Azione sociale
Eliminiamo innanzi tutto un possibile equivoco: non useremo qui l'espressione 'azione sociale' nel senso politico, che oggi spesso gli viene dato, di mezzo per affrontare certi problemi, come la vecchiaia o le malattie, che sono definiti 'sociali' perché presentano aspetti solidaristici. Daremo invece a quest'espressione un senso sociologico: quello che le viene normalmente attribuito dai sociologi dopo La struttura dell'azione sociale di Parsons. L'azione sociale qui presa in esame sarà quella svolta dall'attore sociale in quanto elemento dell'analisi sociologica.Questa nozione è importante perché esiste in sociologia un paradigma (o, se si preferisce, uno stile di ricerca) che viene indicato col termine 'sociologia dell'azione' e che consiste nel prendere alla lettera il fatto evidente che ogni fenomeno sociale è il risultato di un insieme di azioni individuali. D'altra parte, poiché gli attori di cui il sociologo si occupa non sono isolati, ma appartengono a reti o insiemi sociali, questo stile di ricerca viene talvolta designato col nome di 'sociologia dell'interazione'.
Daremo al termine 'paradigma' il senso che gli è stato attribuito da Kuhn in La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Un paradigma è per così dire la costituzione su cui si basa, per un periodo di tempo variabile, l'attività di una comunità scientifica: in altri termini, è il complesso dei principî condivisi dai membri di tale comunità. Questi principî sono a loro volta degli insiemi di rappresentazioni, di regole, di norme, di giudizi di valore che guidano lo studioso nella sua ricerca. Tuttavia i paradigmi scientifici, a differenza delle costituzioni politiche, non sono scritti; inoltre i ricercatori non ne sono tutti consapevoli nella stessa misura, e spesso non se ne rendono neppure conto, ma li sentono come ovvi, almeno fino a quando qualche difficoltà - la comparsa di un'anomalia - non li induce a rimetterli in discussione; infine, anche se un paradigma tende a essere condiviso, il suo contenuto varia da un ricercatore all'altro.
In questo senso si può parlare ad esempio di 'paradigma cartesiano' per indicare quei principî che portano i ricercatori a rappresentare tutti i fenomeni naturali in modo meccanico, sul modello dell'urto fra biglie o della trasmissione del moto fra gli ingranaggi di un orologio.
Anche le scienze sociali hanno i loro paradigmi, e uno di essi è quello che viene generalmente indicato con il nome di sociologia dell'azione. Il suo principio fondamentale è che qualsiasi fenomeno sociale è sempre il risultato di azioni, di atteggiamenti, di credenze e in genere di comportamenti individuali; esso è stato chiaramente definito da Simmel in I problemi della filosofia della storia. Supponiamo, egli dice, di voler spiegare l'esistenza della galleria del San Gottardo: poiché si tratta evidentemente del prodotto di un insieme di azioni (decisioni politiche, scientifiche, strutturali e atti esecutivi), spiegare l'esistenza della galleria significa ricostruire questa rete di azioni e chiarire i motivi che le hanno provocate. Lo stesso può dirsi del prezzo di un prodotto su un mercato: esso deriva da una miriade di decisioni prese dai produttori, dai distributori e dai consumatori di quel prodotto. Né è diverso il modo in cui si affermano i valori in materia di costume: le regole della buona educazione, ad esempio, sono il risultato di un'infinità di comportamenti individuali, e persistono o decadono perché un gran numero di attori sociali attribuisce loro un senso e le accetta, oppure non vi scorge più alcun senso e le rifiuta.
Questo principio può apparire banale, ma in realtà la sua applicazione pratica può risultare molto difficile per un motivo facilmente intuibile, e cioè che le cause dei fenomeni sociali, essendo localizzate negli individui, sono in generale innumerevoli; e poi perché rintracciare i motivi che hanno portato un dato attore a compiere una data azione può essere arduo per difetto di testimonianze da parte dell'attore stesso, o a causa della sua appartenenza a una cultura a noi poco familiare.
A parte queste difficoltà pratiche, sono state sollevate contro questo principio alcune obiezioni di fondo. Si è sostenuto, ad esempio, che l'individuo gode di una vera indipendenza solo nelle società moderne, mentre nelle società 'arcaiche' l'individuo avrebbe solo un'esistenza biologica e fisica. In realtà quest'obiezione nasce, oltre che da un modo ingenuo di concepire le società arcaiche, da un equivoco terminologico sul quale torneremo in seguito.Occorre piuttosto osservare che nelle scienze sociali esiste un gran numero di analisi - certamente istruttive e di indubbia validità - che non si attengono al paradigma della sociologia dell'azione. È possibile ad esempio cercare di spiegare le differenze fra i tassi di natalità, di criminalità o di suicidio di un insieme di società studiando le correlazioni fra quei tassi e altre variabili. In tal caso la spiegazione non consiste nel ricondurre il fenomeno sociale in questione (cioè, il tasso di criminalità o di suicidio) alle sue cause individuali, ma nell'esaminare le sue covariazioni con altri fenomeni: è questo il procedimento adottato da Durkheim nel suo celebre studio Il suicidio. Analogamente, si possono spiegare le opinioni o il livello d'istruzione di un campione di individui mettendoli in correlazione con altre variabili, ad esempio chiedendosi in quale misura il livello d'istruzione di un adolescente possa essere previsto (o, come anche si dice, 'spiegato') in base a quello dei suoi genitori, al loro status socioeconomico e ad altre variabili. Questo genere di ricerche costituisce una parte rilevante dell'attività svolta oggi in tutto il mondo nel campo della sociologia dell'educazione, della mobilità sociale e della stratificazione. Gli esempi sopra esposti illustrano quello che può essere chiamato paradigma causale.
Sarebbe facile menzionare altri paradigmi a cui si fa ricorso in sociologia. Ad esempio, è certamente legittimo considerare una società come una totalità e prendere in esame la congruenza delle sue istituzioni: è ciò che fa Montesquieu quando cerca di dimostrare che esiste un numero finito di regimi politici e che a ciascuno di essi corrisponde un insieme coerente di caratteri. Ed è anche ciò che fa Murdock quando dimostra, in base allo studio sistematico di un insieme di società arcaiche, che le regole che governano il matrimonio, la discendenza, la trasmissione del patrimonio, la coabitazione, la designazione linguistica della parentela - e, più in generale, il complesso delle norme giuridiche di una società - formano un tutto più o meno coerente, animato da uno stesso 'spirito'. Il paradigma illustrato da questi esempi può essere definito olistico o totalizzante.Il paradigma della sociologia dell'azione non è dunque il solo esistente; esso riveste però un particolare interesse, come si può vedere dal fatto che rappresenta una tradizione ininterrotta della sociologia, dalla sua fase classica fino ai giorni nostri.
La sociologia dell'azione, almeno nella sua forma consapevole e programmatica, è nata indubbiamente in Germania. Come Le regole del metodo sociologico di Durkheim introducono il paradigma causale e ne mettono in risalto l'importanza per la sociologia, così i grandi scritti epistemologici di Weber (l'inizio di Economia e società e Il metodo delle scienze storico-sociali) e di Simmel (I problemi della filosofia della storia) possono essere considerati come i testi fondanti della sociologia dell'azione.
È opportuno insistere sulle differenze intellettuali che contrappongono Durkheim a Weber. Entrambi sono visti di solito come figure notevoli e complementari della tradizione sociologica, poiché ciascuno dei due ha identificato un paradigma importante; ma sarebbe assurdo volerli ridurre l'uno all'altro. Essi si sono quasi completamente ignorati proprio perché avvertivano chiaramente il divergere delle rispettive concezioni ed erano consapevoli di proporre paradigmi molto diversi. Su questo punto di storia della sociologia Aron sembra essere stato più perspicace di Parsons: in Le tappe del pensiero sociologico egli ha descritto Marx, Weber e Simmel da un lato, e Durkheim, Mauss e Lévi-Strauss dall'altro, come i rappresentanti di due tradizioni di pensiero differenti. Invece, nel suo lodevole tentativo di dare unità alla sociologia, con La struttura dell'azione sociale Parsons aveva voluto cancellare tale diversità; e il fatto che la sua opera sia considerata oggi più sincretistica che sintetica è dovuto forse a questo malinteso iniziale. È preferibile infatti riconoscere che la sociologia dispone di una gamma di paradigmi ben distinti tra loro, anziché volerli mescolare in una sintesi di dubbia solidità.
Il tentativo di Parsons di fare del trio WeberDurkheim-Pareto una specie di policefalo Newton della sociologia appare del resto alquanto ingenuo in un'epoca come la nostra, in cui ben pochi fisici sarebbero ancora disposti ad ammettere che la loro scienza possa fondarsi su un unico paradigma; ciò nonostante, il conforto intellettuale prodotto da una visione unificante (anche se precaria) è così intenso che alla sintesi proposta da Parsons ne sono seguite regolarmente altre.
Per comprendere la contrapposizione tra Durkheim e Weber è necessario richiamare sommariamente alcuni precedenti storici. Di solito un paradigma non piove dal cielo, non è semplicemente il risultato di una geniale intuizione, ma emerge da un certo clima culturale: ora, al tempo in cui i pionieri della sociologia cercavano di definirne l'immagine, il clima culturale francese era molto diverso da quello tedesco.
Nella Francia di fine Ottocento la scena intellettuale continuava a essere dominata dalla figura di Comte. Senza rendersene conto, Durkheim fece proprio un certo numero di idee comtiane che a lui, come a molti suoi contemporanei, apparivano ovvie: da Comte riprese la visione olistica o totalizzante della società, la concezione evoluzionistica della storia, la classificazione delle scienze. Dato il contrasto fra lo stile profetico di Comte e quello accademico e scientista di Durkheim, oggi forse è difficile cogliere lo stretto rapporto fra l'ispiratore e il seguace; tuttavia è impossibile comprendere il modo d'intendere la sociologia di Durkheim se non si riconosce che esso deriva dalla classificazione comtiana delle scienze. Quest'ultima veniva assunta come verità di fede grazie alla sua semplicità, in quanto la progressione che essa tracciava dalla fisica alla biologia corrispondeva alla successione storica secondo cui le varie scienze si erano andate affermando. Si era quindi portati ad attribuire alla concezione di Comte una validità definitiva, sorvolando sul fatto che la sua semplicità derivava anche dall'esclusione di molte altre discipline indubbiamente esistenti, come la storia, la psicologia e l'economia.
Durkheim riprende, conferma e legittima queste esclusioni: la storia non fa parte delle 'scienze', la psicologia aspira impropriamente a tale rango, e l'economia non è che un'incarnazione di quella 'metafisica' che Durkheim, da buon discepolo di Comte, intende superare. In breve, la sociologia deve liberarsi di ogni psicologia, prendere a modello la fisica (così com'era possibile concepirla alla fine dell'Ottocento), cercando soprattutto di mettere in evidenza le leggi che governano i rapporti tra i fatti sociali, e infine riprendere dalla biologia l'idea che a mano a mano che si sale nella scala degli esseri il tutto tende a prevalere sulle parti.
In Germania Comte non aveva esercitato un influsso analogo, anche perché lì lo spazio intellettuale da lui occupato in Francia era stato riservato a Hegel. Inoltre nella cultura tedesca si era svolta un'animata discussione di metodo - pressoché inesistente in Francia - sullo status epistemologico delle cosiddette scienze dello spirito (Geisteswissenschaften). Questo dibattito riguardava in sostanza il problema dell'oggettività storica: bisognava attenersi al programma 'realista' del grande storico Leopold von Ranke, che si proponeva di descrivere i fatti come sono realmente avvenuti, oppure concedersi, come il suo collega all'Università di Berlino, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, una maggiore libertà d'interpretazione? E in tal caso, fin dove era possibile spingersi senza cadere nell'arbitrio? Nel contesto culturale dominato da questo problema di metodo - oltre che dal riflusso dell'hegelismo e dall'avvento del neokantismo - si sviluppò la sociologia tedesca classica.
Ciò spiega come questa sociologia si sia qualificata anzitutto come una maniera originale di apprendere la storia: in fondo, molti sociologi tedeschi dell'epoca si consideravano parenti prossimi degli storici, pur distinguendosi da loro per il fatto di ritenersi autorizzati a rivolgere alla storia domande a cui non era possibile dare risposta in forma di racconto. Al quesito "perché la Germania si è unificata per iniziativa della Prussia?" Ranke ha risposto (in modo mirabile) con un racconto; ma non è con un racconto che Weber ha cercato di risolvere i problemi che si è posti ("perché negli Stati Uniti l'industrializzazione non ha prodotto gli stessi effetti di laicizzazione che in Francia o in Germania? Perché le sorti del protestantesimo sono state associate a quelle del capitalismo?"). Lo stesso può dirsi dei problemi posti da Simmel (come quello dei rapporti tra lo sviluppo dell'economia monetaria e l'autonomia degli attori sociali) o da Sombart ("perché negli Stati Uniti l'industrializzazione non è stata accompagnata dalla nascita di movimenti socialisti?"). D'altra parte, mentre Durkheim si disinteressava completamente dell'economia, i sociologi tedeschi non potevano ignorarla, sia per il ruolo occupato da Marx nel clima intellettuale e politico tedesco, sia per il rinnovamento della teoria economica promosso in Austria da Carl Menger: in particolare, con questo studioso si affermò il principio - non estraneo allo stesso Marx - che in economia la spiegazione dei fenomeni macroscopici dev'essere ricondotta a quella delle loro cause microscopiche.Vi erano dunque tutte le ragioni perché in Germania la sociologia si sviluppasse per così dire all'incrocio tra storia, economia e psicologia, e quindi le categorie sociologiche fondamentali fossero costituite dalle nozioni di soggetto, di individuo e di azione sociale; in Francia, invece, tutto contribuiva a far sì che la sociologia si definisse in senso opposto a quelle discipline e a quelle categorie.
È il principio secondo cui ogni fenomeno sociale - quale che sia - va sempre preso per ciò che è, ossia il risultato di azioni, convinzioni o comportamenti individuali; tale principio viene indicato di solito con il termine di 'individualismo metodologico'.
Questa denominazione, dovuta a Schumpeter, è stata divulgata da Hayek e da Popper; tuttavia la s'incontra testualmente in una lettera di Weber a un amico, l'economista marginalista Robert Liefmann: "Anche la sociologia non può che prendere le mosse dalle azioni di uno, di alcuni o di molti individui, e ha quindi l'obbligo di adottare metodi rigorosamente individualistici". Né si tratta di un'affermazione occasionale di Weber, perché la ritroviamo sviluppata nelle prime pagine di Economia e società e in numerosi scritti metodologici.
È importante distinguere le varie accezioni del vocabolo 'individualismo' e non confondere l'accezione metodologica con quella morale o con quella sociologica. In senso morale è individualista chi vede nell'individuo la fonte suprema dei valori etici; in senso sociologico una società è individualistica quando assegna in generale all'individuo un valore preminente; in senso metodologico, infine, la nozione di individualismo implica solamente che, per spiegare un fenomeno sociale, si debba risalire alle sue cause individuali.
Questo principio trova frequente applicazione nelle scienze sociali. Lo segue l'economista nello spiegare la correlazione macroscopica inversa osservabile tra la domanda globale e il prezzo di un prodotto: egli attribuisce il fenomeno al fatto che il consumatore medio tende a salvaguardare il proprio potere d'acquisto volgendosi, se possibile, verso altri prodotti. Analogamente, il sociologo che interpreta il successo di un profeta affermando che il suo messaggio viene sentito da una data categoria come valorizzatore delle proprie attività, fa anch'egli dell'individualismo metodologico - come monsieur Jourdain, protagonista di Il borghese gentiluomo di Molière, senza saperlo faceva, parlando, della prosa - in quanto riconduce un fenomeno collettivo alle cause individuali che lo generano.
In effetti, l'individualismo metodologico non implica affatto che si consideri l'attore sociale come sospeso in una specie di vuoto; al contrario, esso parte dal presupposto che l'attore sia stato socializzato, che sia cioè in relazione con altri attori che come lui occupano dei ruoli sociali, hanno delle convinzioni, ecc. Il principio in questione non porta a vedere la società come una giustapposizione di singoli individui calcolatori, non crea un'immagine atomistica della vita sociale, ma un'immagine interazionistica: si può quindi parlare indifferentemente di sociologia dell'azione o di sociologia dell'interazione. L'equivoco tra individualismo e atomismo è peraltro frequente, e in esso sono caduti sia Gurvitch a proposito di Weber (La vocazione attuale della sociologia), sia Aron a proposito di Simmel (La philosophie critique de l'histoire).In sociologia lo stile individualistico è riconoscibile dall'attenzione che l'autore di un'analisi dedica alla psicologia degli attori sociali. Così in L'etica protestante Weber esamina a lungo le credenze, gli atteggiamenti, le concezioni dei calvinisti, e questo momento 'microscopico' è il nocciolo logico della sua analisi, il luogo in cui prende forma la sua spiegazione del nesso 'macroscopico' fra protestantesimo e capitalismo. Al contrario, nel suo celebre studio sul suicidio Durkheim dichiara in modo esplicito di disinteressarsi completamente dei motivi che spingono gli individui a uccidersi: per lui la sociologia non solo può prescindere dagli aspetti psicologici del fenomeno studiato, ma deve farlo se vuol essere scientifica.
Va osservato, d'altra parte, che l'individualismo metodologico non vieta - perché dovrebbe? - di raggruppare gli attori sociali in categorie, qualora essi si trovino in situazioni simili e sia lecito attendersi da loro lo stesso atteggiamento riguardo a una data questione. Così Weber ammette che vi sia qualcosa di comune fra tutti i calvinisti, come pure tra questi, i pietisti e i metodisti; analogamente, lo studioso di economia ammette che di fronte a un aumento di prezzo tutti i consumatori siano portati a reagire nello stesso modo. Non vi è dunque nessuna contraddizione fra l'individualismo metodologico e la vocazione della sociologia a occuparsi di fenomeni collettivi.Il principio in questione non esclude neppure che in certe condizioni si possa trattare un'entità collettiva come se fosse un individuo. Così, si può parlare di un governo o di un partito come se si trattasse di individui. Essendo entrambi dotati di un sistema decisionale collettivo, è possibile enunciare proposizioni del tipo: "Il partito X ha deciso di adottare una certa strategia perché conta di trarne un vantaggio elettorale". In tal caso la personificazione non presenta nessuna difficoltà; è invece contrario al principio dell'individualismo metodologico affermare ad esempio: "La società del tale paese pensa che..." oppure: "La classe operaia ritiene conforme ai suoi interessi che...".
Il principio di cui ci occupiamo è dunque semplice e addirittura banale: tuttavia non sempre è di facile applicazione. Un tasso di natalità risulta dalla somma di molti comportamenti individuali, ma può darsi che il sociologo non sia capace di spiegare perché i comportamenti relativi alla procreazione sono cambiati da un periodo a un altro. Per far questo possono risultare utili altri tipi di spiegazione, come quella causale: può essere importante, ad esempio, notare l'esistenza di una correlazione tra l'andamento del tasso di natalità e quello di una certa variabile economica, anche se non si conoscono affatto le cause microscopiche che hanno prodotto la variazione del tasso. Analogamente, è possibile constatare un'evoluzione della domanda globale d'istruzione senza essere in grado di precisare perché le famiglie tendono a far raggiungere ai loro figli livelli d'istruzione più elevati.
Talvolta l'individualismo metodologico viene messo in discussione per ragioni epistemologiche o metafisiche. Alcuni studiosi - ad esempio Comte e Durkheim - ritengono che la scienza implichi l'eliminazione dei dati soggettivi; altri considerano l'individuo come privo di autonomia e interamente dominato dai determinismi sociali, e ne traggono la conclusione che un'analisi fondata sull'individualismo metodologico non può che rafforzare un'illusione di autonomia.
Ma forse il principale motivo del frequente rifiuto dell'individualismo metodologico è che molti sociologi aderiscono ancora, senza rendersene conto, ai principî della tradizione di Durkheim, proprio come quest'ultimo accettava senza discuterle la maggior parte delle opinioni di Comte.
Come si è visto, per il primo principio della sociologia dell'azione un fenomeno sociale dev'essere interpretato, per quanto è possibile, come effetto di azioni, convinzioni e comportamenti individuali; ma affinché la spiegazione sia esauriente occorre anche mettere in luce il perché di tali azioni, convinzioni e comportamenti. Sulla scia di Weber, questo secondo momento dell'analisi viene generalmente chiamato 'comprensione' e il primo 'spiegazione': tuttavia questo termine è usato anche per indicare l'insieme dei due momenti. Ad esempio, Tocqueville ci spiega, in L'antico regime e la rivoluzione, che nel Settecento l'arretratezza dell'agricoltura francese rispetto a quella inglese aveva come causa principale l'assenteismo dei proprietari terrieri, ma egli ci dice anche che quest'assenteismo è comprensibile: data l'importanza preminente dello Stato, i proprietari francesi avevano molte più occasioni e ragioni per essere attirati dalle cariche amministrative di quante non ne avessero i loro colleghi inglesi.
Nella sociologia dell'azione si parte dal postulato che il comportamento di un attore sociale sia sempre comprensibile. Ciò non significa che l'osservatore sia in grado di accedere immediatamente alle motivazioni dell'attore; al contrario, nella maggior parte dei casi queste motivazioni devono essere rintracciate e ricostruite mediante il confronto e la verifica di più testimonianze, un po' come in un'indagine poliziesca. Lo stato di 'empatia', che l'osservatore raggiunge quando può dire con convinzione: "nelle stesse circostanze avrei agito senza dubbio (o forse) nello stesso modo", rappresenta in genere un punto d'arrivo e non un punto di partenza.Ancora una volta è necessario soffermarsi su una questione di terminologia. Si parla talvolta di 'sociologia comprendente' per indicare il paradigma - le cui origini risalgono a Dilthey - secondo cui le scienze storico-sociali sono scienze interpretative, destinate a indagare il senso delle istituzioni, delle tradizioni, degli episodi storici più importanti, ecc., e non scienze esplicative, miranti a trovare le cause dei fenomeni sociali. La 'sociologia comprendente', nel senso derivatole da Dilthey, avrebbe dunque come metodo elettivo l'ermeneutica. Talvolta però si parla di sociologia comprendente in un altro senso, per designare il paradigma della sociologia dell'azione: in tal caso il termine 'comprensione' si applica esclusivamente all'attore individuale e sta a indicare che in ogni analisi sociologica vi è un momento essenziale che consiste nel ricercare il senso del comportamento di quell'attore. Così intesa, la comprensione è solo un momento della spiegazione e non indica un obiettivo di altra natura. Nel parlare di comprensione e di sociologia comprendente è dunque indispensabile precisare se si adoperano questi termini nel senso di Dilthey o in quello di Weber. Il vocabolo 'comprendere' può avere infatti significati diversi secondo che si tratti di comprendere il senso di un'azione oppure quello di un evento storico o di un'opera letteraria. Del resto, l'equivoco è spesso presente nella parola stessa: parlando del senso di un'azione si può alludere sia ai suoi motivi, sia alle sue conseguenze, così come parlando del senso di una rivoluzione si possono indicare con questo termine sia l'influsso che essa esercita, sia le motivazioni di chi la fa.
Nel paradigma della sociologia dell'azione è insito un problema di difficile risoluzione: che cosa significa comprendere l'azione, le convinzioni, il comportamento di un attore sociale? In che modo è possibile arrivare - senza cadere nell'arbitrario e nel soggettivo - ad affermare legittimamente e con piena convinzione di comprendere le motivazioni dell'attore stesso?
Gli studiosi 'positivisti' hanno cercato più volte di dimostrare che in una sociologia scientifica non può esservi spazio per la nozione di 'comprensione': secondo loro questa nozione implicherebbe un elemento non eliminabile di soggettività e non si riuscirebbe a farla corrispondere a operazioni controllabili. La questione è stata esposta in modo sommario da Durkheim, e in modo più elaborato da alcuni filosofi della scienza contemporanei; ma è possibile dimostrarne la falsità per assurdo, indipendentemente dal livello tecnico dell'esposizione. Se essa infatti fosse vera, nessuna indagine poliziesca potrebbe per principio essere oggettiva (il che ovviamente non significa che nella pratica tutte le indagini di questo tipo abbiano esito positivo). Nella tesi suddetta vengono confuse tra loro due nozioni - quella di oggettività e quella di esteriorità - che sono invece ben distinte.
Il principio di comprensione stabilisce che è possibile ricostruire, in base all'analisi di più testimonianze, le motivazioni del comportamento di un attore sociale. Esse possono assumere fra l'altro forma di passione o di emozione (il tale si è comportato così per amore, in un impeto d'ira, ecc.): è evidente che i comportamenti di questo genere hanno una parte notevole nella spiegazione storica, in particolare quando si prendono in esame personaggi di primo piano. Sembra accertato, ad esempio, che nel 1870 la diplomazia francese si sarebbe comportata in modo diverso nei riguardi della Prussia se a quel tempo Napoleone III non fosse stato ammalato, e quindi più sensibile all'influsso dell'imperatrice Eugenia: questa, ottenebrata dall'amore materno, era tutta presa dall'idea di assicurare la successione al trono al principe ereditario, e l'inasprimento della tensione fra i due paesi le sembrava utile per riunire i francesi intorno alla dinastia.
Tuttavia i temi di cui i sociologi si occupano e la scala in cui si svolge la loro ricerca fanno sì che essi, a differenza dei biografi, abbiano a che fare molto di rado con le passioni e le emozioni, e debbano prendere più spesso in esame comportamenti spiegabili con motivazioni razionali. Ad esempio, i calvinisti studiati da Weber avevano buone ragioni - date le loro attività - per reinvestire i profitti anziché destinarli al consumo, così come i proprietari terrieri francesi del tardo Settecento avevano buone ragioni per procurarsi degli uffici regi, anziché comportarsi come i gentiluomini di campagna inglesi.
Per il sociologo, comprendere il comportamento di un attore sociale significa dunque generalmente comprenderne le ragioni o piuttosto le buone ragioni. In questo senso, e solo in esso, si può dire che la sociologia (o almeno la sociologia dell'azione) tende ad accettare il postulato della razionalità dell'attore sociale. Ciò non significa che essa consideri l'uomo come un essere razionale, perché il suo oggetto di studio non è l'uomo, ma l'attore sociale: in altri termini, il postulato della razionalità è un principio metodologico e non un'affermazione ontologica. Inoltre, la nozione di razionalità è definita qui in senso lato; per essere precisi, diremo che la sociologia considera razionale un comportamento ogni volta che può darne una spiegazione enunciabile in questi termini: "Il fatto che X si sia comportato nella maniera Y è comprensibile: in effetti, nella situazione in cui si trovava egli aveva buone ragioni per agire così".
Questo criterio semantico permette di tratteggiare il confine tra razionalità in senso lato e irrazionalità. Ad esempio, non è possibile sostenere: "La madre aveva buone ragioni per prendere a schiaffi il bambino, perché era adirata". Un simile enunciato dà subito un'impressione di assurdità. È possibile invece dire: "La madre non aveva nessuna ragione di prendere a schiaffi il bambino, ma era adirata". Il suo comportamento era cioè comprensibile ma non razionale, neppure in senso lato. (A questo proposito va ricordato che in Weber s'incontrano passi in cui gli aggettivi 'comprensibile' e 'razionale' sono usati come sinonimi: ci sembra tuttavia più appropriato dare al secondo termine un'estensione minore). Analogamente, non si potrà sostenere: "Il terrorista aveva buone ragioni per uccidere la sua vittima, perché era convinto che...", mentre si potrà dire: "Il terrorista non aveva nessuna ragione per uccidere la sua vittima, ma era convinto che...". Si potrà invece sostenere senza difficoltà: "I calvinisti avevano buone ragioni per reinvestire i loro profitti, perché erano convinti che...".Questi ultimi due esempi suggeriscono che la nozione di razionalità in senso lato può essere definita a livello semantico, ma non a livello formale. In altri termini, una proposizione come "X aveva buone ragioni per fare Y, perché credeva Z" può avere senso oppure esserne priva; ne consegue che una convinzione può essere o non essere accettata come una ragione a seconda del suo contenuto. In effetti, perché essa venga accettata, è necessario che si possa aggiungere una precisazione del tipo "e X aveva buone ragioni per credere Z, perché..." (ad esempio perché Z era vero, o verosimile, o plausibile e considerato tale nell'ambiente di X, o in generale perché X aveva tutte le ragioni per attribuire a Z un valore positivo).
Se si accetta questa definizione semantica della razionalità - nel senso lato in cui tale nozione è usata (implicitamente più spesso che esplicitamente) nella sociologia dell'azione - si comprende meglio come Weber abbia adoperato con naturalezza, cioè senza sentire il bisogno di giustificarlo, un termine come 'razionalità assiologica', vale a dire rispetto al valore (Wertrationalität). Alcuni commentatori di Weber (Lukes, Gellner) hanno criticato quest'espressione, perché avevano in mente una definizione più restrittiva della razionalità, corrispondente a quella che chiameremo in seguito 'razionalità oggettiva'. In questo caso, sembra effettivamente difficile che si possa parlare di razionalità assiologica. Se invece si ammette che esistano proposizioni dotate di senso del tipo "X aveva buone ragioni per fare Y perché credeva Z", e se si accetta di definire razionale un comportamento Y quando sia possibile enunciare una proposizione dotata di senso del tipo "X aveva buone ragioni per credere Z, perché...", allora la nozione di razionalità assiologica cessa di sembrare una chimera formata da due parti fra loro incompatibili.
La definizione semantica di razionalità in senso lato ora proposta permette di distinguere vari tipi di razionalità. Un comportamento è razionale in senso lato quando si può affermare: "X aveva buone ragioni per fare Y, perché..."; ma a questo "perché" possono far seguito vari tipi di motivazione, ad esempio: a) perché Y corrispondeva all'interesse (o alle preferenze) di X; b) perché Y era il mezzo migliore per conseguire lo scopo che X si era prefisso; c) perché Y era una conseguenza necessaria di Z, in cui X credeva e aveva buone ragioni per farlo; d) perché X aveva sempre fatto (o creduto) Y e non aveva nessun motivo per mettere in discussione questa sua prassi (o convinzione).
Nonostante la semplicità di queste distinzioni, a esse non corrispondono distinzioni linguistiche ben definite. Nel caso a) si può parlare di razionalità utilitaria; nel caso b) di razionalità teleologica, vale a dire rispetto allo scopo (la Zweckrationalität di Weber); nel caso c) di razionalità assiologica; nel caso d) di razionalità tradizionale. Fra gli atti ispirati alla tradizione, alcuni sono razionali e altri no: i primi sono quelli che corrispondono al caso d), gli altri sono quelli per i quali bisognerà piuttosto dire: "X non aveva nessuna ragione per fare Y, ma la tradizione voleva che agisse così".
Si può parlare di razionalità oggettiva quando l'attore adopera i mezzi oggettivamente migliori - in una data situazione della conoscenza - per conseguire uno scopo: in questo modo agisce l'ingegnere che utilizza la migliore combinazione di materiali, tecniche e procedimenti per costruire un ponte che sia il più sicuro, il più adatto alla sua funzione e al sito, e al tempo stesso il meno costoso. Pareto chiama 'logiche' le azioni di questo tipo; spesso esse vengono definite 'razionali', ma in tal caso è evidente che questo termine è preso in senso stretto.In un senso un po' più ampio, è possibile definire la razionalità in base alle nozioni di 'massimizzazione' o di 'ottimizzazione' implicite nella definizione precedente: si riconosce peraltro che tale ottimizzazione è soltanto un'idea guida e che in pratica è spesso difficile - se non impossibile - determinare, sia pure approssimativamente, il modo migliore di conseguire uno scopo, o conoscere esattamente lo scopo 'più ambizioso' che ci si possa proporre in relazione ai mezzi disponibili. Invece di cercare 'il meglio', si cercherà allora 'il minor male', la soluzione 'sostenibile', di cui 'non ci si debba vergognare' e che si possa ritenere 'soddisfacente'. Herbert Simon ha contribuito a mettere in evidenza che in generale gli operatori economici, ad esempio i dirigenti d'azienda, cercano non tanto un'irraggiungibile perfezione nella scelta dei mezzi, quanto una soluzione prudente, 'soddisfacente'; da qui la sua insistenza sulla nozione di satisfying.
Altri autori hanno osservato che il modello mezziscopo può risultare spesso semplicistico: è frequente invece il caso in cui l'attore procede per tentativi e in modo graduale, adottando un primo provvedimento per ridurre l'incertezza delle sue scelte, evitando finché può d'impegnarsi in un'azione irreversibile, ecc. Questo tipo di comportamento e questi modelli di analisi vengono talvolta designati col termine di 'gradualismo' (incrementalism); a essi è assimilabile di solito l'attività diplomatica.
Le nozioni di satisfying e di 'gradualismo' consentono di descrivere in maniera più realistica l'azione sociale, e perciò di tener conto dei casi in cui la situazione è troppo complessa perché il comportamento dell'attore sia analizzabile negli stessi termini di quello dell'ingegnere: in effetti, né il dirigente d'azienda né il diplomatico seguono nella loro azione una logica altrettanto semplice.
Gli autori che hanno proposto questa maggiore 'elasticità' del modello razionale dell'azione sociale sono partiti generalmente da un'ipotesi di base, secondo cui l'elasticità stessa è resa necessaria dal fatto che nella pratica l'attore non dispone di tutte le informazioni di cui avrebbe bisogno per comportarsi razionalmente (nel senso restrittivo della parola): ciò equivale ad affermare che se tutte le informazioni fossero gratuite o facilmente accessibili, l'azione sociale sarebbe sempre un'azione logica (nel senso di Pareto).
A proposito di questo complesso di modelli si può dunque parlare di razionalità oggettiva, con l'intesa che vi sono modelli più rigidi, nei quali si suppone che l'attore disponga di tutte le informazioni utili, e altri meno rigidi, nei quali quest'ipotesi non è realizzata, e l'agente deve quindi ricorrere a compromessi accettabili.
Nonostante la loro adattabilità, i modelli che si limitano a presupporre una certa incompletezza d'informazione risultano spesso insufficienti per il sociologo che si propone di comprendere l'azione sociale.
Tale insufficienza deriva dal fatto che questi modelli non tengono conto della tendenza da parte dell'attore a mobilitare ogni sorta di a priori (di tipo dichiarativo, normativo, ecc.) per rendersi conto della situazione in cui si trova, per definire i propri scopi e per scegliere i mezzi da usare. Per di più, in molti casi, la distinzione tra mezzi e scopi è incerta: scrivere un libro è spesso un mezzo per esercitare un'influenza, ma può essere anche un'attività capace di procurare un piacere.
Un esempio istruttivo e semplice, dovuto a Simon, permette di chiarire la nozione di razionalità soggettiva. Uno sperimentatore chiede a un certo numero di soggetti di prevedere i risultati di una sfida a 'testa o croce', ottenuti però con una moneta deformata, cosicché la 'testa' ha otto probabilità su dieci di apparire. Oggettivamente la strategia migliore sarebbe quella di prevedere sempre 'testa', perché in tal modo si avrebbero per ogni lancio otto probabilità su dieci d'indovinare il risultato; ma in realtà questa strategia viene usata di rado e i soggetti decidono per lo più di prevedere 'testa', in maniera casuale, solo otto volte su dieci. Un simile comportamento è oggettivamente errato, perché le probabilità di riuscita si riducono così a 68 su 100; ma soggettivamente costituisce una risposta naturale e razionale al problema posto. Gli interpellati hanno infatti buone ragioni per scegliere una strategia d'imitazione, realizzando una serie governata dalle stesse regole che governano la serie che si chiede loro di indovinare. Per risolvere il problema loro proposto, essi hanno utilizzato un a priori, un principio semplice e razionale, che sarebbe efficace in molte altre circostanze, anche se non lo è nel caso specifico.
Quest'esempio suggerisce due osservazioni. Innanzitutto, l'attore mobilita - spesso senza rendersene esattamente conto - ogni sorta di a priori, che possono risultare efficaci in determinate circostanze, ma che lo sono meno in altre; in secondo luogo, anche quando questi a priori portano a una cattiva 'soluzione' del problema, non è detto che l'attore debba per questo essere giudicato irrazionale (in effetti, è possibile spiegare il comportamento dei soggetti studiati da Simon mediante un'analisi del tipo "essi avevano buone ragioni per scegliere quella strategia, perché...").Nel caso in esame l'azione non è certamente interpretabile come scelta di una soluzione ottimale - o anche soltanto 'soddisfacente' - tra una serie di possibili soluzioni valutate in base al loro costo, alla loro efficacia, ecc.: la decisione dell'attore è dettata da un principio che gli è parso adeguato al problema proposto.
A seconda dei casi, gli a priori mobilitati nel corso di un'azione possono essere dei principî, ma anche assumere altre forme. Supponiamo ad esempio che tra due attori A e B nasca un'interazione, e che A conosca poco B; per ridurre l'incertezza in cui si trova, probabilmente A tenderà, almeno in un primo tempo, a spiegare le reazioni di B in base alla propria psicologia, utilizzando così uno schema interpretativo che non gli offre nessuna garanzia di essere applicabile al caso in questione.
Analogamente, immaginiamo che in una situazione data un uomo politico debba prendere una decisione: probabilmente egli si richiamerà a una situazione passata che gli sembri paragonabile a quella presente, e cercherà di non ripetere gli errori allora commessi. In questo senso si è potuto sostenere che le decisioni prese da Roosevelt nel 1945 furono ispirate soprattutto dalla preoccupazione di non ricadere negli errori compiuti da Wilson nel 1918.
Un'altra specie importante di razionalità soggettiva è quella assiologica di Weber, in cui l'azione è orientata verso un valore. Parlando di razionalità assiologica, Weber ha inteso evidentemente limitarsi al caso in cui si può ritenere che l'attore abbia buone ragioni per credere in un dato valore: esistono infatti, se si accettano le precedenti distinzioni semantiche, azioni ispirate anch'esse a valori, ma irrazionali, del tipo di quelle per cui non è possibile affermare: "X aveva buone ragioni di credere nel valore Z, perché...".
Occorre tuttavia sottolineare che l'azione sociale può fondarsi su a priori di vario genere, sia positivi che normativi, aventi il carattere di principî, di proposizioni descrittive, ecc. Tali principî vengono spesso applicati dall'attore in maniera acritica, ma ciò non basta a rendere irrazionale il suo comportamento, perché nella pratica quei principî si dimostrano per lo più efficaci: ad esempio, cercare di non ripetere gli errori già commessi è in generale opportuno, anche se talvolta questo principio può indurre a commettere un altro errore.
La nozione di razionalità soggettiva porta a una definizione ampliata di ciò che è razionale, ma ciò non significa che non rimanga nessuno spazio per l'irrazionalità: vi sono infatti molti comportamenti a cui non può farsi corrispondere un'espressione del tipo "X aveva buone ragioni per fare Y, perché...", e si può convenire di definirli 'irrazionali'. In questo senso, vi è irrazionalità ogni volta che l'attore non riesce a dominare (o domina solo in modo imperfetto) il suo comportamento, come nel caso delle passioni.
Occorre d'altra parte riconoscere che molti comportamenti derivano da una commistione di elementi razionali e irrazionali. Ad esempio, alcune teorie filosofiche sono state ispirate ai loro autori da un incontenibile sentimento di ostilità verso altre teorie: così, non è possibile spiegare l'evoluzione del pensiero di Popper se non si tiene conto della sua avversione per Rudolf Carnap e per Alfred Adler.
Tuttavia sarà bene non fidarsi delle teorie che tendono a dare eccessivo risalto all'irrazionalità dei comportamenti. Ad esempio, per spiegare certe 'resistenze' alle innovazioni, si ipotizza talvolta l'esistenza di oscure forze che manterrebbero l'attore sociale asservito alle tradizioni, impedendogli di riconoscere i propri interessi; secondo altre teorie, il comportamento dell'attore sarebbe solitamente guidato da un'invisibile censura o autorità sociale che gli indicherebbe, senza che egli se ne renda conto, ciò che deve fare o evitare di fare.
Una prima obiezione a queste teorie è che esse si richiamano a entità non osservabili (nessuno ha mai visto le oscure forze a cui abbiamo accennato); in secondo luogo, spesso si può dimostrare che esse derivano da presupposizioni di chi conduce l'indagine; infine, è possibile in generale - in base a maggiori informazioni e a un'analisi più approfondita - trovare motivazioni razionali da sostituire alle pretese motivazioni irrazionali dell'attore. Spesso il contadino renitente a un'innovazione è mosso dalla semplice prudenza, ma il tecnocrate, che vorrebbe vedere seguiti docilmente i propri consigli, tende a interpretare il comportamento del contadino come irrazionale (in quanto contrario ai suoi interessi, così come il tecnocrate li concepisce), e quindi è portato a supporre che esso sia guidato da oscure forze di origine sociale.
Un primo motivo per cui troppo spesso si considera irrazionale il comportamento altrui è che non si arriva a comprenderlo per difetto d'informazione: può darsi che X abbia buone ragioni per fare Y, ma che non si riesca a identificarle, e che per metterle in luce sia necessaria un'indagine più o meno lunga e difficile, se non addirittura impossibile (ricordiamo a questo proposito che il ricostruire i motivi di un comportamento non è mai - salvo che nella fase finale dell'analisi - una questione di empatia).
In generale un osservatore tende a giudicare irrazionale il comportamento di un attore quando ha l'impressione che questi vada contro i propri interessi; non è detto però - come ha ben mostrato Heinrich von Kleist in Michael Kohlhaas -che un comportamento 'masochistico' sia necessariamente irrazionale.
In secondo luogo, l'influenza di Marx - specialmente il Marx delle prime pagine de L'ideologia tedesca -, di Nietzsche e di Freud ha prodotto nel sociologo un effetto di legittimazione: smascherare le forze oscure che sono all'origine di un comportamento significa dar prova di modernità, dimostrare che si è recepita la lezione della psicologia del profondo, ecc. Il richiamarsi a questi maestri può essere senza dubbio una fonte d'ispirazione, ma può anche portare a spiegazioni semplicistiche, sostenute, più che da una validità intrinseca, dall'autorità delle teorie a cui si appellano.Infine, accade molto spesso che lo studioso e il suo pubblico condividano certi a priori riguardo al soggetto analizzato. Ad esempio, i comportamenti dei 'primitivi' sono stati a lungo interpretati come irrazionali non solo perché la 'distanza culturale' rispetto all'osservatore rendeva oggettivamente difficile la loro comprensione, ma anche perché riusciva agevole all'osservatore far condividere al suo pubblico quell'interpretazione.
In linea teorica ogni analisi condotta nel quadro della sociologia dell'azione deve innanzitutto identificare gli attori (o le categorie di attori) a cui si fa risalire il fenomeno da spiegare (i proprietari terrieri di Tocqueville, i calvinisti di Weber, ecc.). In secondo luogo, deve comprendere il comportamento di questi attori (perché i proprietari terrieri francesi erano più assenteisti di quelli inglesi? perché nelle scuole del Baden gli studenti protestanti si dedicavano alle materie scientifiche più di quanto non facessero quelli cattolici?). Infine, deve spiegare in che modo questi comportamenti individuali producano il fenomeno macroscopico che si cerca di spiegare.In molti casi quest'ultima fase dell'analisi - quella in cui si esaminano gli effetti macroscopici prodotti dalla composizione o aggregazione di comportamenti individuali - non presenta particolari difficoltà, in quanto gli effetti stessi hanno un carattere puramente additivo: poiché ciascun proprietario terriero francese era più invogliato del suo collega inglese ad abbandonare le sue terre per andare a ricoprire un ufficio regio in città, a livello macroscopico il tasso globale di assenteismo era più elevato in Francia che in Inghilterra.
Vi sono invece dei casi in cui l'aggregazione dei comportamenti individuali può dare origine a effetti di tipo particolare; un caso importante è quello in cui l'aggregazione produce effetti indesiderabili detti 'perversi', non voluti da nessuno degli attori. Supponiamo ad esempio che tutti i clienti di una banca abbiano buone ragioni per dubitare della sua solvibilità; ciascuno di essi sarà allora indotto a ritirare i suoi depositi, e poiché le riserve di una banca sono sempre minori della somma dei depositi, ne risulterà un effetto indesiderabile - il fallimento della banca. Questo tipo di comportamento è stato osservato soprattutto durante la grande crisi del 1929 (incidentalmente, noteremo che il panico da cui furono presi allora gli investitori non si spiega affatto con la loro irrazionalità, bensì con la loro prudenza) e da esso Robert K. Merton dedusse la sua nozione di 'profezia autorealizzantesi'. Trasferendo sul piano generale quel caso particolare, egli sostenne con ragione che l'analisi sociologica consiste in gran parte nel mettere in evidenza effetti imprevisti di questo tipo. Così facendo, Merton si richiamava a un punto di vista tradizionale, che era stato ripetutamente enunciato prima di lui e che lo sarebbe stato anche in seguito: in L'etica protestante Weber aveva visto nello sviluppo del capitalismo un effetto imprevisto dell'etica protestante, e già in precedenza numerosi autori (Mandeville, Rousseau, Adam Smith, Marx, Spencer) avevano insistito sull'importanza di simili effetti.
Dal punto di vista terminologico, noteremo qui per inciso che la nozione di effetto imprevisto non copre l'intero campo degli effetti indesiderabili, per il semplice fatto che spesso questi ultimi sono senz'altro prevedibili. Ad esempio, oggi si sa bene che il blocco degli affitti, destinato a tutelare i locatari, induce molti proprietari a togliere il loro appartamento dal mercato delle locazioni, in quanto l'affitto bloccato può risultare addirittura minore delle spese di manutenzione. Quest'effetto è indesiderabile e 'perverso', nel senso che il blocco si traduce - contrariamente a quanto ci si riprometteva - in un danno per chi cerca un alloggio in affitto; ma non si può certo dire che sia un effetto imprevisto.
Analoghe difficoltà presenta la nozione, avente anch'essa l'attrattiva della semplicità, di effetto non voluto: in realtà questi effetti vengono spesso innescati volontariamente e sono accolti con soddisfazione da chi li ha prodotti. Molte volte l'arte di governare consiste nel prendere provvedimenti che spingano i cittadini a servire l'interesse generale favorendo al tempo stesso i loro interessi particolari: si pensi alle politiche fiscali per incentivare il risparmio, il cui successo non è certo imprevisto o non voluto dai politici responsabili. Quanto ai risparmiatori, è vero che il loro intento principale non è di 'aiutare l'industria', ma ciò non toglie che essi possano comprendere e accettare gli scopi che le autorità politiche si sono prefissi.
La nozione di effetto perverso è più generale di quelle di effetto imprevisto o di effetto non voluto, ma anch'essa urta contro una difficoltà: quella di evocare la nozione di effetto indesiderabile. Accade spesso, invece, che si provochino senza volerlo effetti desiderabili: se ad esempio un droghiere abbassa i prezzi per attirare la clientela di un suo concorrente, questi reagisce abbassando i propri, ed entrambi operano involontariamente nell'interesse dei consumatori. È difficile isolare nell'aggettivo 'perverso' il significato strettamente etimologico e associarlo soltanto all'idea della perturbazione, dell'inversione, del sovvertimento che vengono a prodursi fra le intenzioni degli attori e i risultati delle loro azioni.Per tutti questi motivi è preferibile forse adoperare termini più neutri e parlare di effetti di aggregazione, di composizione, di sistema o emergenti.
Si tratta di effetti di composizione che assumono la forma di effetti additivi: essi nascono quando tutti gli attori si trovano nella medesima situazione, e quindi ciascuno di essi si comporta o tende a comportarsi nello stesso modo. Ciascun investitore, ritenendo possibile il fallimento della banca, è indotto a ritirare i suoi depositi, e tutti insieme provocano quel fallimento che nessuno desiderava; analogamente ciascun imprenditore calvinista tendeva - se le ipotesi di Weber sono valide - a reinvestire i suoi profitti, e tutti insieme hanno prodotto un effetto di accumulazione.
Nonostante la loro semplicità, gli effetti additivi hanno un'importanza notevole, anzi fondamentale, nell'analisi sociologica: i fenomeni sociali di maggior rilievo corrispondono spesso a effetti di questo tipo. L'interesse durevole presentato da L'etica protestante di Weber deriva dal fatto che in questo saggio il mutamento più rilevante dei tempi moderni - la nascita dell'accumulazione capitalistica - è interpretato come un effetto di aggregazione di un gran numero di comportamenti individuali, ciascuno d'importanza marginale.
Nello stesso modo è stato spiegato, da Adam Smith fino a Spencer e a Durkheim, lo sviluppo della divisione del lavoro. Supponiamo che in un'azienda si decida d'impiegare in una mansione due persone invece di una, ad esempio perché la mole di lavoro è aumentata: può darsi che i due scelgano di eseguire ciascuno una metà del lavoro, ma può anche darsi che preferiscano dedicarsi ciascuno a un aspetto diverso del lavoro stesso. Ammettiamo che si avveri il secondo caso e che i due finiscano - senza essersi prefisso questo risultato - con lo svolgere il lavoro assegnato in un tempo minore: è probabile che la specializzazione da essi istituita venga confermata dall'azienda e che in tal modo aumenti, su scala microscopica, la divisione del lavoro.
Naturalmente il processo descritto tenderà a ripetersi e dopo un certo tempo l'organizzazione dell'azienda potrà diventare irriconoscibile: questo mutamento qualitativo sarà il risultato di una serie di effetti di aggregazione, e lo stesso potrà dirsi degli analoghi mutamenti che si avranno non più su scala aziendale, ma in tutta la società.
Numerose analisi sociologiche classiche dimostrano che parecchi processi sociali d'importanza storica sono connessi con effetti di aggregazione di questo tipo. Tuttavia questo concetto fondamentale non viene di solito accolto volentieri: esiste infatti un diffuso pregiudizio per cui l'importanza degli effetti dev'essere proporzionata a quella delle cause che li producono, ed è difficile accettare l'idea che la storia possa essere il risultato di una miriade di piccole cause prosaiche. Se così fosse, come potrebbe avere un senso? Anche ammesso che gli uomini non conoscano la storia che fanno, dovremo per questo riconoscere che essa è solo un rumore confuso?
In altri casi gli effetti di aggregazione hanno una struttura più complessa, come già avevano notato gli scrittori classici di filosofia politica. Ad esempio, tutto Il contratto sociale di Rousseau è fondato su un teorema di possibilità così enunciabile: può accadere, in certe condizioni, che individui che avrebbero interesse a collaborare tra loro non riescano a farlo. In effetti, se la legge morale o una forza esterna non li costringe a collaborare, ciascuno di essi può essere tentato di ritirarsi da un'impresa comune: già i due cacciatori del Discorso sull'origine della disuguaglianza fra gli uomini, che avevano deciso di appostarsi insieme per catturare un cervo, decidono poi di lasciare la posta e catturare la lepre che passa. Da questa parabola Rousseau trae la conclusione che bisogna "costringere l'uomo a essere libero": formula contraddittoria e pressoché incomprensibile, nonostante la sua celebrità, se non si tiene presente il teorema da cui deriva.
Molto tempo dopo Rousseau, questo particolare effetto di aggregazione è stato messo in rapporto nella teoria dei giochi con il cosiddetto 'dilemma del prigioniero'; va osservato però che la sua esistenza e la sua importanza erano state chiaramente percepite non solo dal pensatore ginevrino, ma già da Hobbes e da altri prima di lui. Ad esempio, secondo Tucidide, alcune delle sconfitte subite da Atene nella guerra del Peloponneso erano state provocate dalla cattiva organizzazione del sistema di alleanze ateniese, che induceva le altre città alleate di Atene ad agire piuttosto per conto proprio e facilitava l'insorgere di effetti del tipo sopra citato.
Questo è solo un esempio degli effetti di aggregazione complessi che la teoria dei giochi ha contribuito a formalizzare. Tale formalizzazione è istruttiva, perché ci fa capire che perfino le situazioni d'interazione più semplici - quelle tra due individui che cercano soltanto, come nel caso considerato da Rousseau, di soddisfare le loro preferenze egoistiche in condizioni d'informazione ideali - possono avere strutture assai diverse. Anche in questi casi semplici gli elementi di cooperazione e quelli di conflitto possono combinarsi nei modi più svariati: più precisamente, come ha dimostrato Rapoport, al caso in questione corrispondono ben 78 situazioni d'interazione diversamente strutturate. Naturalmente la differenziazione può essere ancora maggiore quando si prendano in esame situazioni d'interazione più complesse.
È impossibile dare anche soltanto un'idea della diversità di queste strutture. Non appena si va oltre i casi semplici, diviene impossibile addirittura comprendere questa diversità.Il fatto che Tucidide abbia identificato in concreto una struttura studiata in astratto da Rousseau basterebbe a dimostrare che le strutture d'interazione di cui si occupa la teoria dei giochi s'incontrano senz'altro nella realtà. Per rimanere nel campo dell'effetto 'dilemma del prigioniero', è possibile citarne numerosi esempi: dalla fila dinanzi a un cinema alla corsa agli armamenti e allo spreco pubblicitario. Per quanto riguarda quest'ultimo, spesso una ditta è costretta a farsi pubblicità dal momento in cui la fa una ditta sua concorrente; ammesso che la pubblicità sia efficace, può accadere, se il mercato è inestensibile, che nessuna delle due ditte ne tragga beneficio, e in tal caso le spese sostenute rappresentano una perdita secca. In un altro ambito, il fatto che nel Capitale Marx preveda l'autodistruzione del capitalismo deriva dalla sua convinzione dell'esistenza di un potente effetto di questo tipo, che si esprime nella legge della caduta tendenziale del tasso di profitto: non potendo fare a meno di accrescere la sua produttività il capitalista finisce col segare il ramo sul quale sta seduto, perché all'aumento della produttività corrisponde una minore importanza del fattore lavoro, dal cui sfruttamento deriva appunto il profitto.
In La logica dell'azione collettiva, Olson ha fatto notare che, se non si tiene presente l'esistenza di effetti di questo tipo, diventa difficile spiegare numerosi fenomeni sociali, familiari a tutti ma enigmatici e per giunta estremamente diversi: ad esempio, che la tassazione deve essere sempre coercitiva, che a parità di prelievo fiscale le imposte indirette sono tollerate meglio di quelle dirette e che certi movimenti sociali, come quello per la tutela dei consumatori (consumerism), non nascono di solito spontaneamente, ma devono essere messi in moto da qualche 'difensore' di grandi cause. Dal canto suo Boudon, in L'ineguaglianza delle chances e Effetti 'perversi' dell'azione sociale, ha fatto notare che effetti complessi analoghi (anche se non identici) a quelli ora ricordati s'incontrano nella sociologia dell'educazione e nell'analisi della mobilità e della stratificazione 'sociale'. È possibile così chiarire, ad esempio, perché la democratizzazione dell'istruzione influisca sull'uguaglianza delle possibilità di successo in misura assai minore di quanto ci si potrebbe attendere, e perché l'insoddisfazione collettiva possa aumentare (come già avevano notato, ciascuno a suo modo, Tocqueville e Durkheim) quando aumentano le possibilità di successo dei singoli.
Sono moltissime e non è possibile enumerarle tutte: ci limiteremo qui a esaminare in particolare alcuni punti che potrebbero dar luogo a equivoci.
Innanzitutto, la sociologia dell'azione non riguarda solo l'analisi dei gruppi ristretti, degli organismi o più in generale dei sistemi d'interazione, ossia di quei sistemi di dimensioni abbastanza limitate perché il sociologo possa analizzare il comportamento di ogni singolo attore. Essa riguarda anche l'analisi dei sistemi d'interdipendenza, cioè di quei sistemi in cui le azioni di ciascun individuo si riflettono su tutti gli altri senza che vi sia un'interazione. Ad esempio, tutti i calvinisti hanno 'cospirato' (ovviamente in senso strettamente metaforico) a promuovere il capitalismo moderno, così come tutti i capitalisti 'cospirano', stando alle affermazioni di Marx, a distruggere il capitalismo. Analogamente, facendosi concorrenza l'un l'altro nell'ottenere le lauree e i diplomi migliori gli studenti hanno 'cooperato' senza saperlo allo straordinario sviluppo economico del dopoguerra, ossia a un fenomeno al quale probabilmente nessuno di loro aveva pensato.I sistemi d'interdipendenza sono per lo più di dimensioni notevoli, e comunque di un ordine di grandezza diverso da quello dei sistemi d'interazione: per tale motivo si dubita talvolta che a essi sia applicabile la sociologia dell'azione, proprio perché fondata sull'analisi di comportamenti individuali. In realtà, va ricordato che nulla impedisce di raggruppare gli individui in categorie appropriate e di ricostruire il comportamento tipico ideale del 'rappresentante' ideale di ciascuna categoria. È questo il procedimento seguito dagli economisti quando parlano del produttore e del consumatore, da Weber quando descrive gli atteggiamenti tipici del puritano, da Tocqueville quando analizza i comportamenti del proprietario terriero francese e del gentleman farmer inglese, o da Sombart quando spiega perché l'operaio americano, a differenza di quello francese o tedesco, non ha nessuna ragione per essere attratto dal socialismo.
Ecco perché nella tradizione della sociologia dell'azione sono compresi un gran numero di studi relativi a fenomeni per loro natura macroscopici, come il mutamento sociale o lo sviluppo socioeconomico, o di studi comparativi riguardanti più nazioni. Beninteso, in questi campi di ricerca sono presenti anche altre tradizioni sociologiche. Ad esempio, nella sociologia dello sviluppo si adopera spesso l'analisi causale per evidenziare l'esistenza di correlazioni statistiche fra gli indicatori economici della crescita e alcune variabili esplicative (livello d'istruzione, sviluppo dei trasporti, ecc.); analogamente, nella sociologia comparativa della mobilità fra nazioni si cerca di stabilire delle correlazioni fra i tassi di mobilità e alcune variabili esplicative (caratteristiche del sistema politico, della stratificazione sociale, ecc.). Ma in generale questi risultati statistici acquistano significato solo quando vengono messi in relazione con comportamenti individuali di cui si possa comprendere la logica, il che equivale a passare dal paradigma causale a quello della sociologia dell'azione.
Spesso il rimanere ancorati all'analisi causale è dovuto alle gravi difficoltà che s'incontrano nel passaggio al paradigma dell'interazione. Queste stesse difficoltà fanno sì che il progresso della spiegazione sociologica assuma non di rado la forma di un'interpretazione 'individualistica' di dati macroscopici. Ad esempio, si sapeva da lungo tempo che le imposte indirette sono tollerate meglio di quelle dirette: ma questo dato globale è rimasto poco comprensibile finché non ci si è resi conto che esso deriva da processi psicologici semplici, risultanti a loro volta dal fatto che le imposte indirette, a differenza di quelle dirette, non sono soggette per loro natura all'effetto descritto da Olson. Allo stesso modo, era difficile capire perché negli Stati Uniti non avesse attecchito il socialismo e non vi fosse stata una laicizzazione paragonabile a quella dei paesi europei, prima che Sombart per il primo caso e Weber per il secondo proponessero delle semplici ipotesi esplicative. Secondo tali ipotesi, a causa di differenze globali - spiegabili a loro volta con la storia dei rispettivi paesi - gli Americani non hanno avuto le stesse ragioni degli Europei per essere attratti dal socialismo o per abbandonare le pratiche religiose tradizionali.
Un altro punto degno di nota è che l'importanza data nel paradigma dell'interazione al postulato della razionalità - da intendere, come abbiamo visto, in senso metodologico - appare in generale ben fondata. In effetti, si riesce molto spesso a interpretare certi dati macroscopici, a prima vista enigmatici, come risultati di comportamenti determinati da ragioni comprensibili (il che non implica affatto che tali ragioni siano sempre percepibili in modo agevole e immediato). Così, può sembrare strano che gli scienziati abbiano opposto non di rado una tenace 'resistenza' a innovazioni che in seguito sono state unanimemente accettate: si sa che alla fine del Settecento molti chimici illustri rimasero a lungo fedeli alla teoria del flogisto, nonostante che fossero a loro ben note le scoperte di Lavoisier, e lo stesso accadde più tardi per le teorie dell''etere'.
Questi fenomeni ricorrenti - che vengono per lo più attribuiti a 'ostinazione', a 'misoneismo', alle passioni, insomma all''irrazionalità' degli scienziati -, si spiegano meglio se si accetta di 'mettersi nei loro panni'. Si comprende allora che non è necessariamente segno di irrazionalità il non rendersi conto che un fatto contraddice una teoria. Innanzitutto, la percezione e l'interpretazione di un dato possono essere affette da ambiguità; in secondo luogo, è raro che un fatto possa essere dichiarato in contrasto con una teoria, in quanto una teoria può sempre essere migliorata; infine, può riuscire difficile abbandonare uno schema di pensiero prima di essersi convinti della sua definitiva inaccettabilità. Di conseguenza lo scienziato che respinge un'innovazione è spesso altrettanto 'razionale' del contadino che continua ad avere una prole numerosa perché ciò gli rende più facile l'esistenza.
Per concludere, possiamo chiederci come mai il paradigma della sociologia dell'azione, che pure sembra in gran parte improntato all'evidenza, incontri talvolta un'opposizione così tenace.Ciò dipende anzitutto da ragioni storiche. Comte concepiva l'individuo non soltanto come una creazione artificiosa dell'illuminismo e della Rivoluzione, ma anche come una forza di peso pressoché nullo sul corso della storia: unico soggetto di questa era l'umanità, il 'Grande Essere'. Attraverso Durkheim, Comte ha lasciato in eredità alla sociologia francese quel tono 'olistico' che si ritrova ad esempio in Lévi-Strauss.L'influsso comtiano si combina poi in modo complesso con certi sentimenti tipici del temperamento conservatore. Per molti studiosi intimamente conservatori - che possono anche essere 'progressisti', come si dice, in politica - la colpa delle società moderne è di aver sostituito l'individuo alla comunità. La responsabilità di ciò è stata attribuita di volta in volta a Gioacchino da Fiore, a Galileo, a Cartesio, a Hume, agli illuministi, a Weber; ma il punto su cui tutti i conservatori sono concordi è che l'individuo è un'astrazione e che solo la totalità è reale.
Secondo altri, infine, la sociologia dell'azione disconosce il carattere oppressivo delle strutture sociali e il fatto - ai loro occhi evidente - che l'individuo sia del tutto privo di autonomia.I paradigmi e le tradizioni di pensiero non nascono spontaneamente, bensì in un dato contesto intellettuale; possono inoltre risultare più o meno validi, ma in questo campo - quale che sia l'opinione di taluni filosofi della scienza - la teoria della selezione naturale incontra dei limiti. La sociologia dell'azione non è che una fra le tradizioni sociologiche, e questioni come la razionalità dell'attore sociale, l'opposizione tra olismo e individualismo, la pluralità delle tradizioni sociologiche e la loro minore o maggiore validità, le loro origini storiche e i motivi della loro persistenza rimangono questioni affascinanti, sia dal punto di vista storico che da quello epistemologico. (V. anche Giochi, teoria dei; Individualismo metodologico; Razionalità).
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