BANDO E CONFINO POLITICI
di Giuliano Milani
Bando e confino politici
Nel punire la dissidenza politica Federico II fece ricorso, combinandoli in una nuova sintesi, agli istituti propri agli ordinamenti giuridici dei Regni che ereditò (le pene contro la proditio del diritto feudale, il bannum e la punizione del crimen laesae maiestatis dell'Impero) e a quelli allestiti dalle realtà politiche che, prima di scontrarsi con l'Impero, lo avevano sostenuto nella conquista del potere (la scomunica canonistica degli eretici, il bando politico e il confino dei comuni).
Nella prima fase della sua vita, prima in qualità di re di Sicilia, poi di re dei Romani, lo Svevo si attenne alle tecniche di ritorsione praticate dai suoi predecessori e punì i propri oppositori mediante il sequestro dei beni, eventualmente redistribuiti ai fedeli.
Gli anni successivi all'elezione del 1211 non mostrano l'avvio di una fase nuova, ma, semmai, un uso delle diverse possibilità offerte dal versatile strumento del bannum alle città ribelli. Nell'atto con il quale Federico II intimava ai cittadini di Narni e Spoleto di non ribellarsi al papa il termine bannum non fu nemmeno invocato, mentre comparve, ma nell'accezione di semplice pena pecuniaria, nella sanctio dell'ordine ai ferraresi di non ostacolare i commercianti modenesi. In un senso già più politico bannum fu inteso nella conferma della revoca dei privilegi regi già sancita da Ottone IV nei confronti dei cittadini di Cambrai che si erano ribellati al loro vescovo. Solo nel momento in cui fu sollecitato da una città rivale o dalla Curia pontificia, il bannum assunse il senso di vera e propria punizione della ribellione. Così avvenne il 2 maggio 1213, quando Federico vescovo di Trento, legato regio, lanciando in aria un guanto, davanti alla concio di Cremona, bandì i milanesi e i loro alleati, colpevoli, si badi, non di aver ostacolato il passaggio del re di Sicilia, ma di non aver consegnato i prigionieri pavesi e di aver provocato la guerra in Lombardia, non accettando il precetto regio di restituire Crema ai cremonesi. Così anche il 24 settembre 1220, quando Federico II, riunito in curia con vescovi, conti e podestà fedeli, minacciò nei confronti dei conti di Casaloldo, che rifiutavano di consegnare ai cappellani del papa Gonzaga e altri castelli matildici, il bannum imperii comportante la perdita dei possedimenti e lo scioglimento dei vassalli e degli occupanti da ogni vincolo.
La repressione dei nemici anteriormente all'incoronazione imperiale del 1220 non contiene elementi nuovi e si inquadra pertanto nel più generale atteggiamento di Federico II nei confronti delle città che, come è stato sostenuto (Keller, 1994, p. 24), appare orientato sulla base non di principi istituzionali astratti, ma delle situazioni giuridiche preesistenti.
Il segno di un primo cambiamento si percepisce all'indomani dell'incoronazione del 1220, con l'emanazione della constitutio in Basilica Petri in cui Federico II sottoscrisse l'equiparazione, sancita dalla Vergentis in Senium, tra eresia e crimen laesae maiestatis e decretò l'emanazione ipso iure del bando imperiale per chiunque avesse persistito un anno nella scomunica. Con questo atto egli affermò la sua piena collaborazione alla persecuzione di quell''eresia della di-sobbedienza' di ascendenza gregoriana, ma sistematizzata da Innocenzo III (Hageneder, 2000, pp. 16-17), che accomunava non solo gli eretici veri e propri, ma anche i loro favoreggiatori e, più in generale, le autorità che non collaboravano con il Papato nella difesa della libertas ecclesiae e nell'obbedienza a canoni e decreti. È significativo che, all'indomani dell'incoronazione e del nuovo ruolo assunto da Federico II, si assista a una modifica qualitativa nella persecuzione dei nemici, sia nel Regno di Sicilia, sia nell'Italia comunale. Nel Regno si ribadirono le concessioni all'arcivescovo di Monreale del sequestro dei beni usurpati da saraceni e da cristiani. Ma ciò avvenne nel contesto di una più energica azione di riorganizzazione che ebbe come esito la deportazione dei saraceni a Lucera, l'arresto di alcuni baroni recalcitranti e una più organizzata campagna di inchieste, accertamenti, espropri e redistribuzioni. Per quanto sfuggano i particolari di tale azione, è stato sostenuto che proprio a partire da questo momento, in particolare dalle Assise di Capua, la relazione feudale con i nobili meridionali acquistò i contorni di un rapporto di sudditanza, caratterizzato dall'esercizio di un controllo più serrato (Fasoli, 1987, p. 412). Nell'Italia comunale la novità della costituzione del 1220 fu più consistente, dal momento che il coinvolgimento dell'Impero, cioè dell'autorità da cui originava la giurisdizione pubblica dei comuni, nella lotta contro la disobbedienza al pontefice costituì un importante fondamento per le rivendicazioni imperiali del controllo dei governi cittadini. Ma tali rivendicazioni per tutto il decennio si mantennero sostanzialmente nei limiti stabiliti dal Papato.
Conseguentemente a quanto stabilito, già nel novembre 1220 Federico II emanò il bando imperiale nei confronti del podestà e del consiglio di Parma coinvolti in un lacerante conflitto di giurisdizione con il vescovo e scomunicati dal legato pontificio Ugolino da Ostia. Nel 1221 Federico II scrisse a quest'ultimo per manifestare il proprio appoggio alla sua missione in Lombardia e in Toscana volta alla pacificazione delle lotte interne e alla propaganda della crociata, concedendogli l'autorità di emanare e assolvere dal bannum imperii, già concessa al proprio legato, Corrado di Metz, l'anno precedente. La costituzione in haereticorum exterminium, emanata nel 1224, con cui l'imperatore sanciva l'obbligo per le autorità comunali di emanare la pena di morte nei confronti degli eretici, rappresentò un passo in avanti perché per la prima volta Federico II interveniva concretamente nell'ordinamento interno dei comuni.
La ricerca di un ruolo più attivo nel perseguimento della politica pontificia, e con essa la maggiore ingerenza dell'Impero nella politica cittadina, appare ancora più chiaramente nel 1226. In quell'anno Federico II rispose al boicottaggio della dieta di Cremona da parte di Milano e delle città alleate e al rinnovo della Lega lombarda, facendo scomunicare le città dal vescovo di Hildesheim, poi, sulla base di questa scomunica, emanando nei confronti dei collegati un bannum imperiale. Dalla lettera che dà conto di questo provvedimento appare come i comuni furono dichiarati colpevoli di crimen laesae maiestatis e privati di tutti i poteri di natura pubblica, della possibilità di eleggere consoli e podestà e di battere moneta, cioè di tutto ciò che avevano ottenuto dalla pace di Costanza. I capitanei e i valvassori si videro revocare i titoli, tutti i cittadini furono privati della facoltà di fare statuti, di produrre o rivendicare atti giuridici legittimi. Per essi fu decretato lo status di infami, così come per quanti avessero aiutato le città ribelli e per studenti e professori che avessero continuato a tenere lezioni contravvenendo alla chiusura delle università e delle scuole stabilita dallo stesso atto. In quanto banditi, coloro che furono colpiti dal provvedimento potevano essere offesi impunemente nella persona e nei beni.
Si trattava di un precedente importante, destinato tuttavia a rimanere tale, dati gli sforzi di composizione del conflitto tra Federico II e le città che il pontefice fece durante il corso di quello che è stato definito il "decennio delle mediazioni" (Vallerani, 1998, p. 455), che pure vide l'emanazione di alcuni bandi, soprattutto in Toscana. Solo quando lo scontro si fece aperto la ritorsione contro i nemici politici delle città italiane assunse una forma nuova, non immune dalla concezione della regalità che Federico II aveva maturato nel Regno di Sicilia e che aveva trovato una sintesi nel Liber Augustalis.
Un nuovo bando contro le città che si erano sottratte alla convocazione alla dieta di Piacenza fu emanato nel 1236 e a partire dall'anno successivo i contenuti dei bandi del 1226 e del 1236 furono ripresi e ampliati. I provvedimenti imperiali di questo periodo, tuttavia, non si rivolsero più contro città intere, ma furono emanati contro singoli individui dichiarati ribelli e partes che li vedevano uniti. In questo modo nella ritorsione imperiale venne a confluire la pratica del bando politico dei fuoriusciti che i comuni avevano sviluppato lungo il corso dei primi decenni del Duecento, sottraendo, in maniera analoga a quanto avveniva per i criminali contumaci, la propria protezione giuridica a quanti si erano allontanati dalla città per combatterla dall'esterno. Così, per esempio, poco prima di Cortenuova era accaduto in varie occasioni a Piacenza, dove gli appartenenti alla società dei cavalieri avevano subito il bando per essersi ritirati a Potenzano nel contado al fine di sottrarsi alla guerriglia urbana e riorganizzare le forze.
In seguito al ritorno di Federico II in Italia (1237), con l'aprirsi della fase più violenta del conflitto con il Papato, la ritorsione imperiale assunse un aspetto nuovo, specialmente nei confronti delle città ribelli del Regno d'Italia. Da un lato, l'imperatore si affrancò dalla necessità di mantenere i provvedimenti che emanava contro i propri nemici nel quadro delle punizioni di matrice pontificia, e poté così ricorrere a pratiche, come il bando perpetuo o il confino, che erano state sviluppate dai comuni. Dall'altro, egli volle ribadire che la sua ritorsione continuava a essere giustificata come lotta all''eresia della disobbedienza', eresia nella quale era caduto lo stesso pontefice, definito da Federico II praecipuus receptator haereticorum, per essersi alleato con i comuni della Lega.
In questo senso va letta la costituzione Contra infideles imperii (1239), inserita negli statuti delle città alleate e giunta fino a noi nelle compilazioni di Vercelli e di Bergamo. L'imperatore stabiliva che i suoi fedeli dovessero combattere i suoi nemici, significativamente definiti infideles, interrompendo con essi ogni contatto e provvedendo a far eseguire le condanne, pena la qualifica di rei di lesa maestà, comportante il sequestro di beni e diritti, sia che fossero stati concessi dall'Impero, dai comuni o da signori. Nel caso di singole persone la qualifica di infidelis comportava la condanna capitale. Nello stesso testo si esclusero dalla successione i figli dei traditori e si incentivò la delazione estendendo indiscriminatamente la possibilità di muovere accuse e stabilendo premi. Riprendendo e intensificando forme di esclusione attuate da tempo nei comuni, Federico II specificò che il bando degli infedeli comportava il divieto di risiedere in città, la perdita della possibilità di accedere ai tribunali, di esercitare cariche pubbliche, e che un bandito che avesse provveduto all'uccisione di un ribelle sarebbe stato assolto dal suo bando.
Una prima applicazione particolare di questi provvedimenti generali fu compiuta nella Marca trevigiana in occasione del passaggio di numerosi domini loci e dei loro sostenitori alla pars ecclesiae. Nel giugno del 1239 il segretario imperiale Pier della Vigna bandì i ribelli, definiti proditores coronae, con il bando perpetuo dell'Impero. In questa espressione confluiva, accanto alla ritorsione imperiale, quella comunale, nella quale l'aggettivo 'perpetuo' era stato utilizzato per distinguere i bandi politici da quelli ordinariamente emanati contro i contumaci, di norma revocabili. Tracce di bando degli antimperiali, anche prima della grande ondata di passaggi alla pars ecclesiae che si ebbe specialmente in Emilia e in Toscana dopo l'ascesa al soglio pontificio di Innocenzo IV, sono visibili anche a Como. Qui nel 1241 Federico II concesse al comune l'amministrazione dei beni dei ribelli, banditi nel 1239, e la possibilità di trarne frutti. È interessante notare che, quando il comune nominò una commissione che deliberasse al riguardo, definì i cittadini sottoposti a sequestro come banniti et rebelles imperii et comunis.
Una certa confluenza tra imperatore e comuni alleati andava manifestandosi anche nel ricorso al confino. Ma, più di quanto avveniva per il bando, le città e Federico II avevano utilizzato forme diverse di confino. Nei comuni il confino rappresentava una misura preventiva, volta a far allontanare temporaneamente dalla città personaggi potenzialmente pericolosi in occasione di particolari emergenze. Nel Regno di Sicilia Federico II aveva invece proceduto a vere e proprie deportazioni, che non avevano valore preventivo, ma consistevano piuttosto in concrete azioni militari contro i nemici, anche se potevano conservare un carattere temporaneo. Fu in questa accezione che nelle città filoimperiali si ricorse al confino nel corso della guerra con il Papato e la Lega. Così Federico II, entrato a Lodi dopo Cortenuova, richiamava la fazione imperiale degli Overgnaghi, costretti dieci anni prima, da un lodo milanese, a soggiornare provvisoriamente a Milano, ed esiliava in Puglia i loro rivali, i Sommariva, e altre famiglie antimperiali. A Padova, soprattutto tra 1237 e 1239, i membri di circa quaranta famiglie furono inviati nei castelli pugliesi. Ciò avvenne nel contesto di deportazioni che coinvolsero anche cittadini di altre città venete (almeno Vicenza e Treviso), coeve all'invio nel Regno di Sicilia dei prigionieri lombardi catturati in battaglia. Il confino in un'accezione più vicina a quella praticata dai comuni fu usato solo occasionalmente, come mostrano il caso di Rainaldo d'Este, allontanato da Padova, e la relegazione a Vicenza di altri padovani avvenuta nel 1239. L'estensione della ribellione a Ravenna provocò nel 1240 l'ingresso in città di Federico II, che provvide a esiliare in Puglia i Traversari, l'arcivescovo, alcuni dei Calboli e dei da Polenta. Analoga sorte ebbero i guelfi fiorentini nel 1248.
Il generale flusso di rientri che cominciò a partire dagli anni 1249-1250 in occasione delle sconfitte e della morte dell'imperatore portò con sé, come era avvenuto anche nei decenni precedenti, meno condizionati dall'intervento imperiale, una serie di problemi relativi alla reintegrazione dei diritti e soprattutto alla restituzione dei beni dei banditi. Nel campo delle procedure di ritorsione contro i nemici politici, più di quanto non avvenne in quello della giustizia (Zorzi, 1994, p. 103), le novità introdotte nell'ultima fase del conflitto con l'imperatore lasciarono tracce rilevanti nella successiva evoluzione della normativa e della prassi comunale.
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