Autorita
di Augusto Del Noce
Autorità
sommario: 1. Eclissi dell'idea di autorità e crisi del mondo contemporaneo. 2. Autorità e potere. 3. Autorità e rivoluzione. 4. L'Occidente e il tramonto dell'autorità. 5. I totalitarismi e la negazione dell'autorità. 6. Lo spirito borghese e l'autorità. 7. L'idea di autorità nell'età liberale e nel primo dopoguerra. 8. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Eclissi dell'idea di autorità e crisi del mondo contemporaneo
L'eclissi dell'idea di autorità è tra i tratti essenziali del mondo contemporaneo: ne è anzi, certamente, il tratto più immediatamente percepibile. Si possono quindi considerare significativi al riguardo non tanto gli studi dedicati all'argomento, per la maggior parte, del resto, inadeguati, quanto piuttosto gli aspetti dello stesso mondo contemporaneo, assunto a oggetto di riflessione. E ciò nella misura in cui si è disposti a leggerli con la mente libera dal presupposto dogmatico della superiorità o dell'irreversibilità del presente, o della sua considerazione come punto di partenza di un processo di liberazione che avverrà nel futuro.
È inutile soffermarci sulle varie metafore con cui l'eclissi dell'idea di autorità può essere espressa, e che si compendiano poi in una sola: ‛Scomparsa dell'idea del Padre'; o sulla descrizione dei modi in cui si manifesta (crisi della famiglia, della scuola, della Chiesa). Per intendere la profondità del rovesciamento e misurarne l'ampiezza, basterà riflettere sull'opposizione tra l'etimo del termine ‛autorità' e il significato che tale termine ha oggi generalmente assunto. Auctoritas deriva infatti da augere, ‛far crescere'. Per comune origine etimologica è connesso con i termini Augustus (colui che accresce), auxilium (aiuto che viene dato da una potenza superiore), augurium (termine anch'esso di origine religiosa: voto per una cooperazione divina all'accrescimento). Se si prendono in considerazione altre lingue, si constata una struttura ideale comune. Così il tedesco auch (anche) è l'imperativo del gotico aukan (accrescere). Nell'etimologia di autorità è dunque inclusa l'idea che nell'uomo si realizza l'humanitas quando un principio di natura non empirica lo libera dallo stato di soggezione e lo porta al fine che è suo, di essere razionale e morale; la libertà dell'uomo, come potere di ‛attenzione' e non di ‛creazione', consiste infatti nella capacità di subordinarsi a questo superiore principio di liberazione. Oggi, invece, la sensibilità corrente associa per lo più l'idea di autorità a quella di ‛repressione', la fa coincidere, al contrario di ciò che l'etimo esprime, con ciò che arresta la ‛crescita', che vi si oppone. Importa quindi osservare come l'eclissi attuale dell'idea di autorità coincida con il maggiore tra i rovesciamenti che siano stati operati nella storia. Una verifica di ciò si può avere guardando i risultati finora raggiunti dalle mire distruttive della ‛rivoluzione totale'. Gli interrogativi che ne conseguono sono: se questa pars destruens della rivoluzione decreti lo scacco irreversibile dell'idea di autorità, o se invece vi siano segni che permettano di parlare di un'eclissi anziché di un tramonto; se, posta l'irreversibilità, essa segni un processo verso il nichilismo, o se gli aspetti deteriori della situazione presente non siano invece spiegabili come relativi a una crisi di crescenza.
È possibile cogliere nella luce più chiara la sostanza tradizionale dell'autorità, volgendo l'attenzione in modo particolare alla famiglia, per la compresenza in essa di generazione fisica e morale: padre e madre sono veramente autori in senso fisico, attraverso la generazione fisica, e ‛auttori' - nel significato che Vico dà a questo termine - attraverso l'educazione, intesa come processo di elevazione dalle esperienze immediate dello spirito all'apprendimento dell'ordine dei valori.
Dalla riflessione sul paradigma della famiglia tradizionale deduciamo, dunque, che si ha autorità in quanto si è ‛auttori'; ma i genitori, chiaramente, non possono essere tali che in quanto ‛consegnano' e in quanto aiutano. Ora, nel mondo contemporaneo, l'unità di generazione e di educazione è andata infranta. Ciò che i genitori possono ‛consegnare' moralmente non è più visto come valore, bensì piuttosto come disvalore, ed è considerato ostacolo a quanto si è soliti chiamare ‛realizzazione'. Giungiamo così a un punto cruciale: la crisi dell'idea di autorità è connessa con quella dell'idea di tradizione. Tale crisi non può essere anzitutto considerata come un fenomeno di carattere sociologico; all'idea di autorità sono, infatti, sottese tutte le categorie filosofiche. Procedimento valido è perciò soltanto quello che parte da una considerazione filosofica, per arrivare poi alla riflessione sui motivi politico-sociali e sociologici. Un'indagine svolta in senso inverso non condurrà a risultati significativi e, soprattutto, per la varietà dei motivi nei quali s'imbatterà, rischierà di perder di vista l'essenza del problema. Ancor più grave, d'altra parte, è l'accettazione del presupposto per cui le metafisiche non sarebbero che riflessi di determinate condizioni storiche.
Evidente è la connessione tra la crisi della famiglia e quella della scuola. Questa non si presenta più come l'istituzione in cui il maestro promuove una presa di coscienza di quella civiltà nella quale il nuovo venuto deve entrare e alla quale deve dare continuità. Nell'orizzonte tradizionale, quali che siano le sue molteplici forme di manifestazione, la presa di coscienza, cui il maestro deve condurre, consiste sia nel far emergere quelle verità-valori che sono eterne e dal riconoscimento delle quali - anche in senso trascendentale - ha tratto significato la civiltà, sia nel definire l'idea del Verbo, come Maestro interiore e saggezza increata, partecipando alla quale si rende possibile la comunione degli spiriti in una stessa verità. Oggi, invece, ci troviamo di fronte a una sorta di autogoverno di giovani che si emancipano dal peso del passato, e che si servono dell'insegnante come di un istruttore nelle tecniche di liberazione. La riduzione della tradizione a ‛passato', a quel che non è più, spiega la frequente critica di nozionismo (trasmissione di nozioni ‛morte') rivolta all'insegnamento tradizionale. Anche questa polemica e la contestazione nella scuola ad essa legata non si spiegano che in rapporto all'eclissi dell'idea di autorità.
Altro aspetto evidente dell'eclissi dell'autorità è la crisi presente della Chiesa: come risulterà con maggiore chiarezza più oltre, la critica delle strutture autoritarie della Chiesa, quale viene svolta, ad esempio; da H. Küng, trova la sua radice nella ricerca della riformulazione del cristianesimo in una concezione filosofica in cui non c'è posto per l'idea di autorità. Ciò è tra l'altro dimostrato dalla polemica tra il Küng e il Rahner, da cui è difficile non trarre l'impressione della maggiore consequenzialità del primo: sul cammino della suddetta riformulazione non ci si può fermare.
La centralità del tema dell'autorità si trova pure confermata negli esiti più sconcertanti del nuovo modernismo religioso, nella cosiddetta teologia della ‛morte di Dio', punto d'arrivo della ‛rivoluzione nella teologia'. Non è certo un caso che il più coerente tra questi teologi, l'Altizer, parli della morte di Dio Padre in Gesù Cristo. L'eliminazione dell'idea del Padre doveva giungere fino alla teologia.
Da quanto finora si è detto, appare chiaro quale sia l'avversario ‛ideale' e ultimo della rivoluzione che vuole portare alla scomparsa dell'autorità. È l'unità greco-romano-cristiana, quale ha trovato la sua espressione nella Chiesa cattolica tradizionale. Già per il vecchio modernismo si parlò di un cedimento del cattolicesimo rispetto al protestantesimo. Ciò può servire a intendere la continuità tra i due modernismi e, insieme, a mostrare nel secondo l'invasione del campo del cattolicesimo da parte di un protestantesimo che, nel suo processo storico, è andato separandosi da qualsiasi vincolo che ancora lo legasse al cattolicesimo.
L'esame dell'idea di autorità conduce quindi al cuore della crisi contemporanea. Mentre, da un lato, si deve constatarne l'eclissi, dall'altro l'indagine sulla sua genesi può portarci a coglierne l'essenza stessa, liberata da tutte le possibili incrostazioni e deformazioni, determinatesi nel corso della storia.
2. Autorità e potere
Occorre anzitutto distinguere autorità da potere: ‟questo termine di ‛potere' evoca quasi inevitabilmente l'idea di potenza e di forza, e soprattutto di una forza materiale, di una potenza che si manifesta visibilmente al di fuori e si afferma attraverso l'impiego di mezzi esterni; e tale è, per definizione, il potere temporale. Al contrario, l'autorità spirituale, interiore per essenza, non si afferma che di per se stessa, indipendentemente da ogni appoggio sensibile; e se si può ancora parlare di potenza o di forza non è che per una trasposizione analogica [...]" (v. Guénon, 19643; tr. it., pp. 27-28). In questa definizione, a mio giudizio tra le più efficaci, è da sottolineare, oltre al concetto di ‛interiorità' (la comunanza di valori impedisce, infatti, che il rapporto gerarchico proprio dell'autorità possa essere assimilato a quello del padrone e del servo), anche quello di ‛indipendenza da ogni appoggio sensibile'. Il problema dell'autorità è di fatto rapporto tra l'uomo e l'invisibile, primato dell'invisibile: questo primato, a conferma dell'immanenza della metafisica dell'essere al ‛senso comune', che è tesi propria di questa metafisica, si ritrova anche nelle società primitive (v. Servier, 1964).
La distinzione tra autorità e potere, anche quando è ripetutamente affermata, è molto raramente interpretata nel suo significato autentico e profondo. Si prenda, ad esempio, il volume di Th. Eschenburg, Über Autorität (1965). Vi si legge che l'auctoritas determina una spontanea accettazione del volere di un altro a causa della fiducia nella superiorità riconosciuta di questo, di modo che l'autorità diventa una forma particolare di dipendenza da altri uomini, che ha la sola caratteristica di essere, originariamente, accettata interiormente, per poi diventare un'abitudine e dare origine a una dipendenza costante. L'autorità è, dunque, nient'altro che una delle forme del potere: tesi che trova appoggio nella concezione - tipicamente sociologica - che Weber ha dell'autorità e nelle sue distinzioni tra l'autorità dell'‛eterno passato', del dono di grazia personale o ‛carisma', e della ‛legalità'. Si ha, cioè, confusione tra autorità e potere quando non si rapporti l'idea dell'autorità alla metafisica del primato dell'essere sul divenire e, di conseguenza, non si tenga conto del fondamento sopra-umano dell'autorità.
Le conseguenze filosofiche della confusione tra autorità e potere sono incalcolabili. Solo, infatti, se ci poniamo dal punto di vista della loro radicale distinzione, possiamo parlare di una metafisica distinta dall'ideologia. La loro indistinzione comporta invece l'assorbimento della metafisica nell'ideologia, intesa come atto pratico, destinato a legittimare, dal punto di vista dell'essere, una determinata forma di potere. La critica prende perciò la forma della spiegazione delle religioni e delle metafisiche (necessariamente poste al plurale) attraverso il ricorso ai fattori storici. Il ritenere che il concetto di autorità possa venir risolto in quello di potere coincide, quindi, con la ‛discriminante marxiana', apertamente o surrettiziamente accolta da gran parte della cultura contemporanea. Perciò lo spirito critico viene oggi identificato molto spesso, e anche da coloro che in apparenza se ne sentono o professano lontani, con il pensiero marxiano o post-marxiano (nel senso che, accettate tutte le negazioni del marxismo, procede oltre). Al termine di questo processo troviamo che l'unica conoscenza valida diventa la scienza, nella sua estensione al mondo umano.
Il fenomeno totalitario, come quello in cui l'estensione massima del potere ha portato a negare, insieme, l'idea di autorità e quella di libertà, ha fatto sì che anche studiosi di orientamento laico si siano proposti la questione della definizione dell'autorità in termini diversi da quelli consueti alla pubblicistica illuministico-radicale. Prenderò le mosse dal saggio di H. Arendt (v., 1961), scrittrice che ha affrontato il problema dopo aver approfondito le questioni sollevate dai totalitarismi. Ciò mi è parso opportuno in quanto il pensiero della Arendt, discepola di K. Jaspers, pur non coincidendo completamente con il mio, non ne è neppure troppo lontano, così che una discussione si prospetta possibile. Ma quel che soprattutto importa è il fatto che essa abbia incontrato in forma nuova il problema dell'autorità, dopo quello dei totalitarismi. Il problema dei totalitarismi porta infatti a rivedere completamente l'impostazione del problema dell'autorità, rispetto a quello che suol dirsi ‛moderno', e che ha le sue radici nell'illuminismo.
L'obbedienza e la dipendenza (o anche la disciplina), che l'autorità richiede, sono per la Arendt qualitativamente diverse sia dall'idea di ‛persuasione', sia da quella di ‛coercizione forzata'. La persuasione è soggettiva, egualitaria e raggiunta attraverso quel processo che oggi suol dirsi ‛dialogo'. Ma una volta distinto il concetto di autorità da quello di forza coercitiva, o da quello di persuasione, dobbiamo ricondurlo a quello di ‛evidenza', ravvisando in questo concetto la grande scoperta della metafisica greca. La sottomissione della mente all'evidenza è per un verso più radicale di quella ottenuta attraverso la forza o la persuasione; essa però ha, insieme, un carattere di liberazione, che è liberazione dalla pressione delle forze inferiori o esterne. Ci pare di dover segnalare la coincidenza di questa veduta con quella di un troppo poco conosciuto filosofo italiano, C. Mazzantini. Questi, pur senza prendere in esame direttamente il concetto di autorità, tratta il concetto di evidenza in senso parallelo a quello della Arendt. Per il Mazzantini la grande scoperta del pensiero greco e la fondazione della sua perenne verità è quella dell'‛evidenza', intesa non come forza che costringe, ma come luce che illumina; necessaria, bensì, e tale da escludere la possibilità del suo contrario, ma non esercitante forza sull'intelletto (v. Mazzantini, 1935, p. 41). Tale tema è da lui connesso con quello della critica sia del razionalismo teologico (e della ‛filosofia cristiana'), sia del volontarismo e arbitrarismo (fideismo, esistenzialismo religioso, empirismo).
L'idea di autorità comporta quindi: a) una sovraumanità del vero, per cui la dipendenza da essa coincide con la liberazione dal dominio di altri uomini; b) il fatto che l'uomo non obbedisca a una potenza arbitraria; c) d'altra parte, che la dipendenza non sia trasferita in Dio stesso; che la sua ‛saggezza', cioè, non venga concepita come una norma alla quale il suo volere sia subordinato. I punti b) e c) coincidono con la critica che il Rosmini muove, rispettivamente, ai sistemi di Leibniz e di Occam, e all'insieme delle loro conseguenze. Il pensiero del Rosmini forse potrebbe essere interpretato come tentativo di purificare il pensiero tradizionale cristiano dagli elementi che portano alle opposte deviazioni rappresentate da questi due sistemi, che, se ancora intendono muoversi nell'ortodossia religiosa, pure contengono le premesse di tutte le successive forme eterodosse. Benché il Rosmini faccia scarso uso del termine autorità, il suo pensiero è oggi di eccezionale importanza per una fondazione rigorosa della teoria dell'autorità: egli è il filosofo di una Restaurazione, del tutto distinta da ‛reazione' intesa come idoleggiamento di un ordine storico passato. Perciò l'elemento basilare dell'ordine è visto da lui nell'essere teologicamente infuso, immanente nella dialettica vitale, sicché esso reclama una presenza autoritaria dell'essere ed è un'epifania dell'essere stesso.
Riprendendo il concetto di sovraumanità, diciamo che esso porta a connettere l'idea di autorità con quelle di tradizione e di religione. L'idea di tradizione deve d'altra parte essere collegata con quella della metastoricità della verità, la quale stabilisce a sua volta una connessione fra tradizione e sacro (v. tradizione). L'idea di autorità, e con essa quelle di tradizione e di sacralità, sono inseparabili dalla filosofia del primato dell'essere. Con una formula riassuntiva affermeremo che nella filosofia del primato dell'essere l'autorità fonda il potere, mentre nella filosofia del primato del divenire il potere riassorbe in sé l'autorità, come si può vedere nelle sue conseguenze ultime.
Il punto centrale resta comunque il rapporto tra ‛autorità' ed ‛evidenza'. Compreso questo, è possibile rendersi conto del carattere, tanto più pericoloso perché indiretto, della presente lotta contro la religione. Si cerca di staccarla dalla filosofia del primato dell'essere; scardinati quelli che una volta erano detti i preambula fidei, il rovesciamento ‛orizzontalistico' della teologia nell'antropologia avviene nel più naturale dei modi. La filosofia del primato dell'essere sembra ormai definitivamente tramontata, In realtà l'obiezione che essa deve superare è di non poter rendere conto della storia; le si oppongono i temi del ‛progresso' e della ‛modernità'. Il problema sarebbe a questo punto di vedere se proprio la comprensione della storia contemporanea, come esito della forma di pensiero che le è avversa, non comporti il suo ritrovamento. Il principio di non- contraddizione, che è a fondamento di tale filosofia, non può infatti essere oggetto di dimostrazione diretta, ma può soltanto essere provato negativamente.
Il principio ideale dell'autorità deve, dunque, essere cercato nella metafisica classica. Tuttavia gli storici del pensiero politico si soffermano generalmente soprattutto sulla dottrina politica romana. In essa l'autorità assume il senso di ‛fedeltà alla fondazione'. Da ciò la dipendenza dell'autorità dei viventi dall'autorità dei fondatori; la trasmissione ereditaria dell'autorità degli antenati (i maiores) ai patres membri del senato; la conseguente distinzione tra auctoritas e potestas; il rispetto sacro della vecchiaia perché il vecchio era più vicino agli antenati. Il crollo della metafisica classica fece sì che la fedeltà romana alla fondazione - che aveva un significato religioso, poiché era intesa come strettamente connessa col volere degli dei e perciò era destinata a incontrarsi con tale metafisica (Cicerone) - assumesse col tempo forme affatto irreligiose, toccando l'acme nei movimenti nazionalistici del nostro secolo.
3. Autorità e rivoluzione
L'eclissi dell'idea di autorità è dunque il tratto che definisce ‛epocalmente' il mondo contemporaneo. Innanzitutto si richiede una determinazione cronologica dell'‛epoca', e cioè l'individuazione di quell'avvenimento decisivo che ha condizionato un periodo della storia e che, a motivo delle categorie valutative in esso prevalenti, si differenzia nettamente dal precedente. L'avvenimento decisivo è la guerra mondiale (riteniamo si debba parlare di due tappe di un'unica guerra mondiale anziché di due guerre mondiali), caratterizzata dall'essere stata sin dall'inizio intesa come guerra-rivoluzione e dall'aver posto le premesse per un processo rivoluzionario non ancora ultimato. I momenti della demolizione dell'autorità e della tradizione risultano puntualmente connessi con le tappe di volta in volta effettuate sul cammino dell'attuazione della rivoluzione. Si ritiene di dover precisare, a questo punto, che il termine ‛rivoluzione' cambia significato a seconda che sia riferito alla filosofia del primato dell'essere o a quella del primato del divenire e al passaggio che in essa si verifica dalla filosofia speculativa alla filosofia della prassi. Secondo la prima, rivoluzione è ‛risorgimento' di una tradizione e di un'autorità più autentiche; nell'ambito del secondo modo di pensare compare invece la contrapposizione radicale di autorità (tradizione) e libertà.
Nel trentennio che ci separa dalla fine dell'ultima guerra mondiale, la seconda concezione è prevalsa sino a determinare il pensiero dei ‛nuovi' teologi. Tale prevalenza si è identificata col sentimento di una ‛grave cesura', per cui il passato, con tutte le sue ‛autorità' e i suoi ‛comandamenti', che si presentano come ‛eterni', sarebbe stato travolto in quella immensa tragedia cosmica che, per usare il linguaggio gnostico, segnerebbe il passaggio dall'uno all'altro ‛eone'; o, nei termini della ‛gnosi rivoluzionaria', dal ‛regno della necessità' al ‛regno della libertà'. Intesa la rivoluzione come rovesciamento totale, questo passaggio sarebbe caratterizzato dalla negazione di ogni dipendenza, cioè dal radicale ateismo, nonché dalla negazione di un'essenza immutabile dell'uomo e di un immutabile ‛senso comune'. Ne deriva che la rivoluzione totale non potrà essere operata che dalla storia. Tuttavia il pensiero rivoluzionario, nella coerenza raggiunta col marxismo, conserva a suo modo l'idea di autorità, riferendola alla storia. La crisi totale dell'autorità consegue, quindi, alla crisi del pensiero rivoluzionario, che ha compiuto il tentativo di restaurarla dopo la fine della concezione tradizionale.
Tornando al successo dell'idea di rivoluzione, essa ci pare la conseguenza delle premesse della cultura illuministico-progressista. L'identificazione dello spirito moderno con lo spirito antitradizionale ha portato a definire in termini di critica dell'autorità l'intero processo di pensiero e di civiltà dei secoli che vanno dal XVI a oggi, così che il rifiuto presente dovrebbe essere caratterizzato, per usare l'espressione baconiana, come il temporis partus masculus. Da una parte il mito, incapace di dar ragione di se stesso e generante di conseguenza il dogmatismo; dall'altra lo spirito critico, procedente dall'abbandono della teologia e della metafisica speculativa, sino alla scoperta della genesi mondana delle illusioni metafisiche e teologiche. Quelle che oggi sono dette scienze dell'uomo segnerebbero una tappa fondamentale sulla via del compimento di questa liberazione illuministica.
La concezione progressista della storia incontra, però, oggi, gravi difficoltà, proprio in relazione a quella capacità di render conto della storia che appariva come il suo maggior argomento. Il progresso nella libertà era di regola fatto coincidere con la sostituzione di un'autorità non dispotica a un'autorità precedente ritenuta tale. Così l'autorità interiore della coscienza era contrapposta all'autorità della Chiesa; l'autorità della ragione all'autorità della Rivelazione; e, ancora, era propria del pensiero rivoluzionario l'idea di un'autorità della storia, coincidente con l'universalità morale, e che postulava la fine del dominio dell'uomo sull'uomo. Tuttavia il conflitto era ancora tra due autorità: quella della fede e quella della ragione. Ora, invece, l'attuale permissivismo sostituisce alla libertà ‛di', la libertà ‛da'. La liberazione coincide con l'affermazione della libertà istintuale.
Vediamo qui come la mentalità progressistico-illuministica debba venire a trovarsi in difficoltà insuperabili allorché voglia cercare di spiegare il fenomeno dei totalitarismi in cui si ha, insieme, la negazione di autorità e di libertà. La difficoltà, a mio avviso, dipende dal fatto che il totalitarismo rappresenta l'estensione massima del potere correlativamente alla negazione massima dell'autorità: vi si può ravvisare l'esito della rivoluzione nell'aspetto in cui la sua idea è punto terminale della filosofia del primato del divenire, come contraddizione con il programma di liberazione universale. Propria della concezione progressista è altresì l'idea della linea ascendente, irreversibile, del tempo, pur se non si nega che il cammino verso la libertà possa incontrare ostacoli. Ma quale che sia il valore di questa ammissione - di fatto si continua a pensare in termini di opposizione tra principio di autorità, legato alla metafisica e alla religione della trascendenza, e affermazione della libertà, legata al principio ‛moderno' dell'immanenza - resta fisso l'ideale irreversibile del progresso come liberazione dalla dipendenza. Caratteristica della situazione presente è la radicalità e un'adesione quanto mai vasta alla critica dell'autorità. Nel passato si trovano, invece, segni premonitori dell'eclissi dell'idea di autorità, ma sempre accompagnati da resistenze che limitavano il fenomeno a strati socio-culturali determinati e per lo più minoritari. Oggi, d'altra parte, la crisi dell'autorità non intacca soltanto il pensiero religioso-trascendente; le stesse aspirazioni del pensiero laico-illuministico ne risultano coinvolte, allorché la domanda che si propone è se il nichilismo non debba essere considerato il termine della linea ascendente del processo occidentale di liberazione. Sembra difficile poter parlare di crisi di crescenza, quando non si riesce a configurare - sia pure in un futuro non troppo prossimo - un ideale.
4. L'Occidente e il tramonto dell'autorità
Epicentro della crisi dell'autorità è l'Occidente. Occorre distinguere le idee, diversissime, di Europa e di Occidente. Con la prima si allude alla continuità di un processo di civiltà che muove a partire dall'Oriente. Quando parliamo di Occidente e di Oriente, intendiamo invece esprimere un'opposizione, quella dello spirito attivistico, pragmatistico, ecc., allo spirito contemplativo. La situazione presente è caratterizzata dalla sostituzione dell'idea di Occidente a quella di Europa. È da osservare come sia aspetto di questa sostituzione la coincidenza tra l'eclissi dell'idea di autorità e quella dell'idea di Europa. Ma come ha potuto l'Occidente diventare il luogo del tramonto dell'autorità? Ci si deve ancora una volta riferire alla rivoluzione, intesa nel senso di liberazione totale dal passato, assunta a ‛segno dei tempi' a seguito, come s'è detto, della guerra mondiale.
Dinanzi al problema posto dalla rivoluzione marxista si presentavano due vie: una, quella del ripensamento della metafisica classica per liberarla dagli aspetti che avevano portato alla sua crisi; l'altra, quella di procedere oltre il marxismo, dopo averne accettato le negazioni rispetto al pensiero metafisico, per liberarlo dai residui di tradizioni messianiche e apocalittiche - ciò in ragione di quella certa riconciliazione col passato che aveva reso possibile l'edificazione del nuovo Stato russo. La caratteristica della situazione di oggi è il riconoscimento delle opposizioni non mediabili: per un verso la filosofia del primato del divenire è giunta ormai alle sue conseguenze ultime, negando semplicemente, e non inverando da un punto di vista superiore, la filosofia del primato dell'essere; per un altro verso, i rappresentanti delle forme di pensiero, che dipendono da questa metafisica o che la presuppongono (come nel caso della fede religiosa), hanno in generale tentato forme di sincretismo, sempre in verità labili, con aspetti della posizione di pensiero opposta. L'errore intellettuale di fondo è, dunque, la permanenza della tesi dell'‛inveramento'. In questa direzione non si può procedere che verso posizioni di oltremarxismo, che comportano un'accentuazione della negazione di autorità, di tradizione, di metafisica, di religione, così da giungere a una completa ‛secolarizzazione', all'eliminazione totale dell'aspetto ‛religioso'.
Un'indagine sui movimenti rivoluzionari oltremarxisti, tutti incentrati su una critica radicale dell'autorità, implica che l'attenzione si volga preliminarmente, scegliendo tra la molteplicità delle espressioni, all'esame del surrealismo - quale manifestazione particolarmente significativa dell'avanguardia letteraria -, del pensiero di W. Reich e della Scuola di Francoforte.
Il surrealismo deve essere considerato non come un fenomeno artistico, nel senso in cui l'arte si distingue da altre forme di vita spirituale, bensì, soprattutto, come un fenomeno rivoluzionario, caratterizzato dalle categorie della totalità; esso, infatti, non intende operare soltanto una rivoluzione nell'arte, ma una rivoluzione attraverso l'arte. Il surrealismo differisce dal marxismo nel senso che esso non considera il mutamento dell'uomo come riflesso della rivoluzione sociale e politica, ma sostiene che la società degli uomini liberi seguirà invece al ‛rifacimento dell'intelletto umano'. I rapporti del surrealismo con il comunismo vanno da una prima adesione nel 1930, al dissenso con lo stalinismo e alla ricerca dell'accordo con Trotzki, per concludersi nel 1947 con una separazione dovuta alla presa di coscienza del diverso carattere rivoluzionario. Di grande interesse è la dichiarazione di rottura, contenuta nel manifesto collettivo Rupture inaugurale, pubblicato in occasione della Mostra internazionale del surrealismo (Parigi 1947), che verte essenzialmente sull'inadeguatezza del marxismo in rapporto a un'‟offensiva in grande stile contro la civiltà cristiana". Questa non può essere rovesciata dal mutamento dei rapporti economici. La rivoluzione borghese ha finito con il conciliarsi con la civiltà cristiana; lo stesso pericolo incombe sul marxismo. Sarebbe proprio la sua estrema spregiudicatezza morale a compromettere la sua forza rivoluzionaria: quella spregiudicatezza che si esprime nella tesi leninista per cui nessun limite morale si pone per l'azione rivoluzionaria, dato che non c'è separazione di fini e di mezzi, i secondi essendo organicamente subordinati al fine che si deduce dal divenire storico. Questa sorta di machiavellismo portato alle conseguenze estreme consentirebbe di fatto ogni sorta di compromessi ‛regressivi', per cui la rivoluzione diventerebbe prigioniera della morale tradizionale e si determinerebbe un processo in nome della necessità dell'ordine, dell'autorità, della restaurazione della famiglia, sino a che nulla impedirebbe la restaurazione della religione.
I surrealisti propugnano un'intransigenza morale nell'‛immoralismo'. La legge morale deve essere sempre trasgredita, ‛ma solo in direzione del progresso'. Parliamo di intransigenza morale nell'immoralismo: essi si rifiutano di vedere nel debellamento dell'ordine cristiano il risultato automatico della rivoluzione economica: dire questo sarebbe semplicemente sostituire alla dipendenza da un idolo la dipendenza da un altro idolo - a quella dal Dio trascendente, quella da una storia deificata. Da cui la conclusione del manifesto: ‟ritorniamo ai costumi, oggetto delle nostre preoccupazioni più costanti; sarebbe assurdo contare solo sulla rivoluzione politica per mutarli [...]. Questi teorici [i successori di Marx] non hanno mai denunciato la morale attuale se non quando, nel farlo, intravvedevano un vantaggio politico immediato. Sade e Freud, al contrario, hanno aperto la strada. Qualunque sia la dottrina che deve succedere al cristianesimo, vediamo in Sade e in Freud i precursori designati della sua etica" (v. surrealismo).
Interessanti sono pure le dichiarazioni con le quali il maggior teorico del surrealismo, A. Breton, riassume il suo programma alla vigilia della morte: ‟Rovinare definitivamente l'abominevole nozione cristiana del peccato, della caduta originale, dell'amore redentore, per sostituirle con tutta certezza quella dell'unione divina dell'uomo con la donna [...]. Una morale basata sull'esaltazione del piacere spazzerà presto o tardi l'ignobile morale della sofferenza e della rassegnazione, mantenuta dagli imperialismi sociali e dalla Chiesa [...]". L'importanza di questo passo consiste anzitutto nell'accenno alla caduta iniziale. A giudizio di chi scrive (cfr. il mio volume Il problema dell'ateismo, Bologna 1964) la dialettica del razionalismo, inteso come negazione del soprannaturale, muove da un'originaria opzione senza prove nei confronti della negazione della caduta iniziale. Perciò, nella sua conclusione ultima nel pensiero rivoluzionario, dovrà porre il suo criterio di verità nel risultato storico. In secondo luogo si ha l'antitesi assoluta tra cristianesimo e nuova morale rivoluzionaria; questa non ‛conserva' (‛supera', ‛invera', ecc.), ma semplicemente ‛nega', per cui la frattura rispetto alla continuità storica è posta come decisiva. In terzo luogo c'è l'accenno alla rivoluzione sessuale, vista non soltanto come cangiamento, per radicale che sia, in un particolare aspetto del costume, ma come ‟rivoluzione attraverso il cangiamento del senso dei rapporti sessuali".
Il manifesto surrealista del 1947 non ebbe molti echi, sul momento, né tra i politici, né tra gli intellettuali. Oggi, possiamo ben dire che la storia degli ultimi decenni ha proceduto esattamente nel senso auspicato dalla cultura ‛progressiva' e che la sconfitta o l'arginamento in Occidente del marxismo politico è stata la condizione per il successo di quello che abbiamo già chiamato ‛oltremarxismo'. Il marxismo culturale ha avuto una funzione di rottura, ma non avrebbe potuto mantenerla senza il soccorso di queste forze rivoluzionarie eretiche rispetto ad esso. E, d'altra parte, queste ultime non avrebbero potuto affermarsi senza la frattura prodotta dal marxismo. In certo senso diventa lecito dire che marxismo e oltremarxismo si sorreggono a vicenda, pur senza potersi conciliare.
Quel che dunque il surrealismo auspicava era una sintesi di marxismo e di psicanalisi di sinistra. Che si facessero tentativi di dar vita a questa sintesi era nell'ordine delle cose. Il primo tentativo sistematico al riguardo fu compiuto dall'austriaco W. Reich in Die Sexualität im Kulturkampf (1930; importanti le prefazioni alle tre successive edizioni: 1935, 1944, 1949), libro che contiene già tutto l'essenziale sull'argomento, e che può ben dispensare dalla lettura degli infiniti romanzi o saggi che l'industria culturale produce e che non sono altro che esemplificazioni delle tesi di questo studioso, eterodosso rispetto all'indirizzo psicanalitico ufficiale.
Se è proprio di ogni scienza moderna il dar luogo a una forma di utopia, si può vedere nel Reich l'utopista della psicanalisi; e come avviene per le opere utopistiche, anche la sua è formalmente coerente. Premessa del suo pensiero è che non esiste nessun ordine di fini, nessuna autorità metempirica di valori. Così ogni traccia, nonché di cristianesimo, di idealismo nella più vasta accezione del termine, o di fondamento dei valori in una realtà obiettiva, quale sarebbe per Marx la storia, è cancellata. A che cosa si riduce, dunque, l'uomo, se non a un insieme di bisogni fisici? Quando essi saranno soddisfatti, quando sarà rimossa ogni repressione, egli sarà felice. L'energia vitale è identificata con la sessualità. Attraverso l'assoluta, illimitata libertà sessuale, l'uomo si libererà dalla nevrosi e diventerà pienamente capace di lavoro e di iniziativa. La sua struttura psichica sarà mutata ed egli sarà sottratto alle tendenze aggressive e alle fantasie sadiche, proprie dei repressi. Ora, l'istituto repressivo per eccellenza è per il Reich la famiglia monogamica tradizionale. L'idea di famiglia è infatti inseparabile dall'idea di tradizione, da un patrimonio di verità da tradere, da ‛consegnare'.
La verifica della necessità della riforma freudiana del pensiero rivoluzionario sarebbe provata per Reich dal successo dei movimenti fascisti, che smentiscono l'interpretazione comune del materialismo storico, perché sono state proprio le masse impoverite a contribuire alla conquista del potere da parte del fascismo, così da mostrare che sul piano pratico-politico non è decisiva la stratificazione economica, ma piuttosto il momento ideologico (donde l'idea della correlatività tra predominio fascista e cultura idealistica). La psicologia scientifica completa il materialismo storico attraverso un'analisi del fattore soggettivo della storia. Ma un esame attento porta a constatare che le categorie marxiane classiche perdono significato per Reich: la lotta si svolge tra coloro che salvaguardano e affermano la vita e coloro che intendono reprimerla e distruggerla. Il tentativo reichiano di una secolarizzazione del marxismo attraverso la psicanalisi porta invece al riconoscimento di un vero e proprio abisso tra le due concezioni. Per il marxismo c'è un fine che si deduce dal divenire storico; Marx, da hegeliano, pensava che l'assoluto non è al principio della storia, ma ne è il risultato. Per Reich, invece, c'è una primitività da cui ci si è allontanati attraverso la morale sessuofobica, e a cui bisogna tornare reinserendo la civiltà nella natura. Nell'ultimo decennio le sue tesi hanno avuto una diffusione enorme, che potremmo spiegare ponendo mente alla frase di Sorel sul diversivo anticlericale rispetto alla rivoluzione, usato dalla borghesia radicale alla fine del secolo scorso e nei primi anni del nostro; tale diversivo è stato sostituito oggi dal diversivo erotico.
Ad un livello assai più critico si collocano le tesi della Scuola di Francoforte, chiamata così dall'Institut für Sozialforschung che, fondato a Francoforte sul Meno nel 1923, assunse importanza dopo il 1931, sotto la direzione di Horkheimer. Con l'avvento al potere del nazismo, i suoi collaboratori ne continuarono l'attività prima in Francia, poi negli Stati Uniti, sino al 1950, anno in cui poterono riaprire l'Istituto.
L'interesse delle tesi della Scuola di Francoforte deriva dalla ricerca di un'interpretazione della storia contemporanea, rivelatosi il marxismo inadeguato a offrirne una valida e accettabile. Lo stato d'animo prevalente nel momento in cui nasce la Scuola di Francoforte è quello rivoluzionario-libertario del primo dopoguerra tedesco, che porta alla contrapposizione del materialismo, inteso anzitutto come filosofia della ‛felicità', alle varie forme di idealismo, spiritualismo, misticismo, ecc., tutte collocate sotto il comune denominatore della filosofia intesa a difendere l'ordine esistente. L'opposizione tra pensiero progressista o rivoluzionario e pensiero conservatore o reazionario risolve in sé quella del vero e del falso, ed è giustificata perché, nella prospettiva della sostituzione dell'essere ‛sociale' all'essere ‛metafisico', la liberazione diventa criterio di verità. Questo il presupposto e, diremmo, il vizio iniziale della Scuola di Francoforte, che trova però la sua critica nello sviluppo del pensiero dello stesso Horkheimer (e, almeno parzialmente, anche in quello di Adorno).
Caratterizzano il pensiero di Horkheimer e della Scuola di Francoforte l'affermazione che la scomparsa dell'autorità deve essere vista come il termine ultimo del pensiero progressista, che si presenta, infatti, come processo di liberazione dall'autorità teologica o umana, trascendente o empirica; la critica del comunismo sovietico, che avrebbe finito, per i suoi aspetti dittatoriali, con il tornare a conciliarsi con la tradizione; la critica altresì della socialdemocrazia fondata su una concezione che tratta soltanto di regole di coesistenza, mentre la vita reale si svolge al di fuori di queste regole; la critica, ancora, del materialismo dialettico - semplice rovesciamento materialistico della dialettica -, del nuovo positivismo, del pragmatismo, del sociologismo. È a questo punto che emerge il problema proprio della Scuola, e cioè l'incapacità di mantenere la coincidenza tra la critica della tradizione metafisica e la critica del positivismo, nelle sue forme antiche e soprattutto nelle nuove. Nel pensiero di questa Scuola possiamo vedere una sorta di irrazionalizzazione del marxismo nella forma di una concezione negativa, che esprime un insieme di critiche, una specie di sincretismo delle negazioni, ognuna delle quali ha la funzione d'impedire l'assolutizzazione di una qualunque forma di pensiero.
A Marcuse si deve l'affermazione del primato della libertà intesa come libertà istintuale. Se il λόγος è considerato come ‟il principio della logica del dominio" ne segue che ‟la natura (la propria nonché quella del mondo esterno) era ‛data' all'Io come qualcosa che andava combattuto, conquistato e persino violato [...]. La lotta comincia con la perpetua conquista interna delle facoltà inferiori dell'individuo: delle sue facoltà sensorie e appetitive. Il loro soggiogamento, almeno a partire da Platone, è considerato come un elemento costitutivo della ragione umana, che è quindi repressiva per virtù della sua stessa funzione. La lotta culmina nella conquista della natura esterna che va aggredita, vinta e sfruttata, per essere messa al servizio dei bisogni umani" (v. Marcuse, 1955; tr. it., p. 89). Questo passo ci sembra il più adatto a chiarire il senso che assumono in Marcuse i termini di repressione e di permissività e che resta il più rigoroso che essi abbiano potuto raggiungere. Al tempo stesso rivela come la Scuola di Francoforte consideri - senza operare alcuna distinzione - la purificazione platonica e l'idea moderna del dominio scientifico-tecnico della natura come fasi dello stesso processo.
Eros e civiltà è divenuto il testo-base della contestazione ed è tale che da esso ben risulta l'equivoco di una ribellione contro due opposti, assimilati senza alcuna differenziazione: la società tecnocratica e lo spirito tradizionale; ribellione che si conclude con la disintegrazione dell'ordine esistente, attraverso una negazione, anarchico-individualistica, di qualsiasi ordine, ovvero si conclude, se passiamo a una considerazione dell'eterogenesi dei fini, con un'accettazione della realtà esistente, separata però da ogni riferimento a un ordine ideale. Nel lungo processo autocritico compiuto dal fondatore stesso della Scuola, l'Horkheimer, troviamo la conferma e la constatazione del fallimento del Marcuse. Per intendere questo processo dobbiamo riferirci alle circostanze storiche: al momento della polemica contro l'autorità il suo pensiero era rivolto al nazismo, in cui era portato a vedere l'incarnazione del male assoluto; poi gli appare un aspetto di una crisi assai più complessa. Deve perciò procedere alla critica dell'interpretazione del pensiero negativo come ‛rivoluzione' e come ‛utopia', e lo sbocco obbligato diventa la teologia negativa; pensato negativamente, il pessimismo trapassa in filosofia religiosa, nella forma di una teologia negativa. L'esito horkheimeriano della Scuola di Francoforte è uno sviluppo religioso del pensiero di Schopenhauer che procede verso Kant e verso una forma di platonismo: proprio l'opposto dell'hegelismo marxistico-freudiano del Marcuse. È altresì una forma religiosa che, pur non essendo legata a nessuna ortodossia, si colloca in netta antitesi alle direzioni neomodernistiche, protestanti come cattoliche.
Questa evoluzione religiosa non è in contraddizione con l'assunto originario per cui il compito della filosofia veniva visto nella critica della legittimazione ideologica dell'ordine esistente. Quella che si presentava come speranza di rivoluzione totale si è realizzata, e oggi la filosofia rivoluzionaria e progressista ha la funzione di legittimare un ordine più oppressivo e, di fatto, quali che siano le maschere di cui si copre, totalitario. Ma l'idea rivoluzionaria, in quanto ha preteso di sostituire la politica alla religione nella liberazione dell'uomo, è partita dalla negazione del peccato originale. È perciò facile intendere perché l'Horkheimer incontri il pensiero religioso anzitutto nella dottrina del peccato originale.
Dopo aver considerato la Scuola di Francoforte, ci pare interessante portare l'attenzione sull'analisi della realtà presente compiuta da un pensatore, R. Guénon, le cui premesse filosofiche sono quanto più lontano si possa pensare da quella dei francofortesi. Pure è interessante notare come l'esito di questa Scuola, nella forma assunta dall'Horkheimer, possa servire da introduzione alla sua concezione e alla sua riaffermazione dell'autorità.
Tre libri di Guénon sono particolarmente interessanti: La crise du monde moderne (1927), Autorité spirituelle et pouvoir temporel (1930) e soprattutto Le régne de la quantité et les signes des temps (1945). Per Guénon la crisi del mondo moderno è essenzialmente crisi metafisica. La negazione dell'autorità non è un momento o una conseguenza del razionalismo; è, invece, una sua condizione, come rifiuto di un ordine sopraumano e di una facoltà di conoscenza superiore alla ragione individuale.
Poiché la maggior parte dell'opera del Guénon è intesa a descrivere la logica del ‛piano' secondo cui si attua la deviazione progressiva del mondo moderno, non è possibile farne un riassunto. Si può soltanto accennare ad alcune suggestioni che si traggono dalla lettura dei suoi libri. Per Guénon il processo, che trae origine dalla negazione dell'autorità, ha come ultimo anello la ‛solidificazione' e quindi la ‛dissoluzione'. La solidificazione è la stabilità legata al materialismo, ma non è tuttavia un grado a cui ci si possa fermare. Essa porta a una sorta d'immunità simile a quella del mollusco, che rimane chiuso nella sua conchiglia. Quando però ‟si pratichi in questa conchiglia un'apertura verso il basso, immediatamente le influenze sottili vi penetreranno, e con tanta maggiore facilità in quanto, in seguito al lavoro negativo compiuto nella fase precedente, nessun elemento di ordine superiore potrà intervenire per opporsi alla loro azione" (v. Guénon 1945; tr. it., p. 206). Attraverso questa penetrazione e scatenamento delle forze distruttive del dominio sottile inferiore si ha veramente il passaggio alla dissoluzione: la deviazione si risolve in ‛rovesciamento', come stato diametralmente opposto all'ordine normale.
Il pensiero del Guénon è stato elaborato al di fuori di un'esperienza politica. Tanto più sarebbe interessante un raffronto con le idee di S. Weil, il cui punto di partenza fu invece la politica e la cui riflessione avvenne inizialmente in un orizzonte opposto a quello di Guénon. Le corrispondenze - sulle idee di forza, di progresso, di scienza moderna, sul marxismo, sulla psicanalisi, ecc. - sono particolarmente sconcertanti proprio nella misura in cui non si può parlare di influenza diretta.
5. I totalitarismi e la negazione dell'autorità
La considerazione dei fenomeni più importanti della storia contemporanea - guerra mondiale, rivoluzione, totalitarismo, dissoluzione - comporta che i concetti di autorità e di libertà siano ripensati al di fuori degli schemi elaborati dall'illuminismo o dal pensiero ottocentesco, sia nel senso della contrapposizione sia nel senso della conciliazione. La realtà presente ci manifesta che l'eclissi della libertà non coincide affatto con l'avvento della liberazione, ma con quello del potere, e che i totalitarismi sono l'espressione tangibile di ciò. Al totalitarismo si continua tuttavia a pensare come al grado massimo di autorità. Ne deriva, nei paesi non totalitari, l'interpretazione della libertà come spoliazione dello Stato da ogni eticità e la sostituzione ai principi etici di semplici regole di coesistenza. Si pensa poi che il ‛vento della libertà' porterà i paesi retti ancora a regime autoritario e totalitario a un'evoluzione democratica, che potrà essere lenta, ma necessaria e inevitabile. Questa posizione definisce il ‛democratismo contemporaneo, votato al cedimento, al permissivismo, per il già detto assorbimento della critica dell'autorità nella critica del potere.
A fondamento dei totalitarismi è la negazione dell'universalità della ragione, per cui ogni opposizione non esprimerebbe istanze razionali, ma nasconderebbe interessi di classe o di razza. Se si riflette al rapporto tra autorità ed evidenza, si vede che la negazione delle due nozioni non può portare che alla persecuzione di chi dissente. Il totalitarismo è il risultato, quindi, della negazione dell'autorità, prima ancora che della libertà. Lo caratterizzano altresì la negazione dell'individuo, il disconoscimento della differenza tra ‛realtà bruta' e ‛realtà umana'. Interessante è pure rilevare che esiste una concezione totalitaria della scienza, per cui questa si presenta come l'‛unica' conoscenza vera, ogni altro tipo di conoscenza non esprimendo, secondo tale veduta, che delle ‛reazioni soggettive', di cui l'estensione della scienza al mondo umano, con le discipline psicologiche e sociologiche, riesce, o riuscirà, a render conto. Questo totalitarismo scientifico può esser detto scientismo, in un senso però, si badi, che differisce dallo scientismo naturalistico del secolo scorso, in quanto pretende render conto del mondo umano.
Tra le argomentazioni di alcuni dei più acuti interpreti dell'attuale crisi dei valori - tra quelle, in particolare, intese a mostrare la necessità, in cui lo scientismo si trova, di promuovere una persecuzione religiosa, in modo diretto o indiretto che sia - ci pare meriti speciale attenzione l'argomentazione di una delle personalità più significative della filosofia francese degli anni trenta, B. Fondane, morto giovane in un campo di concentramento. Analizzando L'avvenire di un'illusione di Freud, egli mise in luce l'aspetto assiologico che condiziona lo scientismo e che porta i suoi adepti, anche se scrupolosi scienziati, ad allontanarsi dalla scienza per le più mitiche e arbitrarie costruzioni: l'odio, a priori, di qualsiasi forma di trascendenza. Altrimenti detto, l'ὕβρις della scienza, o il totalitarismo scientista, ha la sua radice nel fatto che la scienza moderna non conosce che ‛la causalità orizzontale', quale ricerca delle leggi come rapporti costanti fra i fenomeni, ovvero studia la realtà come sistema di forze, non di valori. Sino a qui la sua posizione è perfettamente legittima: ma quando dalla scienza si passa allo scientismo avviene che le stesse concezioni generali della realtà, in quanto non verificabili sperimentalmente, vengogono assimilate a forze (a ‛ideologie' come strumenti di volontà di potere). Di più, nella prospettiva positivistica assoluta Dio non può esistere, nella misura in cui la sua esistenza corrisponde a un'aspirazione dell'uomo; col paradosso che, se la sua esistenza fosse indifferente, allora potrebbe esistere. Se trasportiamo questa veduta nel campo dei rapporti etico-politici si giunge a quel ‛divieto di far domande', peraltro razionalmente legittime o anzi necessarie, e a quella consapevole e deliberata ‛ostruzione della ragione', che per E. Vögelin è la caratteristica del totalitarismo. In ogni totalitarismo l'iniziale persecuzione della religione si trasforma in persecuzione della ragione. Ma il punto più basso del totalitarismo - e che è già in parte realtà in Occidente - è il primato del principio economico, che determina una totale generalizzazione della categoria di ‛strumento'. L'unico valore che lo scientismo lascia sussistere è la vitalità, che nella sua assolutizzazione diventa negazione dell'etica.
Nella prospettiva scientista quel che scompare è, infatti, la stessa idea di ‛morale'. D'altra parte, il potere che non risulti subordinato a un principio etico, non si manifesta altrimenti che come forza. Al riguardo citiamo da S. Weil: ‟Da due o tre secoli crediamo contemporaneamente che la forza sia l'unica signora di tutti i fenomeni della natura, e che gli uomini possano e debbano fondare le loro reciproche relazioni sulla giustizia, riconosciuta mediante la ragione [...]. Non è concepibile che tutto l'universo sia assolutamente sottoposto alla forza e che l'uomo possa esserne affrancato, quando anch'egli è fatto di carne ed ossa e il suo pensiero vaga secondo le impressioni sensibili. [...] Se la giustizia è incancellabile nel cuore dell'uomo, vuoi dire che essa ha, in questo mondo, una sua realtà. Allora la scienza ha torto. [...] Se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Ma non lo è. Lo sappiamo per via sperimentale. Essa è reale in fondo al cuore degli uomini (v. Weil, 1949; tr. it., pp. 256, 258, 259).
Alla fine del conflitto mondiale è stata operata una scelta a favore della scienza moderna, intesa come mezzo di dominio pratico del mondo, capace di produrre automaticamente la giustizia. Ma questa non può essere prodotta automaticamente. La forza - dice ancora la Weil - ‟è un meccanismo cieco dal quale escono a caso, indifferentemente, effetti giusti o ingiusti, ma, in seguito al gioco delle probabilità, quasi sempre ingiusti. Il passar del tempo non lo muta affatto; non aumenta, nel funzionamento di questo meccanismo, l'infima proporzione degli effetti che sono per caso conformi a giustizia" (ibid.) Anche l'Horkheimer sostiene che il punto di vista positivistico non consente forme politiche improntate a principi etici, rende impossibile qualsiasi critica al dominio della forza e impedisce che si verifichi lo scandalo dinanzi ‟all'assassino che trionfa sulla vittima innocente" (v. Horkheimer, 1969; tr. it., p. 75).
La negazione dell'idea di autorità coincide dunque con l'estensione massima del positivismo, e cioè con una totale resa alla fattualità. Il problema della restaurazione dell'idea di autorità sembra aver origine oggi in un'autocritica dell'idea di rivoluzione, muovendo dal momento morale che ne sta a fondamento. I processi di pensiero così della Weil come dell'Horkheimer sono chiari esempi della verità di questo asserto.
6. Lo spirito borghese e l'autorità
Ci pare ora di poter individuare ciò che caratterizza lo spirito borghese e definire il suo atteggiamento nei confronti dell'autorità. Tipico del borghese è un ‛individualismo areligioso', incentrato sull'idea di felicità, quale si è affermata a partire dal sec. XVIII - affatto diversa dall'idea tradizionale di beatitudine, che indica un giusto rapporto con l'essere - e su una disposizione strumentalistica, per cui tutto è relativamente buono, perché tutto può servire. Dunque non c'è la Verità, non c'è il Bene; una realtà nella quale tutto ‛serve' esclude la possibilità di assoluti. Per un verso, quindi, il borghese non può che professarsi democratico, per l'altro è radicalmente antiplatonico. Il trascendente deve essere per lui ridotto al livello dell'uomo: anche la religione può essere ammessa, ma come esperienza vitalizzante; la verità è posposta alla vita.
L'evoluzione dello spirito borghese è dunque condizionata dalle rivoluzioni nel senso che ne trae profitto, per ciò che esse negano della tradizione. A una rivoluzione parziale, come la Rivoluzione francese, corrisponde un parziale affrancamento dalla trascendenza, nel senso di una morale autonoma, di una religione nei limiti della ragione, ecc.; si tratta di un compromesso obbligato con la tradizione. La rivoluzione totale consente invece un affrancamento completo. L'odio per la tradizione guida il borghese nella scelta tra le negazioni di quel che egli pensa essere il passato condannato dal ‛progresso' e l'affermazione di un nuovo assoluto. Non può avvenire altrimenti, dato che la sua idea- guida - la possibilità della felicità - gli impone di credere alla bontà naturale dell'uomo e al progresso. Secondo un giudizio corrente, il borghese è l'uomo dell'ordine e del progresso. Perché il suo successo fosse completo occorreva che ordine e progresso si dissociassero tanto dalla metafisica quanto dalla rivoluzione. Escluso ogni riferimento alla trascendenza metafisica, l'ordine esistente è legittimato non già in relazione a principi assoluti, ma semplicemente per il suo esserci. All'idea di rivoluzione - caratterizzata da un salto qualitativo - si sostituisce quella di progresso, nella sua assolutizzazione e quantitativa e economica.
7. L'idea di autorità nell'età liberale e nel primo dopoguerra
Appare dunque chiaro come il processo di critica all'autorità, diretto originariamente contro la conservazione, contro la falsa coscienza, contro la mistificazione, ecc., si concluda toccando il massimo di conservatorismo e di falsificazione della parola che la storia abbia mai conosciuto. Sarebbe facile illustrare da questo punto di vista quei caratteri nuovi che la crisi contemporanea presenta: la caduta, a un grado sinora mai conosciuto, della fede negli ideali; la conseguente perdita della speranza; la falsificazione dell'amore, concepito quasi sempre come qualcosa di ‛lontano', per giustificare l'indifferenza o la volontà di negazione, rispetto a quel che è prossimo. Accenneremo soltanto a un punto: l'attuale modernismo religioso - critica dell'autorità in nome della coscienza, o in nome di un processo della storia inteso come provvidenziale e irreversibile, perché voluto da Dio - subisce la concezione razionalistica della storia proprio nel momento in cui essa mostra, in tutta evidenza, le sue difficoltà. E per di più, ciò con cui si concilia non è lo spirito rivoluzionario, ma l'esito borghese del processo.
Ci riproponiamo ora il tema del carattere epocale dell'eclissi dell'idea di autorità, come risultato della guerra mondiale. Se continuiamo a pensare il processo storico come un processo di immanentizzazione, secolarizzazione, demitizzazione, ecc., ci troviamo sulla via che conduce al nichilismo. Se guardiamo le cose più a fondo, se diamo all'espressione ‛crepuscolo degli idoli' un senso diverso o opposto a quello consueto, vediamo invece come questa crisi colpisca i tentativi di fondazione dell'autorità, o di conciliazione dell'autorità e della libertà tipici dell'età liberale (1871-1914): cioè dell'epoca caratterizzata dalla persuasione che con la fine temporale del Papato e con la Comune di Parigi abbiano avuto idealmente fine sia il cattolicesimo sia il pensiero rivoluzionario, visti l'uno come l'espressione dell'autorità senza libertà, l'altro della libertà senza autorità. In questo periodo l'autorità è in verità rivendicata, ma in modo tale da essere considerata priva di ogni legame con una metafisica della trascendenza.
A suo fondamento c'è una critica del pensiero rivoluzionario, che si estende alla critica della democrazia, e consente di stabilire varie connessioni con le posizioni politiche della Restaurazione. Si è stabilita così una continuità col liberalismo di quel tempo, a motivo della critica al giacobinismo e al radicalismo, e in via diversa, col tradizionalismo, per le medesime avversioni. E ciò in una posizione, però, in cui i rapporti fra tradizione e religione risultano rovesciati, nel senso che non è la seconda a fondare la prima, ma invece la conservazione della prima a implicare quella della seconda. È la posizione tipica del nazionalismo, con la contraddizione che le è intrinseca.
Dal punto di vista più specificamente filosofico, si ha una ricerca di conservazione del momento dell'autorità della legge morale, separata dal fondamento metafisico-religioso attraverso la morale autonoma, di cui l'etica kantiana appare come il modello. In una posizione, però, alquanto instabile, perché oscillante tra una riduzione della morale alla sociologia, e la riaffermazione, quando si è voluto evitare ciò, del fondamento metafisico-religioso. Infine, vi è il tentativo di interiorizzare l'idea di autorità in una metafisica di tipo idealistico-soggettivistico.
Ci pare di dover a questo punto ricordare: la critica della mentalità giacobina del Taine (1828-1893), quale si trovava nella sua opera Les origines de la France contemporaine (1876-1893); la critica della mentalità progressista del Pareto (1848-1923); la rivendicazione dell'autorità di Ch. Maurras (1868-1952). Le concezioni di quest'ultimo meriterebbero un'attenta analisi, sia per l'influenza avuta sul pensiero politico francese, sia, soprattutto, per individuare la deviazione derivatagli dal positivismo, in conseguenza della quale il rapporto tra autorità e tradizione prese la forma di nazionalismo.
Croce (1866-1952) critica il libertarismo attivistico, che si sostituisce al senso religioso della libertà, quando questa venga separata dal rispetto della tradizione. Il senso vissuto di questa unità non trova però adeguato fondamento filosofico. La speculazione crociana raggiunge il massimo grado di critica del pensiero rivoluzionario ‛entro' una riforma dell'hegelismo. Ma che questa posizione non sia sostenibile lo mostra tanto il processo da Croce a Marx di Gramsci, quanto - e soprattutto - la superiore coerenza a cui perviene, nella riforma dell'hegelismo, l'attualismo del Gentile (1875-1944). Filosofia che costituisce il tentativo più coerente di conservare e insieme purificare, attraverso l'immanentismo, le idee di autorità, di tradizione e di religione; così che il suo scacco è la prova decisiva dell'impossibilità di conciliare l'idea di autorità con l'immanentismo filosofico, pur se visto nella forma del divino immanente.
Dato il modo filosofico in cui la ricerca è condotta dal Gentile, ricordiamo come si presenti per la politica lo stesso problema della metafisica, e cioè quello di realizzare i termini opposti dell'uno e del molteplice, senza confonderli e senza sopprimerli. Ma per Gentile questa connessione si presenta con un'accentuazione particolare, perché il suo è superamento della filosofia speculativa, o - come egli spesso dice - dell'intellettualismo nella filosofia della prassi. Si ha quindi che la tendenza riduttivistica, propria del razionalismo metafisico, viene spinta fino all'estremo (riduzione del molteplice all'unità assoluta ed esclusiva dell'atto), e ciò al tempo stesso che la critica dell'intellettualismo porta all'affermazione di un'essenziale politicità della filosofia.
Riprendendo il pensiero risorgimentale - soprattutto nella sua forma giobertiana - nella laicizzazione hegeliana che aveva subito per opera di B. Spaventa, Gentile intende conciliare i termini di autorità e di libertà, i quali debbono essere congiunti, perchè la libertà senza autorità si conclude nell'arbitrio, e l'autorità senza libertà nel dispotismo (cfr. il suo saggio politico su Gioberti, del 1919, poi pubblicato in I profeti del Risorgimento, Firenze 1923). È in rapporto a questa prima conciliazione che devono venir situate le successive (popolo e governo, volontà generale e volontà individuale, legge e autonomia dei singoli, conservazione e progresso).
L'idealismo permette di sostituire l'idea di riforma (quindi di nuova forma che prende la tradizione) così a quella di conservazione come a quella di rivoluzione, per il Gentile entrambe naturalistiche: il conservatorismo rappresentando il materialismo dello stato di fatto, e il pensiero rivoluzionario il materialismo dell'utopia. Lo spirito è concepito come un perpetuo farsi, quindi come continua contrapposizione del dover essere all'essere; l'autorità (il dover essere) viene quindi interiorizzata allo spirito stesso. Gentile intende cioè continuare l'assunto hegeliano di oltrepassare lo spinozismo, pensando la totalità non più come sostanza, ma come soggetto, e realizzando così la ‛filosofia cristiana'. Di fatto avviene che il suo pensiero sommi le difficoltà tanto del razionalismo metafisico quanto della filosofia della prassi, pur portando istanze decisive così contro l'una come contro l'altra. L'interiorizzazione dell'autorità porta all'idea dello Stato in interiore homine anziché inter homines. Senonché il passaggio all'autorità coincide per Gentile con l'affermazione dell'unico io trascendentale. Il tema spinoziano, per cui soltanto Dio esiste, è portato, quindi, alle estreme conseguenze, ma in un modo singolare, cioè con una confusione inestricabile, e che oggettivamente è tale, tra Dio e il soggetto umano. La volontà infatti è, secondo una formula che il Gentile spesso riprende, ‟libera facendosi libera; soggetta alla legge che essa viene creando senza posa". Ciò significa che la sua filosofia si conclude nell'immanentizzazione del Dio creatore. Questo Dio-Soggetto umano, però, non può riconoscere altri oltre a sé, per cui la coscienza dell'individuo è trasformata in Dio, ma in un Dio ‛cosalizzante', così da ridurre a oggetti, a strumenti, ogni altro soggetto. Ogni soggetto è per l'altro, dunque, natura, materia, strumento di creazione.
Se scopo del pensiero del Gentile è realizzare una volontà universale che oltrepassi e unifichi la volontà dei singoli, il risultato è invece, insieme, la massima esaltazione e la massima umiliazione dell'individuo. Per quanto si ribadisca di voler intendere l'autorità come una volontà superiore, che disciplini le volontà associate, unificandole in una legge comune, in realtà quel che manca è proprio questo principio unitario. La filosofia di Gentile è la prova che nel pensiero immanentistico autorità non può distinguersi da forza, e che essa è subita come tale dai singoli individui. Il tema riceverebbe piena illustrazione quando venisse studiata la coincidenza puntuale tra le contraddizioni del pensiero gentiliano e quelle del fascismo.
Nel primo dopoguerra apparvero in Italia due libri, che esprimevano l'opposizione alla cultura dominante e cioè all'idealismo nella forma crociana e soprattutto gentiliana. Il primo è la Filosofia dell'autorità di G. Rensi (v., 1920) che, dal punto di vista teoretico, può essere visto come un rovesciamento naturalistico-scettico dell'attualismo: i risultati del pensiero del Gentile, guardati dal punto di vista, anziché dell'unità dell'atto, della natura e del molteplice, riconducono a uno scetticismo conservatore di tipo protagoreo. L'interesse del libro di Rensi sta, forse, nell'essere l'ultima opera in cui l'idea di autorità è legata allo scetticismo filosofico, prospettando una forma di conservatorismo che non ha più alcuna connessione con l'idea di tradizione vista nel suo fondamento metafisico-religioso. Pur se non vi si fa alcun riferimento al Mosca e al Pareto, l'opera del Rensi può essere considerata come la conclusione filosofica delle concezioni di questi autori in quel che essi hanno di positivistico. Oggi essa dà l'impressione di una coerenza interna, ma insieme di una non riscattabile inattualità.
Il secondo libro è le Riflessioni sull'autorità e la sua crisi di G. Capograssi (v., 1959) che scarsa eco ebbe allora e che è rimasto poco conosciuto, ma che meriterebbe invece la maggior attenzione come una delle opere migliori che siano state scritte sull'argomento. Già in quegli anni incerti il Capograssi avvertiva perfettamente ciò che si perdeva con la caduta dell'idea di autorità e dimostrava una consapevolezza eccezionale così nei riguardi delle posizioni del pensiero moderno, di cui occorreva la critica perché quell'idea venisse restaurata, come nei riguardi della tradizione a cui ci si deve richiamare: Rosmini, Vico, san Tommaso, pensatori considerati allora diversi, se non opposti. Il Capograssi seppe vedere in maniera veramente rigorosa la loro continuità, ritrovandola attraverso l'analisi dell'idea di autorità e delle sue implicazioni metafisiche.
Lo spazio impedisce di considerare altri pensatori degni di attenzione di quel periodo e del successivo; È però indispensabile un breve cenno su Max Weber, le cui teorie bene denotano il passaggio dall'età liberale alla successiva. L'avalutatività dei giudizi delle scienze sociali non significava per Weber nulla che possa aver connessione con talune posizioni positivistiche attuali. Al contrario egli esprimeva l'esigenza di non confondere, di non contaminare il dover essere con l'essere. Nel 1905 scriveva che la ragione per cui si volgeva con straordinaria asprezza contro la contaminazione dell'essere e del dover essere non era dovuta al fatto che sottovalutasse le questioni del dover essere, bensì proprio al contrario, al fastidio per il fatto che problemi di importanza universale, in un certo senso i più alti che possano muovere un petto umano, potessero trasformarsi in questioni di tecnica economica e diventare oggetto di una disciplina speciale come l'economia politica. Nel dopoguerra la distinzione tra giudizi di valore e giudizi di fatto fu considerata come il fondamento del consenso, sia pur tacito e indiretto, nei confronti dell'ordine esistente: è proprio su questo punto che cade, alle sue origini, così la critica del marxismo lukacsiano come quello della Scuola di Francoforte. Il punto di coincidenza tra il pensiero metafisico e il pensiero rivoluzionario sta nel rifiuto di una morale autonoma, che ha, appunto, il suo fondamento nella distinzione tra i due tipi di giudizio.
L'accenno a Weber può servire a spiegare l'interesse che, per approfondire oggi l'idea di autorità, ha la Scuola di Francoforte, quando si veda nell'Horkheimer il maggiore suo rappresentante. Vi sono infatti presenti tutti i momenti essenziali: critica dell'epoca 1871-1914 - considerata nel suo teorico Weber -, pensiero rivoluzionario, critica del pensiero rivoluzionario, riproposta del pensiero metafisico-teologico.
Ci pare anche di dover accennare alle ragioni di un silenzio: quello su Maritain. Di fatto egli è presente in tutto questo scritto; tanto presente che si è ritenuta superflua una citazione esplicita. Tutto questo scritto è incentrato sul significato del tomismo e sull'attualità di ciò che lo caratterizza. Si è dato per già noto che Maritain è stato, tra i tomisti di oggi, uno di coloro che più ha riflettuto e scritto sull'argomento dell'autorità, sollecitato sia dal desiderio di comprendere questo motivo fondamentale del tomismo, sia dalla sua sensibilità per gli eventi più significativi della storia contemporanea. Ciò che soprattutto importa nella sua posizione è il senso della metastoricità dei supremi principi, depositari dell'autorità, distinti da quel che egli chiama ‟parassitismo del contingente", e in cui è da cercare la giustificazione storica della loro critica.
8. Conclusioni
Le filosofie della storia dell'Ottocento, continuando un giudizio già pronunciato dall'illuminismo, sancirono la contrapposizione - in seguito non più abbandonata presso la maggior parte degli scrittori - tra primato della libertà (Occidente, progresso, modernità, spirito dinamico e di innovazione) e primato dell'autorità (Oriente, Medioevo, dispotismo, passato, immobilità). Al momento attuale tale contrapposizione continua a informare i giudizi etico-politici e storici. A causa di ciò l'idea di autorità è connessa con quella di coercizione. L'affermazione del primato della libertà caratterizza dunque l'età contemporanea e si configura come una grande conquista. Si cercò anche di giustificare il momento dell'autorità perché la libertà non degenerasse in arbitrio.
L'epoca della rivoluzione ha rinunciato del tutto e definitivamente alla ricerca dell'unità per sancire la contrapposizione netta e insanabile. L'ideale è visto nella liberazione dall'autorità, dal regno della forza e della necessità. Ci pare invece di dover dire che il rifiuto dell'autorità, intesa in senso metafisico-religioso, conduca all'instaurarsi di una forma assoluta di ‛potere', così che alla contrapposizione autorità-libertà si sostituisce la contrapposizione autorità-potere, dal carattere decisamente oppressivo; o, a dir meglio, il divorzio completo di autorità e di libertà si è avuto in quella che può venir detta l'‛epoca della secolarizzazione', come successiva all'epoca rivoluzionaria propriamente detta, che ancora in qualche modo riconosceva l'autorità attribuendola alla storia. Sembra difficile negare che il processo di liberazione rivoluzionaria porti alla dipendenza totale dell'uomo dalla società. La conseguenza sarà che l'uomo ha diritto di esistere solo in quanto è socialmente utile, cioè in quanto gli altri lo giudicano tale. L'attuale altruismo si configura come la perversione dell'idea di solidarietà.
Un passo, famoso, del Diario di Kierkegaard dice: ‟È soltanto un'idea miserabile e mondana della dialettica della potenza, pensare che essa cresca in proporzione della capacità di costringere e rendere dipendenti. No, allora comprese meglio Socrate che l'arte della potenza è di rendere gli uomini liberi [...] ciò costituisce una prerogativa dell'onnipotenza [...], un uomo non può rendere mai completamente libero un altro; colui che ha la potenza, n'è perciò stesso legato e sempre avrà quindi un falso rapporto a colui che vuol rendere libero". (Diario I, 1834-1849, Brescia 19622, p. 513). Testo che può servire da epigrafe, per il rapporto che stabilisce tra le esigenze che muovono dalle origini la metafisica antisofistica greca e il suo compimento nel pensiero teologico.
Dunque diremmo che tutto ciò che si è rivelato potrebbe importare un rovesciamento della stessa idea di ‛criticità'. Sino a ieri criticità significava processo di liberazione dagli ultimi residui dogmatici della metafisica classica. Oggi, invece, l'‛occasione della politica' può portare a invertire questo significato, e a cercare di definire quell'inadeguata espressione della metafisica classica come infedeltà al suo principio, capace di spiegare il nascere della prospettiva errata, di cui si è parlato, e che ha trovato manifestazione nella crisi presente.
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