del Duecento tali attività fossero affidate a un singolo maestro o a più artigiani.La tecnica della lavorazione del legno assegnava un ruolo molto importante all'assemblaggio, analogamente a quella degli artigiani che lavoravano l'osso e l'avorio. Il Livre des métiers, nel cap. LXI (Imagiers de Paris), riunisce in un'unica categoria gli intagliatori di crocifissi, quelli di manici di coltello, quelli che lavoravano l'osso, l'avorio e il legno: si percepisce quindi tutta la dimensione tecnica dell'a., che deve essere studiato nel quadro di ciascun mestiere, così come nel contesto delle relazioni che esistono tra le diverse tecniche e i diversi mestieri. Per rimanere ancora nell'ambito della lavorazione del legno, la materia prima (il tronco dell'albero) determinava le caratteristiche dell'opera. Le statue erano talvolta ricavate da un unico tronco al quale si aggiungevano altri elementi intagliati a parte; in altri casi, la statua poteva essere composta di numerosi pezzi distinti, a volte venti o trenta. L'abilità dell'artigiano consisteva nella capacità di assemblare le singole parti; viceversa il cattivo artigiano, sempre secondo la stessa fonte, si distingueva per il cattivo assemblaggio.Divisione del lavoro, assemblaggio, marchi di fabbrica sono altrettanti elementi che illustrano la produzione in altri settori del lavoro artigianale nell'età medievale. Gli smalti di Limoges o gli avori, soprattutto gotici, rappresentano esempi interessanti. Il cap. LXII dello stesso Livre des métiers permette di ricordare i legami tra due diverse branche del lavoro artigianale. Si tratta del rapporto tra gli intagliatori di immagini e i pittori che intervenivano sulla statua finita. Questo intervento può essere accostato a quello dell'orafo che applicava su statue in legno lamine di ottone o realizzava in metallo parti del corpo. Tutti questi aspetti, che derivano da una osservazione delle tecniche di esecuzione dell'opera d'arte, permettono così di meglio comprendere il lavoro artigianale. Uno studio pluridisciplinare è indispensabile per trattare del lavoro dell'artigiano d'arte nel Medioevo, al di là della struttura sociale, dei rapporti di produzione, dei salari e dei prezzi. In effetti, l'obiettivo è di arrivare a stabilire se l'opera d'arte, per tutto il Medioevo, esista in quanto tale o se non sia invece il risultato della visione moderna del lavoro artigianale.
Bibl.:
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La natura dell'a. a Bisanzio, come nelle altre società antiche e medievali, fu determinata dalle condizioni, materiali e mentali, della produzione. Tra queste ebbero un ruolo di particolare importanza: 1) l'esistenza di norme culturali che regolavano la forma e la funzione della produzione artigianale, provocandone la relativa omogeneità; 2) lo stretto legame tra l'artigiano e il suo prodotto, dovuto all'assenza di attrezzature meccaniche raffinate, che implicava invece una varietà formale e materiale persino tra oggetti prodotti per la stessa funzione o con l'intento di rassomigliarsi (diversità che tuttavia restava nell'ambito delle norme culturali cui si è accennato, violandole solo nel caso di pochi unica); 3) la prevalenza di prodotti eseguiti su commissione diretta, motivata in primo luogo dalla probabile assenza di una organizzazione su vasta scala dell'a., ma anche dalla ristretta consistenza numerica delle classi sociali per le quali tali oggetti erano prodotti; 4) la spiccata propensione, sia dei committenti sia dei fruitori, ad attribuire allo splendore materiale una connotazione ideologica. In relazione al periodo e alla condizione sociale di coloro che descrivevano le opere, tale magnificenza era interpretata come un segno di supremazia politica e sociale o come un vero e proprio omaggio rivolto a Dio e ai santi.Pur con le ovvie eccezioni, le condizioni sopra esposte sono generalmente valide e comprensibili a fondo. Ciononostante, molti altri aspetti dell'a. restano oscuri, soprattutto a causa della discrepanza, in termini di contenuti e di quantità, tra l'arte e la letteratura bizantina: da un lato si hanno numerosissime descrizioni di opere d'arte e di architettura che non si sono conservate; dall'altro, la maggior parte degli edifici, delle pitture e degli oggetti d'arte superstiti è priva di documentazione e deve essere studiata indipendentemente dalle fonti scritte. Nel migliore dei casi, come per le icone descritte negli epigrammi di Manuele File (sec. 14°), si possono citare oggetti conservati che ricordano vagamente quelli descritti dal poeta. In genere, tuttavia, le uniche generalizzazioni possibili sull'a. bizantino sono quelle ricavabili dal confronto tra i diversi oggetti. La mancanza di interesse da parte degli scrittori bizantini per le tecniche di produzione, per l'identità degli artigiani, per i loro compensi e, in genere, per tutto ciò che esulava dall'effetto finale dei prodotti pone dei limiti quasi insuperabili alla comprensione della pratica artigianale posteriore all'epoca di Giustiniano I (527-565).Spesso nelle fonti scritte si rileva l'assenza di qualsiasi informazione relativa all'organizzazione del commercio di determinati oggetti d'arte o alla loro possibile esistenza, mentre ad altri si dedica molto spazio. Per es., nel Libro degli Eparchi, un manuale di regole relative all'attività degli artigiani e dei commercianti di Costantinopoli della fine del sec. 9° o degli inizi del 10°, mentre si parla in dettaglio dei tessitori di seta, degli argentieri e di altri artigiani, mancano riferimenti ai ceramisti. Eppure in questo periodo la produzione di ceramica era fiorente, come dimostrano le migliaia di frammenti riportati alla luce a Istanbul e altrove. Allo stesso tempo, questo manuale è così dettagliato da indicare ai profumieri la posizione delle botteghe, che dovevano essere sufficientemente vicine al palazzo imperiale cosicché gli aromi dei loro prodotti potessero spandersi verso la residenza dell'imperatore. Il Libro degli Eparchi tratta soprattutto di mestieri che interessavano una parte notevole della popolazione urbana, mentre è povero di informazioni sull'a. di lusso, a eccezione dei tintori della seta purpurea, il cui uso era limitato da una legge suntuaria. Da questo punto di vista esso contrasta spiccatamente con altri documenti, quali un editto di Costantino I, riportato nel Codex Theodosianus, che enumera trentasei diverse attività svolte da artigiani (artifices artium) sollevati dal servizio allo Stato e incoraggiati ufficialmente a diventare "essi stessi più competenti e ad addestrare i propri figli" (XIII, 4, 2). I mestieri elencati comprendono carpentieri, muratori, pittori, scultori, ceramisti, artigiani dell'avorio e mosaicisti, ciascuno identificato da un termine specifico. Per l'area bizantina mancano fonti analoghe posteriori al sec. 10°, ma i riferimenti letterari usano il termine technítes per indicare colui che praticava una determinata arte; si tratta però di un termine generico, applicabile ai produttori di una vasta gamma di manufatti. La deduzione possibile - che gli artigiani lavorassero simultaneamente diversi materiali - non può essere provata, ma confronti stilistici possono suggerire per es. che gli scultori in avorio del sec. 10° lavorassero ugualmente la steatite e altre pietre tenere e che i mosaicisti che all'inizio del sec. 14° decorarono la chiesa del Salvatore di Chora (Kariye Cami) a Costantinopoli abbiano anche affrescato la cappella laterale (parekklésion) della stessa chiesa.Nonostante un alto grado di specializzazione nella Tarda Antichità, è tuttavia certo che alcuni artigiani ebbero familiarità con più di una tecnica artistica. Furio Dionisio Filocalo, l'artista del sec. 4° che compilò il testo e probabilmente eseguì anche la parte figurata del Cronografo del 354, lavorava anche su pietra, incidendo numerosi epigrammi scritti da papa Damaso per le tombe dei martiri. Invece, è solo una supposizione che il pittore Pantaleimone, a capo degli illustratori del Menologio di Basilio II dell'inizio del sec. 11° (Roma, BAV, gr. 1613) e il pittore di icone Pantaleone, ricordato per aver lavorato su commissione imperiale, siano la stessa persona. In assenza di un testo bizantino che equivalga alla Diversarum artium schedula di Teofilo, non è possibile stabilire in che misura coloro che volevano apprendere o sviluppare nuove arti potessero avvalersi di prescrizioni tecniche. Secondo Coricio di Gaza (Laudatio Marciani, 40) il disegno dal vivo era ancora praticato nel sec. 6°, ma non si ha motivo di supporre che, in quell'epoca o in seguito, si trattasse di un'attività accademica, così come non ci sono indizi dell'esistenza di 'scuole d'arte' affini a quelle dell'Italia rinascimentale. Di fronte a questo silenzio sembra prudente supporre che le tecniche fossero tramandate di padre in figlio, come indica il Codex Theodosianus o mediante un semplice sistema di apprendistato. Ciò che appare certo è che la regolamentazione statale dell'attività artistica, esemplificata dai marchi di controllo che certificavano la qualità di molti piatti d'argento prodotti tra il principio del sec. 6° e la fine del 7°, non era più in vigore nel Medioevo bizantino. A prescindere dalle monete, l'unica prova del controllo statale sulla produzione artigianale è costituita dalle iscrizioni sui tessuti, come testimonia un frammento conservato nel tesoro della cattedrale di Siegburg in Renania, recante i nomi degli imperatori Romano I e Cristoforo (921-944).Nonostante la testimonianza di un lavoro di collaborazione nel, Menologio di Basilio II, dove sui margini delle miniature compaiono i nomi di otto artisti, non è lecito affermare con certezza che la maggior parte della produzione artistica tra il sec. 6° e il 15° sia da attribuire a grandi botteghe. Le affinità tra le chiese affrescate, tra gli oggetti decorati con gemme e smalti, tra le icone su pannelli lignei e in avorio, permettono di individuare alcuni artisti, ciascuno dei quali eseguì più di un'opera tra quelle pervenute. Ciò non significa però che questi artisti necessariamente abbiano lavorato in collaborazione per un periodo più o meno lungo, o che siano stati normalmente così organizzati da poter viaggiare, come squadra di lavoro, su grandi distanze.In ogni caso la concezione delle botteghe come luogo privilegiato dell'attività artistica a Bisanzio poggia più sulla consistenza fisica delle opere da esse prodotte che non sulle ipotesi relative all'esistenza nella città di corporazioni simili a quelle che si conoscono nella Roma imperiale. I programmi di decorazione a mosaico nelle grandi chiese giustinianee e mediobizantine devono aver richiesto una qualche forma di cooperazione, che le stesse strutture architettoniche permettono di ricostruire. L'ipotesi dell'esistenza di botteghe, alle quali gli storici dell'arte spesso attribuiscono pannelli d'avorio e miniature, trova tuttavia scarsa giustificazione negli oggetti stessi e ancor meno nelle fonti scritte. Gli artigiani conosciuti dovrebbero aver lavorato indipendentemente anche se in competizione tra loro. È noto che Pantaleone, il già menzionato pittore di icone del sec. 11°, svolgeva la propria attività in casa: le sue opere, al pari di quelle dei suoi contemporanei, sono perciò inquadrabili come aspetti della produzione domestica, come l'attività della tessitura, che si svolgeva in casa (Niceta Coniate, Historia, 368, 40-41), anche se a Tebe e a Corinto, nel sec. 12°, esistono testimonianze di manifatture di tessuti. Tuttavia, già al tempo di Giustiniano I si era forse persa ogni traccia delle pergulae e delle "botteghe in luoghi pubblici" citate nel Codex Theodosianus (XIII, 4, 4). Già durante il suo regno, nel 536, è documentata la presenza di 1100 ergastéria, raggruppati attorno alla chiesa della Santa Sofia, e il loro numero è talmente alto che impedisce di pensare che si trattasse di botteghe di grandi dimensioni. Le fonti più tarde relative a ergastéria non indicano squadre organizzate di artigiani, ma cantieri e officine dove erano eseguite altre opere. In una società che trascura i nomi degli artigiani può essere indicativo il fatto che quelli conosciuti siano ricordati come individui, non come maestri di botteghe.Si ritiene spesso che i lavori di alta qualità siano sempre stati prodotti a Costantinopoli o da artigiani provenienti da quella città; la natura delle fonti che offrono commenti sulle opere d'arte costituisce un problema in tal senso, poiché celebrano come capolavori quasi tutti gli oggetti che descrivono. Tali encomi non sorprendono in una 'società dell'elogio', ma rappresentano una base incerta per un qualsiasi giudizio sulla qualità del lavoro. Il crollo della prima cupola della Santa Sofia durante un terremoto nel 558, la sua costruzione e le successive ricostruzioni che sfidano tutte le leggi della statica (Krautheimer, 1965, p. 156), così come la condizione non professionistica dei suoi primi architetti, indicano che gran parte delle opere architettoniche e delle decorazioni veniva realizzata con grande abilità seguendo regole basate essenzialmente sull'esperienza. Mentre i codici venivano miniati e gli argenti lavorati da artigiani retribuiti, che potrebbero quindi considerarsi professionisti, la nozione moderna di manodopera formata a una particolare arte cui attendeva prevalentemente coincide solo di rado con la realtà dell'a. bizantino.La carenza di abili costruttori si avvertiva in tutto l'impero e particolarmente nelle province. Il già citato editto costantiniano del 334, che offriva aiuti agli artigiani, iniziava così: "C'è bisogno del maggior numero possibile di architetti, ma poiché non ce n'è nessuno [...]". Anche quando i confini dell'impero si restrinsero, la scarsità di artigiani abili rimase un tema dominante nelle fonti bizantine. Per riparare la prima cupola della Santa Sofia a Costantinopoli si chiamarono maestri dall'Isauria in Asia Minore, che furono probabilmente attivi anche nel monastero del Mons Admirabilis presso Antiochia. Evidentemente, in nessuna delle due città erano disponibili artigiani di alto livello. Quando Santa Sofia, dopo il terremoto del 989, fu nuovamente restaurata, la direzione dei lavori fu affidata all'architetto armeno Trdat, che secondo le fonti preparò un modello per la ricostruzione. Alla fine del sec. 12°, quando Alessio I costruì alcune fortezze lungo la sponda meridionale del mar di Marmara, fu necessario trasferire sul posto degli oikodómoi o maestri muratori (Anna Comnena, Alessiade, I, 71, 10). In ultimo, dopo la riconquista bizantina di Costantinopoli nel 1261, non vi era manodopera sufficiente disponibile per riparare le mura esterne della città. Lo storico Pachimere (Historia, I, 251, 6 - 252, 5) racconta che l'impresa fu portata a termine da soldati che, usando travi ricoperte di pelli di bue, rialzarono le mura di m. 2 circa. Quasi contemporaneamente il restauro dell'interno della Santa Sofia, dopo più di mezzo secolo di utilizzazione da parte dei latini, fu assegnato da Michele VIII (1261-1282) a un monaco di nome Roucha.Sono questi momenti, dimostranti scarse risorse umane, materiali e finanziarie, a rivelare la situazione spesso precaria dell'a. bizantino. Di simili deficienze pochi segni traspaiono nelle 'epoche d'oro': come sotto Giustiniano I, alla fine del sec. 9° e nel 10°, quando il palazzo imperiale venne notevolmente ampliato, e ancora sotto gli imperatori comneni del 12° secolo. Tuttavia nei periodi critici e soprattutto nei 'secoli bui' tra la fine del sec. 6° e lo scorcio dell'8°, carestie, pestilenze, spopolamento e numerose altre calamità naturali posero fine per sempre alla costruzione e all'abbellimento dei monumenti civili - contrariamente a quanto avvenne per quelli religiosi - che avevano caratterizzato le città tardoantiche. Non solo il progresso, ma la stessa esistenza di gran parte della produzione di lusso si interruppe. La lavorazione dell'avorio, per es., si dovette imparare ex novo e l'impatto delle tecniche e della decorazione islamica - nell'architettura, nei vetri, nei rilievi scolpiti, nella ceramica, nei tessuti e nella metallistica - permette di valutare il peso che, a partire dal sec. 9°, ebbero gli artigiani stranieri sulla rinascita interna. Una produzione propriamente locale riportata in vita (forse mediante un manuale tecnico) fu quella dell'agemina, utilizzata per es. nelle porte di bronzo commissionate a Costantinopoli da Pantaleone di Amalfi e dalla sua famiglia. Ma il lungo intervallo tra gli esempi giustinianei e le porte della Santa Sofia a Costantinopoli, dell'838 ca., e quelle realizzate per es. per le cattedrali di Amalfi, Salerno e Venezia, testimonia la discontinuità portata dalla crisi sociale ed economica del 7° e dell'8° secolo. Il successivo reimpiego di materiali antichi - soprattutto colonne e capitelli marmorei, pietre dure, cristalli di rocca e gemme intagliate - è una prova tangibile della carenza di materiali che assillò l'a. bizantino persino nei periodi macedone e comneno, quando esso suscitava l'invidia e l'emulazione dell'Europa occidentale e degli altri paesi dell'Oriente cristiano.È in questa prospettiva, ben più complessa del quadro usuale di magnificenza assoluta, che può essere valutata con più realismo la produzione degli artigiani bizantini. Se tale valutazione è resa difficile dal perpetuarsi nel mondo bizantino del costume romano, secondo cui un cliente si dichiarava responsabile di un lavoro in realtà eseguito da qualcun altro e da lui pagato, è vero però che il disprezzo dei Romani nei confronti dell'artigiano sembra scomparso in ambito bizantino. È noto che alti ecclesiastici, amministratori e giuristi miniarono manoscritti, e un imperatore, Costantino VII Porfirogenito (912-959), era stimato come scultore e argentiere. Tutti costoro erano considerati dilettanti, ma la loro attività fornisce un'idea del rispetto con cui gli artisti di talento erano considerati. La grande maggioranza degli artigiani godeva certamente di minore considerazione, rimanendo nell'anonimato; ma furono costoro a fornire molti degli strumenti fondamentali con cui le personalità bizantine, dall'augustus fino al prete di provincia, esprimevano sia la loro devozione sia la loro condizione sociale. Secondo il De caerimoniis aulae byzantinae (a cura di J.J. Reiske, I, Bonn 1829, pp. 465-466) quando l'imperatore partiva per la guerra viaggiava non solo con una cappella completa di suppellettili, ma con una biblioteca di libri liturgici e volumi sui presagi e le strategie; oltre a questo materiale letterario, il convoglio imperiale di carri portava coppe fuse in argento usate dall'imperatore, altre di bronzo stagnato per i suoi condottieri e per i 'nobili esuli', candelabri d'argento, vassoi d'oro e una lanterna di rame nel caso che l'imperatore avesse dovuto alzarsi di notte. Se tutti questi oggetti erano considerati necessari per l'imperatore sul campo, il numero di quelli utilizzati nel rituale di corte nella capitale può a stento essere immaginato, anche se due calici di sardonica (Venezia, Tesoro di S. Marco), decorati a smalto cloisonné a lamina d'oro e contorni in argento dorato - entrambi probabilmente eseguiti per Romano II (959-963) - forniscono almeno un'idea dei magnifici oggetti portatili di cui egli si circondava. I pochi gioielli imperiali sopravvissuti, come una collana conservata a Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Antikenmus.), simile a quella indossata dall'imperatrice Teodora nel mosaico di S. Vitale a Ravenna, testimoniano degli ornamenti di uso personale realizzati dagli artigiani bizantini. Questi sfarzosi oggetti erano riprodotti anche in materiali più economici - in particolare gli anelli in bronzo imitavano quelli in oro - per essere portati da uomini e donne di rango inferiore. Le gemme intagliate erano sostituite dal vetro e molte icone con sfondi dorati ricordavano gli scintillanti mosaici in miniatura, eseguiti probabilmente per le classi dominanti. L'emulazione portò a una crescita nella produzione da parte degli artigiani bizantini, che lo sfoggio di ricchezza, in pubblico e in privato, sia nel mondo laico sia in quello ecclesiastico, pose al servizio di una cultura che vedeva nelle manifestazioni del lusso l'espressione tangibile del successo terreno e della beatitudine celeste. Quello che per il mondo moderno è espressione di gusto (e forse di cattivo gusto) era per i Bizantini un obbligo. All'inizio del sec. 14°, l'uomo di stato Teodoro Metochite definiva gli oggetti d'oro e argento come "necessari a noi ricchi e potenti, la cui vita è più brillante di quella dei nostri compatrioti, concittadini e povera gente".
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L'estensione e l'unità del primo impero islamico sotto un unico governo favorirono l'integrazione di tecnologie diverse e dei loro artefici in un unico sistema sociale e produttivo che, nel corso del tempo, si adattò a una parziale omogeneità connotandosi originalmente, tanto da consentire l'uso del termine a. islamico. L'ambiente in cui nel sec. 7° si realizzò la missione profetica di Maometto, e in special modo la Mecca, viveva già da diversi secoli principalmente di commercio. Direttamente o indirettamente, l'a. svolgeva anch'esso un ruolo importante quanto meno riguardo al rifornimento delle merci ai commercianti e non è escluso che tra le due componenti esistesse già un'unità, presente per altro nella cultura bizantina e in quella sasanide, in cui commercianti e artigiani venivano spesso annoverati insieme. Parallelamente va detto che nella società araba che precedette l'Islam le attività artigianali erano non di rado disprezzate. 'Fabbro' o 'tessitore' potevano essere degli insulti e il discredito per certe attività artigianali continuò e si ripresentò sovente nel corso del Medioevo, soprattutto nella letteratura popolare e semicolta come certi trattati di oniromanzia (Fahd, 1965), ma anche in parti di opere di al-Ghazālī (Laoust, 1970) o di Ibn Khaldūn (al-Muqaddima). La categoria di artigiani forse più disprezzata era quella dei tessitori, malgrado il ruolo notevole che essa svolse nell'a. medievale islamico. L'Islam comunque, nel segno dell'assoluta sottomissione a Dio, introdusse un principio teorico di 'fratellanza' (Corano XLIX, 13), da non confondersi con quello di uguaglianza, dato che le differenze sociali sono esplicitamente accettate nello stesso Corano (XLIII, 32). Proprio questo nuovo risvolto sociale favorì, rispetto al passato, un miglioramento delle condizioni di vita dell'artigiano.Oscuro e molto dibattuto è l'aspetto relativo alle organizzazioni professionali. Sebbene, infatti, gli artigiani si riunissero presto in gruppi omogenei a seconda dei diversi manufatti che producevano, l'aspetto 'corporativo' di tali gruppi non sembra manifestarsi che alla fine del sec. 9°, quando cioè la società arabo-islamica aveva già subìto un processo di trasformazione notevole rispetto alle sue forme originarie. Lo stesso ṣinf (pl. aṣnāf), con cui spesso si è tradotto il termine corporazione, indicava piuttosto una categoria o una specie (originariamente esso significava solo 'limite, confine'). Così il muḥtarif, l'artigiano, apparteneva a quell'indistinto ahl al-ḥirfa, 'gente delle professioni', privo di per sé di quelle connotazioni di partito che spesso si è voluto attribuirgli; gli aṣnāf inoltre devono essere considerati equivalenti alle ṭabaqāt, 'classi, stratificazioni', nel senso sociale che oggi si attribuisce a tale termine. L'artigiano poteva anche essere definito quale artefice (ṣāni῾) nell'ambito di un'arte o di un'industria (ṣinā῾a) intesa anche nel senso di una vera e propria professione.Sin dagli inizi della conquista araba, tuttavia, nelle città, sedi congeniali di attività artigianali e commerciali, si arrivò a una divisione delle aree urbane in cui la zona riservata agli artigiani rivestiva un ruolo di non secondaria importanza, condizionando la toponomastica dei quartieri, delle strade e anche i nomi di alcune moschee, a seconda dei gruppi di artigiani che vi risiedevano. In questo processo vennero via via riassorbiti o integrati i gruppi etnici precedentemente insediati, che spesso si isolavano o venivano isolati specializzandosi in mestieri specifici o, se convertiti all'Islam, rientravano a far parte di quella nutrita schiera di mawālī (clientes), che formarono una componente fondamentale nelle vicende dell'impero omayyade e di quello abbaside. Lo stabilirsi di mercati (arabo sūq; persiano bāzār) generalmente attorno alla moschea, nuovo centro ideale della città, avvenne sfruttando i precedenti insediamenti, come nel caso di Damasco, o attraverso la creazione di nuovi poli artigianali, come nel sobborgo di al-Karkh a Baghdad. Nuovi borghi periferici (rabaḍ) industriali non contrastavano comunque con l'insediamento nel centro delle vecchie città conquistate. Spesso le attività dannose quali concerie, tintorie o fucine venivano relegate all'esterno degli abitati per evitarne gli effetti inquinanti. In alcune città, sorte ex novo all'indomani dell'invasione islamica, come Kūfa, Bassora o al-Fusṭāṭ, lo spazio del mercato non era inteso originariamente come sūq, bensì come maydān (piazzale), non presupponendo una comunità di artigiani venditori quanto piuttosto una fiera di scambio delle merci. Questo tipo di mercati, parallelamente alle attività dei sūq, era presente a ogni invasione nomadica attorno agli accampamenti militari. In queste sedi si verificò maggiormente lo scambio di prodotti tra l'a. nomade, con le sue materie prime ricavate dall'allevamento (cuoio, lana e suoi prodotti, tappeti, feltro), e l'industria dei sedentari (monete, utensili, stoffe di lino, prodotti agricoli).Proprio nell'ambito del sūq nacque, a scopo moraleggiante e per mantenere l'ordine pubblico, la ḥisba. Questo termine, che indicava originariamente il precetto per ogni musulmano di 'ordinare il bene e di proteggersi dal male', acquisì presto una connotazione particolare nell'applicazione di regole inerenti all'ordine pubblico nei mercati. Dalla ḥisba infatti nacque tutta una letteratura intesa a facilitare lo svolgimento dei compiti del muḥtasib, ossia di colui che metteva in pratica la ḥisba nei mercati. I compiti di questo importante funzionario medievale si specializzarono presto in varie mansioni particolari quali il controllo dei pesi e delle misure, quello dell'ordine e della moralità nelle strade e nei mercati, le misure discriminatorie nei confronti dei dhimmī (tributari cristiani ed ebrei), il controllo dei medicinali e quello del comportamento dei maestri nelle scuole; ma soprattutto il muḥtasib era preposto alla verifica dei modi di produzione artigiana nella quantità e nella qualità sancite da minuziose disposizioni.Le origini della funzione nel muḥtasib, definito inizialmente ṣāḥīb al-sūq (forse sino ad al-Ma῾mūn, 813-833), si possono rintracciare nell'antico agoranómos già presente nelle Leggi di Platone (Foster, 1970), sebbene il suo precedente diretto sia stato piuttosto l'aedilis romano dell'epoca dioclezianea, poi eparca nell'impero bizantino. Tracce dell'ḥisba erano già presenti all'epoca del secondo 'Califfo ben guidato', ῾Umar (634-644), e continuarono sino in epoca ottomana, periodo nel quale il muḥtasib sembra aver raggiunto una maggiore qualità funzionale, sebbene nell'Egitto mamelucco tale figura abbia subìto una sorta di decadenza dato che l'incarico poteva essere ottenuto tramite un pagamento. La figura del muḥtasib era presente anche nel regno cristiano di Gerusalemme (1110-1291), dove il mehtesep svolgeva funzioni analoghe a quelle di mastro-sergente o di vero e proprio ispettore dei mercati.Presto nel contesto del sūq si sviluppò l'῾aṣabīya, 'solidarietà di gruppo', e in certi mestieri l'esistenza di una nuṣra, il 'mutuo soccorso', presupposto di quell'unione di gruppi sociali che nell'Islam medievale ha svolto un ruolo notevole. Non è tuttavia meccanico, come si è invece spesso sostenuto, che da tale logica aggregazione del 'popolo dei mercati' (ahl al-sūq) si passasse alla fondazione di veri e propri partiti di natura antiaristocratica come quello della futuwwa, da fatā (pl. fityān) 'giovane uomo', o quello degli ῾ayyārūn, gli 'erranti'. Questi partiti, caratterizzati dal fatto di essere interprofessionali, movimentarono e condizionarono a volte pesantemente la vita politica ed economica del Medio Oriente medievale islamico, malgrado quelle implicazioni 'cavalleresche' che spesso vi si è voluto riconoscere. È tuttavia evidente che tali gruppi presupponessero anche legami interreligiosi e interetnici, già nella logica dell'῾aṣabīya, e che essi avessero in alcuni periodi, tra le loro componenti vitali, le associazioni artigiane. In questa situazione, per ragioni difficilmente valutabili come strumentali o meno, si inserì il condizionamento religioso, che si concretizzò in modo particolare attraverso il sufismo e l'ismailismo e che costituì una delle ragioni non solo della fortuna dell'economia fatimide (secc. 10°-11°), ma anche di quella dell'economia selgiuqide (sec. 11°).Le attività artigianali erano legate a credenze religiose già da epoche remote, con una tendenza particolare a diverse forme di venerazione agiografica, presenti sia nell'apparato dottrinario musulmano sia nell'épos iranico sia anche in sopravvivenze veterotestamentarie. Adamo, per es., diventa il capostipite dei tessitori e Dio privilegia tra i suoi figli Set, insegnandogli la tessitura e l'arte della tintura dei tessuti. Anche Gesù e Maria vengono associati ai tessitori, così come Abramo e Abū Bakr, mercante, quest'ultimo, di stoffe. Davide è il patrono degli armaioli e dei fabbri, fatto legittimato dallo stesso Corano (XXI, 80; XXXIV, 10-11); agli armaioli è associato anche Ismaele; Noè e Zaccaria sono patroni dei carpentieri; Idrīs (Enoch) dei sarti. Il patrono per eccellenza degli artigiani, soprattutto nelle aree orientali, è Salmān-i Fārsī, compagno del Profeta, spesso considerato il fondatore del sufismo. Nello Shāhnāma (Libro dei Re) di Firdousi (fine sec. 10°) si trovano dei personaggi in stretto rapporto con l'a.: Tahmurath scopre l'arte di filare la lana e il fabbro Kava diventa, con il suo grembiule di cuoio, palladio della Persia.L'importanza dell'aspetto agiografico va sottolineata per il ruolo che svolgeva nello stabilire delle vere e proprie catene iniziatiche che avevano origine in Dio e, attraverso i vari personaggi dell'agiografia, spesso definiti pīr (termine persiano qui inteso come 'santo'), giungevano ai capimastri (ustādh; pl. asātīdh), che erano a loro volta iniziatori (mu῾allim 'maestro'), degli allievi apprendisti (ṭālib; pl. ṭullāb) alle arti materiali.Fu l'incontro tra questi caratteri religiosi e le istanze sociali, prepotentemente alla ribalta nel corso della storia medievale islamica, a favorire la propaganda religiosa di gruppi quali i Carmati o gli Ismailiti, che non mancarono di darne una formulazione ideologica o filosofica, come nelle Risālat (Epistole), il testo enciclopedico dei Fratelli della Purità (Ikhwān al-Ṣafā᾽), del sec. 10°, che comprende un trattato dedicato alle arti pratiche (al-Ṣanā'i῾ al-῾amalīya). Non è casuale che proprio questo testo sottolinei la nobiltà (sharaf) di numerosi mestieri manuali.Parallela alla formazione religiosa delle classi artigianali fu quella sociale, spesso determinata da condizioni di precarietà economica o da istanze nazionalistiche, come nell'episodio della rivolta di Ya῾qūb b. Layth al-Ṣaffār (il 'Calderaio'), fondatore nel sec. 9° della dinastia saffaride, proprio grazie all'apporto degli ῾ayyārūn urbani. Va anche detto però che gli sconvolgimenti sociali provocati dagli stessi ῾ayyārūn nella Baghdad del sec. 10° e dell'11° causarono l'esodo di numerosi artigiani in Siria e in Egitto. È anche interessante notare che il califfo abbaside al-Nāṣir (1180-1225), riformatore della futuwwa, si dedicò tra l'altro al controllo della ḥisba e riunì la società islamica nel segno di una breve rinascenza cui certamente aderirono le forze artigiane quali parziali protagoniste.La forma di a. più importante e più praticata nell'Islam medievale fu certamente l'industria tessile. Spesso il centro di molti sūq era costituito dal sūq al-bazz (mercato delle stoffe; persiano bazzāzistān) o dal sūq al-ghazl (mercato del filato). L'industria tessile era fiorente in tutto il mondo islamico e i suoi prodotti erano diffusi in tutte le classi, anche tra quelle meno abbienti. Insieme all'industria della carta e in certi casi alle zecche, le industrie tessili erano le uniche sottoposte a precisi monopoli statali. Un ruolo di importanza primaria svolgevano i dūr al-ṭuruz (pl. di dār al-ṭirāz 'casa del broccato'), officine palatine che derivavano il loro nome dal broccato persiano (ṭirāz). In tali fabbriche, nelle quali il processo produttivo prevedeva persino l'imballaggio, venivano confezionati i tessuti e gli abiti di uso regale. In esse si producevano i doni che i sovrani offrivano ai sudditi o ai re stranieri. In epoca omayyade e abbaside vi si produceva lo stesso rivestimento della Ka῾ba, simbolo dello status regale per eccellenza. Esistevano anche molte officine private in cui singoli specialisti lavoravano per ogni ceto sociale: i filatori (ghazzāl), i ricamatori (ṭarrāz, o dabbāj), i tintori (ṣabbāgh), i cardatori (hallāj), a ognuno dei quali veniva assegnata una particolare zona; un mercato a parte era quello dei tappeti (qayṣariyya al-furūsh).Tra le altre forme di a., l'industria del metallo poteva contare su fonderie anche di grosse dimensioni in cui lavoravano i fabbri (ḥaddād). Importanza notevole avevano i calderai (ṣaffār), esperti nella lavorazione del rame, i gioiellieri (jawharī), gli orafi (ṣā'igh) e anche i costruttori di lucchetti (quffāl) o quelli di semplici chiodi (masāmirī).Nelle zecche (dār al-sikka) lavoravano gli incisori di conio (ḍarrāb). I fabbricanti di ceramiche erano ben inquadrati nel sistema artigianale: i piatti erano fabbricati dal tabāqī, mentre il vasellame e i vasi erano opera del ṭayyān e del fakhkhārī. Il vetro veniva lavorato dallo zajjāj.Anche l'industria edile deve essere considerata tra quelle artigiane, gli stessi ingegneri (muhandis) e architetti (mi῾mār) ne facevano parte. L'operaio e la manovalanza nei cantieri rientravano nella categoria del bannā᾽, in cui erano compresi il carpentiere (najjār), l'operaio che lavorava il gesso (jaṣṣāṣ) e il calligrafo (khaṭṭāṭ) che componeva le epigrafi. Un'industria che aveva un ruolo notevole era quella cartaria, in cui operava il kāghidī o warrāq; a essa devono essere ricollegate le attività dello scriba (khaṭṭāṭ), del disegnatore (naqqāsh) e del decoratore (muzakhrif), che dalla carta ricavavano la loro fonte di sostentamento.La distruzione sistematica che accompagnò l'invasione mongola nel sec. 13° causò un regresso notevole nelle condizioni degli artigiani, ormai ridotti al pari degli schiavi. Solo dopo un secolo l'a. rifiorì nell'Islam orientale, ricreando anche quella struttura sociale che lo aveva caratterizzato durante la 'classicità' omayyade-abbaside. L'epoca timuride, quella safavide e quella ottomana reintrodussero in una struttura ormai consolidata i vecchi criteri sociali favorendo così la produzione industriale e artigianale che li caratterizzava.
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