Scala, Bartolomeo
Nacque il 17 maggio 1430 a Colle Val d’Elsa, comune del distretto fiorentino posto ai confini del territorio senese, da una famiglia di condizione modesta (il padre era un mugnaio). Alla fine degli anni Quaranta si trasferì a Firenze, dove portò a termine la sua formazione universitaria, umanistica e giuridica, entrando presto in contatto con la famiglia Medici. Dopo essere stato per alcuni anni, a partire dal 1457, segretario di Pierfrancesco di Lorenzo de’ Medici, nipote di Cosimo il Vecchio, stabilì uno stretto rapporto anche con quest’ultimo, ai cui discendenti sarebbe poi rimasto sempre legato. Era questo il periodo in cui Cosimo si accingeva ad affidare a Marsilio Ficino il compito di tradurre in latino i testi del corpus ermetico e platonico, e con Ficino S. condivise uno spiccato interesse per lo studio delle filosofie antiche, tra cui l’epicureismo, recuperato attraverso le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio tradotte da Ambrogio Traversari e la lettura del De rerum natura lucreziano. Di queste esperienze costituisce una testimonianza significativa l’Epistola de sectis philosophorum (1458). L’Epistola non è il primo scritto umanistico di S. – risale al 1454 una biografia encomiastica del banchiere e mecenate Vitaliano Borromeo, composta nel corso di un soggiorno a Milano – ma certo quest’opera, che si collega forse al corso sulle Tusculanae disputationes tenuto quell’anno allo Studio da Cristoforo Landino, gli procurò diversi consensi negli ambienti letterari della città. In effetti, qualche tempo dopo proprio S. fu scelto per leggere in privato l’Etica di Aristotele a Cosimo de’ Medici, che egli poi celebrò tanto nel De consolatione dialogus (1463) quanto nella raccolta delle Collectiones Cosmianae (1464).
In parallelo con questa attività letteraria si svolgeva intanto la carriera di S. funzionario dello Stato fiorentino. Il 24 ottobre 1459 egli era stato nominato cancelliere della parte guelfa; nel maggio del 1461 si era immatricolato doctore nell’Arte dei giudici e notai fiorentini; infine, il 24 aprile 1465, risultò eletto primo cancelliere della Repubblica, carica che tenne quasi senza soluzione di continuità per oltre trent’anni. In questa nuova veste, da un lato, almeno fino al 1478, anno della congiura dei Pazzi, egli collaborò intensamente con Lorenzo il Magnifico; dall’altro, a partire dal 1483 promosse una profonda riorganizzazione della cancelleria fiorentina, dando a quell’organismo una maggiore flessibilità (a lui si deve tra l’altro l’introduzione della nuova figura dei secretarii), funzionale all’indirizzo che il potere mediceo stava allora imprimendo alle istituzioni repubblicane. In questi anni, inoltre, S. partecipò attivamente alla vita politica. Dopo essere stato priore nel 1473 e aver visto confermata dai Consigli cittadini l’investitura cavalleresca ricevuta nel 1484 da papa Innocenzo VIII, egli raggiunse nel 1486 addirittura il gonfalonierato di giustizia, la carica suprema della Repubblica, acquisendo in tal modo il diritto di far parte a vita del Consiglio dei Settanta, organo fondamentale del potere mediceo. La costruzione del suo splendido palazzo in Borgo Pinti, dove abitò con la famiglia fino alla morte, sopraggiunta il 24 luglio del 1497, suggellò dunque una straordinaria ascesa sociale e politica. Infastiditi da simili riconoscimenti, non furono pochi gli avversari che gli rinfacciarono i suoi umili inizi: da Luigi Pulci, che lo fece oggetto in varie occasioni di attacchi satirici; ad Angelo Poliziano, con cui S., tra il 1493 e il 1494, ebbe un’accesa polemica letteraria; a Francesco Guicciardini, che si sarebbe fatto interprete dello «sdegno di tutti gli uomini da bene» per l’elezione al gonfalonierato di un «figliuolo di uno mugniaio da Colle». S. d’altra parte non rinnegò mai le sue origini, rivendicando al contrario con fierezza, e con una buona dose di autoironia (al punto da far riferimento a esse nel fregio che ornava il cortile della sua residenza), le sue qualità di homo novus (Brown 1979).
Quando il giovane M. si affacciò sulla scena culturale della città, S. rivestiva un ruolo di spicco nella vita politica e letteraria fiorentina e costituiva perciò una figura con cui era d’obbligo confrontarsi. Fu in effetti nel corso degli anni Ottanta e Novanta che il cancelliere compose i suoi scritti più significativi, alcuni dei quali, come la prima serie degli Apologi centum (1481), dedicati a Lorenzo de’ Medici (un’altra serie sarebbe seguita a partire dal 1486), conobbero una larga diffusione. Si trattava di favole filosofiche di stampo esopico, influenzate dalle analoghe prove di Leon Battista Alberti, e di esse S. fece il «veicolo» ideale per esprimere la sua più intima visione della vita (Brown 2010, trad. it. 2013, pp. 47-52). Né certo è pensabile che sia sfuggito a M. il significato di un testo come l’Apologia contra vituperatores civitatis Florentiae, stampata a Firenze nel 1496. Dopo aver recuperato, grazie anche all’intervento di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, figlio del suo antico patrono, la carica di cancelliere, da cui era stato sospeso nel 1494 in seguito alla cacciata di Piero de’ Medici, in questo scritto S. prendeva decisamente posizione a favore del nuovo governo popolare ispirato da Girolamo Savonarola. La sua difesa s’imperniava su un esame del rispettivo peso che nei recenti sviluppi istituzionali della città avevano giocato la ‘prudenza’ e la ‘fortuna’, quest’ultima considerata dall’autore un puro ‘nome’, impiegato dagli uomini per indicare gli effetti di quegli eventi di cui essi ignorano la causa (in B. Scala, Essays and dialogues, ed. A. Brown, transl. by R. Watkins, 2008, pp. 232-78).
Il testo che più di ogni altro consente di misurare l’influenza esercitata da S. su M. è però senza dubbio il dialogo De legibus et iudiciis (1483), dedicato anch’esso a Lorenzo il Magnifico. L’interlocutore che nell’opera affianca il personaggio di S. altri non è, infatti, che Bernardo Machiavelli, padre di Niccolò, definito dal cancelliere in quelle pagine suo «amicus et familiaris», e chiamato, grazie alla sua preparazione negli studi giuridici, a dibattere con l’autore «sulla questione se la legge debba essere codificata quale incarnazione di un principio immutabile» – posizione difesa appunto dal personaggio di Bernardo –, o «se debba invece adattarsi con flessibilità alle circostanze in continuo mutamento» (Brown 2010, trad. it. 2013, p. 43). Le implicazioni di questa amicizia, che risaliva probabilmente ad anni lontani, quando S. e Bernardo studiavano entrambi a Firenze diritto civile, sono di grande importanza. Da un lato, infatti, è del tutto plausibile che una frequentazione paterna tanto illustre sia stata in grado di agevolare l’ingresso di M. in cancelleria nel 1498 (Gilbert 1965, trad. it. 1970, pp. 266-68). Dall’altro, i pensieri espressi nel De legibus et iudiciis dagli interlocutori, nonché i libri e gli autori di cui essi discutono, specie se incrociati con ciò che delle letture di Bernardo Machiavelli emerge dal suo Libro di ricordi, offrono non poche informazioni sulle idee e i testi a contatto dei quali dovette svolgersi la formazione del giovane Niccolò (Perini 2007, pp. 299-304, 310-13, con bibl. prec.); né d’altra parte sono poche nel dialogo le affinità con tematiche che quest’ultimo avrebbe affrontato più tardi nelle sue opere. In particolare, la visione realistica manifestata da S. nei confronti di temi quali il fenomeno religioso, lo sviluppo della civiltà, la questione della libertà dell’uomo e il ruolo della fortuna, ha indotto a considerare il cancelliere uno dei probabili tramiti che favorirono il precoce interesse di M. per il De rerum natura, attestato fin dagli anni Novanta. Ciò è tanto più plausibile se si pensa che la passione per il poema epicureo, coltivata da S. per tutta la vita, si riaccese improvvisamente proprio in quel periodo, a cui risalgono del resto anche le nozze di sua figlia Alessandra con Michele Marullo (1496) – il poeta-soldato greco che del testo del De rerum natura era un profondo conoscitore (Brown 2010, trad. it. 2013, pp. 33-54, 77-93). Tra gli esempi più caratteristici di questa contiguità di interessi con M. figura così la concezione strumentale della religione (quale si esprime, per es., in Discorsi I xi e xii), che va confrontata con le dichiarazioni di cui nel dialogo di S. proprio il personaggio di Bernardo si fa portatore. È Bernardo, infatti, a sottolineare come, ricorrendo a «favole inventate a questo preciso fine», gli auctores delle leggi abbiano invariabilmente ricondotto l’origine di queste ultime all’intervento divino, con l’intento «di far sì che i popoli obbedissero più facilmente ai loro precetti interponendo l’autorità degli dei»; è ancora Bernardo a citare poi addirittura, a proposito dell’etimologia di religio, i celebri versi del De rerum natura (I 931-32) in cui Lucrezio si propone di liberare gli animi dai ‘vincoli’ delle superstizioni (in Essays and dialogues, cit., pp. 210, 224-26; Brown 2010, trad. it. 2013, pp. 44-47). E ovviamente ancora a M. fa pensare ciò che nel dialogo vien detto riguardo alla capacità degli uomini di corrompere gli istituti da essi creati, portandoli «da inizi buoni a esiti perniciosissimi»; o ancora riguardo all’opportunità per il legislatore di accordarsi in modo flessibile con i tempi e di tenere comunque saldamente a freno l’intemperanza dei suoi simili, destinati altrimenti a diventare protagonisti di quella lotta cieca e assurda che S. aveva rappresentato in alcuni tra i suoi Apologi più crudi (in Essays and dialogues, cit., pp. 164, 214-16; Brown 1979, trad. it. 1990, p. 227 e nota 46, con ampio riferimento agli scritti di M.).
Non pochi spunti, preziosi per far luce sul retroterra familiare di M., potrebbero inoltre essere ricavati indagando più a fondo sui motivi che indussero S. a scegliere la figura storica di Bernardo come interlocutore del De legibus et iudiciis. È già stata segnalata, a questo riguardo, una probabile allusione alla vicenda della sfortuna politica dello stretto congiunto Girolamo Machiavelli (Atkinson 2002, pp. 149-52); ma certo suscita più di un interrogativo anche la riproposizione, all’interno del dialogo, dell’apologo Leges, che S. estrae per l’occasione dalla raccolta dedicata in precedenza al Magnifico. In questo testo, infatti, un «nobilis spurius» invoca l’intervento della Natura, perché lo vendichi dell’ingiustizia commessa nei suoi confronti dalle leggi, le quali a causa della nascita illegittima lo avevano privato «di una ricca eredità» e degli onori derivanti dalla piena appartenenza alla «famiglia» e alla «patria» (in Essays and dialogues, cit., pp. 190-92). L’argomento dell’apologo, come si vede, potrebbe essere connesso con il mistero, fino a oggi irrisolto, che avvolge la nascita di Bernardo Machiavelli. Su questo punto la critica ha infatti generalmente accolto l’interpretazione secondo cui il discusso accenno al padre di M. presente in una denuncia anonima riportata da Biagio Buonaccorsi in una lettera del 28 dicembre 1509 («per esser voi nato d’un padre ecc.»), piuttosto che alla nascita illegittima di Bernardo, sarebbe riconducibile a una sua supposta inadempienza verso il fisco (Ridolfi 1954, 1978, pp. 180-82, 423; con l’importante eccezione di Bertelli 1976, pp. 228-29). In realtà, un esame più attento della documentazione fiorentina della prima metà del secolo non lascia alcun dubbio sul fatto che Bernardo sia nato al di fuori del vincolo matrimoniale. È noto, infatti, che suo padre, Niccolò di Boninsegna Machiavelli, presentando il 12 luglio 1427 la dichiarazione al primo catasto non risultava sposato e non faceva menzione di nessun altro membro appartenente al suo nucleo familiare, e che al momento del successivo censimento fiscale, indetto nel gennaio 1431, egli era da poco deceduto (Bertelli 1964, p. 786 nota 43). In base a questi dati si è supposto che Bernardo dovesse essere nato tra il 1428 e il 1430 – un intervallo di tempo sufficiente perché Niccolò di Boninsegna potesse eventualmente sposarsi. Le cose andarono invece in modo diverso ed è possibile dimostrare che Bernardo nacque qualche anno prima del 1427. Lo zio Giovanni di Boninsegna Machiavelli, presentando il 31 gennaio 1431 la portata al secondo catasto, incluse infatti il nipote tra le ‘bocche’ del suo nucleo familiare: «Bernardo di Niccholò Machiavelli, ch’è mio nipote e nonn è chi gli dia le spese: tocchano dare a me» (ASF, Catasto, 335, c. 191r); e nella stessa occasione gli ufficiali del catasto accertarono che il bambino aveva allora «anni 5» (ASF, Catasto, 394, c. 90r). Dunque, per motivi che restano ancora da chiarire, Niccolò di Boninsegna decise nel 1427 di non far menzione del figlio avuto al di fuori del matrimonio. Gli inizi della vita di Bernardo, nato fra il 1425 e il 1426, furono perciò alquanto difficili, come accadeva a tutti coloro che a Firenze si trovavano in una condizione analoga (T. Kuehn, Illegitimacy in Renaissance Florence, 2002, pp. 70-86). Pur riconoscendogli il diritto di fregiarsi del nome e degli altri simboli della famiglia, la legge lo avrebbe infatti severamente limitato nell’esercizio dei suoi diritti politici, togliendo poi anche a suo figlio Niccolò, a causa di una normativa approvata in età savonaroliana che estendeva la limitazione anche ai discendenti di padre illegittimo, ogni speranza di coinvolgimento nella politica attiva con ruoli che non fossero meramente esecutivi (Rubinstein, in Studies on Machiavelli, ed. M.P. Gilmore, 1972, p. 7; da integrare, per quel che riguarda l’ulteriore impedimento che veniva ad applicarsi anche a Niccolò, con ASF, Provvisioni, Registri, 186, cc. 140r-142r, 26 nov. 1495); soprattutto, Bernardo in prima battuta risultò escluso dalla successione nell’eredità paterna, che fu infatti divisa tra i fratelli di Niccolò di Boninsegna e di cui solo in un secondo momento il giovane fu in grado di entrare in possesso. L’apologo inserito nel De legibus et iudiciis sfiorava perciò un tema che rimandava alla storia più segreta di Bernardo, il quale d’altra parte, anche a motivo delle comuni difficoltà incontrate in gioventù, riceveva in quelle pagine la piena solidarietà di Scala.
In questa stessa chiave si sarebbe tentati di leggere anche altri passi del dialogo, come quelli in cui Bernardo spiega in che modo «i primi elementi appresi dai genitori e dai familiari» si imprimano con forza nei fanciulli, «orientandone la vita futura», poiché esiste «una tendenza innata a modellare i propri costumi su chi ci ha generato e con cui abbiamo convissuto, il che spiega perché vada riconosciuta una certa importanza alla nobiltà della stirpe e agli ‘stemmi’» (in Essays and dialogues, cit., pp. 182-84). Di queste parole si sarebbe ricordato forse lo stesso M. quando si trovò a riflettere sulla trasmissione nel tempo dei «medesimi costumi» (Discorsi III xlvi 1) che nell’antica Roma caratterizzava i vari gruppi parentali, a causa della «diversa educazione che ha l’una famiglia dall’altra» (§ 4): una circostanza per cui diviene essenziale «che un giovanetto da’ teneri anni cominci a sentire dire bene o male d’una cosa, perché conviene di necessità ne faccia impressione, e da quella poi regoli il modo del procedere in tutti i tempi della sua vita» (§ 5).
È chiaro, dunque, che proprio la sincera familiarità tra S. e Bernardo Machiavelli che traspare sotto la superficie del De legibus et iudiciis incoraggia a intraprendere un confronto sempre più ampio e approfondito tra gli scritti del cancelliere e il pensiero di Machiavelli. Si può supporre infatti, del tutto legittimamente, che grazie alla frequentazione paterna quest’ultimo fosse in grado di accedere anche a quelle, tra le opere di S., che conobbero una circolazione limitatissima: come l’incompiuta Historia Florentinorum, alla cui seconda redazione, l’unica giuntaci, il cancelliere stava forse ancora lavorando negli ultimi anni della sua vita, e verso cui le Istorie fiorentine potrebbero aver contratto più di un debito (Bausi 2005a, pp. 260-61, 266-67, con bibl. prec.; Bausi 2005b).
In conclusione, rimodulando un fondamentale interrogativo posto dalla critica circa la genesi della ‘vocazione letteraria’ di M. (Dionisotti, in Studies on Machiavelli, ed. M.P. Gilmore, 1972, pp. 103-43), è necessario considerare in una prospettiva più generale la posizione che nel panorama intellettuale della Firenze laurenziana e postlaurenziana l’opera di S. poté rivestire agli occhi del giovane Niccolò, influenzandone la ‘vocazione umanistica’. In particolare, l’Umanesimo di S., lontanissimo dall’indirizzo filologico ed ellenizzante della scuola di Poliziano, ma estraneo in fondo anche agli orientamenti neoplatonici più rigorosi riconducibili a Ficino e a Pico, sembra aver avuto tutte le carte in regola per apparire a M. come una più accettabile soluzione intermedia. Da un lato, almeno nelle forme esteriori, esso era infatti certamente più vicino all’impostazione ‘civile’ dell’Umanesimo della prima metà del secolo, non a caso esaltato da S. nel proemio al IV libro della Historia Florentinorum (Martelli 1981-1982, pp. 18-28); dall’altro, nutrito di ironia albertiana e attraversato da una riflessione sulle vicende umane realistica e disincantata, frutto di un’invidiabile familiarità con il potere politico acquisita nel corso di una lunghissima carriera, aveva non poche caratteristiche che dovevano renderlo affine al gusto di Machiavelli.
Bibliografia: Humanistic and political writings, ed. A. Brown, Tempe 1997; Renaissance fables. Aesopic prose by Leon Battista Alberti, Bartolomeo Scala, Leonardo da Vinci, Bernardino Baldi, ed. D. Marsh, Tempe 2004, pp. 86-271; Essays and dialogues, ed. A. Brown, transl. by R. Watkins, Cambridge (Mass.) 2008.
Per il profilo biografico di S. si veda: A. Brown, Bartolomeo Scala, 1430-1497, chancellor of Florence. The humanist as bureaucrat, Princeton (N.J.) 1979 (trad. it. a cura di L. Rossi, Firenze 1990).
Per gli studi critici si vedano: R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 1978; S. Bertelli, F. Gaeta, Noterelle machiavelliane. Un codice di Lucrezio e di Terenzio, «Rivista storica italiana», 1961, 3, pp. 544-57; S. Bertelli, Noterelle machiavelliane. Ancora su Lucrezio e Machiavelli, «Rivista storica italiana», 1964, 3, pp. 774-92; F. Gilbert, Machiavelli and Guicciardini. Politics and history in sixteenth-century Florence, Princeton (N.J.) 1965 (trad. it. Torino 1970); Studies on Machiavelli, ed. M.P. Gilmore, Firenze 1972 (in partic. N. Rubinstein, Machiavelli and the world of Florentine politics, pp. 3-28; C. Dionisotti, Machiavelli letterato, pp. 101-43); S. Bertelli, recensione a M. Martelli, L’altro Niccolò di Bernardo Machiavelli, Firenze 1975, «Renaissance quarterly», 1976, 29, pp. 226-31; M. Martelli, Narrazione e ideologia nella Historia Florentinorum di Bartolomeo Scala, «Interpres», 1981-1982, 4, pp. 7-57; A.M. Cabrini, Per una valutazione delle Istorie fiorentine del Machiavelli. Note sulle fonti del secondo libro, Firenze 1985; La casa del cancelliere. Documenti e studi sul palazzo di Bartolomeo Scala a Firenze, a cura di A. Bellinazzi, Firenze 1998; C. Atkinson, Debts, dowries, donkeys. The Diary of Niccolò Machiavelli’s father, messer Bernardo, in Quattrocento Florence, Frankfurt a.M. 2002; C. Ginzburg, Machiavelli, l’eccezione e la regola. Linee di una ricerca in corso, «Quaderni storici», 2003, 38, 1, pp. 195-213; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005a; F. Bausi, Niccolò Machiavelli e Bartolomeo Scala: due schede, «Interpres», 2005b, 24, pp. 272-79; C. Ginzburg, Diventare Machiavelli. Per una nuova lettura dei Ghiribizzi al Soderini, «Quaderni storici», 2006, 41, 1, pp. 151-64; L. Perini, postfazione a B. Machiavelli, Libro di ricordi, a cura di C. Olschki, Roma 2007, pp. 263-323; R. Fredona, Carnival of law: Bartolomeo Scala’s dialogue De legibus et iudiciis, «Viator», 2008, 2, pp. 193-214; A. Brown, The return of Lucretius to Renaissance Florence, Cambridge (Mass.) 2010 (trad. it. Machiavelli e Lucrezio. Fortuna e libertà nella Firenze del Rinascimento, Roma 2013).