Abstract
Il tema delle autonomie sociali e territoriali permette di indagare l’evoluzione dello Stato costituzionale contemporaneo con una maggiore attenzione nei confronti degli spazi di “autonomia” delle formazioni sociali e degli enti territoriali. In questa sede si approfitta per presentare il dettato dell’art. 2 Cost. nella relazione con il pluralismo sociale e l’art. 5 Cost. in rapporto con il pluralismo istituzionale. Si segnala quindi il ruolo del principio di sussidiarietà orizzontale e verticale nella distribuzione di potere e azione amministrativa nelle forme di governo multilivello, tra locale e Unione europea, quindi tra società che si auto-organizza e istituzioni pubbliche. Per finire con uno sguardo sulle possibilità di una relazione virtuosa tra processi democratici, cooperazione sociale e solidarietà collettiva.
Con questa voce si indaga il ruolo delle formazioni sociali e degli enti territoriali locali nelle trasformazioni dello Stato costituzionale contemporaneo, a partire dal concetto di autonomia. Consapevoli che l’idea e la pratica di autonomia sono attraversate da un fascio di tensioni contraddittorie e conflittuali che hanno a che fare con la natura umana e con la dimensione sociale nella quale si svolge. È un nervo scoperto e un punto critico che necessita di una particolare attenzione alla prospettiva storica nell’evoluzione filosofica, politica e giuridica del rapporto tra individui, società ed istituzioni.
Il termine autonomia è infatti un «vocabolo di origine filosofica, transitato nella scienza e nella dottrina politica e poi nella scienza giuridica», che ha finito per assumere «tante diverse significazioni, spesso anche tra loro contrastanti» (Giannini, M.S., Autonomia pubblica, in Enc. Dir., IV, Milano, 1959, 356). Autonomia significa «porre da sé la legge a se stesso» (Mortati, C., La persona, lo Stato e le comunità intermedie, Torino, 1959, 11) e la stessa etimologia greca è esplicita: αὐτός (stesso), e νόμος (legge), anche nel senso di governarsi da sé, tema di νέμω «governare»: αὐτόνομος, «che si governa da sé». La condizione di autonomia di una persona è quella che fonda la libertà individuale in senso giuridico, autonomia dei privati come «indipendenza da volontà estranee alla propria», che entra però in collisione con altre volontà dal momento che l’essere umano «ha bisogno della società dei suoi simili per divenire pienamente se stesso» (Mortati, C., La persona, cit., 15 e 11). Ed è questo il passaggio che inquadra il concetto di autonomia nel conflitto tra diritto privato e diritto pubblico, legando lo spazio dall’indipendenza individuale alla sfera sociale ed istituzionale. Si parte dall’assunto che la natura umana è sospesa tra diverse inclinazioni e oscilla tra una condizione di isolamento e asocialità e una immediatamente sociale e politica. Seguendo la vocazione sociale della natura umana si rintraccia quella tradizione filosofica che dalle antiche origini nella Politica di Aristotele (IV sec. a.C.) attraversa la prima modernità con David Hume che pensa le istituzioni pubbliche e sociali come modello di azioni umane positive, per il soddisfacimento individuale e collettivo (Trattato sulla natura umana, 1739-40) e secondo altre prospettive intercetta il Tocqueville (1805-1859) teorico dei corpi intermedi e delle libertà, senza mai dimenticare l’insegnamento di Immanuel Kant, tra libertà e repubblica (G. Duso, Idea di libertà e costituzione repubblicana nella filosofia politica di Kant, Monza, 2012). In questo percorso si inserisce il pensiero giuridico e politico anti-centralista e proto-federalista, critico di una lettura monista della sovranità, di Johannes Althusius (1563-1638), calvinista monarcomaco e sindaco di Emden (dal 1604), con attenzione a strumenti di partecipazione politica che vincolino i governanti e valorizzazione di legami federati tra comunità territoriali, articolazione dei poteri in forma sussidiaria (v. infra, § 4), sia verticale (tra le istituzioni) che orizzontale (nella società).
Un filo rosso che attraversa l’esperienza costituente statunitense, le “civili libertà” indagate da Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) e quindi il potenziamento di autonomie comunali, federalismo democratico ed emancipazione sociale nei «dissidenti del Risorgimento» italiano (Dotti, U., I dissidenti del Risorgimento. Cattaneo, Ferrari, Pisacane, Roma-Bari, 1975). Così si arriva alle teorie del federalismo integrale novecentesco, dal carattere sia “personalista” che “territoriale”, con Emmanuel Mounier, Jacques Maritain, Carl J. Friedrich, Mario Albertini, Alexandre Marc, Altiero Spinelli, Daniel J. Elazar, fino al legame «liberare e federare» (1942) sostenuto da Silvio Trentin, a partire dal Comune come ente locale di autogoverno.
Secondo una prospettiva più giuridica, nel passaggio di secolo scorso, si afferma la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici con Santi Romano (1865-1947), l’istituzionalismo giuridico di Maurice Hauriou (1856-1929) e Léon Duguit (1859-1928), in dialogo con la definizione del droit social di Georges Gurvitch (1894-1956) e in generale di quelle teorie pluralistiche del diritto che si proponevano di andare oltre l’unitarietà sovrana dello Stato (Costa, P., “Oltre lo Stato”: teorie “pluralistiche” del primo Novecento, in Soc. e pol. soc., V, 2002, 11 ss.). Per giungere all’emergenza di un costituzionalismo delle sfere civili e sociali, come alternativa alla teoria costituzionale stato-centrica nel successivo passaggio di secolo (Teubner, G., La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione, Roma, 2005, 105). Nel mezzo del Novecento ecco la voce “Autonomia” di Santi Romano (1945) «che ben riflette la fase di transizione della parola dall’orizzonte monistico, che la aveva negata appiattita su “autarchia”, a una prospettiva pluralistica» (Cazzetta, G., Pagina introduttiva. Autonomia: per un’archeologia del sapere giuridico tra Otto e Novecento, in Quaderni fiorentini, 43, Milano, 2014, t. I, 17).
Da questa premessa deriva da un lato la centralità da sempre assunta dalla dimensione sociale in cui si svolge la personalità degli individui, aderendo e partecipando alle diverse “formazioni sociali” che hanno questo intento di promozione sociale dell’essere umano e della sua personalità (art. 2 Cost.): famiglia e scuola, minoranze linguistiche e rappresentanze degli interessi, organizzazioni professionali e sportive, più tradizionali confessioni religiose e nuovi movimenti religiosi, le diverse forme di associazionismo, partiti e movimenti politici e sindacali, fino ai portatori di interessi diffusi, alle collettività di consumatori, comunità informali di scioperanti, ecc. Dall’altra si afferma la rilevanza degli enti territoriali locali (art. 5 Cost.), dove si esercita una forma di governo di prossimità che spesso rappresenta lo spazio politico-istituzionale più immediato nel quale singoli e associati contribuiscono alla definizione delle proprie esperienze giuridiche, istituzionali, politiche e al tentativo di autogoverno di più o meno ampie collettività di essere umani. Nel senso di quell’autonomia pubblica intesa come «autoregolazione di attività e di comportamenti» che genera «autodeterminazione di collettività relativa all’esercizio di poteri pubblici» (Lavagna, C., Istituzioni di diritto pubblico, IV ed., Torino, 1979, 879).
Come guida metodologica si segue il celebre assunto di Fernand Braudel, che «ogni realtà sociale è, per prima, cosa spazio» (Introduzione a Wallerstein, I., Il sistema mondiale dell’economia moderna, Bologna, 1978, 9). Pratiche sociali e dimensioni spaziali si influenzano reciprocamente e «il diritto degli Stati si trova perciò nella necessità di inseguire la dilatazione spaziale degli scambi» sociali ed economici (Irti, N., Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, 2001, 10), verso il basso (locale) e verso l’alto (globale). Per questo l’attenzione rivolta alle diverse forme delle autonomie sociali e territoriali così intese diviene un prisma attraverso il quale poter rileggere l’evoluzione e le tendenze dello Stato costituzionale contemporaneo, a partire dagli artt. 2 e 5 Cost. che qualificano il rapporto tra persona, autonomie sociali e locali come criteri guida nei princìpi fondamentali ordinanti l’assetto repubblicano. Con la consapevolezza del Costituente che in tutte e due gli articoli in questione utilizza il verbo «riconoscere» riferito alla Repubblica: per “garantire” i diritti inviolabili anche nelle formazioni sociali (art. 2 Cost.) e per “promuovere” le autonomie locali (art. 5 Cost.). È quindi la Repubblica che riconosce e testimonia come preesistenti il pluralismo sociale e le autonomie territoriali, in una dialettica aperta tra individuo concretamente situato, auto-organizzazione sociale e istituzioni pubbliche, che si innesta nella relazione tra “pluralismo” e “decentramento” e nella possibilità di articolare il primo tra pluralismo delle “formazioni sociali” e delle “istituzioni pubbliche”: pluralismo “sociale” e “istituzionale”.
Così l’art. 2 Cost. tiene insieme il doppio profilo della «Repubblica» che da una parte «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», inteso come essere umano singolare eppure socialmente situato «nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità», assumendo la socialità della vita individuale come elemento qualificante la formazione della persona. Dall’altra richiede «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» come corollario di un ordinamento costituzionale garantista e solidale nel rapporto tra individui, società e istituzioni repubblicane, affermando e garantendo i princìpi personalista e pluralista, valorizzando le differenze e richiedendo di adempiere ai doveri solidaristici, in una tensione con l’art. 3, co. 2, Cost., sul quale si tornerà a breve (cfr. Doveri costituzionali).
La scelta pluralistica del Costituente repubblicano è stata forse una delle principali innovazioni istituzionali, soprattutto riguardo le situazioni di libertà in favore delle formazioni sociali (cfr. Barbera, A., Art. 2, in Comm. Cost. Branca, I, Principi fondamentali, Bologna-Roma, 1975). Le culture politico-istituzionali del patto costituente, pur nelle loro ampie e conosciute diversità e divergenze, trovarono infatti un terreno comune sul rifiuto della torsione autoritaria e liberticida subìta dall’ordinamento liberale monoclasse nel ventennio fascista. Contro quel «totalitarismo statuale» (Romano, Sal., Autonomia privata ( appunti ), Milano, 1957, 22), fondato su di una visione organicistica e totalizzante del potere sovrano che comprime l’individuo e l’intera società nel monismo di un partito-Stato e nella rigida e gerarchica organizzazione delle sue strutture corporative.
Per questo il potenziamento della dimensione sociale dell’individuo, con annessa la tutela dei diritti inviolabili del singolo anche nelle “formazioni sociali”, e il “riconoscimento” di questo ampio spazio di autonomia individuale e collettiva, è il punto di incontro delle diverse visioni costituzionali presenti nelle tradizioni giuridico-politiche del “compromesso costituente”. Per poter valorizzare l’auto-organizzazione spontanea della società, nel soddisfare interessi che possono essere particolari e parziali, come diffusi e collettivi, ma perseguiti da una collettività di cittadini in formazioni sociali dal carattere «umanistico» («lo sviluppo della personalità individuale») riconosciute e garantite dalla Costituzione nel quadro degli interessi generali tutelati dalle istituzioni pubbliche (Rossi, E., Le formazioni sociali nella Costituzione italiana, Padova, 1989, 119). Questa l’impostazione classicamente liberale delle libertà associative, a partire dalla libertà d’impresa a tutela di un individualismo proprietario che protegge le sue sfere di autonomia e i suoi liberi spazi associativi dall’ingerenza dei poteri statali. Quindi le culture politiche della sinistra di impostazione socialista e marxista, con le loro plurime differenze, che miravano a un potenziamento delle istituzioni di autogoverno del movimento contadino ed operaio, tramite il diritto alle coalizioni sindacali, mutualistiche e cooperative intese come processi di trasformazione collettiva ed emancipazione economica, sociale e politica delle classi subalterne. A fianco ecco le tendenze minoritarie come l’opzione repubblicano radicale, a tratti vicina a quella anarco-libertaria, che rivendicava porzioni di autogoverno sociale da sottrarre alle istituzioni statuali. Quindi l’approccio tradizionalista del personalismo cattolico che intende i “corpi intermedi” come “formazioni sociali” del tutto separate dalle istituzioni statuali, vere e proprie “comunità naturali”, a partire dalla famiglia, che l’art. 29 Cost. definisce «società naturale» (e non “comunità”), col suo «carattere primigenio», «preesistente allo Stato» (Mortati, C., Note introduttive ad uno studio sulle garanzie dei diritti dei singoli nelle formazioni sociali, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, III, Milano, 1978, 1576).
Sono tutte dottrine politiche e visioni istituzionali precedenti la cesura fascista. Saranno in particolare le posizioni dei democristiani e dei comunisti – i due partiti più strutturati, seppure nella loro antitetica visione della società (dalla naturalità del comunitarismo solidarista dei primi, alla storicità dell’antagonismo di classe dei secondi) – che finiranno per innervare il testo costituzionale e quindi innovare le pratiche giuridico-istituzionali dell’ordinamento repubblicano (Ridola, P., Democrazia pluralistica e libertà associative, Milano, 1987, 197). Ma per questa innovazione bisognerà aspettare l’effervescenza del conflitto sociale e il protagonismo dei movimenti civici e sociali di partecipazione democratica degli anni Sessanta del Novecento, visto che il «deserto costituito dalla società italiana dopo vent’anni di dittatura» permette solo ai partiti politici di svolgere una funzione decisiva nella partecipazione delle masse, per un altro lungo ventennio (Farneti, P., Il sistema dei partiti dalla Costituzione ad oggi, in AA.VV., Attualità e attuazione della Costituzione, Roma-Bari, 1979, 14).
Lo stesso la previsione dell’art. 2 Cost. è da leggersi come una clausola «aperta» nella quale sono ricompresi tutti gli “aggregati umani” e le strutture collettivo-comunitarie (Levi, G., Le formazioni sociali, Milano, 1999, 23), fermo restando lo stretto legame con il secondo comma dell’art. 3 Cost., nella promozione di una “eguaglianza sostanziale” che qualifica come aperto alla trasformazione l’assetto democratico della Repubblica. La mediazione tra le diverse forze sociali si fonda su un «pluralismo partecipativo, ma connesso ad un impianto garantistico che ne preserva il carattere conflittuale e diffuso», orientato in senso dinamico, con il «rifiuto di un riconoscimento selettivo» delle formazioni sociali e la tutela della “concreta” dignità umana del singolo nella società e nelle singole formazioni sociali (Ridola, P., Democrazia pluralistica, cit., 264 e 164). Perché la libertà di associazione garantisce i diritti del singolo e trova il limite nella legge penale e nel divieto di poteri occulti (artt. 2, 18 Cost. e l. 25.1.1982, n. 17). È questa una lettura che si apre alla possibilità di pensare «sicurezza, diversità, solidarietà in luogo di libertà, eguaglianza e fraternità» (Denninger, E., Diritti dell’uomo e legge fondamentale, Amirante, C., a cura di, Torino, 1998, 16), come princìpi guida degli Stati costituzionali pluralistici, soprattutto nel riconoscimento della differenza sessuale, nell’applicazione materiale di una solidarietà attiva e cooperativa, in società sempre più multiculturali.
È innegabile che pur in questa tensione dinamica del pluralismo sociale ci sia stato nella storia repubblicana un deciso protagonismo, tra «libertà e privilegio» (Rescigno, P., Immunità e privilegio, 1961, in Id., Persona e comunità, Bologna, 1966, 335), dell’associazionismo sindacale (art. 39 Cost.) e dei partiti politici (art. 49 Cost.) nella loro funzione di mediazione rappresentativa, che nella storia costituzionale repubblicana è spesso sfociato nel rischio neocorporativo e gerarchico del “patto dei produttori” da un lato e nel blocco “partitocratico” dall’altro, con la tendenza a sacrificare la dimensione aperta, orizzontale, al contempo sia garantistica delle minoranze, che trasformativa del pluralismo sociale.
Per evitare l’esclusivo monopolio della rappresentanza politica e sindacale al livello di Stato-apparato, a scapito del pluralismo sociale di collettività di cittadini che si auto-organizzano nella diffusione dei poteri dello Stato-comunità, in relazione con gli spazi politici locali di governo di prossimità, il Costituente repubblicano “riconosce”, anche qui, le «autonomie locali» (al plurale), come recita l’incipit dell’art. 5 Cost.: «la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali», quindi attua il decentramento amministrativo e «adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». E per autonomie locali l’art. 5 Cost. intendeva comune, provincia e regione, senza differenziare tra i diversi livelli.
È una ulteriore manifestazione di quella tensione costituzionale tra “pluralismo” e “decentramento” (v. supra, § 1), sulla quale si interroga autorevole e avvertita dottrina giuridica. Da una lato, quella maggioritaria, che articola la «distinzione tra “decentramento” e “pluralismo”: l’uno articolazione periferica dello Stato, l’altro risultante dagli impulsi spontaneistici della comunità sociale: tuttavia entrambi ritenuti dallo Stato rilevanti, pur nella diversità dei gradi e delle forme dei suoi interventi in relazione ai propri fini» (Mortati, C., Note introduttive, cit., 1575). Dall’altro quell’altrettanto sensibile pensiero giuridico che già negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento concepisce l’ordinamento costituzionale come un articolarsi multilivello di “formazioni sociali”, con la Repubblica a costituire «la massima formazione sociale, che permette a tutti i soggetti dell’ordinamento di svolgere la propria personalità individuale» (Benvenuti, F., L’ordinamento repubblicano, Venezia, 1975, 57), legando “libertà attiva” e “partecipazione” del singolo in un assetto costituzionale nel quale l’autonomia territoriale è «momento essenziale dell’ordinamento repubblicano» (Benvenuti, F., L’autonomia regionale, momento essenziale dell’ordinamento repubblicano, 1955, in Id., Scritti giuridici, II, Milano, 2006, 1265). Con ciò tessendo un legame interpretativo tra gli artt. 2 e 5 Cost. in stretta connessione con il principio democratico sancito all’art. 1 Cost., nel senso di un cittadino, come singolo e nelle sue formazioni sociali, titolare di veri e propri poteri di partecipazione che dall’ente locale, inteso come dimensione istituzionale di autogoverno, incidono nei diversi livelli di governo e amministrazione.
Quest’ultima è una interpretazione costituzionale evolutiva e molto lungimirante, perché pensata nel periodo della mancata (e a partire dagli anni Settanta comunque lenta) attuazione di quel principio fondamentale nel quale «la dichiarazione che la Repubblica non solo riconosce, ma anche “promuove”, le autonomie locali, consente di precisare che la unità e la indivisibilità della Repubblica non possono considerarsi principio direttivo positivo, ma solo “limite” al riconoscimento delle autonomie (che costituiscono invece il principio positivo)» (Esposito, C., Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione, in Id., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 73). Un “principio positivo”, quello delle autonomie locali, che già agli albori del patto costituente permetteva di superare l’angusto spazio previsto dal precedente ordinamento statutario, con la sua organizzazione autarchica degli enti locali limitati dentro il potere sovrano dello Stato unitario. Nella Repubblica si “riconosce” e “promuove” una vera e propria autonomia di indirizzo politico e amministrativo in favore di tutti gli enti territoriali, dalle regioni ai comuni, per i quali si «identifica una posizione attiva, funzionale di produzione giuridica» (Sica, V., Contributo alla teoria della autonomia costituzionale, Napoli, 1951, 81).
Come è stato ricostruito (Bifulco, R., Art. 5, in Bifulco, R. - Celotto, A. - Olivetti, M., a cura di, Commentario alla Costituzione, I, Torino, 2006, 144) è l’interpretazione delle “autonomie locali” intese come «comunità locali stanziate su un territorio» che ha permesso a dottrina e giurisprudenza costituzionale di affermare la visione comunitaria dell’autonomia territoriale dotata di poteri pubblici, nel senso di quel pluralismo istituzionale, politico-territoriale, che dal comune arriva allo Stato, in cui l’unità dell’ordinamento può essere concepita con una nuova cultura costituzionale che metta l’accento più sul “coordinamento” che sulla “supremazia” di uno Stato sempre meno monolitico (Griglio, E., Principio unitario e neo-policentrismo. Le esperienze italiana e spagnola a confronto, Padova, 2008, 413). Mentre negli anni Novanta del Novecento si assisterà anche a un potenziamento delle autonomie funzionali, come università, camere di commercio e istituzioni scolastiche, nella trasformazione dei rapporti tra pluralismo sociale e i diversi livelli di governo (Poggi, A., Le autonomie funzionali «tra» sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale, Milano, 2001, 169, ss.).
Eppure bisognerà aspettare le riforme legislative a Costituzione invariata di quegli stessi anni (dalla l. 8.6.1990, n. 142 e l. 7.8.1990, n. 241, alle cd. Leggi Bassanini, a partire dalla l. 15.3.1997, n. 59) e poi la l. cost. 18.10.2001, n. 3 (modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), per vedere in parte riconosciute le intuizioni di Feliciano Benvenuti ricordate poco sopra. Così la nuova dicitura dell’art. 114 Cost. sembra riprendere l’ottica sussidiaria tra i diversi livelli territoriali di governo e, come sostiene dottrina maggioritaria, costituzionalizza un pluralismo istituzionale paritario articolato in comuni, provincie, città metropolitane, regioni e Stato: con una «sostanziale equiordinazione dei soggetti componenti la Repubblica […] caratterizzati non già da una differenziazione gerarchica, bensì da una differenziazione funzionale», all’interno dell’«unità giuridica ed economica» dell’ordinamento repubblicano (Caravita, B., La Costituzione dopo la Riforma del Titolo V. Stato, regioni, autonomie tra Repubblica e Unione europea, Torino, 2002, 34).
Come argomenterà la stessa Corte costituzionale (C. cost., 12.4.2002, n. 106) «le idee sulla democrazia, sulla sovranità popolare e sul principio autonomistico che erano presenti e attive sin dall’inizio dell’esperienza repubblicana» hanno «trovato oggi una positiva eco nella formulazione del nuovo art. 114 della Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare». La l. 7.4.2014, n. 56, ha ulteriormente modificato la materia a Costituzione ancora invariata, definendo le province «enti territoriali di area vasta».
La stessa l. cost. 18.10.2001, n. 3, introdurrà il principio di sussidiarietà verticale/istituzionale, con l’intervento sussidiario (di aiuto, da subsidium) dal Comune allo Stato, nell’esercizio delle funzioni amministrative (art. 118 Cost., primo comma: «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza»; prevedendo le città metropolitane come ulteriore autonomia locale). Quindi quello di sussidiarietà orizzontale/sociale, con le istituzioni pubbliche che sostengono l’auto-organizzazione sociale per «attività di interesse generale», al quarto e ultimo comma dello stesso articolo («Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà»). La Corte costituzionale, tessendo una lettura sistematica e “gerarchica” della riforma del Titolo V, ha interpretato il riparto di competenze legislative stabilito dall’art. 117 Cost. alla luce di un’«attitudine ascensionale» del principio di sussidiarietà dell’art. 118 Cost., nel senso di attrarre verso l’alto dello Stato competenze amministrative e legislative, quando «l’istanza di esercizio unitario trascende anche l’ambito regionale», ipotecando con ciò una lettura “discendente” del principio di sussidiarietà (C. cost. 25.9-1.10.2003, n. 303).
Resta difficile definire in modo univoco la “sussidiarietà”, anche nel solo ambito amministrativo, alla luce della necessaria esigenza di essere bilanciata «con altri principi costituzionali altrettanto generali», a partire da quello di eguaglianza (Rescigno, G.U., Principio di sussidiarietà orizzontale e diritti sociali, in Dir. Pubbl., VIII, 2002, 1, 44), nella garanzia dei diritti sociali, dinanzi alle trasformazioni del Welfare State verso una Welfare Society. In questa tensione gli spazi della cooperazione mutualistica tra pari possono mettere nuovamente in relazione pluralismo e solidarietà, seguendo una lettura garantistica della sussidiarietà. D’altra parte l’intervento pubblico può retrocedere in una condizione “sussidiaria” a quella privata, rimanendo ostaggio di rapporti di potere cristallizzati, in società fortemente attraversate da poteri informali di una malavita organizzata che assedia i diversi livelli istituzionali e ricatta i singoli individui.
Non è questo il contesto per ricostruire la ricchezza plurisecolare del principio sussidiario nei suoi fondamenti teorici e svolgimenti pratici, nel tentativo di regolare in modo processuale il rapporto – di conflitto e integrazione – tra società e istituzioni, pluralismo e unità, autonomia e centralismo. Si è ricordata la sua origine (v. supra, §1): Johannes Althusius, intorno al XVI secolo dentro e contro la formazione degli Stati nazione europei, per sfociare nel filone federalista (sul quale, si veda la voce Federalismo). Poi il pensiero liberale che pone l’accento sull’individuo proprietario titolare di libertà economiche, in cui l’intervento dello Stato è da considerarsi “sussidiario” a quella libertà. Per arrivare alla dottrina sociale della tradizione cattolica (anche con l’Enciclica di Pio IX «Quadragesimo anno», 1931) che postula la centralità della persona nelle sue comunità naturali, a partire dalla famiglia, rispetto allo Stato (Tosato, E., Persona, società intermedie, stato. Saggi, Milano, 1989). E quest’ultima è una sensibilità che ritroviamo formulata, in chiave organicista, nell’o.d.g. presentato da Giuseppe Dossetti il 9 settembre 1946, senza essere messo ai voti della Sottocommissione nell’Assemblea Costituente (D’Atena, A., Costituzione e principio di sussidiarietà, in Quad. cost., 2001, 1, 13).
Sarà l’evoluzione del processo di integrazione continentale, con il Trattato di Maastricht (1992), a introdurre il principio di sussidiarietà (art. 5 TUE) come criterio regolatore dei rapporti tra Stato membro e intervento delle istituzioni Ue, a patto che non sia un settore già di competenza esclusiva dell’Unione, gli obiettivi non possano essere sufficientemente raggiunti dal singolo Paese e l’azione Ue sia il valore aggiunto per l’ottenimento di un risultato migliore. Eppure autorevoli studiosi proprio in quegli anni osservano quanto l’idea della sussidiarietà sia stata giudicata come un «principio ambiguo con almeno trenta diversi significati, programma, formula magica, alibi, mito, epitome della confusione, foglia di fico» (Cassese, S., L’aquila e le mosche. Principio di sussidiarietà e diritti amministrativi nell’area europea, in Foro It., 10, 1995, 373 ss.).
Proprio nelle relazioni della multilevel governance continentale e nei rapporti a volte conflittuali tra individui, società e istituzioni sembra aprirsi lo spazio per un ripensamento di pratiche sussidiarie che permettano di potenziare tanto una democrazia diffusa tra diversi livelli di governo, che un certo grado di autonoma regolazione ed organizzazione delle cittadinanze nelle loro relazioni sociali, inseguendo quel processo di «socializzazione delle istituzioni dello stato» (Berti, G., Interpretazione costituzionale, Padova, 1990, 49). Nella comune prospettiva di distribuire verso il basso, e contemporaneamente aprire al conflitto e alla trasformazione, i poteri pubblici e privati, mettendo in tensione questa sempre artificiale, precaria ed evolutiva separazione pubblico-statuale/privato-mercatista. Perché nelle democrazie pluralistiche, ancor più dinnanzi alla progressiva innovazione tecnologica, lo spazio pubblico non è da intendersi come immediatamente statale e neanche solamente una sommatoria di dimensione “private”, ma spazio collettivo di inedite esperienze giuridiche e istituzionali in grado di «ridare centralità al legame sociale, mettendo in discussione il modello individualistico, senza però negare le libertà della persona che, anzi, conquistano più efficaci condizioni di espansione e inveramento per il collegamento con i diritti fondamentali» (S. Rodotà, Postfazione. Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, in M.R. Marella, a cura di, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, 2012, 325).
In conclusione, azzardando uno sguardo verso il presente e il futuro è possibile riarticolare la triade dalla quale eravamo partiti – autonomia, società, istituzioni – declinandola in modo da pensare gli spazi di una democrazia policentrica, nella valorizzazione della cooperazione sociale e mantenendo un contesto inclusivo di solidarietà, basato sulla fiducia tra cittadinanze e istituzioni pubbliche. Sono le frontiere teoriche di un nuovo costituzionalismo sociale dinanzi alle trasformazioni giuridiche globali (Teubner, G., Nuovi conflitti costituzionali. Norme fondamentali dei regimi transnazionali, Milano, 2012), in particolare nel contesto europeo dove la sovrapposizione tra dimensioni locali e globali accompagna la nuova lex mercatoria nell’«avvento della tecnodemocrazia» (Galgano, F., Lex mercatoria, [1976], Bologna, 2001, 240 ss.). È questo un sentiero che permette di recuperare le origini costituenti, seppure minoritarie, di una certa tradizione repubblicana con gli insegnamenti di Feliciano Benvenuti, Adriano Olivetti, Altiero Spinelli, Silvio Trentin e la loro attenzione alla persona e alle sue libertà nelle dimensioni sociale e di autogoverno locale, in un’ottica processuale federale, solidale e cooperativa, di distribuzione multilivello di poteri e di garanzie delle minoranze. Ma è anche una prospettiva dalla quale rileggere il pluralismo giuridico e istituzionale (v. supra, §1) post o sovrastatale (Cartabia, M., Il pluralismo istituzionale come forma della democrazia sovranazionale, in Pol. Dir., 2, 1994, 203 ss.). Assumendo la “svolta spaziale” negli studi giuridici, Spatial Turn in Legal Studies (Blomley, N.K., Law, Space and the Geographies of Power, New York, 1994), come occasione per pensare tra loro collegate le istanze di libertà ed autonomia con il riconoscimento di altri statuti proprietari e di protezioni sociali all’altezza dei rischi di una società frammentata, tecnologicamente avanzata e continuamente attraversata da poteri oscuri e incontrollabili di una malavita organizzata che sembra imporsi come vera “formazione sociale” transfrontaliera.
È questa la scommessa di tornare ad indagare l’evoluzione dei rapporti sociali e giuridici dell’essere umano concretamente situato nei diversi livelli di governo a partire dall'affermazione di un diritto alla città e ad una nuova cittadinanza sociale che sappia tenere in debito conto l’aspirazione ad un riconoscimento universale, e quindi sovrastatale, della dignità umana e dell’emancipazione individuale nella solidarietà collettiva.
Artt. 1, 2, 3, 5, 18, 29, 39, 49, 114, 118 Cost., articolo 5 TUE
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