Abstract
La voce illustra la disciplina del funzionamento dell’assemblea nelle società per azioni. L’assemblea dei soci trova in tale tipo societario la regolamentazione più compiuta ed approfondita, diversamente da altri tipi societari nei quali tale organo non è espressamente previsto dalla legge (come nelle società di persone) o è regolato in maniera meno puntuale (come nelle società a responsabilità limitata). E anche se nelle s.p.a., diversamente dagli altri tipi sociali, il ruolo degli amministratori quali gestori dell’impresa è particolarmente valorizzato, proprio in contrapposizione a quello dei soci, l’assemblea rimane anche in questo tipo organo centrale nella struttura societaria, competente ad assumere le decisioni di maggior rilievo in materia di organizzazione e di funzionamento della società (in particolare, le modificazioni dello statuto, la nomina e revoca delle cariche sociali, l’approvazione del bilancio.
Le società per azioni (link alla voce "società per azioni") sono caratterizzate dalla presenza di una struttura organizzativa complessa, articolata in distinti organi sociali, ai quali la legge assegna specifiche funzioni e le cui competenze sono tendenzialmente inderogabili da parte dello statuto.
La tipologia degli organi sociali e le relative competenze variano a seconda del sistema di amministrazione e controllo adottato dalla società. Infatti, mentre il codice civile del ’42 prevedeva un solo sistema organizzativo, basato sulla tradizionale tripartizione fra assemblea, organo amministrativo e collegio sindacale, la riforma del 2003 ha previsto la possibilità di adottare, in alternativa ad esso e previa apposita scelta statutaria (art. 2380, co. 1, c.c.), anche altri sistemi: il sistema dualistico (di derivazione tedesca) e il sistema monistico (di derivazione anglosassone). E qualora la società adotti uno dei sistemi alternativi, mutano sia la tipologia degli organi sociali, sia le relative competenze.
Indipendentemente dal sistema di amministrazione e controllo, l’ordinamento delle s.p.a. prevede un assetto societario interno caratterizzato dal principio della ripartizione fissa di competenze. Tale assetto, tipico di tutte le organizzazioni complesse (di tipo privato, ma anche pubblico), è volto a privilegiare le esigenze di certezza delle regole di funzionamento dell’ente e ha come principale obiettivo quello di assicurare la definizione di meccanismi di governo dell’impresa (cd. corporate governance) che privilegino l’interesse all’efficienza della gestione.
Nel modello tradizionale (per i modelli alternativi, v. sistema monistico; sistema dualistico), che è rimasto quello largamente più usato nella prassi, l’esercizio dell’impresa è interamente affidato all’organo amministrativo; viceversa, le decisioni di tipo organizzativo (nomina delle cariche sociali, approvazione del bilancio, modificazioni statutarie), relative al complessivo assetto della società ed al controllo dei risultati della gestione, sono in linea di principio rimesse alla competenza dei soci, quali destinatari ultimi dei risultati dell’attività sociale.
Anche nelle società non quotate il modello organizzativo resta caratterizzato da una notevole rigidità. Infatti, diversamente dalle s.r.l., in cui l’autonomia statutaria presenta larghi spazi d’intervento, nelle s.p.a. è possibile semplificare taluni aspetti procedurali ed organizzativi, anche in funzione di una maggiore ‘chiusura’ della società, ma solo per aspetti ‘secondari’, mentre non si può intervenire sulle caratteristiche principali di funzionamento del modello.
Per le società quotate è inoltre prevista una disciplina rafforzata su vari fronti, finalizzata ad incentivare l’investimento del risparmio privato nelle società emittenti, tramite l’incremento degli strumenti di tutela delle minoranze, della quantità e qualità dei controlli sull’operato degli amministratori, nonché del livello di trasparenza delle informazioni (ai soci e al mercato).
Le principali caratteristiche dell’organo assembleare sono le seguenti.
In primo luogo, l’assemblea è l’organo rappresentativo degli azionisti della società, anche se non è necessariamente composto da tutti gli azionisti, vista la possibilità di creare per statuto azioni prive del diritto di voto o a voto limitato (art. 2351 c.c.). La possibilità di restringere la base di partecipazione assembleare, escludendo una parte anche significativa della compagine (con il limite della metà del capitale sociale: art. 2351, co. 2, c.c.), è funzionale in particolare alle esigenze delle società aperte (in primis, di quelle quotate), caratterizzate dal fisiologico disinteresse di una rilevante parte dei soci (soprattutto piccoli risparmiatori) rispetto alla vita interna.
In secondo luogo, l’assemblea è un organo necessariamente collegiale (art. 2366 c.c.): lo statuto può al massimo consentire ai soci di esprimere il proprio voto per corrispondenza o elettronicamente (art. 2370, co. 4, c.c.), ferma restando però la necessità di convocare e tenere la seduta assembleare; pertanto, ogni avente diritto al voto conserva il diritto di partecipare personalmente ai lavori assembleari. Tutto ciò, al fine di assicurare che le scelte fondamentali per la vita sociale vengano adottate a seguito di un procedimento che assicuri al meglio le esigenze di partecipazione, ponderatezza e certezza.
In terzo luogo, le competenze dell’assemblea sono tassativamente determinate dalla legge (art. 2364 c.c.), e – salvo casi limitati stabiliti dalla legge stessa (cfr. artt. 2365, 2441 c.c.) – non sono delegabili in favore di altri organi della società. Tale sistema assicura l’esigenza di una efficiente e stabile ripartizione delle funzioni all’interno dell’organizzazione societaria.
Il ruolo dell’assemblea, in generale, si esplica nelle decisioni di tipo organizzativo, non invece sul piano della gestione dell’impresa sociale: infatti, la logica su cui è costruito il modello s.p.a. è quella della raccolta del capitale finanziario da investitori (gli azionisti) che affidano le loro risorse a soggetti qualificati (gli amministratori) per la loro gestione produttiva. Pertanto (solo) le decisioni che attengono all’assetto strutturale dell’organizzazione (in qualche modo alle ‘condizioni’ dell’investimento) ed alla valutazione dei risultati della gestione restano affidate ai ‘titolari’ dell’investimento (e cioè i soci), i quali rimangono invece estranei, in quanto tali, alla vera e propria gestione (pur essendo certo possibile che un azionista assuma anche la veste di amministratore).
Infine, l’assemblea decide secondo la regola di maggioranza, sulla base di aliquote del capitale sociale fissate in misura variabile a seconda della materia (cd. quorum costitutivi e deliberativi): in tal modo si assicura che i soci di controllo, i quali hanno investito la parte determinante di risorse nella società, abbiano non solo la possibilità di indirizzare in modo coerente la gestione, mediante la scelta degli amministratori e la verifica del loro operato, ma anche quella di modificare nel tempo la struttura organizzativa.
Le competenze dell’assemblea sono stabilite, quanto al sistema ordinario di amministrazione e controllo, dagli artt. 2364 e 2365 c.c. Tali articoli innanzitutto distinguono tra assemblea ordinaria e assemblea straordinaria. Non si tratta di due organi distinti, ma dello stesso organo che, a seconda delle materie trattate, si riunisce e delibera con maggioranze e secondo regole formali diverse. La bipartizione ha la funzione di assicurare che: a) le decisioni periodicamente necessarie per il concreto funzionamento dell’organizzazione sociale, e attinenti principalmente al rapporto con gli organi di amministrazione e controllo (nomina e revoca delle cariche sociali, determinazione del compenso, approvazione del bilancio di esercizio), siano adottate in “sede ordinaria”, secondo regole di funzionamento più snelle e in particolare con maggioranze meno elevate; b) le decisioni attinenti alle regole di funzionamento (modifiche statutarie), alle vicende evolutive (liquidazione, trasformazione, fusione e scissione) e alla struttura finanziaria della società (operazioni sul capitale, obbligazioni convertibili), siano invece adottate in “sede straordinaria” secondo regole che assicurino una maggiore partecipazione dei soci, grazie a quorum più elevati, ed una maggiore certezza di regolarità della decisione, mediante la presenza del notaio in funzione di segretario verbalizzante.
Vi è però una ulteriore materia, che è di “eventuale” spettanza dell’assemblea ordinaria: quella delle “autorizzazioni eventualmente richieste per il compimento di atti degli amministratori” (art. 2364, n. 5, c.c.). In linea generale, la gestione dell’impresa sociale spetta infatti in modo esclusivo agli amministratori, senza che dunque l’assemblea abbia alcuna possibilità di ingerenza in proposito (sicché essa non potrebbe impartire direttive ai primi, o avocare a sé il compimento di un’operazione gestoria, o proibirla). Tuttavia, si consente allo statuto di prevedere che, per certe operazioni preventivamente individuate nello statuto, gli amministratori (che restano titolari esclusivi del potere di iniziativa) debbano ottenere la preventiva autorizzazione dell’assemblea in sede ordinaria.
L’assemblea è un tipico organo collegiale, il cui funzionamento è caratterizzato dal necessario rispetto di tutte le fasi tipiche dei procedimenti collegiali, che nel caso delle s.p.a. sono regolate in modo particolarmente dettagliato e vincolante.
Le regole di fonte legale possono essere integrate, e talora derogate, da apposite clausole statutarie. Il rispetto delle regole legali e statutarie è in linea di principio condizione di validità delle deliberazioni (vedi § 5).
La prima fase del procedimento deliberativo è quella della convocazione, che di regola è decisa dall’organo amministrativo, ogni qual volta lo ritenga opportuno. Al verificarsi di talune circostanze (artt. 2446, 2487, co. 1, c.c.), e almeno una volta l’anno per l’approvazione del bilancio (art. 2364, co. 2, c.c.), la convocazione diviene però obbligatoria.
La convocazione è altresì obbligatoria, allorché venga richiesta soci titolari di un numero minimo di azioni pari ad almeno il dieci per cento del capitale (art. 2367 c.c.), con la necessaria “indicazione degli argomenti da trattare”.
L’avviso di convocazione deve contenere tutte le indicazioni relative alla data, all’ora, al luogo della riunione, nonché l’ordine del giorno; e le modalità di emanazione dell’avviso di convocazione variano a seconda delle caratteristiche della società: artt. 2366, co. 2, c.c.; 125 bis, co. 1, t.u.f.. Tali regole possono essere disattese occasionalmente nel caso in cui ricorrano i presupposti della c.d. assemblea totalitaria (art. 2366, co. 4, c.c.).
La validità delle deliberazioni assembleari è subordinata al preventivo raggiungimento di un quorum costitutivo, e cioè della presenza alla riunione di un numero minimo di azioni, ed al successivo raggiungimento di un quorum deliberativo, e cioè di una maggioranza di voti favorevoli.
Il quorum costitutivo serve a garantire che le decisioni, al fine di una loro migliore ponderazione, vengano assunte con la partecipazione e il confronto tra un numero minimo di soci, in quanto portatori di un’adeguata quota dell’investimento azionario; e la legge modula diversamente tale quorum, a seconda dell’importanza della materia da trattare.
Il quorum deliberativo risponde invece a una funzione diversa e intuitiva: perché una certa decisione possa considerarsi adottata, occorre che si sia espresso favorevolmente un certo numero di azioni, tale da rappresentare una certa aliquota di capitale. La legge modula il quorum, elevandolo quando la materia in decisione assuma particolare rilevanza, e prevedendo, a seconda dei casi, che esso sia computato sul capitale sociale complessivo della società o su quello concretamente presente in assemblea.
I quorum costitutivi e deliberativi sono fissati dalla legge in misura differenziata, a seconda della materia (assemblea ordinaria, straordinaria o materie per cui sono previsti quorum particolari), del tipo di convocazione (prima, seconda o successive) e del tipo di società (società che faccia ricorso o meno al capitale del mercato di rischio): art. 2368 c.c.
Se, all’inizio della riunione si constata la mancata formazione del numero legale, l’art. 2369 c.c. prevede e disciplina l’istituto della seconda convocazione, il cui avviso può essere contestuale a quello della prima, oppure emanato separatamente ed anche dopo la mancata costituzione della prima seduta.
A norma dell’art. 2369, co. 4, c.c. lo statuto può richiedere maggioranze più elevate per l’assemblea di seconda convocazione, tranne che per l’approvazione del bilancio e per la nomina e revoca delle cariche sociali. La norma è pertanto imperativa per le deliberazioni nelle quali si esprime la competenza principale dell’assemblea ordinaria, e svolge così un ruolo di “chiusura del sistema”, assicurando che la maggioranza del capitale attivo in assemblea riesca a controllare effettivamente la società, mediante la scelta degli amministratori e la possibilità di verificarne l’operato.
Il diritto di intervenire in assemblea spetta a tutti gli azionisti, titolari di diritto di voto (art. 2370 c.c.). Esso ha dunque carattere puramente strumentale e non gode di tutela autonoma rispetto al diritto di voto. Non hanno, di conseguenza, diritto di intervento gli azionisti privi del diritto di voto. Anche nel caso di azioni a voto limitato a particolari argomenti o subordinato a determinate condizioni (art. 2351, co. 2, c.c.), i soci possono intervenire nelle sole assemblee (o per i soli argomenti) in cui hanno diritto di voto.
Per essere ammesso alla singola assemblea, l’azionista deve dimostrare la propria legittimazione, secondo regole variamente articolate a seconda che siano stati emessi o meno i titoli azionari, e che la società sia quotata (nel qual caso le azioni sono obbligatoriamente dematerializzate) o meno.
Agli azionisti è consentito partecipare all’assemblea personalmente oppure mediante un proprio rappresentante. Questa opzione può risultare utile al socio per varie finalità: quella di avvalersi di soggetti professionalmente qualificati, quella di ovviare ad una propria impossibilità o difficoltà a partecipare direttamente ai lavori, quella di rafforzare il legame parasociale con altri soci. Lo statuto (ma solo nelle società che non facciano ricorso al mercato del capitale di rischio) può escludere tale possibilità, oppure limitarla in vario modo (art. 2372, co. 1, c.c.), ad es. imponendo – per ragioni di riservatezza – che il delegato debba essere necessariamente un socio.
La disciplina della rappresentanza in assemblea ha subìto nel tempo numerosi mutamenti normativi, alternando interventi di carattere fortemente limitativo, per il timore che taluni abusi dell’istituto potessero favorire i gruppi di controllo, ed interventi di carattere più liberale, caratterizzati dalla opposta valutazione per cui l’istituto favorirebbe la partecipazione dei soci e la contendibilità del controllo azionario. Il quadro normativo è molto articolato, essendo previsti dall’art. 2372 c.c. ben tre diversi regimi, per le società chiuse, per quelle con azioni diffuse (che fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio ma non sono quotate), e per le società quotate.
Il presidente dell’assemblea ha un ruolo di particolare rilievo nel procedimento collegiale, perché spettano al titolare di questa funzione: il controllo sulla regolare costituzione dell’organo, incluso l’accertamento dell’identità e della legittimazione dei presenti; la direzione dei lavori (svolgimento della discussione, formulazione delle proposte di deliberazione, modalità di votazione e controllo sullo svolgimento della stessa); lo scrutinio e la proclamazione dei risultati; la verbalizzazione.
Il presidente è coadiuvato da un segretario (nelle sedute straordinarie un notaio), che assiste il presidente nelle varie operazioni e collabora attivamente alla verbalizzazione, controfirmando il documento finale (art. 2375 c.c.).
Il testo dell’art. 2371 c.c., precisando le competenze del presidente e stabilendo che egli “regola” lo svolgimento dei lavori, sembra chiarire che la carica esprime una funzione propria e non delegata. Le decisioni del presidente non sono pertanto sindacabili o revocabili da parte dell’assemblea. Eventuali errori o abusi del presidente possono essere contestati in sede di impugnazione della deliberazione assembleare.
La disciplina legale dello svolgimento dei lavori non è particolarmente dettagliata ed è per larga parte rimessa alle valutazioni ed alle decisioni del presidente, il quale potrà regolare la discussione, imponendo limiti di tempo agli interventi ed esercitando anche poteri di “polizia” interni.
Gli amministratori hanno il dovere di rispondere alle richieste d’informazione dei presenti, purché la domanda sia pertinente; ma l’art. 2374 c.c. prevede anche il diritto ad un rinvio dell’assemblea a non oltre cinque giorni, attribuito ai soci che detengano almeno un terzo del capitale sociale e dichiarino di non essere sufficientemente informati.
In ordine alla votazione, è compito del presidente scegliere il sistema, anche se si ritiene che non sia ammissibile ricorrere al voto segreto.
Subito dopo la votazione dev’essere accertato il risultato dei lavori e il presidente deve effettuare la cd. proclamazione, con la conseguenza che la trattazione del relativo punto all’ordine del giorno deve dichiararsi esaurita.
Le deliberazioni devono infine constare da un verbale, sottoscritto dal presidente e dal segretario, che ha la funzione di documentare lo svolgimento della riunione. L’art. 2375, co. 1, c.c. precisa che il verbale deve essere “analitico”, e cioè indicare l’identità dei partecipanti, il capitale rappresentato in assemblea, le modalità ed il risultato delle votazioni, e deve consentire l’identificazione dei soci favorevoli, astenuti o dissenzienti.
L’esercizio del diritto di voto nelle società per azioni, come in generale nelle collettività organizzate di diritto privato (associazioni, consorzi, ecc.), costituisce espressione di un diritto di partecipazione del singolo: il suo esercizio non costituisce quindi oggetto di un dovere giuridico e il contenuto del voto è rimesso, in linea di principio, al libero apprezzamento del socio.
Ciò non significa che l’esercizio del diritto di voto nel diritto societario sia assolutamente insindacabile, dato che le società per azioni costituiscono pur sempre organizzazioni volte al perseguimento di un predeterminato fine, che è rappresentato dall’interesse sociale. Mentre, tuttavia, la regola della “funzionalizzazione” del voto vale senz’altro per le deliberazioni amministrative, per il voto dell’azionista esso incontra nel medesimo interesse solo un limite esterno, costituito dalla disciplina del conflitto d’interessi.
Un tale conflitto si verifica quando l’interesse personale del socio (di natura patrimoniale) sia contrapposto a quello della società, e cioè quando il socio è posto nell’alternativa di privilegiare l’interesse sociale o al contrario quello personale. L’interesse personale, anche se oggettivo e determinante, non rileva invece se non risulta in oggettivo contrasto con quello sociale (si pensi al voto del socio per se stesso nell’elezione delle cariche sociali).
La legge non impone all’azionista di orientare in generale il proprio voto in modo da perseguire l’oggettivo interesse sociale, né di partecipare alle assemblee e di votare, anche quando una certa delibera sia vitale per la società. E l’azionista può anche perseguire un interesse extrasociale, finché questo non entra in contrasto con quello sociale.
Secondo un certo orientamento di pensiero, la disciplina del conflitto d’interessi sarebbe applicabile estensivamente anche in caso di eccesso di potere, e cioè nel caso di decisioni dannose per la società, anche in assenza di un comprovato interesse personale della maggioranza, allorché la deliberazione presenti una incompatibilità assoluta ed oggettiva con un qualsivoglia criterio di efficiente gestione dell’impresa a scopo lucrativo.
Il legislatore non sancisce peraltro un obbligo generale di astensione a carico dell’azionista in conflitto d’interessi, disponendo solamente che il suo voto costituisce causa di annullabilità della deliberazione al ricorrere di determinate condizioni: a) che sia stato determinante per l’adozione della delibera (cd. prova di resistenza); b) che la deliberazione sia idonea a danneggiare la società (non si richiede invece l’attualità del danno).
Situazione diversa è quella che si determina se una deliberazione viene assunta dalla maggioranza per danneggiare non la società, ma i soci di minoranza; ipotesi che viene comunemente qualificata come “abuso di maggioranza”: ad es., si delibera un aumento di capitale, anche se la società non ne ha specifico interesse, al solo fine di ridurre la quota dei soci di minoranza, i quali non abbiano la disponibilità per sottoscrivere le nuove azioni.
Le deliberazioni assembleari possono essere viziate dalla violazione di norme che disciplinano le varie fasi del procedimento deliberativo, o che attengono invece al contenuto della delibera, determinandone l’invalidità.
Come nella disciplina dei contratti, il codice non regola unitariamente il fenomeno dell’invalidità, ma prevede due diverse figure: l’annullabilità e la nullità. Mentre tuttavia nella disciplina dei contratti l’annullabilità costituisce rimedio speciale (la violazione di norme imperative di legge determina infatti, salva diversa disposizione normativa, la nullità del contratto: art. 1412 c.c.), nella disciplina societaria la categoria generale e residuale – e cioè quella che si applica per tutte le violazioni non espressamente assistite da una sanzione diversa – è quella dell’annullabilità. E diversamente dalla disciplina dei contratti, l’annullabilità si determina non solamente quanto viene violata una norma imperativa, ma anche quando viene violata una norma dispositiva (giacché le norme dispositive possono essere derogate solo dallo statuto) o una clausola statutaria, come si ricava dall’art. 2377, co. 2, c.c. secondo cui possono essere impugnate per annullabilità le “deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto”. La nullità, per contro, si determina solamente quando ricorre una delle tre cause tipiche previste dall’art. 2379 c.c.: la illiceità o impossibilità dell’oggetto, la mancanza di convocazione e la mancanza di verbalizzazione.
Il legislatore, con gli artt. 2377 ss. c.c., ha dettato in tal modo una disciplina volta a tutelare interessi e perseguire obiettivi diversi da quelli sottesi alla disciplina delle invalidità contrattuali. In particolare, il legislatore cerca di assicurare un adeguato livello di tutela all’esigenza di stabilità degli atti societari, cercando un equilibrio tra questa istanza e quella di assicurare il rispetto della disciplina societaria: perciò la forma generale di invalidità è, come si è detto, l’annullabilità, che richiede un’impugnazione tempestiva (entro 90 giorni) e la stessa nullità (contrariamente al principio, tipico dei contratti, dell’imprescrittibilità dell’azione) deve essere fatta valere entro un dato termine (sebbene più ampio: 3 anni), mentre vi sono addirittura delibere che, una volta eseguite, divengono non più impugnabili (e l’impugnazione eventualmente già promossa diviene improcedibile), allo scopo di assicurare la definitività del riassetto organizzativo che esse implicano (v. art. 2379 ter, co. 2, c.c.); per lo stesso motivo, la legittimazione ad impugnare per annullabilità spetta solamente ai soci che detengono una determinata aliquota del capitale sociale.
L’art. 2377, co. 2, c.c. dispone l’annullabilità delle deliberazioni che non siano prese «in conformità della legge o dello statuto». E la difformità della delibera dalla legge o dallo statuto può determinarsi per la violazione di norme sostanziali o procedimentali.
I vizi di contenuto attengono all’oggetto della decisione. Se il vizio consiste nella violazione di norme imperative (e cioè, non derogabili dallo statuto), si determina un problema di distinzione dalla figura più grave della “illiceità dell’oggetto”, che dà invece luogo a nullità e sarà illustrata successivamente (infra, 5.3). Non sussistono invece difficoltà di valutazione se la disposizione di ordine sostanziale è di fonte statutaria (ad es., nomina di amministratori privi di requisiti statutari di professionalità) o se la norma di legge violata è derogabile (ad es., l’esclusione immotivata del diritto di opzione dei soci in caso di aumento del capitale sociale: art. 2441, co. 5, c.c.), dovendosi in tal caso escludere in radice la ricorrenza di un’illiceità dell’oggetto.
Anche l’annullabilità per vizi di procedimento può derivare dalla violazione di norme aventi fonte legale (ad es., emanazione dell’avviso di convocazione senza il rispetto del termine di preavviso) o statutaria (ad es., convocazione con mezzi diversi da quelli previsti nello statuto); non si pongono però qui problemi di distinzione con le cause di nullità, che sono infatti circoscritte alle due sole ipotesi della omessa convocazione e della omessa verbalizzazione (art. 2379 c.c.): qualunque altra violazione di norme procedimentali, anche particolarmente grave, determina annullabilità.
In linea di principio, parrebbe che ogni violazione, anche minima, della legge o dello statuto determini l’invalidità della delibera. In realtà, l’art. 2377, co. 5, c.c. prevede delle ipotesi specifiche per le quali la mera sussistenza del vizio non è sufficiente a determinare l’annullabilità della deliberazione, occorrendo invece che il vizio superi in concreto una determinata soglia di rilevanza sostanziale: i) la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate è causa di annullamento solo se, a seguito della c.d. prova di resistenza, la partecipazione sia risultata determinante per il raggiungimento del quorum; ii) lo stesso vale per l’invalidità dei singoli voti (si pensi ad un voto espresso in presenza di vizi della volontà: violenza, dolo, errore) o per il loro errato conteggio da parte del presidente dell’assemblea; iii) l’incompletezza o l’inesattezza del verbale sono cause di annullamento solo quando impediscono l’accertamento del contenuto, degli effetti o della validità della delibera.
La legittimazione ad impugnare le deliberazioni annullabili spetta ai soci assenti, dissenzienti, o astenuti (e agli organi di amministrazione e controllo), che avevano diritto di voto sulle materie oggetto della deliberazione e che detengano determinate quote di capitale (art. 2377, co. 3, c.c.). I restanti soci hanno diritto solo al risarcimento del danno (e si procede analogamente, se la legittimazione viene meno in corso di processo).
L’annullamento non può essere pronunziato se la società abbia sanato il vizio, attraverso “apposita” sostituzione della delibera impugnata con altra presa in conformità alla legge o allo statuto (art. 2377, co. 8, c.c.).
Le cause di nullità delle deliberazioni assembleari sono tassativamente previste dall’art. 2379, co. 1, c.c. e sono tre: una di tipo sostanziale, e cioè la illiceità o impossibilità dell’oggetto; due di tipo procedimentale, e cioè la mancata convocazione dell’assemblea e la mancata verbalizzazione della deliberazione.
Al di là di queste causa di nullità testualmente previste non possono essere ricostruite – a differenza di quanto avveniva nella giurisprudenza anteriore alla riforma del 2003 – cause di “inesistenza” della delibera, per presenza di vizi strutturali così radicali da renderla non più qualificabile come tale.
Fra le cause di nullità previste dalla legge, l’illiceità dell’oggetto è l’ipotesi più controversa, in quanto pone il problema di distinguere tale figura dalla non conformità della deliberazione alla legge, prevista dall’art. 2377, co. 2, c.c. come causa di annullabilità.
A livello teorico, la giurisprudenza adotta una posizione largamente consolidata, indicando come criterio generale di distinzione tra delibere nulle e annullabili per vizi sostanziali quello dell’interesse tutelato dalla norma violata: sarebbero nulle le delibere che contengano una violazione di norme inderogabili poste nell’interesse generale (si pensi alla violazione dei criteri di redazione del bilancio, per l’approvazione di bilanci affetti da falsità o difetto di chiarezza); sarebbero semplicemente annullabili, invece, quelle costituenti violazione di norme, anche inderogabili, ma poste nell’interesse e a tutela dei soli soci (si pensi alla violazione delle disposizioni inderogabili in materia di diritto di opzione ex art. 2441 c.c. o del diritto di recesso ex art. 2437 c.c.) .
Quanto alla mancata convocazione dell’assemblea, il vizio è causa di nullità solo se assoluto e sostanziale. La convocazione non è invece “omessa” (e pertanto la delibera non è nulla), ma solo irregolare (con conseguente annullabilità), se l’avviso non rispetta i termini minimi di convocazione o se manca di alcuni suoi contenuti tipici secondo la legge o lo statuto.
La mancanza di verbale è causa di nullità solo se consiste nella mancanza assoluta di un documento, sottoscritto «dal presidente dell’assemblea, o dal presidente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza e dal segretario o dal notaio», e contenente quanto meno l’indicazione della data e dell’oggetto, e cioè sia delle materie trattate, sia della deliberazione concretamente assunta dall’assemblea. La nullità è sanata se la verbalizzazione interviene prima dell’assemblea successiva.
La legittimazione all’impugnazione spetta, come da regola generale (art. 1421 c.c.), a chiunque vi abbia interesse, ivi compresi i soci che abbiano votato a favore della deliberazione, e può essere rilevata anche dal giudice d’ufficio.
Artt. 2363- 2379 ter c.c.; artt. 125 bis -130 t.u.f.
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