Al lavoro sino alla fine: Baldo degli Ubaldi muore a Pavia mentre è intento a dirimere una questione di diritto feudale. Era lì dal 1390 per volontà del signore di Milano, Gian Galeazzo Visconti, che lo aveva chiamato a insegnare nello Studium e che si era avvalso del suo contributo per dare sostanza giuridica alla nuova entità politica del Ducato, ma anche per tutelare i propri interessi patrimoniali. E Baldo, forse proprio sulla spinta della sua attività di giurista impegnato nella pratica del diritto, con la Lectura super usibus feudorum ridette fiato e vita al filone degli studi sul diritto feudale, da tempo negletti, se non addirittura osteggiati, dai maggiori studiosi. Solo l’ultimo guizzo di una mente geniale, che lo aveva portato nel corso di una lunga carriera a padroneggiare, con tecniche innovative, i vari campi dello scibile giuridico, dal diritto civile, al feudale, al canonico, vero esempio di giurista utriusque iuris.
Studente precoce, ma non tanto da concludere gli studi già nel 1344, come si è invece tramandato per secoli, quanto piuttosto nel 1347, lui che era nato a Perugia il 2 ottobre 1327, ebbe come maestri nello Studium umbro Federigo Petrucci, Giovanni Pagliaresi, Francesco Tigrini e soprattutto Bartolo da Sassoferrato. E a Perugia fece anche le prime esperienze di insegnamento, subito dopo la laurea (sicuramente almeno dal 1351) e fino al 1357, quando la sua presenza è documentata a Pisa, a leggere il Digestum vetus. Nel 1358 passa allo Studium di Firenze, dove rimane fino al 1364, ancora impegnato nella lectura ordinaria del Digestum vetus e anche in quella del Codex. Rammenta lui stesso nelle sue opere il periodo d’insegnamento fiorentino, allietato dalla nascita dei due figli gemelli, Francesco e Giovanni Zanobi, e che gli valse, come riconoscimento per l’attività prestata, la concessione della cittadinanza, con la provvisione del 9 ottobre 1359. Nel 1365 ritorna a insegnare nella città natale, e vi si trattiene fino al 1376; e poi, dopo un triennio di magistero padovano, nel 1379 eccolo di nuovo a Perugia sino al 1390.
Il periodo perugino – intramezzato dalle esperienze toscane e venete – vede Baldo intento non solo nell’insegnamento, con la lettura ordinaria del Codice e del Digesto vecchio, e nella solita pratica professionale (fu avvocato, tra l’altro, dell’arte della mercanzia, come ricorderà lui stesso in un famosissimo consilium), ma anche nell’attività pubblica; e fu più volte impegnato in ambascerie, in particolare presso le corti papali. Nonostante la triste vicenda che riguardò il fratello Angelo – giurista anche lui, come l’altro fratello Pietro – che fu bandito e poi riabilitato, il prestigio di Baldo dentro le mura cittadine non subì pregiudizi: addirittura quando, nel 1385, con una lettera di Coluccio Salutati, Firenze si fece avanti per averlo di nuovo quale docente nello Studio, il governo di Perugia proibì il suo allontanamento, perché altrimenti si sarebbe troppo svilito l’insegnamento nella città, e il 16 luglio 1385 lo invitò a giurare che non avrebbe abbandonato la città e il contado di Perugia.
Di fronte però alla richiesta di Gian Galeazzo Visconti di avere l’illustre giurista a dare prestigio allo Studio di Pavia (e sostegno giuridico alla causa del signore di Milano), le autorità perugine poteron ben poco, ed ecco che Baldo nel 1390 si trasferisce in Lombardia.
A Pavia, mentre leggeva lo ius civile, si dedicò allo studio del diritto feudale e del diritto canonico, ma di queste materie non risulta che abbia mai tenuto l’insegnamento, né a Pavia, né altrove. La morte lo colse al banco di lavoro il 28 aprile 1400.
Baldo, il più filosofo tra i giuristi: la definizione è di Charles Dumoulin, segno del rispetto di cui il nostro godeva anche tra i maestri di diritto francesi del 16° sec., di solito non teneri nei confronti dei vecchi commentatori; ed è stata usata sino all’abuso.
Non disdegna Baldo di citare Aristotele e altre autorità – ma anche i poeti – a sostegno delle sue argomentazioni; liquidando così gli antichi insegnamenti della glossa, per i quali solo le leges potevano essere poste alla base del ragionare del giurista, mentre non era necessario che quest’ultimo dovesse anche «theologiam legere», poiché «omnia in corpore iuris inveniuntur» (glossa notitia in Dig. 1, 1, 10). Ben diverse le idee del perugino, che considerava, se non proprio la teologia, certo la filosofia morale un fondamentale bagaglio culturale per chi si occupasse di diritto, così importante da poter essere insegnata nello Studium, essenzialmente perché doveva essere ritenuta madre e porta di accesso delle leggi: «sapientes studii possunt eligere unum, qui legat philosophiam moralem, quia est legum mater et ianua» (ad Dig. 1, 1, 1, 2).
Ma in Baldo è da filosofo soprattutto il modo di costruire il ragionamento giuridico, e di occuparsi di questioni generali, che di solito sfuggono all’occhio, pur attento, del giurista meno profondo. Non è da tutti legare sotto un profilo generale il diritto al tempo, nello stesso modo nel quale al tempo è legata la vita umana; è il tempo che dà la vita e le leggi agli uomini:
Iura nostra considerant tempus, et in tempore fundant leges suas […]. Tempus quod dat sibi [homini] vitam, dat sibi legem. Tempus vero quod semper accedit ad nos, illud dat nobis mores, illud dat nobis legem, illo vivimus, nutrimur, et sumus (ad Dig. 1, 3, 32).
E la considerazione, fatta a proposito della consuetudine, può anche essere considerata indice della consapevole funzione del giurista: che è quella di adeguare ai nuovi tempi le vecchie norme della compilazione giustinianea. Attraverso l’individuazione della ratio legis, il principio ispiratore della norma, è possibile estendere ai nova negotia, ai fatti non previsti, regole ricavabili dalle norme dell’imperatore; oppure inventarne di nuove attraverso ardite costruzioni de similibus ad similia, e sempre attraverso il riferimento alla ratio legislativa: «una figura d’intelletto coniata dal giurista per muovere costruzioni logiche spesso libere e ardite: è naturale che quei valori solo mentali, le rationes, fossero assai più aperti dei rigidi comandi della legge all’apporto razionale del filosofo» (Cortese 1995, p. 445).
Appunto. I libri legales, per es., non contemplano direttamente un fondamento di legittimità per gli ordinamenti particolari – i comuni – e soprattutto per la loro legislazione statutaria, che nel Trecento è diventata imponente. Baldo, superando le teorie dei suoi predecessori, giustifica la potestas condendi statuta attraverso il richiamo al diritto naturale (ius gentium): ogni comunità esiste per proprio consustanziale diritto, in forza di quella spinta che naturalmente l’ha portata a darsi un’organizzazione istituzionale; la quale però non può a sua volta esistere senza un complesso di norme che la disciplini:
Populi sunt de iure gentium, ergo regimen populi est de iure gentium: sed regimen non potest esse sine legibus et statutis, ergo eo ipso quod populus habet esse, habet per consequens regimen in suo esse, sicut omne animal regitur a suo proprio spiritu et anima (ad Dig. 1, 1, 9).
La struttura dell’argomentazione è tipicamente sillogistica, come ha fatto notare in primo luogo Francesco Calasso (Medio evo del diritto, 1° vol., Le fonti, 1954, p. 501), cioè – come si diceva – propriamente filosofica. Anche se l’altezza del ragionamento non impedisce poi che il fondamento del diritto di legiferare per gli ordinamenti particolari venga limitato e ridotto rispetto alle idee di altri legisti, come il maestro di Baldo, Bartolo da Sassoferrato: perché, secondo Baldo, certe norme potranno essere inserite negli statuti solo con l’autorizzazione del principe, in particolare quelle che incidessero sui poteri di quest’ultimo. Ma anche qui, come il perugino già aveva notato, è sempre il tempo che continuava a determinare la vita degli uomini e le loro leggi: dal libero comune si stava ormai passando, o si era già passati, alla signoria; e il mutamento storico istituzionale non poteva non influire sul pensiero del giurista.
Allo stesso modo, appartengono alla filosofia scolastica il linguaggio e le categorie con le quali il nostro giurista, richiamandosi agli insegnamenti di Pierre de Belleperche (Pietro di Bellapertica, 1250 ca.-1308), affronta, per es., lo spinoso tema della causa nel contratto, distinguendo tra causa finalis e causa impulsiva. Solo la prima è una vera è propria causa, la sola che trova tutela nel mondo del diritto, e consiste nella ragione economico-sociale che si oggettivizza nel negozio: «nam diffinitio finalis causae haec est: causa finalis est qua cessante quis non esset facturus» (ad Cod. 6, 20, auth. ex testamento); e a proposito della compravendita: «in contractu emptionis et venditionis respectu emptoris causa finalis est res, et respectu venditoris est praetium; et ideo si emptor agit, debet offerre rem et econverso: quia ille non erat alias contracturus» (ad Cod. 8, 40, 7); è cioè lo scambio della cosa contro il prezzo, ovvero lo scopo comune dei contraenti che il diritto riconosce e tutela. La causa impulsiva invece è il semplice e concreto motivo (e il vocabolo motivum entra con Baldo nel linguaggio giuridico: Calasso 1959, p. 302) che ha spinto il contraente alla stipulazione, ma che non si consacra nella figura contrattuale, e quindi non ha valore per il diritto:
causa impulsiva proprie non est causa, sed est quoddam motivum […]. Dicit Petrus [de Bellapertica], quod causa finalis est illa, propter quam aliquid principaliter conceditur […], causa impulsiva est illa, quae occasionem aliquam remotam praestat, in qua non fundatur effectus (ad Cod. 1, 3, 51).
Una distinzione, questa tra causa e motivo, che affonda le sue radici – tramite Baldo – nella filosofia scolastica, e che in ambito giuridico continua, anche sotto il profilo lessicale, fino a oggi.
Ma non ci si meravigli della costanza di questo metodo. Del resto, Baldo apre la sua opera esegetica maggiore – nel proemio alla Lectura Digesti veteris – proprio con una dichiarazione di consapevolezza epistemologica, cioè che la funzione più alta dello scienziato del diritto è quella di dare ordine alla materia studiata (Grossi 1995, pp. 147-48); e l’ordine si realizza anche attraverso la costruzione di un sistema in cui le varie parti siano armonicamente legate. Il che non è altro che l’enunciazione della necessità di un approccio alla scienza del diritto che sia filosofico, cioè culturalmente attrezzato.
Dal medesimo punto di vista Baldo affrontò la Lectura feudorum. Si trattava in primo luogo di sistemare scientificamente una variegata raccolta di consuetudini nate dalla pratica del diritto, e di dare a esse un rinnovato titolo di legittimità giuridica: non tanto e solo per una destinazione scolastica, ma perché potessero servire alle esigenze della istituzione (Montorzi, in VI Centenario della morte di Baldo degli Ubaldi, 2005, p. 257), il Ducato di Milano, presso il cui Studium il perugino era stato chiamato. La raccolta è authentica, cioè vincolante, perché è stata approvata ufficialmente dall’imperatore Federico II, e in aderenza all’esigenza sistematica, si applica in via sussidiaria laddove la consuetudine locale o il titolo dell’investitura non dispongano. Vincola anche il principe, perché appartiene a quell’insieme superiore di norme e istituti che fanno parte dello ius naturale (ad Lib. feudorum 1, 1, 4). Ed è ancora una volta il riferimento allo ius naturale che permette al giurista di inserire una sorta di sistema di adeguamento automatico dell’ordinamento in relazione alle esigenze nuove che si dovessero manifestare con lo svolgersi del tempo. Le norme di diritto naturale per il loro carattere di derivare dall’istinto razionale dell’uomo possono nascere giorno per giorno e servire così a disciplinare fattispecie nuove: «quia ius naturale quotidie nascitur […]. Id enim quod est bonum et aequum apud omnes peraeque servatur, natura est, quia communis est» (ad Lib. feudorum 2, 7, 1). Se poi la lacuna dovesse permanere, il completamento della disciplina normativa sarà assicurato dallo ius commune da applicarsi in via sussidiaria, pur considerando le peculiarità della materia feudale: «feuda imitantur ius commune in quantum possunt salva feudali natura» (ad Lib. feudorum 2, 45; Danusso, in VI Centenario della morte di Baldo degli Ubaldi, 2005, pp. 298-99). L’esigenza sistematica che muove il giurista è ancora una volta soddisfatta, e, con il sistema, anche l’ordine scientifico che secondo Baldo deve stare alla base del diritto, di ogni diritto, e che è compito del giurista individuare.
Il Baldo canonista seguita secondo queste linee, e si fa apprezzare soprattutto per le particolari tecniche argomentative, per le accurate scelte linguistiche, contribuendo a meglio precisare certi concetti e istituti che la precedente canonistica aveva maturato. Non c’era da aggiungere molto alla nozione di istituzione, di ente morale, elaborata da Sinibaldo de’ Fieschi, papa Innocenzo IV, se non scrivendone una definizione fulminante: «Universitates sunt […] nomina iuris, non nomina personarum» (ad Cod. 2, 57). Analogamente a proposito della tutela del patto nudo, cioè di quella convenzione che per essere sprovvista delle forme e dei contenuti tipici previsti dal Corpus iuris non riceveva nell’ambito del diritto civile alcuna forma di tutela. Per i canonisti, e per Baldo, la rottura dell’accordo viola comunque un obbligo di buona fede: tale violazione, attraverso l’istituto dell’equità canonica, deve essere sanzionata perché mette in ogni caso in pericolo quel bene che l’ordinamento canonico persegue su tutti, la salus animarum. E allora «il pactum, ogni pactum, ci dice Baldo, anche se non munito di forme, è per il canonista munito, corroborato, dal suo contenuto di equità naturale» (Grossi 1995, pp. 218-19); e, come tale, è degno di tutela, anche perché: «Ego [Baldus] puto quod de aequitate canonica, omnes contractus mundi sint bonae fidei, non dico quantum ad titulum actionis, sed quo ad mentem et substantiam intentionis» (ad Lib. Extra 2, 11, 1).
Conferma ulteriore di una personalità variegata e profonda, vero prototipo del giurista dell’uno e dell’altro diritto: utriusque iuris doctor.
Molto ampia la produzione scientifica di Baldo, e lo sarebbe ancor di più a voler dar credito alle molteplici false attribuzioni che lo hanno riguardato sia nella tradizione manoscritta, sia in quella a stampa. Fortunatamente, ricerche recenti (in particolare quelle di Domenico Maffei e di Vincenzo Colli), basate per lo più sullo studio dei manoscritti, hanno cercato di mettere ordine in un quadro tanto variegato e complesso, e hanno isolato quelle opere che certamente, o comunque con un buon grado di sicurezza, possono dirsi uscite dall’officina del nostro giurista.
Baldo si dedicò a commentare quasi ogni parte dei libri legales, privilegiando in modo particolare il Digesto vecchio e il Codice, sui quali scrisse le sue Lecturae principali e più complete. Tornò più volte a mettere mano e a rivedere la sua produzione, ma la maggior parte della sua opera esegetica è stata fatta risalire all’ultimo periodo perugino e a quello pavese. A Perugia negli anni Ottanta del Trecento videro la luce la Pars prima della Lectura Digesti veteris (libri 1-11) e, almeno in una prima versione, la Pars secunda (libri 12-24); la Lectura Infortiati, di incerta datazione, commenta solo fino al libro trentacinquesimo del Digesto; incompleta e breve è pure la Lectura Digesti novi. Il commento del Codice fu licenziato tra Padova e Perugia: nel 1379 nella città veneta la Lectura super sexto libro Codicis, tra il 1382 e il 1385 a Perugia quella super quarto e quella super primo, secondo et tertio libro Codicis, di tutte la più rilevante; è incerta la data di edizione delle Lecturae sui libri quinto e septimo, octavo et nono Codicis; la Lectura trium librorum Codicis non si occupa del libro dodicesimo.
A Pavia, con dedica a Gian Galeazzo Visconti, viene pubblicata nel 1393 la Lectura super usibus feudorum, insieme al commento alla pace di Costanza; sempre al periodo pavese risale la Lectura Decretalium (post 1393): come altri commenti di Baldo, anch’essa è incompleta, perché si ferma all’inizio del terzo libro del Liber Extra. Incompleti anche i commenti al Sexto e alle Clementinae, e mai stampati.
Non fu scritta da Baldo la Lectura Institutionum, per lungo tempo attribuitagli: è stata ricondotta alla penna di Bartolomeo da Novara.
Della congerie di opere minori, passata al fitto setaccio della recente critica filologico-giuridica, con buoni margini di attendibilità sono rimaste assegnate all’ingegno di Baldo quelle che – tutto sommato – più hanno influito sui giuristi successivi, anche perché quasi tutte date alle stampe fin dagli esordi della mirabile invenzione: il Tractatus de constituto, il De sindicatu officialium, il De tabellionibus, attribuito in origine a Bartolo da Sassoferrato (con moderna edizione critica di Vittorio Valentini), il De pactis. In campo canonistico: il Repertorium super Innocentio ovvero la Margarita Innocentii, le Additiones allo Speculum di Guglielmo Durante, che integrano le Additiones super Speculo di Giovanni d’Andrea; oltre a varie Additiones e Notabilia a Giovanni d’Andrea e ancora a papa Innocenzo IV, rimaste però manoscritte; a proposito dello scisma e a favore della legittimità della elezione di papa Urbano VI, Baldo scrisse due importanti consilia, nel 1378 e nel 1380. Ancora, un testo che non ci è pervenuto, ma della cui esistenza non si può dubitare visto che è citato più volte e con dovizia di particolari da Tommaso Diplovatazio, il Tractatus de commemoratione famosissimorum doctorum, che doveva mostrare Baldo come una sorta di storico del diritto ante litteram.
Infine, a testimoniare la costante attenzione per la pratica del diritto, il giurista perugino scrisse (o meglio, come è stato mostrato: dettò) migliaia di consilia, circa 2500 dei quali riuniti nei cinque volumi dell’edizione a stampa; molti altri giacciono manoscritti.
L’opera di Baldo. Per cura dell’Università di Perugia nel V centenario dalla morte del grande giureconsulto, a cura di O. Scalvanti, Perugia 1901 (in partic. O. Scalvanti, Notizie e documenti sulla vita di Baldo, Angelo e Pietro degli Ubaldi, pp. 181-359).
G. Chevrier, Baldi de Ubaldi, in Dictionnaire de droit canonique, 2° vol., Paris 1937, ad vocem.
F. Calasso, Il negozio giuridico. Lezioni di storia del diritto italiano, Milano 1959.
N. Horn, Philosophie in der Jurisprudenz der Kommentatoren: Baldus philosophus, «Ius commune», 1967, 1, pp. 104-49.
D. Maffei, Giuristi medievali e falsificazioni editoriali del primo Cinquecento. Iacopo di Belviso in Provenza?, Frankfurt a.M. 1979.
J. Canning, The political thought of Baldus de Ubaldis, Cambridge 1987.
G. Vallone, La raccolta Barberini dei 'consilia' originali di Baldo, «Rivista di storia del diritto italiano», 1989, 62, pp. 75-135.
D. Maffei, Bartolomeo da Novara (1408) autore della "Lectura Institutionum" attribuita a Baldo degli Ubaldi?, «Rivista di storia del diritto italiano», 1990, 63, pp. 5-22.
C. Danusso, Ricerche sulla "Lectura feudorum" di Baldo degli Ubaldi, Milano 1991.
E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, 2° vol., Il basso Medioevo, Roma 1995, pp. 436-45.
P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, 1995.
K. Pennington, Baldus de Ubaldis, «Rivista internazionale di diritto comune», 1997, 8, pp. 35-61.
«Ius commune», 2000, 27, nr. monografico: VI Centenario della morte di Baldo degli Ubaldi.
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VI Centenario della morte di Baldo degli Ubaldi. 1400-2000, a cura di C. Frova, M.G. Nico Ottaviani, S. Zucchini, Perugia 2005 (in partic. V. Colli, Le opere di Baldo dal codice d’autore all’edizione a stampa, pp. 25-85; M.G. Nico Ottaviani, La presenza di Baldo nella vita politica di Perugia, pp. 87-100; M. Montorzi, L’'intellettualismo pratico' della "Lectura super usibus feudorum" di Baldo degli Ubaldi. Tra prassi forense e nuove sistemazioni dottorali (prove e problemi di lettura), pp. 205-61; C. Danusso, Baldo e i "Libri feudorum", pp. 289-311).