Asia
Non è possibile definire una cinematografia asiatica che, seppure idealmente, raccolga sotto un denominatore comune le varie forme espressive emerse in questo continente. Si può, invece, parlare di cinematografie dei vari Paesi, distinguendo fra gli innumerevoli popoli e le stratificate civiltà dalle quali hanno avuto origine le differenti espressioni artistiche; dalle regioni più vicine all'Europa (in senso geografico ma anche e soprattutto culturale), fino a quegli Stati la cui produzione filmica risulta ancora sconosciuta o esce solo sporadicamente dai confini nazionali.Non è facile tracciare una storia unica del cinema realizzato in A.; si tratta, piuttosto, di seguire più storie corrispondenti al moltiplicarsi e al frantumarsi delle Storie che si sono intrecciate e continuano a intrecciarsi nel vasto continente. I percorsi da seguire sono dunque numerosi, a volte tortuosi e, comunque, complessi. Infatti, per avvicinarsi a ogni specifica cinematografia ed esaminarla occorre partire dalle circostanze storico-sociali che ne hanno permesso la diffusione iniziale e il successivo sviluppo. Alcuni Stati, come l'India, il Giappone e la Cina, hanno percorso tutte le tappe dell'evoluzione tecnica e formale del mezzo cinematografico e hanno saputo assorbire diverse tendenze e orientamenti critici o estetici; ma occorre segnalare anche la grande vivacità e la peculiarità di una cinematografia come quella di Hong Kong, profondamente legata al peso delle proprie tradizioni culturali da un lato e, al contempo, divisa tra esigenze commerciali, suggestioni e capitali stranieri e il bisogno di raggiungere un pubblico cinese sparso per il mondo. O anche analizzare la produzione di Taiwan, meno dirompente di quella di Hong Kong, ma tesa all'affermarsi di una propria autonomia di linguaggio rispetto sia alla tradizione hollywoodiana sia a quella cinese, o considerare la complessa situazione, drammaticamente scissa, del cinema coreano (v. Corea). E bisogna tenere conto dell'esistenza di cinematografie giovani, sviluppatesi in Paesi i cui confini sono variamente mutati nel corso del 20° sec. e la cui storia è ancora tutta da scrivere e da scoprire.
Frammentaria è stata la diffusione del cinema nei Paesi di lingua araba che si estendono immediatamente a est del Mar Rosso, dove l'instabilità politica ha spesso giocato un ruolo di oggettivo ostacolo a una produzione continuativa e, quindi, alla nascita di una vera e propria industria. Soltanto per Siria, Libano, e in parte per l'Iraq, si può infatti parlare di un cinema ormai adulto che, nonostante un inizio incerto e discontinuo, vanti una storia composita e uno sviluppo costante negli anni. In Siria, per es., il cinema comparve già sul finire degli anni Venti; il primo lungometraggio, al-Muttaham al-barī' (1928, L'innocente sotto accusa) di Ayyub al-Badri restò, però, isolato fino a metà del decennio successivo, quando fecero la loro comparsa altri sporadici esempi di una cinematografia che avrebbe conosciuto una svolta decisiva solo a partire dal 1963, con la nascita dell'Organisation générale du cinéma (OGC, ente pubblico finalizzato al finanziamento di film di qualità). Attorno a questo organismo, sorto per controbilanciare la produzione commerciale delle società private, si raccolsero i principali registi siriani (su tutti vanno almeno citati Muhammad Malas e Usama Muhammad), autori che sono spesso riu-sciti a superare i locali limiti tecnici ed economici con la forza e il coraggio dell'invenzione, dando vita a opere che raccontano storie di gente comune inserite in un più ampio contesto di analisi sociale e politica. In Libano, invece, una produzione cospicua emerse a livello internazionale già tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Anche in questo caso, gli inizi coincidono con la fine dell'epoca del muto: la commedia Muġāmarāt Ilyās al-Mabrūk (1929, Le avventure di Ilias al-Mabrūk) dell'italiano Giordano Pedotti, viene generalmente considerata il primo film libanese. A differenza della Siria, qui i primi passi si compirono sotto l'influenza del cinema egiziano (per il mélo e la commedia musicale) e francese (come retaggio della lunga epoca coloniale), senza che emergessero cineasti di significativa personalità. Esempi più interessanti, dal punto di vista dell'originalità e della ricerca formale, comparvero alcuni anni dopo. In particolare, negli anni del lungo e drammatico conflitto che tra il 1975 e il 1990 ha travagliato il Paese, sono stati proprio gli scenari bellici a essere al centro dell'attenzione di gran parte degli autori, che hanno realizzato film di finzione e documentari sulla guerra civile. In questo periodo si è imposta una nuova generazione di cineasti (Borhane Alaouiè, Marun Baghdadi, Jocelyne Sa'ab), che con sensibilità e precisione di scrittura ha saputo filmare i molti aspetti di una guerra lacerante.
Databile alla metà degli anni Cinquanta è invece l'origine del cinema in Iraq, preceduta da una serie di coproduzioni con società egiziane e turche. Si è trattato, nella maggior parte dei casi, di film caratterizzati da un netto realismo espressivo che hanno cercato di proporsi come rilettura critica della realtà sociale e politica del Paese. In particolare, il regista Muhammad Shukri Jamil, che aveva iniziato come documentarista, ha offerto la produzione più costante e variata. Lo sviluppo della cinematografia irachena, però, si è interrotto a causa della guerra con l'Iran (1980-1988) e della Guerra del Golfo (1991), divenendo in pratica inesistente.Ai contatti con Siria, Libano e Iraq si può far risalire lo sviluppo della cinematografia palestinese (v. palestinese, cinematografia). Di origini libanesi sono, per es., Rafiq Hasar, legato al Fronte democratico di liberazione popolare, e il documentarista Samir Nimz; siriano è Amin al-Buni, impegnato nella ricerca storica delle origini della Palestina, mentre almeno un cenno meritano gli iracheni Kassem Hawal e Kais al-Zobaidi. Nel 1979 Mustafa Abu Ali ha fondato l'Istituto del cinema palestinese, che dal 1987 ha sede a Tunisi.
Contatti internazionali hanno introdotto il cinema anche in Giordania (compresa l'incursione di David Lean che qui girò Lawrence of Arabia nel 1962). Nel 1948 tre registi palestinesi (Ibrahim Hasan Sarhan, Salahuddin Barakhan e Hilmi Kailani) trasferirono le loro atti-vità in questo Paese, riuscendo a creare un certo interesse per quest'arte, tanto che un decennio più tardi il regista Wasif al-Shayk Yasin, con l'aiuto di Ibrahim Hasan Sarhan, girò quello che è considerato il primo lungometraggio propriamente giordano: Ṣirā῾un fī Ǧaraš (1958, Una battaglia a Ǧaraš), che, però resta il raro esempio di una cinematografia sempre meno produttiva, costantemente afflitta dalla difficoltà di reperire i finanziamenti necessari. Escludendo alcune operazioni di carattere puramente commerciale, e le esigue coproduzioni turche come Nisru al-šarq (1977, L'aquila dell'Oriente) e Raǧul al-qānūm (1984, Uomo di legge), entrambi di Shinin Ininash, restano ben pochi registi e titoli: tra questi, i due film di Jalal To'ma al-Af῾a (1970, Il serpente) e al-Ibn al-ṯānī ašar (1971, Il dodicesimo figlio) fino al recente Ḥikāya šarqiyya (1991, Una storia orientale), storia di un giornalista torturato in un anonimo Paese arabo, diretto da Najdat Ismail Anzur, figlio del regista siriano Ismail Anzur.
Anche il cinema israeliano (v. Israele) è sempre stato fortemente legato ai temi e alle drammatiche tensioni che hanno percorso e percorrono la storia del Paese. E per la stessa natura del mezzo cinematografico, in grado di farsi strumento della memoria e proiezione sul futuro, la realizzazione di film e documentari girati dagli immigrati ebrei in terra di Palestina, per difendere le tradizioni ebraiche e favorire l'immigrazione in quei territori (e quindi lo sviluppo di una cinematografia legata a Israele), ha preceduto la nascita dello stesso Stato (1948). Successivamente è risultato fondamentale l'intrecciarsi di contatti con registi e produzioni straniere, mentre dopo i prodotti più commerciali dei primi anni Sessanta (in particolare, commedie e melodrammi, le cosiddette burekas, dal nome di un dolce locale), si è sviluppato un cinema sempre più legato alla realtà e ai miti del Paese, più tormentato, pronto a confrontarsi con la Storia passata e presente e con le suggestioni della produzione d'autore internazionale, il cui rappresentante più significativo è Amos Gitai.
Tra i Paesi del Golfo, oltre all'Iraq, il Kuwait è l'unico ad avere un passato cinematografico degno di nota, anche se con uno sviluppo incerto e una evoluzione di-scontinua, fino a diventare, negli ultimi anni, totalmente inesistente. Il periodo di maggior vivacità per il Kuwait è stato quello compreso tra l'inizio degli anni Sessanta e tutti gli anni Ottanta, anticipato dall'apertura della prima sala cinematografica nel 1954; in particolare, anno decisivo è stato il 1961, quando la neonata televisione di Stato assunse un importante ruolo produttivo in un clima di evidente fermento. Il regista più significativo è stato Khalid al-Siddiq, autore legato alla realtà sociale del Paese, che nel suo primo lungometraggio Bas yā baḥr (1972, Il mare crudele) ha preso in esame i due settori nevralgici dell'economia kuwaitiana: il petrolio e la pesca delle perle. Protagonisti un padre e un figlio, pescatori di perle, descritti nella loro misera esistenza quotidiana attraverso uno sguardo ben radicato nella cultura locale. Dello stesso regista sono da menzionare i successivi ῾Ūrs al-Zayn (1976, Le nozze di Zayn), tratto da un romanzo dello scrittore sudanese Ṭāyyib Sāliḥ, e Šāhīn (1985, Falco reale), girato in India e ispirato a un racconto del Boccaccio. Al 1987 risale al-Qarār (La decisione) di Amir al-Zuhair.In questo lembo di terra, che fa da ponte tra Occidente e Oriente, il consumo di cinema non è commisurato al numero delle produzioni: Paesi come Bahrein, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti offrono infatti mercati quasi privi di concorrenza interna ai film stranieri importati in grandi quantità. Un apporto concreto al cinema è stato dato soprattutto dalle televisioni. In Bahrein il regista Basam al-Dwadi vantava già una discreta esperienza nella televisione di Stato prima di imporsi nel cinema firmando, tra l'altro, il primo lungometraggio di finzione al-Ḥaǧiz (1988, La barriera). Prima di lui il produttore e regista Khalifa Shahin (che nel 1971 aveva fondato la società al-Saqr per la produzione televisiva e cinematografica) aveva firmato, a partire dal 1966, numerosi cortometraggi e documentari, tra i quali al-yawm al-qawmī (1973, Il giorno nazionale). Per quanto riguarda il dibattito e la ricerca teorica, è da segnalare la nascita, nel 1980, del Cineclub del Bahrein, con una sua rivista, "Awrāq sīnimā᾽iyya".
Negli Emirati Arabi Uniti il primo lungometraggio (῾Ābir sabīl, Un passante, di Ali al-Abdul) risale al 1988, dopo che la televisione aveva creato i presupposti per la formazione di strutture produttive indipendenti (ma vari cortometraggi erano stati girati già a partire dalla fine degli anni Cinquanta, tra cui Hasan wa Na'īma, 1958; Fī baytina raǧul, 1961, A casa nostra c'è un uomo; al-Haram, 1964).Il cinema, invece, è quasi completamente assente in Oman, dove i primi film sono comparsi negli anni Settanta, legati, ancora una volta, alla produzione di programmi televisivi. In Qatar qualcosa è sembrato muoversi dopo il 1981 con la creazione dell'Unità di produzione del documentario e del cortometraggio a opera del ministero dell'informazione. Nel 1983 è stato infatti girato il primo lungometraggio, Ḥāris al-fanār (Il guardiano del faro), con la supervisione degli egiziani Abu Al'ila e Fahmi Abdul Hamid. Non esiste cinema di finzione, infine, in Arabia Saudita, dove vige una rigida osservanza della dottrina islamica. Qui si è imposto il regista Abdullah al-Muhaisen, fondatore, nel 1976, di al-'Ālamiyya, una società di produzione cinematografica e televisiva che ha finanziato documentari relativi alla vita politica e sociale dei Paesi di lingua araba. Per il resto, il consumo di immagini in movimento è esclusivamente affidato a film scadenti, realizzati per il mercato dell'home video.Al di là del Golfo, va infine ricordata la fiorente e giovane industria cinematografica dell'Iran, nata negli anni Cinquanta, subito in grado di produrre quasi cento film all'anno, che si è imposta internazionalmente.
Le Repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale (Kazakistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Kirghizistan), nonostante siano accomunate da analoghe vicende storiche (le successive dominazioni di arabi, turchi, mongoli e russi), si distinguono nettamente le une dalle altre per quel che riguarda la produzione cinematografica. Le differenze appaiono evidenti, oltre che nei costumi e nella lingua, soprattutto nelle scelte stilistiche e formali dei singoli autori, la maggior parte dei quali si è formata comunque ancora presso il VGIK di Mosca, confermando un legame importante e un rapporto complesso che non ha impedito, pur tra grandi difficoltà, uno sviluppo autonomo di queste cinematografie all'indomani del crollo dell'Unione Sovietica (1991; v. urss), nonché, al loro interno, la fioritura di elementi espressivi peculiari. A cambiare sono il concetto di inquadratura, il rapporto con lo spazio e la distanza, la rappresentazione del tempo e, ovviamente, i riferimenti culturali, in alcuni casi fortemente radicati nella tradizione locale, in altri, come nel caso del Kazakistan, più proiettati verso l'Occidente. Con la dissoluzione dell'Unione Sovietica e il conseguente venir meno dei sussidi da Mosca, il cinema di Kazakistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Kirghizistan, si è trovato a dover affrontare immancabili disagi economici, con il risultato di una produzione che è sembrata cedere il passo, in ragione di un pubblico ancora legato ai film in lingua russa. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, si è trattato di un cinema che ha sfruttato questo periodo per riorganizzarsi e cercare nuova forza anche dalle coproduzioni occidentali.
Quanto all'attività di produzione, anche se in misura ridotta, hanno resistito gli studi cinematografici uzbeki e kazaki (l'Uzbekfil′m e il Kazachfil′m, nati rispettivamente nel 1925 e nel 1941 e noti per essere, fin dall'epoca sovietica, gli studi più produttivi).In particolare la guerra civile ha ostacolato i registi tagiki, costretti spesso a un volontario o forzato esilio: ne è un esempio il regista Davlat Khudonazarov che, dopo essersi candidato senza fortuna alle elezioni presidenziali del suo Paese, ha dovuto successivamente cercare rifugio negli Stati Uniti. Jamšed Usmonov e Min Biong-Hun (tagiko il primo, sud-coreano il secondo) hanno girato assieme il loro primo lungometraggio, Parvāz-e zanbur (1998, Il volo dell'ape), ambientandolo in un minuscolo villaggio disperso tra le montagne, dove la guerra resta ai margini: non se ne parla e non se ne vedono le conseguenze concrete, ma se ne percepiscono le tracce nell'animo indurito degli uomini. Simile era stata l'ambientazione del precedente Vremja žëltoj travy (1991, Il tempo dell'erba gialla), secondo lavoro di finzione della regista Mayram Yussupova con una lunga esperienza nel campo del documentario; il film, poco più di un mediometraggio, affronta il tema della differenza religiosa narrando le reazioni degli abitanti musulmani di un villaggio che trovano un uomo morto, di cui non conoscono la religione.
Coronato da un notevole successo in tutto il mondo è stato, infine, Luna Papa (1999), terzo lungometraggio di Bakhtiyor Khudoinazarov, uno dei pochi registi tagiki ad avere ampia visibilità all'estero che, con il precedente Koš ba koš (1993; Pari e patta), aveva anche conquistato il Leone d'argento alla Mostra del cinema di Venezia.Frutto di coproduzioni, rispettivamente con Francia e Russia, sono stati i primi due cortometraggi del giovane kirghizo Aktan Abdykalykov (già autore di cortometraggi e di spot pubblicitari) Beškempir (1998, Il figlio adottivo) e Maimil (2001, La scimmia). Ispirandosi apertamente a vicende autobiografiche, Abdykalykov dipinge, con sguardo realistico, il processo di crescita di due giovani in un momento particolarmente importante della loro vita: la scoperta adolescenziale dell'amore e del sesso si lega ai tristi fatti del passato e del presente, ma anche ai piccoli drammi familiari e a una rappresentazione commossa dell'incantevole paesaggio incontaminato e selvaggio del Kirghizistan.
In Turkmenistan hanno operato soprattutto Bairam Abdullaev e Lora Stepanskaja che, in coppia, hanno diretto film nei quali appare sempre centrale il rapporto problematico con il passato e con la famiglia d'origine. L'esempio più articolato è Yandym (1995, L'anima bruciata), storia di memorie e di rimpianti che si distendono in un lungo flashback: il vecchio Sadyk, sentendosi ormai vicino alla morte, ripercorre l'intera sua vita, dalla precoce morte dei genitori agli anni della prigionia durante lo stalinismo, al difficile rapporto con il fratello maggiore, sostenitore, invece, della politica sovietica.
All'era sovietica si è rifatto anche il film Voiz (1998, L'oratore), diretto da uno dei più prolifici registi uzbeki, Yusup Razykov, attivo dal 1988 anche come sceneggiatore. Voiz racconta la storia di un uomo, apprezzato dai dirigenti del locale Partito comunista per le sue abilità oratorie, che, però, conduce uno stile di vita completamente opposto ai dettami rivoluzionari.Ben più organizzata e vivace la scena cinematografica del Kazakistan, dove numerosi registi sono stati i protagonisti di una vera e propria rinascita di quest'arte. Tra questi si è distinto Darejan Omirbaev, autore di un cinema legato ai sentimenti umani, che racconta storie di crescita interiore e di maturazione spirituale sullo sfondo di un mondo contraddittorio e in costante trasformazione. Esempi sono Kardiogramma (1995), di cui è protagonista un bambino di soli dodici anni, abbandonato dalla madre e costretto a vivere in una realtà a lui estranea, e Yol (2001, La strada), storia di una lettera d'amore scritta da una donna al marito regista, e del viaggio di quest'ultimo verso il villaggio nativo al capezzale della madre malata. Meritano di essere citati anche Amir Karakulov (autore di film premiati in numerosi festival internazionali come Razlučnica, 1991, L'intrusa e Poslednie kanikuli, 1996, Le ultime vacanze), che ha scelto di raccontare storie di giovani alle prese con le dure regole della società, e Serik Aprymov, autore dallo sguardo raffinato e denso (si pensi a Tri brata, 2000, Tre fratelli) dove malinconia e nostalgia si sommano alla rappresentazione di un paesaggio che è metafora di un mondo vagheggiato tra astrazione e memoria.
Quanto all'Afghanistan, proprio perché proiettato verso le altre Repubbliche asiatiche dell'ex Unione Sovietica, non ha risentito, se non in misura minore, dell'influenza dell'importante cinema indiano. In questo Paese, inoltre, si sono realizzati film solo dall'inizio degli anni Settanta, in coincidenza, cioè, con la nazionalizzazione della produzione cinematografica avvenuta nel 1973. Fino ad allora aveva 'prestato' il suo set ad alcune produzioni straniere: dell'indiano Reshid Latif è ῾Ešq wa dosti (1946, Amore e amicizia), che però, secondo alcune fonti, sarebbe stato girato direttamente in India; mentre statunitense è The horsemen (1971; Cavalieri selvaggi) di John Frankenheimer, con cui ha lavorato anche l'afghano Toryalai Shafaq, poi diventato una delle personalità di punta del panorama cinematografico locale. Così, per es., il film collettivo Rabe῾a-e Balkhi (1975, Rabe'a di Balkh), ispirato alla vita di una principessa vissuta nel 10° sec., che dà il titolo al film, è stato codiretto da Shafaq, che ha continuato a lavorare con regolarità fino all'invasione sovietica avvenuta nel dicembre del 1979; tra gli altri suoi titoli si ricordano: Mojasemahā mikhandand (1975, Le statue ridono), Ghulām-e ῾ešq (1978, Schiava d'amore) e Jenāyat garān (1979, Criminali). Meritano un cenno anche Wali Latefi che, dopo l'esordio con Ruzhā-ye dašwār (1974, Giorni difficili), è tornato dietro la macchina da presa nel 1987 con Bahār mišawad (Viene la primavera) e con Sāzmān-e avaleya (La prima organizzazione), e Ahmadi 'Engineer' Latif che ha diretto, tra l'altro, Hamāse-ye ῾ešq (1990, Poema d'amore). Dopo il ritiro delle truppe sovietiche nel febbraio 1989 e la successiva proclamazione di uno Stato islamico, i gruppi fondamentalisti più intransigenti hanno imposto un modello di società rigorosamente islamica, assai lontano da ogni contatto con la modernità, bloccando del tutto ogni possibilità di produzione cinematografica. A testimonianza dello stato del Paese sotto il regime dei talebani, il regista iraniano Mohsen Makhmalbaf ha girato Safar-e Qandehār (2001; Viaggio a Kandahar), storia di un attraversamento del deserto tra burqā e mine, dove la finzione diventa bruciante attualità.
Molte scoperte interessanti emergono dall'esame di alcune cinematografie strette fra Cina e India, Paesi dove, forse non a caso, la settima arte si è diffusa fin quasi dalle sue origini, vantando una ricchezza e una continuità di opere di straordinario valore. L'India, in particolare, ha lasciato in Pakistan, Nepal, Bhutan e Bangla Desh tracce molto consistenti della sua influenza culturale, estesa a sud a condizionare lo sviluppo del cinema singalese, tracce che, ancora oggi, tardano a essere assorbite, mentre per la lontana Mongolia il modello deriva dal cinema sovietico (quasi inesistente è invece l'influenza cinese).
Piuttosto vivace il panorama offerto dal Pakistan dove, dopo la nascita dello Stato indipendente in seguito alla spartizione del 1947, emigrarono molti cineasti indiani e dove il cinema ha sempre goduto di una grande diffusione. Centri di produzione vennero impiantati a Lahore e a Karachi, arrivando a realizzare anche ottanta film all'anno, per lo più opere commerciali che sapevano aderire al gusto del popolo. Conflittuale rimase il rapporto con l'India che continuava a offrire i principali modelli stilistici, nonostante la severa censura e la politica di protezionismo culturale delle autorità governative. Tra i pionieri di questa cinematografia, il più noto è stato Masud Pervaiz, ma quello la cui fama è riuscita a scavalcare i confini nazionali è Ajay Kardar grazie al film Jago hua savera (1958, Verrà il giorno, girato in Bangla Desh) che racconta la vita quotidiana dei pescatori delle regioni orientali. Direttore della fotografia in questo caso era Walter Lassally, divenuto in seguito uno degli esponenti del Free Cinema inglese. Nonostante gli studi effettuati da alcuni critici inglesi, che hanno permesso di aprire qualche spiraglio sul cinema del Pakistan, quasi nulla è stata l'eco giunta in Occidente, soprattutto dopo la rigida chiusura voluta dal regime del generale Zia ul-Haq, instaurato dopo il colpo di stato del 5 luglio 1977. Frammenti esemplari possono essere considerati due film espatriati in totale clandestinità: in The blood of Hussain (1980) il regista Jamil Dehlavi (rifugiatosi a Londra con i negativi del girato) ha messo in scena il conflitto fra due fratelli, metafora delle lotte di potere di ieri e di oggi, mentre l'attore e produttore Salmaan Peerzada è riuscito a montare in Inghilterra il suo Maila (1982) che, sullo sfondo della festa circense di Maila nei giorni del colpo di stato militare del 1977, rivolge un duro attacco al potere politico e al sistema deviante dell'informazione televisiva. Un lieve incoraggiamento all'industria cinematografica pakistana si è registrato a partire dal 1983, data in cui è stata ripresa la prassi di conferire premi annuali agli autori e ai film più importanti.
Da questo momento la produzione si è fatta continuativa, anche se non sempre di alto livello. Tra i film prodotti negli ultimi vent'anni si ricordano Shani (1989, Saturno), primo film di fantascienza pakistano diretto da Saeed Rizvi, e il musical Choorian (1998, Braccialetti) di Syed Noor, diventato in breve campione di incassi.Povera risulta la produzione di film in Nepal, che dal 1960 annovera solo pochi titoli. Pioniere di quest'arte è considerato Hira Singh, regista attivo negli anni Sessanta, autore di Amma (1960, Madre), Hijo aaja bholi (1966, Ieri, oggi, domani) e Parivartan (1968, Scambio). Undici anni dopo si è assistito all'esordio di Tulshi Ghimiray con Bansuri (1979, Il flauto), al quale hanno fatto seguito Kusume rumal (1985, Il fazzoletto a fiori), Annyaya (1990, Ingiustizia) e Koseli (1990, Il dono). Nel frattempo, e precisamente nel 1980, la Royal Nepal Film Corporation ha avviato un'attività produttiva, incoraggiata anche ‒ a partire dalla metà degli anni Ottanta ‒ dalle possibilità di realizzare coproduzioni con India, Bangla Desh e Pakistan. In questo stesso periodo l'attore Neer Shah si è dedicato alla regia con Basudev (1984), considerato uno dei film più significativi della cinematografia di questo Paese. Da non trascurare il successo internazionale conseguito da Himalaya, l'enfance d'un chef (1999; Himalaya, l'infanzia di un capo), diretto dal francese Eric Valli e nel 2000 candidato all'Oscar in rappresentanza del Nepal, che ha combinato il documentario antropologico con il film epico, raccontando la vicenda di un conflitto generazionale. Nello stesso anno era salito alla ribalta internazionale Phörpa (1999; La coppa), prodotto dal vicino Bhutan in collaborazione con l'Australia, e primo lungometraggio del lama Khyentse Norbu; il film è ambientato in un monastero buddhista del Bhutan alle pendici dell'Himalaya, dove vengono mandati a studiare alcuni giovani profughi tibetani per sottrarli alle influenze della Repubblica popolare cinese.
Sorprendenti i dati relativi al Bangla Desh, che ha sviluppato un cinema in grado di produrre fino a cinquanta film all'anno. Gli inizi risalgono al 1898 con le prime proiezioni di film stranieri a Dacca, anche se non si può parlare di una cinematografia nazionale fino all'immediato dopoguerra. Primo lungometraggio è considerato Dhukhey jader jibon gora (1946, La miseria è il loro destino) di Obaidul Huq, ma si dovettero attendere quasi dieci anni per mettere in moto una produzione continuativa, che, tuttavia, tradiva un forte legame con il cinema bengali e risentiva fortemente dell'esempio del grande regista Satyajit Ray; fu in questo ambito che emersero film come Kancher deyal (1964, La parete di vetro) di Zahir Raihan e Nadi-o-nari (1965, Il fiume e la donna) di Sadek Khan. La controtendenza venne rappresentata dall'imitazione del cinema hindi con storie 'rurali', costellate di canti e ballate, rispetto alla quale fecero eccezione Ora egarojoh (1972, Quei dodici uomini) di Chashi Nazrul Islam e Arunodoyer agnishakhi (1972, Nelle fiamme dell'alba) di Subhash Dutta, sulla lotta contro il governo pakistano prima della separazione tra i due Paesi.
Negli ultimi anni si è affermato in particolare Alamgir Kabir, autore attento alla realtà politica e sociale del suo Paese, che ha saputo descrivere con sguardo critico e attento. Da ricordare, infine, il film di produzione francese Chittagong le dernier arrêt (2000), girato in Bangla Desh da Léon Desclozeaux.Deve, infine, le sue origini ai registi sovietici il cinema della Repubblica popolare di Mongolia. In questo Stato, geograficamente posto tra la Cina e l'ex Unione Sovietica, infatti, le prime esperienze cinematografiche sono da rintracciare in alcuni film, girati da Vsevolod I. Pudovkin (Potomok Čingiz-Chana, 1928, Tempeste sull'Asia) e Il′ja Z. Trauberg (Syn Mongolij, 1936, Figlio di Mongolia) prima della Seconda guerra mondiale, e nei documentari realizzati negli anni successivi al conflitto; si può parlare, però, di un cinema nazionale solo a partire dal 1957. Il denominatore comune della maggior parte dei film mongoli è l'appartenenza al genere della commedia, con leggeri sconfinamenti nella farsa e nel grottesco. Tra gli autori vanno ricordati Ravjaaguyn Dorjpalam e Jamyanguyn Buntar.
Totalmente aperto alle contaminazioni culturali, linguistiche, tematiche e produttive è il cinema dei Paesi del Sud-Est asiatico, che presenta panorami diversi per quanto riguarda sviluppo e fruizione del cinema. In alcuni casi, soprattutto dove le vicende politiche lo hanno consentito, come per Filippine, Indonesia, Thailandia, si tratta di cinematografie nate già nell'epoca del muto, ma nella maggior parte degli altri Stati si dovranno tenere ben presenti le vicende storiche e le pesanti influenze coloniali (è questo, in particolare, il caso dell'Indocina, dove per decenni il cinema è rimasto in mano francese).Difficile, per es., tracciare una storia del cinema birmano, soprattutto per l'impossibilità di accesso a testi e film di un Paese sul quale grava l'isolamento imposto dalla dittatura militare al governo. In Birmania (ma il suo nome attuale è Unione di Myanmar) le prime proiezioni pubbliche nella capitale Rangoon risalgono al 1910, mentre dal 1915 si iniziò a produrre cinema con una certa regolarità. In quell'anno infatti nacque la Burma Film Company, fondata dall'operatore U Ohn Maung (che in quello stesso anno filmò i funerali di un importante uomo politico) e da U Nyi Pu, che otto anni dopo avrebbe dato vita alla British Burma Film.
Durante gli anni Trenta numerose case cinematografiche lavorarono a pieno ritmo, producendo film destinati all'avido consumo interno, alimentato anche dal gran numero di sale capillarmente distribuite in tutto il Paese. Il decennio successivo fu caratterizzato da una brusca interruzione, dovuta all'occupazione giapponese durante la Seconda guerra mondiale (che durò dal 1942 al 1945, fino cioè alla resa dei giapponesi) e alla lotta per l'indipendenza dalla corona inglese, proclamata il 4 gennaio 1948. Nel 1957 furono girati i primi film sonori e la produzione tornò a essere quasi frenetica, tanto che nel 1962, anno del colpo di stato che instaurò il regime militare, si contavano centoventi società in piena attività, che godevano dell'appoggio del Film Council (organismo privato appena costituitosi per sostenere l'industria del cinema) e dell'equivalente organismo statale (State Film Production Board). L'appoggio statale si accentuò pochi anni dopo, grazie alla nazionalizzazione delle sale cittadine: in questo modo il processo di produzione e diffusione dei film venne completamente a cadere sotto il controllo dello Stato. Un dato interessante è quello relativo agli anni Ottanta, durante i quali sembra siano stati girati in Birmania circa settanta film all'anno (numero ridotto a venti nel decennio successivo), che però non avevano alcuna possibilità di uscire dai confini nazionali; ed è proprio per sfuggire a questo stretto controllo governativo, che, a partire dal 1981, ha cominciato a espandersi il circuito illegale delle sale video. Pochi i cineasti di cui si hanno notizie; tra i più prolifici vanno segnalati U Tu Kha (Spinning gold and silver threads in a loom, 1976, e Equal love, 1979), l'attore e regista, ex ufficiale dell'esercito birmano, Wim Oo e, successivamente, Maung Hla Myo (The courageous fighter, 1992) e Kyi Soe Htun (Mothers and daughters, 1992). Un'importante testimonianza sulla vita del Paese è stata offerta da Beyond Rangoon (1995; Oltre Rangoon), diretto dall'inglese John Boorman, ma interamente girato in Malaysia, film politico e di grande sensibilità, che descrive con estrema efficacia la resistenza pacifica del popolo alla dittatura militare.
Assai ridotta è la produzione di Cambogia e Laos, che non hanno raggiunto la stessa vivacità produttiva del Vietnam, con cui formavano l'ex Indocina. Più attiva la Cambogia che, dagli anni Sessanta, ha mantenuto una certa continuità, seppur basata su un numero esiguo di film. Il 1966 segnò l'esordio nella regia del prolifico principe Norodom Sihanouk con Apsara, film di argomento storico e antimperialista, che vide arruolati come interpreti tutti i componenti della famiglia reale. Il suo entusiasmo lo porterà a realizzare una trentina di film, fino al più recente An apostle of non violence (1997), e a organizzare nel 1968 un festival internazionale nella capitale Phnom Penh. Hanno assunto rilievo internazionale, invece, i registi Haing S. Ngor e Rithy Panh. Il primo lavorò inizialmente come attore, ottenendo l'Oscar nel 1985 per l'interpretazione di The kill-ing fields (1984; Urla del silenzio) di Roland Joffé. Successivamente Haing S. Ngor si dedicò alla regia con il film The white page (1992), coprodotto con la Svizzera e il Vietnam, ma, a causa del suo impegno politico, venne assassinato quattro anni più tardi, durante un viaggio a Los Angeles. Anche per Rithy Panh l'esordio è datato 1992 con il documentario di produzione francese Cambodge, entre guerre et paix. A questo, sono seguiti il film Les gens de la rizière (1994) presentato in numerosi festival internazionali, il documentario Bophana, une tragédie cambodgienne (1996), e poi Un soir après la guerre (1999), proposto al Festival di Cannes (dove il regista è stato chiamato come giurato dell'edizione 2001) e Que la barque se brise, que la jonque s'entrouve (2000).In Laos venne girato nel 1970 Le peuple et ses fusils, film tra i più impegnati politicamente (ma con uno stile intimamente classico) dell'olandese Joris Ivens che, già alcuni anni prima, aveva realizzato in Vietnam Le ciel et la terre (1965) e Dix-septième parallèle (1967).
Molte le difficoltà che il cinema ha dovuto affrontare nella Repubblica di Singapore, a partire dal 9 agosto 1965, data in cui il Paese è uscito dalla Federazione della Malaysia per proclamarsi Stato indipendente. Le cause vanno ricercate in fattori che non sono semplicemente attribuibili alla mancanza di idee e talenti. I principali ostacoli alla diffusione del cinema locale sono stati, infatti, l'esiguo numero di abitanti, la composizione multirazziale della popolazione, che condiziona in senso negativo le sorti del mercato cinematografico, e il totale disinteresse degli organi dello Stato, che per molti anni non hanno saputo imporre una politica di protezionismo o di sostegno economico a favore della produzione locale; anche l'istituzione nel 1978 di una Fondazione culturale finalizzata a dare nuovo impulso alle arti non è sembrata servire a molto. Assai invadente è stata inoltre la presenza di opere straniere, che vengono importate, riscuotendo grande successo di pubblico, dai Paesi occidentali, così come da India, Malaysia, in cui il cinema era approdato già nei primi anni del Novecento, e Cina, anche se la concorrenza più temuta arriva da Hong Kong e Taiwan. Un ulteriore ostacolo alla libera circolazione di idee è da individuarsi nel ruolo svolto dalla censura in seguito alla legge sul cinema che istituiva una commissione di vigilanza, emanata nel 1953 e poi emendata nel 1979: era messa al bando la rappresentazione di atti criminali e di scene di violenza e di sesso, inoltre ogni opinione in materia razziale e religiosa veniva sottoposta al severo controllo della commissione giudicante.
Negli anni Settanta le maggiori entrate delle case di produzione provenivano dai molti documentari e dagli spot pubblicitari girati per le emittenti televisive, che riuscivano a riequilibrare in parte gli scoraggianti incassi dei film; a questo proposito un ruolo di primo piano è stato svolto dalla stazione televisiva Singapore Broadcasting Corporation, che ha risollevato il livello produttivo realizzando fino a venti documentari all'anno. La situazione è notevolmente migliorata dopo il 1998, grazie a un intervento governativo di sostegno della produzione nazionale che ha prodotto l'effetto di trasformare il cinema di Singapore in una realtà interessante e dinamica, in fase di espansione. In questo ambito, sono da segnalare il film Medium rare (1991) girato da Arthur Smith dopo undici anni di assoluta stasi e l'attività di Eric Khoo, che, dopo aver girato Mee Pok Man (1995), è stato presente al Festival di Cannes con il film corale 12 storeys (1997) e ha prodotto Stories about love (2000), interamente girato in digitale e suddiviso in tre episodi, tutti appartenenti al genere della commedia leggera e a lieto fine. Ha contribuito a rinnovare la situazione anche il Singapore International Film Festival, balzato agli onori delle cronache nel 2000 per la retrospettiva dedicata al cinema erotico, perseguitato dalla censura locale.
Cinemasia 1 e 2, a cura dell'Ufficio documentazione della Mostra internazionale del nuovo cinema, Venezia 1983.
G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi, Storia del cinema, 3° vol., t. 2, Milano 1988, pp. 320 e segg.
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