Augusto Graziani
Collocare Augusto Graziani nella storia del pensiero economico italiano non è agevole, perché egli non è stato un ‘grande’. È stato comunque uno dei fondatori in Italia della scienza delle finanze, una disciplina autonoma che si costituì alla fine dell’Ottocento estendendo alle decisioni economiche dello Stato la nuova teoria soggettiva del valore elaborata per l’interpretazione del comportamento del consumatore. Graziani con la sua volontà di combinare le teorie più moderne con la tradizione degli economisti classici, però, è stato soprattutto uno straordinario docente, che ha educato alla scienza economica allievi come Carlo Cassola, Angelo Fraccacreta, Lello Gangemi, Guglielmo Masci, Bruno Foà, Giuseppe Ugo Papi e Alberto Breglia.
Augusto Graziani nasce a Modena il 6 gennaio 1865 da Michele e da Ernesta Ancona, e a Modena si laurea in giurisprudenza nel 1886, discutendo con Giuseppe Ricca Salerno una tesi su Concetto e legge del profitto, che nel 1887 sarà la sua prima pubblicazione con il titolo Sulla teoria generale del profitto. Specializzatosi a Pavia presso Luigi Cossa, dal 1887 è incaricato di scienza delle finanze all’Università di Siena, e dal 1892 di economia politica, di cui diventerà ordinario nel 1894. A Siena conosce Achille Loria, al quale lo legherà una lunga amicizia. Partendo da un’impostazione ‘classica’ (alla Mill-Ricardo), è però influenzato dal nuovo indirizzo utilitaristico di Alfred Marshall, che cercherà di contemperare con la teoria del ‘costo di produzione’, non avendo «alcuna esclusività di scuola né di metodo, tutti i metodi essendo efficaci quando adducono allo scopo» (cit. in Fraccacreta 1966, p. XVII). Nel 1899 passa all’Università di Napoli, in quella cattedra di economia politica che era stata di Maffeo Pantaleoni e dove rimarrà fino al pensionamento nel 1935.
Studioso di storia del pensiero economico (Storia critica della teoria del valore in Italia, 1889; Le idee economiche degli scrittori emiliani e romagnoli sino al 1848, 1893; Ricardo e J.S. Mill, 1921; Critica ricardiana, 1926), si occupa di scienza delle finanze e di questioni del lavoro, sebbene la testimonianza più significativa del suo pensiero restino i manuali Istituzioni di scienza delle finanze (1897) e Istituzioni di economia politica (1904), più volte ristampati, nonché i Principii di economia commerciale (1913), che però non avranno altrettanta fortuna.
Durante la Prima guerra mondiale interviene sui temi della finanza straordinaria, venendo a far parte della Commissione per i provvedimenti per il dopoguerra. Ben inserito nell’ambiente intellettuale napoletano, si oppone al fascismo nel nome dei valori liberali e monarchici professati, e firma nel 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce.
Nel 1931 è costretto al giuramento di fedeltà al regime, ma nel 1933 rischia di essere allontanato dall’insegnamento per avervi ignorato i presupposti politico-sociali del fascismo e le istituzioni corporative. È salvato a stento con il trasferimento sull’insegnamento, più defilato, di scienza delle finanze, ma è collocato a riposo nel 1935 per raggiunti limiti di età. Vittima delle leggi razziali del 1938 (ma non ‘discriminato’, seppure solo per la benemerenza di ‘professore emerito’), nel 1943 abbandona Napoli per timore della deportazione in Germania; la morte lo coglie a Firenze il 31 marzo 1944. Di lui restano tre raccolte di saggi (Teorie e fatti economici, 1912; Studi di critica economica, 1935; i postumi Saggi di storia del pensiero economico, 1966) e una postuma Storia delle dottrine economiche. Saggi (1949). Il suo allievo Foà (1990) lo ha ricordato come
sobrio e riservato nei giudizi, modesto nel senso di chi è cosciente del proprio valore e non sente bisogno di dimostrarlo. Era un personaggio che poteva apparire antiquato in qualche rispetto ai suoi studenti, ma che in realtà simboleggiava l’integrità intellettuale e morale di una intera generazione, erede del Risorgimento e dei suoi valori di libertà (p. 485).
Uomo dell’Ottocento più che del ‘secolo breve’, Graziani è stato considerato da Nicolò Bellanca (2000) come un tipico esemplare di economista ‘italiano’. In che senso? La storiografia del pensiero economico non può ridursi a isolare i propri protagonisti entro quei ‘medaglioni’ biografici autosufficienti che tanto piacevano a Luigi Einaudi, se non altro perché ogni personaggio è ‘vittima’ del suo tempo, da cui attinge le tematiche che lo interessano e da cui riceve gli strumenti per interpretarle. Ma egli si muove anche dentro un ambiente geografico preciso, che lo modella e gli assegna nel fare scienza uno ‘stile nazionale’, caratterizzato dall’insieme d’inclinazioni e approcci scientifici che dominano in un luogo determinato e che sono fatti propri dagli economisti che vi abitano, o almeno dalla loro gran parte (perché le ‘pecore nere’ sono comunque sempre presenti). Si costituisce così il realtipo di economista di quella particolare comunità, assolutamente distinto da quello di ogni altra.
Ma quali allora le caratteristiche dell’economista ‘italiano’? Per riconoscerle, Bellanca introduce la distinzione tra ‘analisi’ e ‘idea’, con la prima che s’ingegna a trovare, dato un certo problema teorico, «la risposta migliore (più rigorosa, più sistematica, con maggiori capacità predittive, e così via)» (2000, p. 11), mentre la seconda si accontenta solo di «comprendere quali sono i problemi teorici ‘migliori’ (più rilevanti esplicativamente, più modellizzabili, con maggiori implicazioni sul mondo reale, e così via)» (p. 11), con la conseguenza che non sempre gli economisti che affrontano meglio i problemi (gli ‘operativi’) sono poi quelli meglio attrezzati a risolverli (i ‘teorici’). Ora, nella storia del pensiero economico è doloroso, ma anche doveroso, riconoscere che allo studio dell’analisi ben pochi si dedicano, mentre la gran parte si confina alle ‘idee’ con cui è più facile affrontare i problemi del momento e fare scuola dalla cattedra.
Nel periodo tra il 1880 e il 1940, quello entro il quale si sviluppa la biografia intellettuale di Graziani, la scienza economica subisce una doppia torsione analitica, che la porta dapprima a sostituire al paradigma ‘classico’ del valore-lavoro (che insiste sul processo di produzione) l’innovazione ‘neoclassica’ del valore-utilità (che assegna invece al consumatore la valutazione delle merci), e in seguito ad abbandonare l’idea di un funzionamento armonico del mercato per la mancata corrispondenza dei comportamenti di risparmiatori e investitori. In entrambi i casi, la scienza economica è stata posta davanti a un’alternativa radicale tra marginalisti prima e ‘squilibristi’ poi opposti al mainstream dell’ortodossia classica prima e neoclassica poi.
Ora, è stata caratteristica dell’economista ‘italiano’ tipo, che si confina al piano delle idee perché all’analisi proprio non ci arriva e che riceve comunque dall’esterno, compiere l’acrobazia di non scegliere, contemperando la tradizione con l’innovazione, mediante un eclettismo di maniera che già alla fine dell’Ottocento aveva fatto indispettire Loria (che classico era nato e intendeva restare):
non avendo una tradizione nazionale che siano interessati a difendere, non un credo scientifico che siano chiamati a propagare, [gli economisti italiani] accolgono e contemperano con geniale eclettismo i metodi, i sistemi più disparati, associano il metodo deduttivo all’induttivo, i risultati della scuola classica a quelli della scuola storica, il socialismo cattedratico al liberismo, la scuola austriaca al socialismo vero e proprio (cit. in Bellanca 2000, p. 15).
Tanto moderatismo dottrinario si giustificava anche sulla base della visione della storia del pensiero, nella quale l’economista ‘italiano’ non vedeva stravolgimenti di rotta bensì soltanto avanzamenti ‘a palla di neve’, con il nuovo che supera ma anche incorpora il vecchio, così che tutto si aggiunge e si conserva, «tutti hanno un posto al sole [...] e nessuno manca di offrire qualcosa ai Principi della scienza economica» (Bellanca 2000, p. 16). Certamente gli economisti ‘maggiori’ elaborano teorie ‘generali’ che imporrebbero scelte radicali di campo (del tipo: ‘se p, allora q e non z’), ma per la gestione dei problemi quotidiani basta un sapere economico fatto di sfumature, di mediazioni, di compromessi. Così gli economisti ‘italiani’ possono omaggiare appena le grandi teorie e poi passare ad altro:
poco intransigenti ed assolutistici, contemperano ‘ricette’ e modalità d’intervento eterogenee, senza dogmatismi. Nella consapevolezza che i dogmi non potrebbero comunque essere fondati ‘globalmente’ (p. 22).
All’alba dell’Italia unita, il prototipo di economista ‘italiano’ è stato prodotto da quella scuola di Cossa a Pavia che ha allevato discepoli in batteria, e di cui Graziani è stato tra i migliori, con un identico imprinting di atteggiamento scientifico che Bellanca ha articolato in quattro mosse successive. La prima
è strettamente dottrinaria: bisogna scolpire quei tratti della scienza economica su cui quasi tutti concordiamo, e ridurre al minimo la controvertibilità degli aspetti residui. La seconda mossa ha natura metodologica: occorre documentare che le dispute intorno ai modi e agli strumenti con cui fare teoria sono vane; che si dà un unico metodo, il quale ingloba in sé il meglio di tutti gli approcci unilaterali. La terza mossa possiede carattere storico: si tratta di illustrare che ogni studioso passato delle cose economiche – italiano o forestiero, mediocre come un Pellegrino Rossi o sommo come un David Ricardo – stava dalla stessa parte; era cioè anche lui un economista ben temperato. L’ultima mossa consiste nell’analisi del presente. Non al fine di elaborare nuove spiegazioni di ciò che accade, ma proprio allo scopo opposto di comprovare che niente di veramente nuovo sta succedendo, e che quindi le spiegazioni ‘ricevute’ funzionano benissimo (pp. 197-98).
Proprio così è stato Graziani, economista ‘italiano’ quant’altri mai, alieno dai radicalismi dottrinari, abile conciliatore di teorie contrapposte e gran facitore di ecumenici manuali.
Il contributo di Graziani al pensiero economico italiano prende l’avvio dalla scienza delle finanze di cui è stato tra i fondatori in Italia. Sul finire dell’Ottocento, a fronte della crescita della spesa pubblica, ci si interrogava sulle ragioni di questa maggiore ingerenza dello Stato, di cui l’economia classica non era in grado di dare spiegazione: se le merci valevano il lavoro necessario a produrle, quale poteva essere il valore-lavoro dei servizi pubblici, che non venivano pagati sul mercato ma mediante la contribuzione fiscale collettiva? Nel 1883 Pantaleoni aveva indicato la soluzione, adottando nel suo Contributo alla teoria del riparto della spesa pubblica («Rassegna italiana», 15 ottobre, pp. 25-60) il nuovo valore-utilità, secondo il quale le merci valgono la soddisfazione che arrecano al consumatore. Applicata alla finanza dello Stato, da questa soluzione seguiva che i cittadini pagavano le imposte per la soddisfazione di quei loro bisogni collettivi (come la sicurezza, la viabilità, l’istruzione, la beneficenza) che non potevano essere soddisfatti in forma individuale. Quindi anche in questo caso vi era uno scambio tra la somma delle soddisfazioni (decrescenti) che la collettività riceveva dai servizi pubblici e la somma dei sacrifici (crescenti) che sopportava con il prelievo fiscale, mentre l’equilibrio edonistico sarebbe stato raggiunto quando l’ultima disutilità soggettiva dell’imposta fosse risultata equivalente all’ultimo vantaggio utilitaristico del servizio.
A conferma di questo approccio si era mosso anche Antonio De Viti de Marco con Il carattere teorico dell’economia finanziaria (1888), ma nel frattempo era stata conosciuta in Italia la Grundlegung der theoretischen Staatswirtschaft (1887) di Emil Sax, che sviluppava in maniera articolata la medesima idea. Subito recensita da Ricca Salerno sul «Giornale degli economisti» (Nuove dottrine sistematiche nella scienza delle finanze, 1887, 4, pp. 375-402), essa venne fatta propria da Graziani, fresco di laurea con Ricca Salerno, che se ne servì tra i primi in una memoria Sull’aumento progressivo delle spese pubbliche negli Stati moderni in relazione colla ricchezza della nazione e dei privati (1887; poi riedita con il titolo abbreviato Intorno all’aumento progressivo delle spese pubbliche).
Interpretando l’evidenza empirica della crescita della spesa pubblica, Graziani la giustificava teoricamente nei termini del guadagno e sacrificio di utilità collettiva esposti nel libro di Sax, «il primo libro, il quale tratti come una scienza e non come un’arte, la disciplina riguardante i fenomeni finanziari» mediante l’applicazione della teoria soggettiva del valore introdotta da Carl Menger e «studiata con tanto amore dal Wieser e dal Böhm-Bawerk» (Saggi di storia del pensiero economico, cit., p. 160).
Come per il comportamento del consumatore singolo, anche per la collettività si doveva quindi interpretare il disagio soggettivo di un carico fiscale in aumento come la contropartita dei vantaggi, altrettanto soggettivi, dei servizi pubblici crescenti.
Naturalmente l’equivalenza tra utilità e sacrificio andava riferita soltanto al margine, ossia per l’ultima dose d’imposta rispetto all’ultima dose di servizio, e doveva valere per la totalità dei cittadini, non essendo la condizione di ottimo edonistico finanziario una posizione d’equilibrio per il singolo individuo. Va però detto che la dimostrazione, appena accennata nella memoria del 1887, seguirà subito in Di alcune questioni intorno alla natura ed agli effetti economici delle imposte (1889) diventando il ‘pezzo forte’ delle Istituzioni di scienza delle finanze pubblicate nel 1897. In quest’ultima opera era esattamente stabilito che l’ottimo finanziario poteva essere dato solo nei termini della utilità relativa dei contribuenti, da intendersi come la «differenza che intercede fra l’utilità della soddisfazione del bisogno e l’utilità della ricchezza occorrente a tale soddisfazione» (p. 50), e che solo a questa condizione le imposte potevano risultare un giusto sacrificio, perché privavano gli individui di «quella quantità di ricchezza che volontariamente cederebbero allo Stato per l’appagamento dei bisogni puramente collettivi» (p. 301). Ma lo Stato impositore non avrebbe potuto ricercare il vantaggio dei soli governanti a scapito di quello dei contribuenti. Per Graziani ciò era impossibile se il decisore finanziario era illuminato da quella nuova scienza delle finanze che lui aveva preso a insegnare.
Ma pure sull’avanzamento della scienza economica Graziani intendeva dire la sua. Giusto il principio di giustizia commutativa, lo scambio di due merci A e B esige che siano equivalenti i loro valori (quantità Q per i prezzi p): QApA=QpB. Se poi la merce B è la moneta M, il prezzo della moneta va preso a numerario dello scambio (così che pM sia eguale all’unità) e l’equivalenza si riduce a pA=QM/QA, dove QM è la moneta con cui i compratori domandano la merce e QA la quantità che ne offrono i venditori. Così il prezzo di mercato risulta funzione diretta della domanda DA e funzione inversa dell’offerta OA, dove la prima è a sua volta dipendente dai prezzi a cui ogni compratore è disposto ad acquistare quella merce (pDA, prezzo d’acquisto), mentre l’offerta dipende dai prezzi a cui ogni produttore è disposto a cederla (pOA, prezzo di vendita).
Ma quali sono le determinanti che premono sui rispettivi prezzi di acquisto e di vendita?
Gli economisti classici, che ragionavano dal punto di vista della produzione, non si erano tanto interessati del prezzo di domanda, come invece fecero i neoclassici (William S. Jevons, Menger, Marshall) elaborando una completa teoria del comportamento del consumatore nel soddisfacimento sul mercato dei propri bisogni. È stata questa la teoria del valore soggettivo, misurato
in base all’utilità finale della ricchezza [che è data dal] saggio d’incremento dell’utilità totale per un infinitesimo incremento della quantità di ricchezza, supposte costanti tutte le circostanze (Istituzioni di economia politica, 19082, p. 64).
Sia questa utilità marginale U′A. Il prezzo d’acquisto della merce A, a meno di un coefficiente m che riflette l’utilità marginale (costante) della moneta, «ci fornisce una espressione della sua utilità finale per i consumatori di essa» (p. 73) secondo la quantità che se ne intende domandare: pDA=mU′A, con U′A=f(qDA).
Come si capisce, tutto questo non contraddiceva, ma si aggiungeva alla teoria dell’offerta dei classici, così da poter essere accettata senza difficoltà da un economista ‘italiano’ come il giovane Graziani, che nella Storia critica della teoria del valore in Italia (1889) si era premurato di dimostrare che in Italia c’erano già stati economisti che avevano battuto in anticipo la via della «teorica utilitaria, la quale sembra chiudere il ciclo evolutivo del pensiero italico» (Saggi di storia del pensiero economico, cit., p. 116).
E per il prezzo d’offerta? Gli economisti classici (da Adam Smith a John S. Mill) l’avevano ricondotto all’onere di lavoro richiesto per la produzione, ma in Italia, se pure qualcuno aveva provato a seguirli rinviando alla ‘fatica’ come alla sostanza del valore, la maggior parte degli studiosi ne aveva preso le distanze, e non soltanto per le implicazioni politiche che quel criterio di valutazione sembrava adombrare (‘tutto il valore al lavoro’?), ma per la manifesta incapacità, prontamente rilevata da Loria, di ricondurre i beni-capitali impiegati al solo lavoro passato che li aveva posti in essere.
Era per questo, ricordava Graziani, che nella determinazione del prezzo di offerta «la teorica che trovò in Italia, in questo periodo, maggiori e migliori svolgimenti speciali è [stata] quella del costo di produzione» (p. 106). Essa stabiliva che «il valore normale dei prodotti in condizione di libera concorrenza è proporzionale al loro costo di produzione» (Istituzioni di economia politica, cit., p. 252), mentre per l’eguaglianza bastava aggiungere alla somma dei costi CA, in funzione della quantità della merce A da produrre, un ammontare di profitto secondo un determinato saggio di rendimento, essendo evidente che «chi fa le anticipazioni deve ottenere, in linea normale, una completa reintegrazione dei propri costi insieme ad un profitto, altrimenti non avrebbe interesse a continuare la produzione» (p. 100).
Qui però si poneva una difficoltà, che Graziani pur riconosceva, perché, dipendendo il prezzo del prodotto dal prezzo dei fattori, rimaneva da «chiarire il valore originario degli elementi produttivi adoperati dall’industria» (Teorie e fatti economici, cit., p. 19). E invero, a tanto disvelamento si doveva dedicare la ‘seconda generazione’ di economisti neoclassici (da Philip Wicksteed a Knut Wicksell), elaborando quell’equivalente ‘nella produzione’ dell’utilità marginale che è stata la teoria della produttività marginale, per cui i costi del lavoro e del capitale sono determinati dal rispettivo contributo ‘al margine’ della produzione.
In Italia questo sviluppo teorico è stato soprattutto opera di Enrico Barone (Studi sulla distribuzione, «Giornale degli economisti», s. II, febbraio-marzo 1896, pp. 107-53) e Giovanni Montemartini (La teorica delle produttività marginali, 1899), ma di ciò nulla compare nelle Istituzioni di economia politica, l’altro fortunato manuale che Graziani aveva pubblicato in prima edizione nel 1904. Per Graziani era inconcepibile che la distribuzione del reddito potesse essere ridotta a questione di singole produttività marginali, essendo «impossibile rilevare nel prodotto complessivo la parte ottenuta da ciascun fattore isolato della produzione» (Studi di critica economica, cit., pp. 237-38), ma soprattutto perché dietro la distribuzione del reddito premevano quelle realtà dell’assetto proprietario e della composizione di classe che era stato «pregio della scuola socialista di aver additato, censurando il sistema economico odierno principalmente sotto il rispetto della proprietà privata» (Teorie e fatti economici, cit., p. 32).
Come si vede, le Istituzioni di economia politica erano ben lontane dall’essere un corpus analitico omogeneo. Piuttosto, esse risultavano una giustapposizione di teorie anche divergenti, tenute assieme dal solo convincimento dell’autore che
il progresso scientifico negli ultimi decenni non ha condotto a sovvertire le dottrine prevalenti, ma soltanto a correggerle in parte, e più spesso a completarle o ad accrescerne la precisione e l’esattezza scientifica [così che] ne risulta arricchito il patrimonio scientifico senza che si renunzi ad alcuna precedente conquista, ma anzi se ne aumenti la precisione e l’efficacia (pp. 5-6).
Ma questo non era forse il punto di vista sull’evoluzione storica del pensiero economico che era tipico dell’economista ‘italiano’?
Nella corrispondenza con Loria, che si infittisce negli anni 1920-40,
i due amici, ormai anziani, progressivamente emarginati dalla vita accademica sia per il loro antifascismo che per la loro origine israelitica, si comunicano le letture scientifiche, discutono dei propri progetti editoriali, alludono con estrema sobrietà al dramma privato e pubblico che stavano vivendo (Faucci 1991, p. 181).
E si confrontano con le novità teoriche del Novecento, come la concorrenza imperfetta o la ‘moneta manovrata’, che a loro vedere segnalavano l’abbandono di quella via maestra del procedimento scientifico in economia che per Loria doveva «analizzare prima il fenomeno prescindendo dalla moneta e porre come premessa che questa non può modificare i risultati così ottenuti» (Carteggio Loria-Graziani (1888-1943), a cura di A. Allocati, 1990, p. 201). Era per questo che gli «economisti inglesi recenti male reggono il confronto cogli antichi, Ricardo, Mill, così limpidi e nella loro considerazione astratta fecondi di applicazioni concrete» (p. 208).
Purtroppo quello che i due corrispondenti non arrivavano a comprendere era che un intero mondo di certezze teoriche stava definitivamente scomparendo dal momento che mutavano le caratteristiche materiali del capitalismo. Che la moneta fosse appena un ‘velo’ e il risparmio la premessa necessaria all’investimento erano verità di un tempo, adesso superate dal credito ‘allo scoperto’ e dalla ‘trappola della liquidità’ del denaro posseduto. Banche e tesoreggiamento originavano fasi alterne di sovra- e sottoinvestimento rispetto al risparmio, scandite dalla manovra del tasso di sconto praticata da un’autorità monetaria ‘non più neutrale’, come doveva diventare clamorosamente evidente a seguito della grande crisi economica del 1929. Anche allora il fronte degli economisti si spaccò sulla causa originaria della crisi: dovuta ai troppi investimenti fatti in precedenza, e quindi per la responsabilità del passato (Friedrich A. von Hayek), oppure alla loro mancanza a venire, e cioè per l’aspettativa di futuro (John M. Keynes)?
Posto davanti al dilemma, Graziani, ormai invecchiato, si sottrasse: non arrivava a comprendere né che il risparmio non venisse investito («può escludersi che la moneta accumulata [...] sia tesoreggiata nel nostro mondo occidentale senza essere posta in condizioni di fornire ricchezza ulteriore all’accumulante», Studi di critica economica, cit., p. 261), né che «il credito crei ricchezza ed [...] aumentando la carta circolante si accresca il capitale e si dia impulso alla produzione» (p. 168).
Ma soprattutto era la questione della quantità di moneta, ormai liberata dal vincolo di un contenuto metallico, a intrigarlo. Valendo pur sempre a suo giudizio quella ‘legge di Say’ per cui le merci si scambiano con le merci, un eccesso di moneta di carta (sia statale sia di banca) non doveva finire per provocare un aumento dei prezzi senza alcun effetto sulle variabili ‘reali’? E invece vi erano economisti che adesso si permettevano di sostenere erroneamente il contrario, come quell’Arthur C. Pigou che «in un numero del Times che mi è sfuggito, mi dicono proponga l’inflazione per rimediare alla disoccupazione!» (Carteggio Loria-Graziani, cit., p. 272). Era evidente che ormai Graziani sopravviveva a se stesso, ma la storia aveva proprio bisogno di espellerlo dalla vita con la violenza della persecuzione razziale?
Istituzioni di scienza delle finanze, Torino 1897.
Istituzioni di economia politica, Torino 1904, 19082.
Teorie e fatti economici, Torino 1912.
Studi di critica economica, Roma 1935.
Saggi di storia del pensiero economico, Napoli 1966.
Carteggio Loria-Graziani (1888-1943), a cura di A. Allocati, Roma 1990.
A. Fraccacreta, L’opera e la vita di Augusto Graziani, in A. Graziani, Saggi di storia del pensiero economico, Napoli 1966, pp. VII-XXVI.
M. Fasiani, La teoria della finanza pubblica in Italia, in Il pensiero economico italiano 1850-1950, a cura di M. Finoia, Bologna 1980, pp. 117-202.
A. Castelnuovo, L’insegnamento dell’economia politica all’Università di Siena (1880-1900), in Le cattedre di economia politica in Italia. La diffusione di una disciplina ‘sospetta’ (1750-1900), a cura di M.M. Augello, M. Bianchini, G. Gioli, P. Roggi, Milano 1988, pp. 315-33.
A. Allocati, Introduzione a Carteggio Loria-Graziani (1888-1943), a cura di A. Allocati, Roma 1990, pp. IX-XLVII.
B. Foà, Da Graziani a Keynes: un giovane economista negli anni trenta, «Quaderni di storia dell’economia politica», 1990, 2-3, pp. 483-91.
R. Faucci, Mezzo secolo di discussioni economiche nel carteggio fra Augusto Graziani e Achille Loria, «Quaderni di storia dell’economia politica», 1991, 1, pp. 181-93.
N. Bellanca, La teoria della finanza pubblica in Italia, 1883-1946. Saggio storico sulla scuola italiana di economia pubblica, Firenze 1993, passim.
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