COLONNA, Ascanio
Nacque nell'ultimo decennio del sec. XV da Fabrizio duca dei Marsi, gran connestabile del Regno, e da Agnese figlia di Federico di Montefeltro duca di Urbino. Nel 1520, alla morte del padre, ne ereditò i titoli e i beni e l'anno dopo gli successe nella carica di gran connestabile del Regno. Il 5 giugno 1521, il C., che aveva stipulato il compromesso di matrimonio l'11 nov. 1518, prendeva in moglie Giovanna d'Aragona, una delle più celebri dame, italiane del secolo.
Alcuni biografi del C. affermano che egli partecipò in quell'epoca alla guerra che portò alla restaurazione sforzesca in Lombardia, ma la cosa sembra poco probabile perché altre fonti testimoniano la presenza del C. a Napoli prima, nei suoi feudi di Abruzzo ammalato nell'agosto e quindi a Marino a settembre, a Roma nel dicembre.
Alla morte di Leone X il C., considerato il capo della fazione dei Colonna, fu convocato, insieme con gli Orsini, dal Sacro Collegio, al quale si dichiarò pronto ad obbedire. Gli fu così affidata nel gennaio del 1522la guardia del conclave. Nel periodo che intercorse dall'elezione di Adriano VI al suo arrivo a Roma, il C., mentre Francesco Maria Della Rovere recuperava Urbino, sottrattogli da Leone X, fece mostra di aspirare al possesso di quel ducato, accampando diritti che gli venivano da parte della madre.
Quando nell'agosto di quell'anno Adriano VI giunse finalmente a Roma, il C., andando ad incontrarlo, non esitò a chiedergli ipso facto la grazia per Lelio Della Valle in carcere per omicidio, ricevendo un rifiuto dal severo pontefice. Comunque il C. fu presente all'incoronazione del ponrefice il 31 agosto. L'anno dopo egli fu similmente presente all'incoronazione del successore di Adriano, Clemente VII.
Di fede imperiale come la maggior parte dei suoi consorti, il C. agli inizi del 1524era al servizio di Carlo V con sessanta uomini d'arme e quando Francesco I, che aveva nell'ottobre riconquistato Milano, inviò alla fine dell'anno la spedizione del duca d'Albany contro il Regno, il C. gli si oppose finché, dopo la battaglia di Pavia (25 febbr. 1525), l'Albany fu costretto a ritirarsi dal Regno.
Tornava intanto per un momento alla ribalta per il C. la ricorrente questione dei ducato di Urbino. Il papa infatti il 20 giugno 1525gli conferì il ducato, come discendente dei Montefeltro, nel caso però che fosse stato da considerare decaduto Francesco Maria Della Rovere, il che non avvenne.
La, politica di Clemente VII diveniva intanto sempre più filofrancese, e il C. si univa ai consorti che dall'estate del 1525 si strinsero nell'opposizione al pontefice intorno al cardinale Pompeo. Quando questi capeggiò la spedizione che il 20 sett. 1526 vide i Colonnesi, in nome dell'autorità imperiale e in odio al papa mettere a sacco i palazzi vaticani, il C. era con lui. Addivenuto Clemente VII a un accordo con l'ambasciatore imperiale, Ugo de Moricada, i Colonnesi dovettero ritirarsi, ma il loro scontento era pari alla volontà del pontefice di non mantenere la promessa di perdono nei loro confronti. Così il C. fu compreso nel monitorio che il papa lanciò ai primi di novembre contro i Colonna. Partecipò quindi alla guerra che si scatenò nella Campagna romana fra il Vitelli, incaricato dal papa di distruggere i possedimenti colonnesi e i Colonna stessi. Dopo la caduta di Gallicano e Zagarolo, il C. restrinse la difesa a Paliano e Rocca di Papa, inseguì il Vitelli a Valmontone e lo attaccò quindi presso Tivoli, ma dovette poi ritirarsi a Paliano.
Quando il 1° dic. 1526 giunse a Gaeta il Lannoy, sia il C. sia il cardinale Pompeo erano ad accoglierlo per ossequiarlo, ma anche per chiedere vendetta contro il pontefice. Subito dopo egli partecipò alla campagna condotta dalle truppe spagnole in difesa del Regno e fu presente alla battaglia combattuta nei pressi di Frosinone, favorevole alle armi pontificie. Nel frattempo, il 20 febbr. 1527. il papa aveva lanciato una nuova bolla contro i Colonna.
Il C. giunse a Roma con il cardinale Pompeo pochi giorni dopo l'inizio del sacco e ottenne immediatamente da Carlo V il titolo di protettore e governatore di Velletri. Egli aveva un interesse particolare per questo incarico, in quanto voleva che i Velletrani risarcissero i danni arrecati l'anno prima a Marino, che avevano incendiato quando il papa aveva inviato il Vitelli contro i possedimenti colonnesi. Il C. ingiunse a Velletri il pagamento di 24.000 scudi, di cui 7.000 furono versati subito e per il resto fu ipotecato Lariano.
Poco meno di un anno dopo il C. si trovò a difendere questa volta non gli interessi della famiglia, ma i suoi propri a proposito dell'eredità del cugino Vespasiano, da questo lasciata alla sua unica figlia Isabella e rivendicata, oltre che dal C., dal papa stesso e da Prospero di Cave. Paliano, la più importante località contesa, fu occupata dalle truppe pontificie, che furono però soppiantate dalle forze di Prospero di Cave. Nella guerra che subito si accese (ma anche presto si spense) fra i Colonna e gli Orsini, che difendevano gli interessi papali, Paliano pervenne e rimase al Colonna.
Subito dopo troviamo il C. con le forze imperiali che si opponevano nel Regno alla spedizione del Lautrec e quando nella primavera del 1528 a Capo d'Orso avvenne la battaglia navale che vide prevalere le navi genovesi, alleate dei Francesi, sull'armata spagnola, egli fu uno dei protagonisti dell'avvenimento, durante il quale il comandante spagnolo, Ugo de Moncada, fu ucciso. Il C., ferito a una mano e coperto di sangue, caduti tutti i suoi compagni, la galea in fiamme, fu preso prigioniero da Niccolò Lomellino. Si sostiene che durante la sua cattività a Genova i suoi colloqui con Andrea Doria, che non volle consegnarlo ai Francesi, influirono sulla decisione di quest'ultimo di passare nel campo imperiale.
Riscattato dal cardinale Pompeo, il C. dopo la breve prigionia tornò a militare sotto l'Orange, che, creatolo viceré d'Abruzzo, lo inviò al recupero dell'Aquila. Ricevuta il 14 febbr. 1529 la conferma della carica di viceré, dopo uno dei ricorrenti sussulti di pretese sul ducato di Urbino, il 2 agosto il C, partecipò alla messa solenne celebrata a Roma per la pubblicazione della lega del pontefice con l'imperatore. Vi presiedette accanto al principe d'Orange, che seguì poi all'assedio di Fitenze. Egli non assistette però alla conclusione di questa campagna, poiché nel giugno del 1530, a capo dell'esercito pontificio, contrastava in Abruzzo e nella Campagna romana Napoleone Orsini, Giulio Colonna e Giovan Battista Conti, ribelli alla Chiesa.
Nel gennaio dell'anno successivo egli sembrò finalmente mettere la parola fine alla questione di Urbino, accompagnando il futuro genero del duca e suo cognato, Antonio d'Aragona, nella città, dove fu accolto con gran magnificenza e cordialità.
Nel 1533 si riaccese il mai sopito contrasto del C. con gli eredi di Vespasiano Colonna e ciò che è notevole è il fatto che a un breve del papa, che gli imponeva di lasciare alcune terre, già appartenute a Vespasiano, al genero di questo, Luigi Gonzaga, marito di Isabella Colonna, il C. non esitasse a impugnare le armi contro l'autorità pontificia, mentre l'oratore cesareo interveniva in suo favore.
La benevolenza di Carlo V per il C., del quale si esaltavano il valore, la prudenza e la fedeltà alla causa imperiale, si manifestò anche nel dicembre del 1534, quando gli si concesse un aumento sulle rendite del Regno e gli si associò il figlio Fabrizio nella carica di gran connestabile.
Intanto era salito al soglio pontificio Paolo III e il C. si era dimostrato entusiasta di questa elezione. Egli era stato uno di coloro che avevano trasportato la sedia gestatoria per condurre il pontefice in chiesa. Inoltre aveva partecipato a due giostre in onore e in presenza dei papa, una a piazza S. Pietro, dove due schiere avevano finto degli assalti e una ai SS. Apostoli, dov'era avvenuto un combattimento con le lance.
Quando, dopo l'impresa di Tunisi, Carlo V, risalita l'Italia, giunse a Roma, egli fu prima accolto a Marino dal C., che lo accompagnò nell'Urbe. Qui sua sorella e sua moglie ricevettero una visita di cortesia dall'imperatore, che pare gli richiedesse la mano di sua figlia Vittoria per Filippo di Lannoy, principedi Sulmona, che finì poi, stante il rifiuto sostanziale del C., per sposare Isabella Colonna. Dopo la partenza del sovrano il C. si assunse l'incarico di trarre dalla parte di Carlo V il pontefice nella nuova lotta franco-imperiale.
Poco si sa sull'attività pubblica dei C. in questi anni, salvo la richiesta nel 1534 al pontefice di creare cardinale Francesco Colonna, la sua presenza il 31 genn. 1537 alla cerimonia del giuramento a S. Pietro di Pier Luigi Farnese, nominato gonfaloniere della Chiesa, la sua aspirazione a ricevere l'investitura di Frascati. Comunque sembra di poter ipotizzare un accumularsi di astio del C. nei confronti del papa, visto che quando questi impose nel 1537 un'imposta per fuochi per fronteggiare il pericolo turco, il C. si rifiutò di pagare l'imposizione. Nell'estate dello stesso anno, inoltre, egli proibì ai propri vassalli di prestare la loro opera ai lavori di fortificazione a Roma, come era stato richiesto dal governo pontificio.
Si arrivò quindi nell'anno 1539 al ratto che venne compiuto da Marzio Colonna di Livia Colonna, che doveva essere dotata dal C., il quale sospettò la connivenza del papa in quest'episodio. Nello stesso anno il pontefice impose un aumento del prezzo del sale, dal quale il C. sostenne di aver diritto ad essere esentato, in grazia dei privilegi concessi da Martino V alla famiglia. Paolo III non era di quest'avviso, ma ambedue le parti rimasero ferme nelle loro posizioni. Il 10 giugno 1540 il papa si decise a emanare un breve, che però non fu spedito, con il quale ingiungeva al C. di presentarsi a rendere conto delle sue azioni entro tre giorni. L'alta protezione di cui godeva il C. da parte dell'imperatore e il fatto che proprio allora egli si stesse assoggettando a pagare l'aumento dovuto parevano presagire che la controversia si sarebbe acquietata. Tuttavia, e a causa della predisposizione dei Colonna a un atteggiamento di sfida nei confronti del potere temporale e forse per il carattere stesso del C., i rapporti fra lui e il papa non ridivennero normali. Nello stesso anno infatti egli ostacolò l'importazione di granaglie a Roma e quando nel febbraio del 1541 alcuni vassalli colonnesi, che si erano rifiutati di ottemperare all'obbligo di pagare il sale con il dovuto aumento, furono arrestati, egli operò rappresaglie su viaggiatori in transito verso Roma e depredò il bestiame dell'appaltatore delle saline di Ostia.
Il 25 febbr. 1541 Paolo III emanò un breve che gli intimava di presentarsi a giustificarsi entro tre giorni. Questi, che aveva fortificato Rocca di Papa e si era ritirato a Genazzano con duemila uomini, non assunse un atteggiamento di sfida nei confronti del pontefice, dicendosi pronto a ubbidire, ma si guardò bene dall'ottemperare all'ingiunzione, continuando i preparativi di guerra e inviando richieste di aiuto. Memore di quanto avevano intrapreso i Colonna, compreso il C., nel 1526 contro il suo predecessore, il papa fece apprestare le truppe e ne affidò il comando a Pier Luigi Farnese. Invano si interposero per evitare il conflitto la celebre sorella del C., Vittoria, il viceré di Napoli e l'ambasciatore imperiale a Roma. Ognuna delle parti in contrasto pretendeva dall'altra, per recedere dalla guerra, garanzie inaccettabili. Le ostilità cominciarono a metà marzo.
Mentre le località colonnesi cadevano l'una dopo l'altra, la resistenza si concentrò a Paliano, cui le truppe pontificie posero l'assedio, anche se nel frattempo fervevano pratiche per arrivare a un accordo e da Ischia Giovanna d'Aragona scriveva al papa perché fosse risparmiata la popolazione dalle rovine della guerra. Ai primi di aprile il C. lasciò Paliano, affidandone la difesa a Fabio Colonna e a Torquato Conti. Probabilmente sperava di ottenere cospicui aiuti dal viceré di Napoli per soccorrere la cittadina, che però fu conquistata il 9 maggio; la cittadella cadde il 26.
Il C. era stato schiacciato e invano si interpose per lui l'imperatore stesso. Il papa confiscò tutti i possedimenti colonnesi nella Campagna romana e fece radere al suolo le fortificazioni di Marino, di Rocca di Papa e infine (gennaio 1543) di Paliano. Al C. si aprì la via dell'esilio nel Regno, nei suoi feudi di Albe e Tagliacozzo, che aveva ereditato dal padre.
A nulla sortirono gli inviti alla clemenza di Carlo V, che a Lucca nello stesso anno non mancò di intercedere ancora una volta per il suo protetto, suggerendo al papa la soluzione di restituire lo Stato anziché al C. al figlio e proponendo alleanze matrimoniali. Il C. rimase bandito dai suoi Stati e per un lungo periodo di lui non si sa se non che nel 1547 ereditò Pescocostanzo dalla sorella Vittoria e che non si astenne da liti e da atti di violenza sui possessi di Isabella Colonna e che probabilmente sotto il pontificato di Paolo III subì un processo per eresia per essere sospettato di simpatie nei riguardi di Bernardino Ochino.
Alla morte di Paolo III, il 10 nov. 1549, mentre il C. si trovava a Venezia, Camillo Colonna gli recuperò i possedimenti intorno a Roma. Giulio III, seguendo la politica alternativa dei papi nei confronti dei baroni romani e anche con lo scopo di ingraziarsi Carlo V, reintegrò il C. nei suoi Stati, concedendogli il perdono, il 17febbraio del 1550.
I buoni rapporti dei C. con il pontefice sono provati anche dal magnifico dono, che egli fece a quest'ultimo nel 1553: una immensa vasca di porfido, proveniente da scavi nella Curia del Foro romano. Essa era danneggiata e lo stesso Michelangelo fu consultato per il restauro, anche se questo fu fatto poi piuttosto rozzamente. La tazza, posta dal papa nella sua villa fuori porta Flaminia (villa Giulia), fu in seguito sistemata in Vaticano nel cortile del Belvedere per volere di Clemente XI, che la fece anche restaurare più acconciamente. Essa è ora nella rotonda del Museo Pio-Clementino, dove fu fatta trasportare da Pio VI nel 1792.
Fin dal 1535 il C. era stato abbandonato dalla moglie Giovanna d'Aragona (dalla quale aveva avuto i figli, Fabrizio, Marcello, Prospero, Marcantonio eVittoria, Agnese e Girolama), e a nulla erano valsi gli interventi di autorevoli personaggi per indurla a riprendere la convivenza con il marito. Nel novembre del 1552 lo stesso Ignazio di Loyola si recò dall'Aragona, senza ottenere peraltro alcun successo. Nel mese successivo il C. diseredava, qualificandolo ribelle e nemico, il figlio Marcantonio, destinato a grandi imprese, che era l'unico maschio sopravvissuto e che faceva causa comune con la madre, e la moglie, anch'essa definita "inobediens, inimica et rebellis". Salvo alcuni lasciti alle tre figlie, il C. aveva lasciato la Chiesa erede dei suoi beni.
Oltre al figlio, che lo incolpava fra l'altro di aver fatto abortire sua moglie, il C., sospettato anche di interessarsi di magia, aveva contraria, come si è detto, la propria consorte e non favorevole gli era stata la sorella Vittoria, che gli aveva rimproverato non lievi difetti. Il suo nemico capitale era comunque Marcantonio, che giunse a cercare di indurre un servitore del padre ad accusare il suo padrone di aver fatto uccidere il figlio Fabrizio, di dilettarsi "di ragazzi attive et passive", di essere luterano. I rapporti fra i due congiunti arrivarono così a un tal grado di inimicizia che quando nel 1553 Marcantonio, comandante della cavalleria imperiale, passò nel Lazio diretto nel Regno dal Senese, si impadronì con la forza delle terre del C., il cui comportamento nei riguardi del figlio, della moglie e della nuora era già stato deplorato dal papa nel settembre dello stesso anno.La sorte del C., rifugiatosi nei suoi feudi d'Abruzzo, volgeva al peggio, poiché egli stava perdendo anche la protezione dell'imperatore, voltosi in favore di Marcantonio e forse sospettoso di una sua connivenza con i Francesi. In effetti egli aveva avuto contatti con i Transalpini; sosteneva però di non essersi allontanato dalla sua fede imperiale e temeva di essere stato calunniato dal figlio. Nel settembre del 1554 il viceré d'Abruzzo, chiestogli un appuntamento vicino ad Avezzano, lo arrestò e lo condusse a Napoli. Portato a Castelnuovo, ricevette la visita di tutte le personalità presenti nella città e anche della figlia Vittoria, che invano supplicò il viceré per lui. Benché alcuni storici lo dicano morto nel marzo del 1555, pare che nel settembre di quell'anno fosse visitato anche dal figlio, che tentò invano di fargli cambiare il testamento che lo diseredava.
Appunto allora Marcantonio aveva dovuto abbandonare Paliano, Genazzano e altri castelli, che Paolo IV aveva fatto occupare. I Colonna infatti si erano schierati in favore di Carlo V nel contrasto sorto fra lui e il papa. Questi il 4 maggio 1556 emanava una bolla, in cui dichiarava decaduti dal possesso dei loro feudi il C. e il figlio e concedeva Paliano e gli altri possedimenti al nipote Giovanni Carafa. Neanche dopo la pace di Cave (settembre 1557) il papa si indusse a perdonare ai due Colonna, cui le pene non furono condonate.
Il C. comunque era già morto il 24 marzo 1557a Napoli, nella sua prigionia di Castelnuovo tre giorni dopo aver revocato il suo testamento, che del resto era già stato annullato da un breve del 6 nov. 1554.
Fu seppellito a Paliano e per la sua eredità sorsero violenti contrasti fra Marcantonio e la sorella Vittoria, anche se tutte le proprietà erano gravate di enormi debiti, per pagare i quali Marcantonio dovette alienare parecchie località.
Il primogenito del C., Fabrizio, partecipò con il padre alla guerra del sale nel 1541. Dieci anni più tardi era all'assedio che le forze pontificie e imperiali avevano posto a Parma, difesa da Ottavio Farnese. Qui si ammalò e, trasportato a Viadana, vi morì ventiseienne il 24 ag. 1551. Aveva sposato Ippolita Gonzaga.
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