VISCONTI, Azzone
– Nacque a Ferrara, il 7 dicembre 1302, da Galeazzo (v. la voce in questo Dizionario) e da Beatrice d’Este. Nel 1330 si sposò con Caterina di Savoia, da cui non ebbe figli.
Non si hanno notizie sulla sua infanzia: probabilmente visse con il padre e il nonno Matteo le vicende dell’esilio ferrarese (1302-10) e del successivo rientro a Milano. La carriera pubblica di Azzone iniziò nel luglio del 1324, quando Galeazzo divenne signore di Milano e lasciò al figlio, allora ventiduenne, il governo di Piacenza; ma la città, approfittando del momento di transizione, dopo poche settimane si ribellò e si sottomise al pontefice. Azzone ebbe allora una serie di incarichi militari, che dovevano servire a consolidare la rete di alleanze ghibellina a supporto del potere visconteo su Milano.
Nello stesso 1324, Castruccio Castracani degli Antelminelli richiese l’aiuto dei signori di Milano contro i guelfi toscani capitanati da Raimondo Cardona. Di fronte alla promessa del pagamento dell’enorme somma di 16.000 fiorini, Visconti si mise al soldo del signore di Lucca e, alla testa di un contingente valutato fra gli 800 e i 1200 cavalieri, quasi tutti mercenari tedeschi, si affrettò a passare gli Appennini per dirigersi in Toscana. A fianco di Castruccio partecipò alla battaglia di Altopascio, il 23 settembre 1325, comandando l’avanguardia ghibellina e dando un contributo decisivo alla vittoria. In seguito, Azzone passò in Emilia, dove si unì alle forze degli Este di Ferrara e dei Bonacolsi di Mantova, che erano in guerra contro Bologna. Durante la campagna, le truppe ghibelline ottennero un importante successo a Zappolino, il 15 novembre 1325, e ancora una volta Azzone fu tra i protagonisti: e non a caso fu lui a organizzare, con un caratteristico rituale di derisione del nemico sconfitto, un palio proprio sotto le mura di Bologna, similmente a quanto stava facendo a sua volta Castracani davanti a Firenze.
Azzone rientrò poi a Milano, da dove, nel febbraio del 1327, fu inviato quale ambasciatore di Galeazzo presso Ludovico IV il Bavaro a Trento. Dopo essere entrato a Milano ed essere stato incoronato re d’Italia (maggio 1327), Ludovico in un primo momento confermò a quanto sembra il vicariato imperiale a Galeazzo, ma successivamente lo fece arrestare insieme ad Azzone e ad altri membri della famiglia e rinchiudere nel carcere di Monza.
Al governo di Milano fu posto il nobile Guglielmo di Monfort, con il titolo di vicario, affiancato da un consiglio di 24 cittadini, scelti fra gli oppositori dei Visconti.
Rilasciato in agosto, Azzone fu obbligato a seguire l’esercito del Bavaro in Toscana, assieme agli zii Luchino e Stefano. Galeazzo ottenne la libertà nel marzo successivo e scese a sua volta in Toscana solo per morirvi, il 6 agosto 1328. A questo punto l’imperatore cambiò completamente atteggiamento e il 15 gennaio 1329 nominò vicario di Milano proprio Azzone, in cambio dei 125.000 fiorini necessari a pagare le truppe tedesche. A febbraio Azzone entrò in città e assunse il potere, facendo arrestare o mandando in esilio coloro che avevano governato in sua assenza. Non riuscì però a raccogliere la somma promessa al Bavaro, sicché i rapporti fra i due non tardarono a guastarsi nuovamente: Ludovico, nella tarda primavera di quell’anno, tentò uno sterile assedio di Milano, conclusosi in un fallimento e il totale riconoscimento della signoria viscontea, ricevendone in cambio 12.000 fiorini.
Azzone volle ottenere piena legittimazione al suo dominio dagli organismi comunali, che restaurò ristabilendo il Consiglio dei Novecento e la magistratura ristretta dei Dodici di provvisione. Il 15 marzo 1330, questi proclamarono solennemente Azzone signore perpetuo di Milano, approvando contestualmente la riscrittura degli statuti civici da lui promossa. Azzone ottenne poteri amplissimi, maggiori di quelli attribuiti al padre e al nonno, che comprendevano il mero e misto imperio sul centro urbano e su tutto il distretto e la sostanziale identificazione fra gli interessi privati di Visconti e quelli della collettività. Seguì la lenta riconquista di quei centri del contado come Cantù, Monza e Caravaggio che negli anni precedenti si erano ribellati cercando la protezione dei legati pontifici. Infine, Azzone cercò la riconciliazione con la Chiesa e accettò di governare la città con il titolo di vicario papale; pertanto nel 1332 Milano fu finalmente liberata dall’interdetto che gravava su di lei da quasi un decennio.
La presa del potere su Milano fu celebrata con un grande programma di opere pubbliche.
Azzone fece edificare un grande palazzo signorile nei pressi della cattedrale, un ampio complesso di edifici che inglobava la chiesa di S. Gottardo in Corte ed era dotato di una grande torre decorata di affreschi, per la cui realizzazione furono coinvolti Giotto e la sua scuola. Le pitture del palazzo celebravano Azzone ponendolo a fianco di grandi guerrieri del passato, quali Enea, Attila, Ettore, Ercole, Carlo Magno e altri: si trattava di un richiamo al ciclo dei ‘nove prodi’, che era stato da poco elaborato e andava affermandosi come elemento caratteristico della cultura cavalleresca. Azzone si fece ritrarre anche in vesti di cavaliere in una statua aurea posta fra la torre della cattedrale e la chiesa di S. Tecla.
Promosse anche il rinnovamento e il completamento della cinta muraria di Milano, che rappresentò l’occasione per imporre un rinnovato programma iconografico, che poneva la città e il suo signore sotto la protezione della Beata Vergine.
Consolidò inoltre il suo controllo del contado, promuovendo la costruzione delle nuove mura di Cantù, nonché di castelli a Caravaggio e a Lecco, dove fece realizzare un grande ponte fortificato sull’Adda. Come segno del proprio potere, infine, egli introdusse importanti novità nella monetazione locale, facendo comparire sui pezzi coniati a Milano il proprio nome e l’insegna di famiglia, il biscione.
Nel frattempo, già alla fine del 1330 era sceso in Italia Giovanni di Lussemburgo re di Boemia, insignorendosi per un certo periodo di alcune città fra Lombardia ed Emilia. Azzone contrastò vigorosamente le ambizioni di Giovanni e quando questi nel 1332-33 si unì al cardinal legato Bertrando del Poggetto in una coalizione percepita come minacciosa per tutte le autonomie italiane, seppe promuovere una vasta alleanza che includeva avversari apparentemente irriducibili, come i della Scala di Verona, gli Este di Ferrara e il Comune di Firenze. Il cardinale del Poggetto fu infine disastrosamente sconfitto in battaglia il 14 aprile 1333, nei pressi di Ferrara.
Il fallimento del progetto di Giovanni di Boemia e del legato diede ad Azzone la possibilità di lanciarsi a sua volta in una rapida serie di spedizioni militari che lo portarono a sottomettere buona parte della Lombardia. La propaganda viscontea cercò di suggerire l’idea che la maggioranza dei Comuni lombardi si sarebbero sottomessi di propria iniziativa, sorvolando sul fatto che il principale strumento per l’affermazione del dominio di Azzone sarebbero stati i suoi eserciti. Di fatto, tra le città da lui dominate, la sola Vercelli, nel 1335, gli si diede spontaneamente, mentre tutte le altre furono prese con le armi, o comunque fatte oggetto di insostenibili pressioni militari. Bergamo, infatti, fu conquistata dalle truppe viscontee il 20 settembre 1333, seguita da Cremona, il 15 luglio 1334, dopo una campagna di guerra durata alcuni mesi e condotta coordinatamente da Azzone, dagli Scaligeri e dai Gonzaga (che avevano avvicendato i Bonacolsi nel dominio su Mantova).
L’anno chiave fu però il 1335, quando, nell’arco di pochi mesi, Azzone assoggettò una gran parte della regione attorno a Milano. Inizialmente, egli scatenò un’offensiva contro Lodi, il cui signore, Pietro Temacoldo, era riuscito a inimicarsi il papa, suo originario protettore. Agli inizi dell’estate, l’esercito milanese si portò dunque nel contado lodigiano ingaggiando duri combattimenti con le forze locali, con i difensori che si arresero finalmente il 31 agosto; l’esercito si portò poi a Crema, che si sottomise spontaneamente, così come i borghi di Caravaggio e Romano. Dal campo di Lodi, operando lungo la linea dell’Adda, le truppe viscontee riuscirono contemporaneamente a tagliare la strada alle forze scaligere che il signore di Como, Franchino Rusca, aveva chiamato in aiuto contro il vescovo Benedetto da Asnago, rivoltatosi contro di lui. Il 1° agosto, di conseguenza, Franchino cedette il potere e il Comune comasco accettò Azzone come signore perpetuo.
È evidente che questi, grazie alle grandi risorse finanziarie garantitegli dal dominio su Milano, poteva arruolare un gran numero di combattenti, il che gli garantiva la capacità eccezionale di operare su una molteplicità di fronti, paralizzando così qualsiasi tentativo di coordinamento fra i suoi avversari.
Dopo pochi mesi di pausa, nel gennaio del 1336 Azzone garantì il suo appoggio militare ai ghibellini e ai guelfi Fontana che si opponevano al dominio di Francesco Scotti su Piacenza; poi, ad aprile, ruppe gli indugi, mosse all’attacco della città, stringendola d’assedio per sette mesi, finché, il 15 dicembre, gli intrinseci piacentini si arresero. Nel 1337, infine, Azzone si unì a Firenze e Venezia in una grande alleanza che mirava a fermare le ambizioni di espansione dei della Scala di Verona. Nell’autunno di quell’anno, radunato agli ordini di Giovanni da Bizzozzero un esercito di 1500 combattenti mercenari, attaccò Brescia, soggetta ai signori di Verona (che si erano per giunta alleati poi con i Rusconi di Como) e la conquistò dopo duri combattimenti: la città si arrese il 10 ottobre e il suo castello un mese più tardi. Contemporaneamente, ancora una volta dimostrando la sua capacità di battersi su due fronti, Azzone riuscì a cacciare le forze di Roberto d’Angiò da Broni e Vigevano.
Insomma, l’esercito di Azzone fu il protagonista assoluto della sottomissione della Lombardia: è possibile che le tensioni interne alle città assoggettate e la ricerca di pace da parte delle popolazioni abbiano favorito il consolidamento del regime visconteo, ma le forme della conquista furono quasi esclusivamente militari.
Per la costruzione del suo dominio, Azzone adottò una particolare modalità contrattuale: la sottomissione delle città, a partire da Milano, venne infatti regolata tramite la redazione di appositi accordi che delimitavano precisamente le competenze dei Comuni e quelle del signore. I patti di sottomissione che regolavano la soggezione delle città ai nuovi signori non erano un’assoluta novità, dato che nella regione ne avevano già fatto uso Carlo I e Roberto d’Angiò nonché Guglielmo VII di Monferrato, ma Azzone Visconti li sistematizzò quale strumento di legittimazione del proprio dominio, con una progettualità sconosciuta ai propri predecessori Matteo e Galeazzo. Contestualmente alla sottomissione, o negli anni immediatamente successivi, Azzone spesso intervenne anche sulle redazioni statutarie urbane, modificandole al fine di eliminare quegli elementi giuridici che potessero minare il suo potere o favorire l’azione autonoma delle magistrature comunali.
La propaganda viscontea insisteva sul fatto che, dopo un periodo di duri conflitti, le città conquistate da Azzone ottennero finalmente la pace: così, per Galvano Fiamma, sotto il suo regime «tutte le città furono abitacolo sicurissimo per i loro cittadini [...] le vie e le strade e specie la Valle del Ticino non furono mai così sicure» (Gualvanei de la Flamma Opusculum..., a cura di C. Castiglioni, 1938, p. 34). In effetti, nella maggior parte dei casi (ma non mancarono le eccezioni, come a Vercelli), Azzone fece rientrare gli esuli politici e promosse iniziativa di riconciliazione. Contestualmente, però, dato che le agitazioni e le proteste tumultuarie erano elementi costitutivi della lotta politica comunale, la ‘pacificazione’ delle città implicava anche un drastico restringimento degli spazi di rappresentanza e di opposizione, soprattutto per coloro che non avevano accesso ai consigli cittadini. La conquista di Azzone portò ovunque allo scioglimento di gran parte delle società e delle associazioni di Popolo, di parte e talvolta anche di mestiere che animavano la vita pubblica urbana. L’unico spazio di azione politica riconosciuto divenne quello dei consigli comunali, con una preferenza per le assemblee ristrette, composte da poche decine di membri, rispetto a quelle grandi, che con le loro centinaia di componenti risultavano assai meno controllabili.
L’immagine più significativa della ‘pacificazione’ di Azzone rimane quella delle cittadelle, le poderose fortezze urbane costruite entro la cinta delle mura, che egli fece edificare a Como, Piacenza e a Lodi, oltre che nella stessa Milano, nella zona di Porta Ticinese. Precluse ai cittadini, esse erano sì un mezzo per imporre militarmente la pace, presidiando fisicamente i luoghi tipici degli scontri, come le piazze pubbliche, i palazzi comunali o le principali strade che univano i quartieri urbani, ma rappresentavano, anche visivamente, la soggezione della città.
Nella sua grande offensiva politica e militare volta alla sottomissione dei Comuni circostanti, Azzone era riuscito a ottenere, se non l’appoggio, almeno la tacita neutralità di papa Benedetto XII. Nel 1339, dovette fronteggiare invece il tentativo di destabilizzare il suo dominio progettato dai della Scala (ai quali Azzone aveva recentemente sottratto il controllo di Brescia). Mastino II infatti appoggiò Lodrisio Visconti – zio di Azzone ed esule a Verona in quanto accusato di tramare contro il signore di Milano – nella raccolta e nell’armamento di una grande compagnia di mercenari tedeschi al fine di conquistare Milano. Nel gennaio di quell’anno, Lodrisio si mise in marcia verso ovest, senza trovare opposizione, finché l’esercito di Azzone, agli ordini dello zio Luchino Visconti, lo affrontò il 21 febbraio 1339 nella zona fra i villaggi di Canegrate e Parabiago.
La grande battaglia ivi combattuta fu l’episodio bellico più importante della signoria di Azzone, che mise in campo un esercito veramente imponente. Galvano Fiamma, il più vicino e informato dei cronisti, fornisce cifre assai dettagliate: 3500 (forse 4000) cavalieri pesanti si mossero al campo, mentre 700 furono tenuti di riserva in città; a questi si aggiungevano 14.000 fanti e 2000 balestrieri, non solo di Milano, ma di tutta l’Italia del Nord (Gualvanei de la Flamma Opusculum..., cit., p. 28). Di fronte, Lodrisio disponeva, secondo le fonti, di 2500 o 3000 cavalieri pesanti e di alcune migliaia di fanti. Dopo alterne vicende e pesantissime perdite subite da entrambe le parti, lo scontro fu vinto dalle forze lealiste grazie alla disponibilità di un gran numero di truppe fresche da gettare di volta in volta in campo. Lodrisio e Rinaldo di Giver detto Malerba, comandante dei teutonici, caddero nelle mani di Azzone, mentre le loro truppe si sbandarono. Solo in seguito, al fine di dare un’aura sacrale alle ragioni di Azzone, nacque la leggenda dell’intervento personale di s. Ambrogio nel corso della battaglia.
Azzone non partecipò alla battaglia, in quanto malato di gotta. A distanza di pochi mesi, in effetti, egli si spense il 16 agosto 1339, a soli 37 anni. A dimostrazione della solidità del dominio da lui costruito, gli succedettero senza contestazioni gli zii Luchino e Giovanni Visconti.
Dopo la morte, Azzone fu celebrato dalla propaganda viscontea come il costruttore del dominio sovracittadino dei Visconti, un signore saggio, giusto e, un po’ paradossalmente, pacifico: il cronista novarese Pietro Azario sostiene infatti che «nullam guerram suo tempore habuit nec amavit» (Petri Azarii Liber gestorum..., a cura di F. Cognasso, 1926-1939, p. 33).
Anche il sepolcro di Azzone, commissionato verso il 1342 dall’arcivescovo Giovanni allo scultore toscano Giovanni di Balduccio e posto nella chiesa di S. Gottardo in Corte, ne celebra questo aspetto, mostrando i sudditi soggetti che rendono spontaneamente omaggio al nuovo signore, a sua volta raffigurato nella tranquillità della morte che precede la risurrezione.
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