Atletica - Aspetti tecnici
L'atletica è sport naturale per eccellenza, perché può essere praticata ovunque e da chiunque. Essa si basa su quattro gesti fondamentali ‒ la marcia, la corsa, il salto e il lancio ‒ che appartengono al patrimonio genetico dell'umanità. Per praticare atletica non serve neppure uno spazio particolarmente attrezzato: il bambino che corre, che salta una corda o una siepe, che lancia un sasso o che marcia fa atletica. In questo senso, ogni posto è adatto a una competizione: basta una strada, una piazza, un prato, un cortile e l'impianto è pronto. In spazi di questo tipo si disputarono le prime gare sia nella Gran Bretagna 'reinventrice' dell'atletica moderna, sia in Italia dove agli inizi del 20° secolo un campione come Emilio Lunghi non disdegnava le sfide con i suoi avversari sulle banchine di un molo marittimo.
Con il trascorrere degli anni, tuttavia, le cose sono radicalmente cambiate. L'atletica, con l'introduzione di regole e la standardizzazione dei luoghi di gara al fine di rendere omogenei e confrontabili i risultati, è diventata uno sport complesso. Anzi, sotto l'aspetto dell'evoluzione tecnologica, è forse quello che più profondamente è cambiato dalla fine dell'Ottocento a oggi. Lo spettatore nello stadio, o quello a casa davanti allo schermo televisivo, difficilmente immagina quale grado di complessità comporti l'organizzazione di un meeting atletico, a livello sia nazionale sia internazionale. È una macchina complicata, da qualunque angolazione la si guardi: per la gestione e la regia delle gare, che avvengono contemporaneamente in diversi punti dello stadio; per la rilevazione dei risultati e la loro immediata diffusione agli spettatori e ai mezzi d'informazione; per il controllo tecnico, che oltre all'occhio umano coinvolge sempre più strumenti elettronici; per la verifica che nessun concorrente violi le regole, un compito reso arduo dalla sempre più alta velocità alla quale vengono eseguiti i gesti agonistici. Sono difatti centinaia i tecnici che lavorano ‒ durante un meeting internazionale, un'Olimpiade, un Campionato del Mondo ‒ all'interno dello stadio e senza la cui presenza lo spettacolo non potrebbe aver luogo.
Sono stati la ricerca tecnologica, la concorrenza tra campioni, lo studio di nuovi metodi d'allenamento e, soprattutto, la progressiva trasformazione del gioco sportivo in grande spettacolo ad aver determinato i cambiamenti. Gli interessi economici che hanno accompagnato ‒ e, talvolta, preceduto ‒ questo profondo mutamento dell'attività sportiva hanno rappresentato un altro, e per nulla secondario, fattore d'ammodernamento, per ragioni facilmente comprensibili: quando dal risultato può dipendere la ricchezza di chi lo consegue, è evidente che il sistema debba garantire a tutti ‒ concorrenti, spettatori, sponsor ‒ che non vi siano errori. Se si guarda al teatro dei primi Giochi Olimpici ci si accorgerà che nessun elemento di quella struttura è rimasto inalterato: sono cambiati la forma e le dimensioni della pista, il raggio delle curve (in principio ve n'era una sola), il materiale da costruzione. L'antico stadio Olimpico di Atene è un reperto storico, nel quale mettere in scena una moderna rappresentazione atletica sarebbe impossibile. Invece, si recita ancora magnificamente, e non soltanto le opere degli autori greci, nel teatro greco-romano di Siracusa.
Tuttavia, il valore dell'atletica ‒ spogliata degli inevitabili orpelli della modernità e della tecnologia ‒ risiede nella naturalezza di quei gesti, nati con l'uomo e che l'uomo continua a ripetere rincorrendo i limiti delle proprie capacità. La tecnologia, a ben vedere, certo aiuta, ma non esiste progresso di materiali capace di sostituire l'eleganza della falcata, l'armonia di un corpo che si solleva oltre l'ostacolo, la possanza di muscoli che esplodono in un lancio. E, soprattutto, la forza della volontà.
L'utilizzazione della misura standard di 400 m per la lunghezza delle piste d'atletica è fatto relativamente recente, giacché per oltre un secolo essa ha variato a seconda della collocazione geografica degli impianti. In Gran Bretagna le dimensioni di piste e attrezzi furono fissate secondo il sistema di misura in miglia, yards, piedi, pollici, libbre, once. Nell'Europa continentale, invece, si adottò il sistema metrico decimale. Ciascuna delle due culture rimase a lungo fedele alle proprie caratteristiche e per questo motivo sistema inglese e sistema metrico decimale sono restati in uso l'uno a fianco dell'altro.
L'influenza dei Giochi Olimpici fu naturalmente preponderante nel dettare le regole delle competizioni, anche se nelle prime quattro edizioni ‒ Atene 1896, Parigi 1900, St. Louis 1904, Londra 1908 ‒ le dispute furono numerose e spesso anche con venature nazionalistiche. Per evitare polemiche infinite occorreva trovare un minimo comune denominatore affinché le gare si svolgessero secondo una normativa da tutti accettata. Mancando però un organismo internazionale capace di scegliere tra le varie opzioni, questo ruolo fu alla fine svolto dai diversi organizzatori. Emblematico il caso della maratona di Londra, misurata in miglia e sulla distanza tra il Castello di Windsor e la tribuna reale nello Sheperd's Bush Stadium: quella lunghezza, tradotta nel sistema metrico decimale, fu adottata dal CIO nel 1924 come misura standard di questa gara (42,195 km). La nascita della IAAF, nel 1912, ebbe proprio lo scopo di cercare la coesione tra le due anime dell'atletica. Questo lavoro durò circa mezzo secolo e, in particolari casi, per ancora più tempo.
In Gran Bretagna e in tutti i paesi di derivazione anglosassone la lunghezza della pista era in genere misurata sul quarto di miglio, cioè 440 yards (402,34 m). Tuttavia, sempre in Inghilterra, si potevano trovare variazioni: per es., la pista di Sheperd's Bush sulla quale si svolsero le Olimpiadi del 1908 era lunga un terzo di miglio, cioè 586 yards e due piedi (536,45 m). In America vi erano piste, come quella del New York Athletic Club a Travers Island, New York, di un quinto di miglio, 352 yards (321,87 m). Piste ancora più corte erano usuali negli Stati Uniti per l'allenamento e soprattutto per le gare al coperto. Inoltre, sempre in America, si costruivano piste con un rettilineo di 220 yards.
Sul continente europeo, invece, le piste venivano disegnate basandosi su frazioni decimali di un chilometro. In alcune grandi città, dove furono costruiti grandi stadi, furono realizzate piste di mezzo chilometro, come quelle di Colombes presso Parigi (dove si tennero le Olimpiadi del 1924), di Milano e di Colonia. Tuttavia la misura più comune era quella di 400 m, un ovale sufficientemente largo per contenere al suo interno un campo di calcio.
La IAAF fu abbastanza rapida nello stabilire che l'esatta lunghezza della pista doveva essere misurata a 30 cm (12 pollici) dal bordo interno e non più a 18 pollici, come accadeva in precedenza, ma soltanto nel 1960 standardizzò le piste all'aperto sulla misura di 400 m o 440 yards. La confusione era stata sensibile in specie per la gara più strettamente legata alle origini greche: i 200 m o 220 yards (corrispondenti all'antica misura greca dello 'stadio', 197 m). Difatti, bisognava sempre precisare se questa prova era stata disputata su una pista ovale di 400 m o 440 yards (dunque, percorrendo una curva intera), su una pista di 500 m (quindi, con sola mezza curva da percorrere) o ancora su un rettilineo di 220 yards. Dal 1951 la IAAF riconobbe un record del mondo sui 200 m (o sulle 220 yards) soltanto se realizzato su pista di 400 m o 440 yards, cioè con curva intera, ma sino al 1966 venne anche riconosciuto il record del mondo sulle 220 yards in rettilineo.
Per quanto riguarda la modifica dei materiali utilizzati per la costruzione delle piste, così come per ogni altro cambiamento d'attrezzature, la IAAF ha imposto la regola che, per essere impiegati nei maggiori eventi internazionali (Olimpiadi, Campionati del Mondo), essi debbano essere disponibili nella generalità dei paesi almeno un anno prima delle competizioni stesse. Questa regola fu introdotta per evitare la confusione che si verificò prima delle Olimpiadi del 1964, quando gli organizzatori proposero di far disputare quei Giochi su una pista sintetica e la IAAF rifiutò la proposta perché quel tipo non era ancora diffuso ovunque. Nel 1968 le Olimpiadi di Città del Messico si svolsero per la prima volta su una pista in tartan.
La pista sintetica presenta, rispetto alle più antiche in erba e successivamente in cenere o terra rossa, il notevole vantaggio di non venire danneggiata da condizioni atmosferiche avverse ma, soprattutto, diminuisce gli effetti frenanti dell'impatto al suolo. Come è noto, nella successione di balzi di cui si compone l'azione del corridore non tutta la spinta viene restituita all'atleta: le piste sintetiche sono appunto in grado, per l'effetto combinato durezza-elasticità, di ridurre drasticamente la dispersione di potenza.
Nel 1988, dopo tre anni di intense ricerche e di consultazioni con le case costruttrici, la IAAF varò una serie di test ‒ affidati a istituti specializzati o a tecnici riconosciuti dalla Federazione internazionale ‒ allo scopo di introdurre un controllo più severo sulle caratteristiche della superficie delle piste, che oggi sono realizzate oltre che in tartan anche in altri materiali. Il manuale di riferimento è lo IAAF performance specifications for synthetic surfaced athletics tracks, pienamente accettato da tutti i maggiori costruttori mondiali. Una pista in materiale sintetico deve avere alcuni requisiti fondamentali: il livello della superficie deve essere senza imperfezioni che potrebbero costituire un impedimento per gli atleti; lo spessore della superficie (in materiale sintetico) deve essere mediamente di 12 mm, e mai inferiore ai 10 mm; le zone cosiddette di high stress, cioè quelle in cui gli atleti esercitano una particolare pressione o sforzo (come, per es., le pedane per i salti) devono essere rinforzate; a confronto di una superficie in cemento, quella in materiale sintetico deve avere un coefficiente di restituzione elastica fra il 35 e il 50%, da valutarsi tenendo anche conto di variazioni di temperatura entro un intervallo predefinito; la modificazione verticale deve essere contenuta tra 0,6 e 1,8 mm; la superficie deve esser tale da garantire condizioni di sicurezza anche in caso di pioggia; la resistenza del manto deve essere appropriata al sistema usato, poroso o non poroso; la pista deve avere buon drenaggio (la regola è di un'inclinazione laterale dell'1%; l'inclinazione nel senso di corsa del corridore, sempre allo scopo del drenaggio, non può superare lo 0,1%); il colore deve essere uniforme, questo soprattutto per rendere migliori le riprese televisive. Attualmente gli istituti riconosciuti dalla IAAF per testare le piste e rilasciare un documento valido per la loro omologazione sono otto (altri due hanno avanzato domanda di riconoscimento).
I costruttori sono in grado di costruire piste secondo le richieste dei clienti, e cioè con un maggiore o minore grado di durezza. Le piste molto dure ‒ come quella dove si svolsero i Giochi Olimpici di Atlanta ‒ favoriscono gli sprinter e i corridori delle prove sino ai 400-800 m; i corridori del mezzofondo, specie se prolungato, preferiscono invece piste più morbide, perché affaticano meno tendini e muscoli. È dunque naturale che una pista, nella maggioranza dei casi, sia il frutto di un compromesso tra le esigenze dei velocisti e quelle dei corridori di resistenza. La pubblicazione International association of athletics federations track and field manual fornisce tutte le specificazioni per la progettazione, la costruzione e la gestione di uno stadio atletico.
Le attuali scarpe da atletica sono estremamente leggere e nello stesso tempo capaci di tenere ben fermo il piede nel momento dell'impatto al suolo e, soprattutto, della susseguente spinta, così da eliminare ogni indesiderato effetto 'slittamento'. La scarpetta moderna, insomma, è simile a un guanto: veste, protegge e aiuta il piede (e la caviglia) a svolgere il lavoro, pur dando all'atleta la sensazione completa di libertà. I materiali utilizzati non sono più il cuoio e il metallo, ma il nylon, la plastica e, in alcuni prototipi fatti espressamente per i grandi campioni, addirittura la seta o suoi derivati. Le scarpette indossate da Michael Johnson per battere il record del mondo dei 200 m ad Atlanta del 1996 non pesavano più di 100 g.
Nei mesi che precedettero l'Olimpiade di Città del Messico, nel 1968, per la quale era stata programmata la costruzione della pista in tartan per l'atletica, la casa tedesca Puma ideò un nuovo tipo di scarpetta che sostituiva i 'chiodi' delle suole, con una serie di increspature, o setole, o dentature. Quelle scarpette, dette anche brush spikes, vennero dichiarate fuorilegge dalla IAAF e mai più permesse. Già in precedenza la IAAF era intervenuta per proibire un modello di scarpe. Si trattò, alla fine degli anni Cinquanta, delle scarpe per il salto in alto dette 'Stepanov' in onore del saltatore russo che, anche grazie a esse, portò il record del mondo a 2,16 m (13 luglio 1957): in sostanza, la suola della scarpetta che vestiva il piede di spinta era più spessa dell'altra, svolgendo così un importante ruolo di propulsione grazie all'effetto molla.
Secondo la regola 143, paragrafo 2, delle norme IAAF ogni atleta "può gareggiare a piedi nudi oppure indossare una o due scarpette. Scopo delle scarpe è dare protezione e stabilità permettendo una sicura presa al suolo. Esse, dunque, non devono esser costruite per dare agli atleti alcun aggiuntivo vantaggio, e nessuna molla o sistema di qualsiasi natura può esser incorporato nelle scarpette".
Il paragrafo 3 della stessa regola stabilisce anche che sulla suola delle scarpe, compreso il tacco, possono essere posizionati non più di 11 chiodi, che possono avere un diametro massimo di 4 mm e una lunghezza non superiore ai 9 mm. Per il salto in alto e il lancio del giavellotto i chiodi possono arrivare sino a 12 mm di lunghezza; nel caso di scarpette da utilizzare su piste non sintetiche sino a 25 mm di lunghezza. Per il salto in alto e salto in lungo le suole della pianta del piede e del tacco possono avere un differente spessore (per la pianta, non più di 13 mm; per il tacco, non oltre i 19 mm). Lo spessore delle suole per ogni altra competizione può essere deciso dal costruttore a suo piacimento.
La corsa a ostacoli è di origine britannica. Iniziò a essere praticata nelle scuole inglesi e irlandesi, dando veste agonistica a un divertimento proprio della vita in campagna: il salto delle staccionate che dividono i prati in cui pascolano le pecore. L'altezza degli ostacoli deriva dall'altezza di quelle barriere, variando tra i 30 pollici (76,2 cm) e i 42 pollici (106,7 cm). La distanza tra un ostacolo e l'altro, cioè 10 yards (9,14 m) per i 110 m a ostacoli, oppure 35 m per i 400 m a ostacoli, dipende dal luogo di origine di quella specifica gara.
Una modifica di notevole impatto per quanto riguarda la forma degli ostacoli è stata ufficialmente introdotta dalla IAAF nel 1935. Prima di questa data, l'ostacolo era costruito sul modello della barriera nella corsa dei 3000 m siepi: vale a dire con una base a terra simile a una 'T' rovesciata. Il materiale utilizzato inoltre era legno pesante, cosicché l'eventuale ‒ e sempre probabile ‒ impatto del corridore sull'ostacolo determinava la caduta non della barriera, ma dell'atleta. Dal 1935 la base dell'ostacolo è diventata a 'L' e questo fa sì che la barriera appena urtata si rovesci a terra senza opporsi all'atleta, il quale può così continuare la corsa. Tale cambiamento non solo ha eliminato il pericolo per il corridore ‒ specie nelle corse rapide come i 110 m a ostacoli ‒ di riportare un serio danno fisico dall'impatto, ma ha anche trasformato la tecnica di passaggio, che si è fatto via via più radente, modificando sia la dinamica di 'attacco' dell'ostacolo stesso sia il richiamo della seconda gamba. Tutto questo ha dunque contribuito in modo determinante a rendere più spettacolare la gara, permettendo nello stesso tempo agli atleti più veloci e di più raffinata tecnica di promuovere un'eclatante evoluzione della specialità. Per completare un'epocale rivoluzione, la IAAF infine eliminò la regola secondo la quale perché un record venisse omologato nessun ostacolo doveva esser abbattuto.
Il passaggio dall'asta di bambù a quella di metallo e, successivamente, in fibra di vetro ha determinato una totale rivoluzione nei risultati, nella tecnica di salto e anche nelle qualità richieste agli atleti. I primi tentativi di sostituire le aste in bambù, rimaste in uso fino al 1952, furono compiuti già prima del 1948 negli Stati Uniti, con la sperimentazione di aste in alluminio e poi in acciaio, quindi in una lega di alluminio che offriva contemporaneamente maggiore sicurezza e flessibilità. L'asta di fibra di vetro fu usata per la prima volta da Bob Mathias nel corso del decathlon olimpico del 1952. L'utilizzo da parte di uno specialista del salto con l'asta, il greco Georgios Roubanis, risale ai Giochi Olimpici di Melbourne del 1956. Nel 1964 questo nuovo tipo di asta divenne di uso comune tra tutti gli atleti e fu accettato dalla IAAF. Da allora, sono state apportate molte modifiche, allo scopo di unire rigidità e flessibilità, due qualità dal cui bilanciamento dipende il cosiddetto effetto fionda che l'attrezzo deve esercitare una volta piegato. Inizialmente molti si opposero all'innovazione della fibra di vetro per timore che il salto con l'asta potesse diventare un gioco da circo, nel quale avrebbero perso importanza le doti atletiche a tutto vantaggio di quelle acrobatiche. Il tempo ha invece dimostrato che l'astista deve comunque possedere fondamentali qualità di atleta, quali la velocità, la forza, la coordinazione neuromuscolare da unire a una più raffinata tecnica. L'esercizio, difatti, si svolge ad alta velocità dal momento della rincorsa sino a quello del ritorno a terra.
L'asta in carbonio costituisce un'ulteriore evoluzione, presentando caratteristiche di maggiore leggerezza, minore diametro, maggiore rapidità nell'azione di fionda, ovvero migliore flessibilità. Tuttavia, richiedendo tempi d'azione ancora più veloci, questo tipo di attrezzo non consente il minimo errore. Inoltre l'estrema fragilità dell'asta aumenta di molto la pericolosità dell'esercizio. Questa è forse una delle ragioni per la quale il più grande astista di tutti i tempi, Sergej Bubka, ha sempre utilizzato aste in fibra vetrosa, le UCS Spirit, appositamente costruite per lui (lunghe sino a 5,25 m e con l'impugnatura a 5,10-5,15 m).
In parallelo con l'evoluzione dei materiali impiegati nelle aste sono stati introdotti cambiamenti nella zona di atterraggio, un tempo costituita da una buca riempita di sabbia o segatura. Se non la si fosse sostituita con sacchi di gommapiuma, è evidente che gli atleti non avrebbero mai potuto rischiare un atterraggio da 6 m di altezza (lo stesso può dirsi per l'evoluzione tecnica del salto in alto: impossibile atterrare di schiena sulla sabbia, come avviene con il salto alla Fosbury, ricadendo da oltre 2 m d'altezza).
Una norma della IAAF, entrata in vigore dal 1° gennaio 2003, ha fissato a 55 mm la larghezza dei supporti in metallo su cui poggia l'asticella, che in precedenza erano di 75 mm. Con questa innovazione si è voluto ridurre la possibilità che l'asticella, dopo essere stata toccata con un braccio o con il petto dall'atleta, rimanga comunque in equilibrio o che l'atleta dopo averla urtata riesca a rimetterla al suo posto con una mano, evitandone la caduta. Giova ricordare che negli anni Ottanta del 20° secolo l'astista americano Dave Volz si era messo in luce soprattutto per l'abilità nel mantenere l'asticella in equilibrio sui suoi supporti con l'aiuto della mano, tanto da diventare caposcuola di una tecnica denominata volzing, praticata anche da atleti di ottimo livello, come i francesi Philippe Collet e Thierry Vigneron. Nel salto in alto, qualcosa di analogo si era già verificato molti anni prima: Harald Osborn, vincitore dell'Olimpiade del 1924, aveva sviluppato una sua propria tecnica con la quale non soltanto anticipava di spalle e testa il passaggio dell'asticella, ma vi ruotava anche sopra in modo da poter mantenere, nella fase di ricaduta, l'asticella al suo posto con un lieve tocco della mano. Anche in questo caso la IAAF era intervenuta decretando il restringimento dei supporti dell'asticella in modo che, al minimo impatto, precipitasse al suolo.
Dal 1913, quando la IAAF varò il primo regolamento per le gare con la specifica delle caratteristiche alle quali gli attrezzi utilizzati dovevano conformarsi, le norme riguardanti il giavellotto rimasero invariate per circa quarant'anni. L'attrezzo era costruito in legno di betulla e la sua capacità di veleggiare dipendeva dal peso specifico del legno utilizzato. I primi cambiamenti di rilievo ‒ pur nel rispetto delle regole ‒ per migliorare il veleggiamento furono introdotti dai fratelli americani Held agli inizi degli anni Cinquanta. L'8 agosto 1953, a Pasadena, il giavellotto di But Held ‒ disegnato dal fratello Dick ‒ planò a 80,41 m: la punta era cava, più lunga e sottile di quella utilizzata in precedenza; inoltre l'attrezzo disponeva di una superficie aerea superiore del 27% e una forma più aerodinamica. Un ulteriore passo fu compiuto dai fratelli Held nel 1954 con la costruzione di un giavellotto in alluminio.
Altri tentativi di innovazione riguardarono lo spostamento del baricentro dell'attrezzo e la modifica del suo disegno, allargandone o restringendone il diametro. Così cambiava non soltanto il veleggiamento ma anche il modo di atterraggio del giavellotto, anche senza venir meno alla regola che imponeva una lunghezza tra i 2,60 e i 2,70 m (2,20 e 2,30 per le donne) e un peso tra gli 800 e gli 825 g (600-625 g quello femminile). La IAAF dovette reagire rapidamente alla comparsa di questi nuovi tipi di giavellotto che, pur rispettando la lettera del regolamento, potevano in concreto tradire lo spirito della disciplina. Inoltre, la costruzione di attrezzi sempre più veleggianti, unita al progresso nella tecnica di lancio e alla forza esplosiva degli atleti, introduceva il rischio che il lancio del giavellotto rappresentasse un pericolo per la stessa sicurezza negli stadi, potendo il volo sorpassare la lunghezza del terreno di atterraggio previsto. Questo accadde con un nuovo tipo di attrezzo, il 'Dick Held Custom III', che fece registrare lanci superiori ai 100 m (Uwe Holm, 104,80 m il 20 luglio 1984). La IAAF emanò allora nuove regole che entrarono in vigore nel 1986 e secondo le quali il centro di gravità dell'attrezzo veniva spostato in avanti di circa 4 cm, così da diminuirne il veleggiamento e da determinarne di nuovo l'atterraggio di punta; si diminuiva anche l'area della superficie, per ridurne l'aerodinamica. Su questa base negli anni Novanta furono proibite dalla IAAF le ulteriori modifiche al giavellotto apportate dall'ungherese Miklos Nemeth.
Le norme dettate dalla regola 193 dell'IAAF Handbook lasciano poco spazio a ulteriori innovazioni, stabilendo che: il giavellotto si divide in tre parti, la testa, il corpo (o asta o freccia, shaft) e l'impugnatura di corda; il corpo deve essere costruito interamente in metallo, o in altro materiale simile e omogeneo, al quale deve essere fissata la testa, in metallo, terminante con una punta acuminata; la superficie del corpo deve essere liscia, senza rugature, fossette, scannellature, e terminare uniformemente nella parte della coda; il diametro dell'impugnatura non può eccedere di 8 mm il diametro dell'asta e lo spessore dell'impugnatura deve essere uniforme; il diametro massimo del corpo deve trovarsi immediatamente di fronte all'impugnatura (lo spessore deve essere compreso tra i 20 e i 25 mm nell'attrezzo per le donne e tra i 25 e i 30 mm in quello per gli uomini); la punta di metallo deve essere di lunghezza compresa tra i 250 e i 330 mm, e la distanza tra questa e il centro di gravità deve essere compresa tra 0,80-0,92 m nel giavellotto femminile e 0,90-1,06 m in quello maschile.
Recentemente è stato introdotto un giavellotto molto sofisticato, in carbonio, la cui caratteristica principale è rappresentata dalla rigidità della coda, che riduce quasi a zero la vibrazione registrata con gli altri giavellotti. La sua utilizzazione richiede una perfetta tecnica di lancio, e cioè la scelta di una traiettoria che, specie in situazioni di forte vento, è particolarmente difficile da imprimere. Il ceco Ian Zelezny, detentore del record del mondo (98,48 m), usa da qualche anno questo tipo di attrezzo.
Sino al 1887 gli sprinter partivano per lo più da posizione eretta, senza prendere in considerazione i problemi dell'accelerazione. La partenza in ginocchio fu adottata in quell'anno da Charles Sherrill in alcune competizioni universitarie disputate sulla costa orientale degli Stati Uniti. Spettatori e compagni risero della nuova tecnica ma Sherrill, proprio grazie al vantaggio acquisito nei primi metri della corsa, vinse quasi tutte le gare a cui partecipò, convincendo gli avversari a copiarne lo stile. Nel giro di pochi anni la posizione accucciata, o raccolta sulle ginocchia, fu adottata dalla grande maggioranza degli sprinter americani. In Europa si diffuse solo in un secondo tempo: quando ai Giochi Olimpici di Atene l'americano Thomas Burke, vincitore della gara dei 100 m, partì da questa posizione il pubblico e gli altri corridori non statunitensi se ne stupirono molto.
Dalla posizione raccolta alle buchette di partenza, le starting holes, il passo fu breve. Queste rimasero in voga sino all'invenzione dei blocchi di partenza, gli starting blocks, due appoggi per i piedi costruiti con materiale rigido inventati da George Bresnahau e William Tuttle, insegnanti della State University dell'Iowa, e per la prima volta usati in una competizione internazionale ai Giochi Olimpici di Londra del 1948. Avevano però fatto la loro apparizione già nel 1929 ‒ la stessa stagione in cui si iniziò a cronometrare in decimi di secondo ‒ quando furono utilizzati da George Simpson nel corso di un meeting della NCAA (National colleges athletic association): Simpson corse le 100 yards in 9,4″, stabilendo il record del mondo, che tuttavia la IAAF non ratificò perché gli starting blocks, secondo i suoi dirigenti, tradivano lo spirito della competizione. Nel 1944, invece, l'AAU (American athletics union)omologò il record di Simpson come primato americano.
A parte alcuni aggiornamenti nei materiali e una maggiore semplicità nel modo di fissarli al suolo ‒ determinata anche dalla modifica delle piste ‒ e nell'adattarli alle caratteristiche fisiche dei diversi atleti, i blocchi di partenza sono rimasti sempre sostanzialmente uguali. Oggi assolvono a una doppia funzione: oltre a essere indispensabili punti di spinta per consentire un rapido avvio dello sprint, sono collegati direttamente al sistema di cronometraggio che permette di registrare il tempo di reazione allo sparo determinando, al contempo, se l'atleta ha iniziato la fase di messa in moto in anticipo. Secondo il regolamento gli starting blocks devono essere collegati a un apparato per il controllo delle false partenze e devono esser usati in tutte le gare, sino ai 400 m inclusi, in Olimpiadi, Campionati del Mondo, Coppa del Mondo, campionati continentali, regionali o di area, così come in ogni altra maggiore competizione internazionale.
Disporre di questo strumento, anche in gare nazionali, è divenuto ancora più importante dal 1° gennaio 2003, con l'entrata in vigore della nuova regola IAAF (art. 162, comma 7), che recita: "Qualunque competitore faccia una falsa partenza sarà ammonito. Solo una falsa partenza per gara sarà consentita senza che venga(no) squalificato(i) l'atleta (gli atleti) che l'ha(nno) commessa. Qualunque atleta commetta un'ulteriore falsa partenza sarà squalificato dalla gara". Da questa nuova norma, approvata dal Congresso IAAF di Edmonton nel 2001 al fine di combattere l'abitudine di molti atleti di trasformare la partenza falsa in una vera e propria tattica di gara, discende la necessità per lo starter e i suoi assistenti di non commettere errori, che sarebbero irreparabili, nel giudicare se un atleta abbia o no preceduto il colpo di pistola.
L'apparato elettronico, misurando sia la diminuzione sia qualunque minima variazione della pressione esercitata dal piede dell'atleta sul suo appoggio posteriore, permette di stabilire, immediatamente e senza errori, se questi si è mosso in anticipo rispetto a un tempo di reazione convenuto. Questo è stato fissato dagli esperti delle società di cronometraggio (Seiko, Omega ecc.) in accordo con il settore tecnico della IAAF in 100 millesimi di secondo (regola 161, comma 2): ciò significa che se tra il momento in cui lo starter spara e quello in cui l'atleta inizia a muoversi (lo sprinter, difatti, deve rimanere immobile nella posizione del 'pronti' sino a quando non udrà il colpo di pistola) trascorrono meno di 100 millesimi di secondo un segnale acustico in cuffia avviserà lo starter che un atleta ha anticipato il via. Lo starter, allora, sparerà un secondo colpo di pistola, richiamando gli atleti e ammonendo, o squalificando, il colpevole. Naturalmente vi sono state molte contestazioni sia a questa innovazione, che proibisce l'abuso della partenza falsa, sia al tempo limite di reazione fissato. Atleti quali l'ex campione olimpico dei 100 m, l'inglese Linford Christie, e il primatista del mondo dei 110 m ostacoli, il gallese Colin Jackson, lo hanno messo in discussione, asserendo che attraverso l'allenamento dei riflessi è possibile reagire più rapidamente.
In verità, è opinabile standardizzare la velocità di trasmissione di informazioni dal cervello ai muscoli ed è possibile che nei prossimi anni ulteriori studi di neurofisiologia siano richiesti per accertare la validità del limite dei 100 millesimi di secondo. A questo proposito un'interessante innovazione è stata di recente presentata da Oleg Ryakhovsky, docente di tecnologia al Politecnico di Mosca: consiste in uno strumento che, grazie all'uso di fotocellule sistemate ai due lati della linea di partenza, percepisce il minimo movimento delle mani dello sprinter, sulla posizione del pronti. Le mani, difatti, anticipano ogni altro movimento del corpo: se questo sistema più sofisticato verrà adottato dalle grandi compagnie di cronometraggio, il tempo standard di 100 millesimi di secondo potrà esser ridotto anche sensibilmente.
Direttamente collegato con la pistola dello starter è l'apparato del cronometraggio elettrico automatico che, sulla linea del traguardo, tramite fotocellule e photofinish attribuisce a ogni atleta il tempo impiegato, in centesimi di secondo, e la posizione acquisita.
L'arrivo di una gara di sprint ha sempre costituito il momento più difficile da giudicare e innumerevoli sono state le contestazioni sulla correttezza di un risultato quando ci si affidava al cronometraggio manuale. Il problema che le società specializzate in cronometraggio e photofinish si sono trovate a risolvere al fine di rendere automatica la rilevazione dell'arrivo era legato alla regola della IAAF, secondo la quale per determinare posizione e tempo di un atleta sul traguardo ci si doveva riferire al momento in cui una parte qualunque del suo torso (petto, spalla) raggiungeva la verticale sopra la linea del traguardo (regola 164). Ogni rilevazione era complicata dal fatto che non ci fosse un traguardo da toccare, come nel nuoto, e che testa, collo, braccia, mani, gambe e piedi dell'atleta non dovessero essere presi in considerazione. Una semplice fotografia, o anche una successione di fotografie, non garantiva difatti che essa fosse stata scattata nel momento esatto in cui il torso del corridore si era trovato sulla verticale del traguardo.
Il problema non era soltanto dell'atletica: nella gare di cavalli, dove tra l'altro gli interessi in gioco erano ben più rilevanti per via delle scommesse, la situazione era analoga. La soluzione fu trovata negli anni Trenta del 20° secolo dall'italoamericano Lorenzo Del Riccio, inventore del photofinish, tecnica consistente nella produzione di una serie continua di fotografie, riprese in successione, del passaggio per la linea del traguardo. Anche le sofisticate apparecchiature utilizzate oggi si basano sul principio di Del Riccio ma, a partire dagli inizi del 1990, l'immagine è realizzata elettronicamente invece che fotograficamente, il che ha permesso la lettura immediata, senza necessità di sviluppo, del photofinish, sul quale si può contemporaneamente rilevare il tempo di ciascun concorrente.
In atletica, questo metodo avanzato di cronometraggio e photofinish ‒ che era già stato sperimentato alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932 e fu adottato come sistema primario per la rilevazione dei tempi alle Olimpiadi del 1964 a Tokyo e in via definitiva alle Olimpiadi del 1972 ‒ venne ufficialmente riconosciuto dalla IAAF soltanto nel Congresso del 1976 (entrando in vigore nel 1977), quando fu stabilito che per l'omologazione dei record del mondo nelle gare di sprint (sino ai 400 m inclusi) occorreva che il tempo fosse stato rilevato elettronicamente e che fosse presentato il photofinish.
Il photofinish consente non soltanto l'esatta rilevazione del tempo, ma anche una lettura istantanea a beneficio del pubblico e dei mezzi di informazione, specialmente televisione e Internet. Gli ultimi e più sofisticati strumenti finish/timing rispondono a quest'esigenza, offrendo la lettura del tempo in millesimi di secondo e con immagini colorate ed estremamente nitide. Un caso esemplare è costituito dalla finale dei 100 m donne all'Olimpiade di Atlanta, quando per la seconda volta nella loro carriera Merlene Ottey e Gail Devers tagliarono insieme il traguardo con il tempo di 10,94″. La vittoria fu attribuita alla Devers per una differenza inferiore ai 2 cm che si poté apprezzare soltanto grazie ai sofisticati sistemi di fotografia.
Un altro importante apparecchio di rilevazione impiegato nelle gare di sprint e di ostacoli (sino ai 200 m inclusi) e nei salti in estensione (lungo, triplo) è costituito dall'anemometro. La misurazione della velocità del vento in questo tipo di competizioni è stata per lungo tempo lasciata all'interpretazione dei giudici. Non essendo stato fissato un limite standard alla velocità del vento, i record venivano omologati sulla base di valutazioni soggettive. Nel 1936, invece, la IAAF impose il limite massimo dei 2 m al secondo al fine dell'omologazione dei record e anche per il riconoscimento delle prestazioni personali ai fini statistici.
Da qualche anno nelle competizioni su strada è in uso un nuovo sistema di rilevazione individualizzata, capace di attribuire istantaneamente il tempo impiegato da ciascun concorrente in ogni frazione di gara. Questo metodo, la cui tecnologia si è sviluppata anche in conseguenza della straordinaria diffusione delle gare di maratona e delle altre competizioni su strada in ogni parte del mondo, e che è stato adottato dalla IAAF a partire dai Campionati del Mondo 1999, si basa sull'utilizzo della nuova generazione di transponders: ogni atleta allaccia alle stringhe delle scarpette da corsa un microchip che passando sopra un'antenna posata sulla strada sotto un sottile tappeto trasmette il nome e il tempo del corridore al servizio dati on-line. Attraverso la connessione di quest'ultimo con il CIS (Commentary information system), i tempi di passaggio ‒ in genere ogni 5 km ‒ dei vari atleti in gara sono disponibili per i giornalisti e possono apparire in sovrimpressione sugli schermi televisivi o essere messi in rete a vantaggio dei fruitori di Internet. L'utilizzo dei transponder è andato diffondendosi anche nel cross country, dove l'arrivo degli atleti avviene in così rapida successione da rendere veramente complesso registrare manualmente posizione e risultato di ciascun concorrente.
Ai Mondiali di Edmonton del 2001 è stata sperimentata una nuova generazione di strumenti di misura dei lanci e dei salti, gli Electronic distance measurements, che potranno essere ufficializzati nei prossimi anni. Oggi, la misurazione ‒ per es. con l'EPE (Epson performance evaluation) ‒ avviene attraverso strumenti in campo, capaci di fornire istantaneamente la lunghezza di un salto o la distanza a cui è arrivato un attrezzo (peso, disco, giavellotto, martello). In futuro, attraverso l'uso del satellite, potrà esser istituito un unico centro di misura al di fuori dello stadio con il vantaggio di ridurre sia il numero di attrezzature necessarie sia quello delle persone all'interno del terreno di gara, lasciando in campo soltanto gli atleti. Inoltre, si potranno dimezzare ‒ da 20 a 10 secondi ‒ i tempi di attesa per la diffusione del risultato.
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