BASILICATA
. Il nome Basilicata, col quale noi indichiamo una parte dell'antica Lucania (che si estendeva dal Sele al Lao sul Tirreno, dal Bradano al Crati sull'Ionio; v. lucania e bruzio), appare per la prima volta in un documento del 1175, e sembra derivare da quello del funzionario bizantino (basilikós) che amministrava, ancora nel sec. XI, que] la parte dell'antica Lucania che non era passata sotto i principi di Salerno. A queslo smembramento si deve probabilmente la scomparsa dell'uso ufficiale del nome Lucania, rimasto solo nell'uso dotto. Nel sec. XIII troviamo un "giustizierato della Basilicata", i cui confini risultano in modo preciso soltanto da un cedolario del 1273, contenente l'elenco delle sue terre; essi arrivavano a sud fino al Sinni, a nord comprendevano la regione del Vulture e l'alto bacino dell'Ofanto, a ovest giungevano fino al versante orientale dei Monti della Maddalena e all'alta conca del Platano (affluente del Tanagro), a est escludevano il territorio di Montemilone e quello di Spinazzola. Tali confini si mantennero a un dipresso inalterati, attraverso le varie dominazioni che si succedettero nella regione: l'angioina, l'aragonese, la spagnola e la borbonica; nei primi anni del sec. XIX furono aggregati alla Basilicata alcuni paesi della valle del Melandro, staccati dalla provincia di Salerno, e alcuni della provincia di Cosenza sul versante ionico.
La vastità del territorio, il suo carattere montuoso, la conseguente difficoltà di comunicazioni, rendevano assai malagevole l'amministrazione della provincia, che per di più mancava di un vero e proprio contro di notevole importanza; pertanto più volte si pensò di mutarne i confini o di suddividerla in circoscrizioni minori. Nel 1663, ad es., staccata dalla Terra di Bari Matera, fu eretta questa città a capoluogo della Basilicata, rispetto alla quale peraltro essa è del tutto eccentrica, sì che mal si presta come sede degli organi amministrativi. Ciò nondimeno Matera rimase capoluogo fino al 1806, nel quale anno, per ovviare all'inconveniente dell'eccentricità, fu scelta Potenza come sede degli uffici amministrativi, che vi si trasferirono completamente solo nel 1811. Grave fu il malcontento dei Materani, a quietare il quale, durante la rivoluzione del 1820, abolitosi il nome Basilicata e risuscitato quello classico di Lucania, si distinse una Lucania orientale con capoluogo Matera e una Lucania occidentale con capoluogo Potenza, estendendo tuttavia quest'ultima fino al confine classico, il Sele. Tornati i Borboni, furono restituiti l'unità della provincia e il suo nome Basilicata, cioè rimase poi, in seguito, per quanto parecchi comuni, dovendo aggiungere un appellativo per distinguersi da altri omonimi d'Italia, scegliessero quello di Lucano. Dopo l'annessione del Napoletano all'Italia, nel 1868, fu proposta la divisione della vastissima provincia in tre (Matera, Potenza, Melfi), ma il governo non l'accettò, come non accettò il voto del consiglio provinciale (1873) perché si sostituisse al nome di Basilicata, quello di Lucania. Lo stesso desiderio, manifestato più volte in seguito, non ebbe miglior esito.
La Basilicata, con un'area di kmq. 9987,5 è, fra i compartimenti d'Italia, al 14° posto e fino al principio del 1927 formava una unica provincia. Il decreto 2 gennaio 1927 creò la provincia di Matera (kmq. 3793,6) che comprende la regione collinosa orientale e si affaccia all'Ionio per 37 km.; rimase alla provincia di Potenza (kmq. 6194) la regione montana occidentale e tutta la parte settentrionale con lo sbocco sul Tirreno.
Caratteristiche fisiche. - La Basilicata comprende nella sua zona occidentale massicci montuosi tra i più alti dell'Appennino, incavati da conche profonde e fiancheggiati a oriente da poderosi contrafforti, che van digradando verso l'Ionio. La dorsale è costituita da una pila alta e tenace di rocce calcaree e silicee del Triassico medio, che va man mano abbassandosi per risalire a occidente con i M. della Maddalena scendenti nel vallo di Diano. Il Triassico superiore biancheggia nelle dolomiti tra Brienza, Casalbuono e Moliterno e in parte sui margini della valle del Mercure. Nei monti dalle forme semplici e gravi di Maratea, Latronico e del colossale Pollino appare il Liassico medio sotto grandi masse calcaree. I rilievi settentrionali e centrali non superano i 2000 metri (M. Volturino 1856, M. di Viggiano 1725); più imponenti a sud il gruppo del Sirino, la cui più alta vetta raggiunge 2005 m. col M. Papa, e il gruppo del Pollino, che interrompe l'andamento da NO. a SE. della dorsale, per prendere quello di O.-E. e prolungarsi con i suoi speroni sull'Ionio, venendo così a formare un'alta e lunga barriera tra Basilicata e Calabria.
L'orientazione dell'Appennino lucano da NO. a SE. corrisponde all'asse delle conche di Baragiano, dell'alta Val d'Agri, del Noce e del Mercure, antichi laghi pleistocenici. La loro formazione in zone eminentemente sismiche è in relazione con fatti di natura tettonica, accompagnati da fenomeni carsici, frequenti in quelle regioni calcaree.
La zona collinosa orientale consta di rocce dell'Eocene superiore e la pianeggiante, di terreni pliocenici e postpliocenici, che si distendono verso le Murge pugliesi e che nella cimosa metapontina si trasformano in estese terre alluvionali, interrotte da piccole alture, forse cordoni litoranei; la spiaggia rettilinea, importuosa e senza rifugi è di scarso valore antropico. Questi terreni pliocenici e postpliocenici, formati da argille, marne, sabbie, conglomerati, dànno origine a colli non superiori ai 600 m. o a larghe piattaforme incise profondamente dall'azione erosiva delle acque. Nel flysch eocenico le acque correnti causano frane estese e profonde, che distruggono terreni coltivati, vie, abitati e modellano il terreno in forme desolanti.
La Basilicata è uno dei più disastrosi centri sismici italiani, per il materiale incoerente delle sue rocce e per la zona vulranica del Vulture isolato, che comprende lo spazio tra l'Ofanto e i suoi tributarî nell'alto suo bacino e su cui sorge Melfi con altri paesi, flagellati dai terremoti negli anni (lasciare uno spazio tra le date) 1348, 1456, 1492, 1561, 1659, 1694 e nell'anno 1851, che pare sia stato il più disastroso. La zona sismica più attiva è l'alta Val d'Agri, circostante al Vallo di Diano e alle conche a cui abbiamo accennato, tormentata frequentemente da intense scosse, in special modo nel secolo passato.
Idrografia. - I fiumi della Basilicata nei loro bacini superiori si aprono a ventaglio e scorrono trasversalmente verso sud-est, avvicinandosi verso le loro foci quasi parallele nel breve litorale ionico. Dapprima scorrono in stretti alvei e formando larghi gomiti, poi verso il piano s'allargano fino a 3 km. si contorcono in brevi rivolte, mutano corso nelle piene, giacciono pantanosi, convogliano detriti di rocce facilmente disgregabili, con i quali dànno origiue a neoformazioni alluvionali. La deviazione delle correnti invade delle terre, le quali, quando l'acqua si ritira, sono abbandonate (in dialetto misule). I fiumi hanno carattere torrentizio a piene impetuose e limacciose, tranne l'Agri che è il più abbondante di acque, per il suo bacino nevoso. Il Bradano, il più lungo (167 km.) e il più vasto di bacino (2735 kmq.) col suo affluente Basentello, è il più importante della regione, perché bagna paesi della Basilicata e della Puglia. Questi fiumi sono vie naturali per il passaggio dal versante ionico alla costa del versante tirrenico. La valle del Basento è percorsa dalla ferrovia Metaponto-Potenza-Salerno, via d'importanza strategica e notevole per le comunicazioni tra la bassa Puglia e la Campania. L'Ofanto lambisce la Basilicata e ne segna i confini verso N. ed E. per poi raggiungere l'Adriatico (v. tavv. LXXVII e LXXVIII).
Clima. - Per quanto non troppo copiosi siano i dati attendibili, si possono rilevare elementi per stabilire le differenze notevoli di clima nella Basilicata tirrenica, nelle aree dei massicci interni più o meno elevati, in qualche conca chiusa e nella cimosa litoranea dell'Ionio. I venti benefici, che spirano dal Tirreno, influiscono sulla mitezza degl'inverni e sulla freschezza delle estati; la spiaggia ionica, esposta ai venti di SE., specialmente allo scirocco, ha inverni miti, ma estati caldissime. Per la gran rete di monti, che costituiscono la fisionomia generale del paese, i venti subiscono variazioni molteplici nelle brevi e frequenti pianure e nelle valli lungo le quali essi spirano; i venti predominanti sono quelli del IV quadrante (NO.). L'escursione termica annua è più elevata a pari latitudine sull'Ionio e minore sul Tirreno (versante ionico, media 18°,2; nel versante tirrenico, a Maratea, media di 14°). Col crescere dell'altitudine, la temperatura si abbassa, la piovosità aumenta, permane la neve fino a mezza estate. Sul Golfo di Policastro piove abbondantemente e la piovosità raggiunge 1200 mm. sulle alture; nella conca di Lagonegro, che è tra le più piovose, raggiunge 2000 mm. Per la zona del Pollino mancano dati oltre i 1000 m.; fino a questa altitudine si ha una media di 900 mm. Sull'Ionio, al di sotto di 100 m., cadono 600 mm. di pioggia annua; da 100 a 500, mm. 600-800; da 500 a 1000 m. cadono da 800 a 1000 mm.; le ultime cifre decennali (1911-1920) di Valsinni, che in quella zona possiede una stazione udometrica a 200 m., riportano mm. 762,3 annui. Più nell'interno, a Teana, a m. 806, cadono mm 884,86, a Moliterno (800 m.) mm. 804,90. A Potenza, posta a 870 m., la temperatura media d'inverno è 3°,6, di primavera 9°,6, d'estate 19°,3, d' autunno 120,5; la temperatura media è di 110,2 e la media della pioggia è di mm. 916,02, entrambe ricavate dai dati degli ultimi 13 anni (1915-1927); l'escursione termica si può ritenere di 38°,4. I mesi piovosi in Basilicata sono ottobre, novembre, dicembre, e i meno piovosi luglio e agosto; altre piogge non mancano in aprile e in maggio, ma nell'estate sono scarse o mancanti nel basso Materano (versante ionico) e nel basso Melfese (versante dell'Ofanto), mentre sui monti cadono piogge torrenziali, spesso accompagnate da grandine dannosa e violenta.
Vegetazione. - L'uomo ha molto modificato il rigoglioso mantello vegetale della Basilicata, diboscandolo in epoche più o meno remote, e solo ora lo va ricostituendo: l'uomo stesso ritorna a coltivare terre che aveva abbandonato. Verso i 2000 metri, nei gruppi del Sirino e del Pollino, ove tracce glaciali sono localizzate alle punte terminali, si trovano residui di flora alpina. Sulle pendici del Vulture, vegeta il castagno fino a 1000 metri; nel resto dei monti lucani, oltre quell'altitudine, è sostituito dal frassino e dal faggio; questo ultimo raggiunge 1850 m. sul Sirino, 2100 sul Pollino; al disotto dei 1500 m. vi sono boschi di ontano e di acero; una qualità di acero (alnus glutinosa) nell'Appennino lucano non supera i 1200 m. Sul Pollino i boschi di Pinus leucodermis coprono estese zone tra i 1850 e i 2250, e l'Abies alba è molto comune ed estesa fino ai 2000 m. La quercia e il cerro, soli o addensati, non superano quasi mai i 900 m., ma nella Mezzana del Pollino il cerro raggiunge 1000 m.
La flora mediterranea è rappresentata dall'olivo e dalla vite, che si estendono dai piani ionici fino ad altitudini di 850 m. nell'interno, in luoghi ben esposti. Il fico, il ciliegio e alberi da frutta vegetano in altitudini inferiori, ma ben riparate dal levante; il ciliegio, eccezionalmente, raggiunge i 1500 metri al Santuario del Pollino, esposto a mezzogiorno. Le conche interne e le basse valli fluviali permettono scarsamente la coltura del mandorlo, del pesco, del melo, del melagrano e del nespolo, pianta recentemente importata; gli agrumi crescono rigogliosi fino a 200 m. nelle bassure ioniche. Spontanei crescono il pero selvatico e il pirastro, che dànno buoni frutti, se innestati con i domestici; sono sparsi in abbondanza sulle pendici montane.
La macchia di lentisco, che forma boschetti in alcune località incolte, cresce un po' dappertutto; nei campi metapontini questa pianta, associata alla mortella e ad altre specie, interrompe la monotonia dell'agave e dei pini d'Aleppo. E col lentisco anche la ginestra ricopre estese superficie di terreno; burroni e rive dei fiumi sono rivestiti da boscaglie di salceti, che più in alto, nelle radure e sui margini dei boschi, sono sostituiti da agrifogli.
Per quanto riguarda l'altimetria si possono distinguere nella vegetazione quattro zone: la macchia mediterranea (fino a 400 m.), il bosco submontano di querce e di castagni (400-1000 m.) il bosco nontano di faggio e di conifere (1000-2000 m.), il pascolo alpestre.
Fauna. - La caccia incessante e il dissodamento e lo sfoltimento dei boschi han ridotto quasi del tutto gli animali selvaggi, o li hanno allontanati o fatti ricomparire in luoghi insoliti. È un lontano ricordo l'avanzarsi dell'orso dall'Appennino Centrale ai boschi lucani; sono scomparsi da poco cervi, caprioli, gatti selvatici. Permangono il cinghiale e il lupo, che tende anch'esso a diradare per la caccia che gli si fa. Il tasso è poco frequente, la faina è rara, ricci e istrici assai rari, nelle profonde fenditure di rocce; la lontra è sperduta in qualche scoglio di fiume. Lepri e volpi sono ancora comuni, pur tendendo a scarseggiare. Lo scoiattolo e il ghiro si nascondono nei tronchi di querce secolari. Tra i rettili sono abbondanti il ramarro, l'aspide, la vipera, il colubro, il cervone, la biscia d'acqua; l'orbettino è rarissimo.
Popolazione. - La popolazione della Basilicata, calcolata sui fuochi a 5,5 individui per famiglia, verso il 1505 darebbe 123.000 anime, nel 1561, 194.000 e 196.000 nel 1648. La peste del 1656 ridusse la popolazione a 139.000, ma le ricostituite condizioni politiche ed economiche la elevarono, nel 1791, a 365.842. I dati non sono sicuri, e per l'incertezza del valore medio dei fuochi, non sempre tassati per privilegi di esenzioni, o per subdoli artifizî, e per la comparsa o la scomparsa, negli elenchi, di terre abitate, specialmente per malaria, per terremoti, per violenze soldatesche. Le cifre però della seconda metà del Settecento presentano una certa attendibilità, perché la popolazione veniva calcolata, non più per fuochi, ma per dati che venivano raccolti dai parroci e dai sindaci, metodo questo continuato nel regno di Napoli fino al censimento del 1861. Il movimento della popolazione nei primi 50 anni del sec. XIX è ricavato appunto da questo materiale, per gli altri 60 anni, fino al 1921, risulta dai censimenti, per il 1925 da computi anagrafici:
Bisogna notare che, nel primo cinquantennio, l'aumento è dovuto in particolar modo alla circostanza che molti paesi del Salernitano passarono alla Basilicata. La diminuzione del 1861, in confronto del 1850, fu prodotta dal colera del 1854, e dal terremoto del 1857.
Mentre nel primo cinquantennio gli abitanti aumentano gradualmente, nel secondo invece l'aumento discende fino a mutarsi in vera e propria diminuzione nel 1901; solo dopo il 1921 la popolazione ha ripreso il suo incremento naturale.
Lo spopolamento avviene di preferenza nella Basilicata occidentale più che nell'orientale, sui monti, anziché sul piano o sulle colline, nelle terre per altitudine a scarso rendimento, anziché nelle terre feraci del Materano e del Melfese. Nel 1921 si hanno 46 comuni in aumento e 79 in diminuzione sui risultati dei due censimenti; le riduzioni anche questa volta si avverano nei comuni occidentali, e gli aumenti nei comuni a territorio irriguo, nelle basse valli dell'Agri e del Sinni; si hanno minime percentuali negative nelle zone collinose, che nel 1911 erano in lieve aumento. In conclusione, le oscillazioni d'aumento e di diminuzione persistono dal 1881 al 1921 e dànno un certo riassetto al numero degli abitanti: tre soli comuni, Pisticci, Lavello, Nemoli, nei varî censimenti, si sono mantenuti a costante incremento; tre altri, Viggiano, Tursi, S. Fele in oscillante decrescimento.
Emigrazione. - Nel 1861, erano all'estero 176 individui di Basilicata, 8143 erano emigrati nell'interno: ne tornarono rispettivamente 4 e 7971. Nel 1871 ve n'erano soltanto 1800 a New York, e 1439 eran partiti per oltre Oceano: la Basilicata superava allora per emigrazione l'Abruzzo e il Molise, la Puglia, la Calabria, la Sardegna e con la sua percentuale di 2,05% superava la media di 1,78 del regno. Uno dei massimi espatrî si ebbe nel 1887, con 12.128 emigranti, tra uomini e donne; dopo varie oscillazioni con cifre inferiori, si raggiunse, nel 1906, la cifla di 18.000. L'esodo incessante si attenua dall'agosto 1914, per il divieto fatto a tutti gl'iscritti di leva e a tutti i militari. Dopo la guerra, la corrente emigratoria risale, nel 1920, a 12.324. Per successive restrizioni, negli ultimi tempi, partono da 4000 a 6000 individui all'anno. Dal 1869 al 1911, 350.715 Basilicatesi Sono espatriati, e poi fino al 1923, 72.562 in totale; aggiungendovi con approssimazione i clandestini, gl'imbarcati in porti stranieri, quelli addetti a servizî, si raggiunge 430 mila. E calcolando largamente al 35% i rimpatriati, sarebbero rimasti oltre Oceano circa 279.500 Basilicatesi.
L'emigrazione per i paesi d'Europa e per il bacino del Mediterraneo è quasi nulla: basti dire che nel 1919 sono partiti 437 individui, 461 nel 1920 e 126 nel 1921.
Nel 1911 il 98‰ degli abitanti era nato nello stesso comune di censimento, e il 64‰ nella stessa provincia, pochi in altri com- partimenti (specie: Campania e Puglia), i nati all'estero erano appena 1808, in massima parte figli di reimmigrati.
L'aumento sensibile della popolazione dal 1921 ha riscontro nella diminuzione del fiotto emigratorio, che, arrestato da restrizioni di approdi all'estero e da condizioni economiche migliorate nelle due provincie, accenna a un movimento di equilibrio, anzi all'aumento naturale di cinquanta anni addietro. Di fronte alla diminuzione generale e al lieve incremento del Materano, nel 1901, e alla diminuzione generale sempre crescente del 1911, e a quella ancora del 1921, si affaccia infine un lieve aumento nel Potentino, che ha superato la fase acuta antecedente.
Condizioni economiche. Agricoltura e pastorizia. Industria e Commercio. - L'ultima rilevazione nella ripartizione dei terreni in Basilicata, sotto l'aspetto agricolo, risale al 1913, per l'unica provincia di allora. Il Melfese occupa il primo posto per estensione di colture; seguono il Materano, il Potentino e il Lagonegrese, nella cui circoscrizione s'innalzano i più alti m0nti dell'Appennino Lucano e che ha in piano soltanto una stretta striscia verso l'Ionio. La Basilicata tutta, con la percentuale di 43,2 di seminativo, non è tra gli ultimi compartimenti d'Italia. Il 48% della sua superficie pascolativa e boscosa le assegna il sesto posto tra i 16 compartimenti del 1913, e dimostra quale importanza di risorse economiche vi debbano avere l'allevamerito del bestiame e lo sfruttamento forestale.
Nella Basilicata orientale, cosiddetta delle "marine", che si estende dal Vulture collinoso ai piani ionici, la proprietà è in prevalenza di vasti territorî seminativi o di grandi tenute a coltura mista o specializzata in grani, non però a conduzione diretta. Nella Basilicata occidentale la proprietà è molto frazionata e a conduzione diretta; spesso piccoli appezzamenti sporadici nello stesso agro son posseduti da un unico proprietario, che è così nell'impossibilità economica di costruire case coloniche; non manca però qualche azienda agricola vasta e razionale. Nelle grandi proprietà molto lontane dai centri, i lavoratori pernottano sul posto, e a turno vanno a rivedere le famiglie; nelle piccole e vicine invece, ogni mattina per tempo e ogni sera tarda, vi si recano disagiatamente e disagiatamente ne tornano. La discontinuità dei lavori rurali, la malaria, la mancanza di ricoveri in fabbrica non allettano alla permanenza notturna nei campi, se non nei periodi di raccolta.
Stazionaria è la coltura del frumento; in aumento quella del mais, soprattutto per ingrasso di suini. La patata, che si andava diffondendo dalla montagna alla collina, è in diminuzione, perché poco ricercata nell'alimentazione dei lavoratori. La viticoltura aveva subito un notevole regresso, per l'invasione della fillossera e per la mancanza di esportazione dei suoi prodotti; oggi però va di nuovo estendendosi con la sostituzione dei vitigni americani a quelli locali. Abbastanza notevole è anche la coltura dell'olivo, che cresce rigoglioso, mentre gli agrumi sono coltivati soltanto sulle spiagge ioniche e nelle valli che vi sboccano. L'orticoltura estesa nelle bassure, nelle conche e presso le rive dei fiumi, provvede anche per le contrade vicine. La frutticoltura, estesissima anche sui monti, dà buon prodotti d'esportazione. Importante risorsa economica è l'industria del taglio del legname.
La pastorizia in Basilicata è una grande fonte economica. Ma per la trasformazione redditizia del pascolo in seminativo e per l'emigrazione che faceva scarseggiare i mandriani, subì una forte crisi, dalla quale l'hanno sollevata l'aumento di costo della mano d'opera e l'alto prezzo raggiunto dai prodotti, per la refrattarietà locale di usare lane forestiere ed estere. Nel 1918 i bovini erano 63.772 e gli ovini e caprini 1.076.329; nel 1925 sono saliti rispettivamente a 68.870 e 1.098.580. Il patrimonio zootecnico, calcolato a 472 milioni di lire, compresi gli alveari e i conigli, va migliorando nell'allevamento e nella produzione; centro commerciale dei formaggi è Moliterno, dal quale il prodotto s'irradia nell'Italia e all'estero.
I pastori conservano i tradizionali costumi, la gerarchica organizzazione e gli abiti di pelli caprine: nei lunghi ozî intagliano nel legno oggetti di uso domestico.
Risorge anche l'industria dell'allevamento dei suini.
Lungo il Mare Ionio non si esercita la pesca, perché la riva è malarica, lontana dai centri e senza rifugi: paranze tarantine e calabresi vi si avventurano per fornire i mercati dei paesi vicini. Non così sulle coste tirreniche sane e sinuose: sono delle acque di Maratea i 30 pescatori che registra il censimento del 1921.
L'isolamento, dovuto alla sua posizione rispetto alle regioni vicine, ha fatto vivere per lungo tempo la Basilicata in un particolarismo quasi primitivo di industrie locali, con esportazione limitatissima. Dalle città fuori provincia attingeva altri prodotti indispensabili o se ne forniva nelle fiere e nei mercati, che frequenti si celebravano a rotazione fissa nei singoli comuni, in occasione specialmente di festività religiose. Alcune industrie casalinghe sopravvivono in angoli remoti con telai a mano, mentre il telaio meccanico è comparso ad Avigliano e a Lagonegro per pannilani. Va risorgendo la coltivazione del lino e s'intensifica l'uso delle fibre della ginestra per rozze tele a Latronico e a Lauria; in questa industre cittadina è sorta una conceria di pelli, a Maratea si manifatturana corde vegetali, resistenti all'acqua marina.
La Basilicata è appena all'inizio dell'industria moderna dei minerali. Finora inutilizzati sono i giacimenti petroliferi di Tramutola, in alta Val d'Agri e altri vasti giacimenti petroliferi nel bacino del Sinni. Nella valle del Mercure, durante l'ultima guerra, furono fugacemente sfruttate le miniere di lignite. L'argilla è comunemente manipolata per laterizî e stoviglie, il calcare per calce idraulica.
Utilizzando i salti d'acqua, di cui è ricca la regione, l'energia elettrica, in questi ultimi anni, si è diffusa per illuminazione cittadina e per forza motrice; nel 1920, era di un migliaio di kw., nel 1926 era di 24 mila.
Viabilità. - La Lucania era attraversata, nei tempi di Roma imperiale, da una via litoranea tirrenica e da un'altra ionica; una terza, Popilia, seguiva il corso del Tanagro e, superando il gruppo dei monti del Pollino, riprendendo il corso di altro fiume, il Sybaris, oggi Coscile, raggiungeva Turi. Di altre due vie trasversali, l'una lungo la valle dell'Aciris si annodava a Eraclea, e l'altra, attraverso l'Appennino, s'innestava all'Appia. Un'ultima via da Venosa a Nerulo fendeva longitudinalmente la regione. Queste vie, abbandonate nel Medioevo, o mal ridotte, si trasformarono in vie mulattiere, che si mantennero tali per secoli. Soltanto nel 1792 la cosìddetta Strada consolare della Calabria unì la Campania alla Basilicata occidentale; nel 1818, un suo tronco arrivò fino a Potenza. Lentamente ne furono costruite altre e dopo l'unificazione d'Italia le strade si moltiplicarono celermente. La Basilicata, al 1° gennaio 1926, aveva 1419 km. di strade percorse da auto-servizî e 934 km. di strade ordinarie. La costruzione di strade, resa difficile dalla natura montuosa e franosa del suolo, e dall'altitudine dei centri. non è adeguata ai bisogni.
La ferrovia, che lambisce la costa ionica da Reggio a Taranto, servì dapprima i paesi della Basilicata orientale per raggiungere la Puglia, e, da Foggia, Napoli; i paesi del Cilento e della Basilicata occidentale facevan capo ad Eboli. Nel 1883, l'apertura al traffico della strada ferrata Metaponto-Potenza-Salerno ruppe il silenzio millenario nell'interno della provincia. Dapprima la più importante per il traffico della bassa Puglia e della Calabria verso Napoli, serve ora, dopo l'apertura della Battipaglia-Reggio, per la maggior parte al transito fra Taranto e la Campania. Il tronco che se ne diparte da Sicignano, ora si arresta a Lagonegro, ma proseguirà fino a Castrovillari, sulla Sibari-Cosenza. Dal capoluogo della provincia di Potenza il tronco che dovrà raggiungere Atina, nel vallo di Diano, è in esercizio fino a Pignola. Matera è unita ad Altamura, in Puglia, per mezzo della linea che rientra in Basilicata, attraversa il Melfese, a nord, ripiegando poi verso sud sull'Ofanto, e tocca gli estremi confini per entrare nella provincia di Avellino. Questo incremento di viabilità non ha ancora fatto sparire il passaggio dei fiumi sui trampoli, o su poderosi carri tirati da buoi e da bufali.
La spiaggia rettilinea ionica non ebbe né ha insenature per approdi; nell'epoca classica alle foci dei fiumi sorgevano porti, e le navi risalivano lungo i loro corsi inferiori. Sulla costa tirrenica si apre il piccolo porto di Maratea, ove per scogli battuti da burrasca è difficile l'approdo. Prima dell'apertura della ferrovia, aveva un discreto movimento.
I centri abitati. - Nella distribuzione della popolazione accentrata e sparsa vi è un notevole contrasto tra i comuni del Materano e del Potentino. Nei primi dal vasto territorio pianeggiante o collinoso, per la facilità delle comunicazioni, gli abitanti si addensano in grossi centri agricoli, come nella limitrofa Puglia; nel Potentino invece i comuni sono piccoli con popolazione sparsa. Nella marina dell'Ionio la malaria accentra i comuni sui monti retrostanti e dirada le case degli agricoltori nella cimosa litoranea. Le zone disseminate di notevole popolazione sparsa s'incontrano nell'Appennino a Calciano, Garaguso, Chiaromonte, Castronuovo, S. Chirico Raparo e intorno alle falde del Pollino, ove si raggiunge a Viggianello l'82%. Cifre meno alte si riscontrano nella conca di Atella, e nelle chiostre montuose di Potenza e di Avigliano, ove predomina la popolazione accentrata. L'estensione territoriale del comune è notevole fattore positivo di popolazione sparsa in suolo montuoso, mentre è negativo per comuni del piano. In generale predomina in Basilicata la popolazione agglomerata sulla sparsa, che è soltanto del 15%, e dei 166 centri su 126 comuni, 136 sono in montagna, 22 in collina, 8 in pianura. Tre comuni appena superano i 15 mila abitanti: Potenza, Matera e Avigliano.
La scarsa area dell'abitato, circondata da dirupi o lambita da torrenti, ha prodotto il fenomeno dei centri doppî, che per lo più prendono il nome di Superiore e Inferiore (Lauria, Castelluccio, Maratea) o ha prodotto la filiazione di centri omonimi (Viggiano, Viggianello, Rotonda, Rotondella, Aliano, Alianello) e coh l'aggiunta di Vetere e Nuovo (Marsico), e talvolta anche due centri contigui come rursi e Rabatana, che è un villaggio di origine saracena accanto al vecchio basilicatese. I più piccoli comuni sorgono in posti impervî, sulle alture emergenti da valli o da conche o da piani malarici, per difesa igienica e contro le incursioni barbaresche. Talvolta un paese, infestato dalla malaria, ha visto emigrare i suoi abitanti in altri paesi vicini, come è avvenuto per Atella verso Rionero, altri sono scomparsi del tutto, decimati da malattie. Le conche sane invece hanno attratto e agglomerato molta popolazione, specialmente quella del Noce (Lauria) e quella di Marsico; nella prima, con lo sbocco del Passo della Colla verso il mare, e col passaggio della via delle Calabrie, Lauria, quantunque il suo territorio sia scarsamente produttivo, ha raggiunto 11.000 ab., nella seconda, in comunicazione con il vallo di Diano, si sono aggruppati due centri maggiori, i due Marsico, e un centro minore, Paterno, eredi della vicina distrutta Grumentum.
La feracissima zona del Vulture con i piani adiacenti, fini dall'antichità, specialmente ai tempi dei Normanni e degli Svevi, è stata sempre popolosa: Melfi, Rionero, Barile, Rapolla, Lavello presentano grossi accentramenti agricoli, commerciali; Venosa è forse l'unica città antica che non sia scomparsa e che abbia conservato una notevole popolazione, mentre altre, anch'esse antiche, per la loro elevata altitudine non hanno raggiunto notevole popolazione (Forenza, Acerenza). Nelle basse valli dei fiumi, ma molto distanti dalle rive sempre malariche, sorgono centri non molto popolati, che debbono il loro agglomeramento alla coltivazione di cereali e di ortaggi. Il mare altrove ha richiamato la popolazione sulla riva, nella costa ionica basilicatese invece ha prodotto il fenomeno contrario. La spiaggia metapontina, salubre ai tempi della Magna Grecia, alimentava le città di Metaponto, Eraclea, Siri, che avevano porti sulle foci del Bradano, dell'Agri e del Sinni, ma, nei tempi posteriori, le lotte tra città e città, la malaria prodottasi per allagamento delle terre e la cessazione del commercio per interramento dei porti, ridussero la regione un deserto pantanoso; sorse soltanto qualche gremio lontano dal mare.
Né la ferrovia lungo questa spiaggia ha fatto sviluppare nuovi centri, ma soltanto sorgere qualche casa in legno o in fabbrica alle stazioni di Metaponto, Scanzano, Policoro, Nova Siri, in dipendenza dai villaggi omonimi; i centri retrostanti, molto lontani e scarsi di vitalità commerciale, fanno capo piuttosto alla ferrovia Metaponto-Napoli, o alla Lagonegro-Sicignano, o alla Battipaglia Reggio. I paesi posti lungo la ferrovia trasversale se ne giovano per il traffico, ma sono rimasti raccolti sui crinali soprastanti; la sola Potenza, per l'incremento edilizio derivatole come capoluogo del compartimento, dall'altitudine su cui si eleva, è scesa in piccola parte alla sua stazione inferiore. Maratea, sul litorale tirreno, salubre, dalla sua rocca si è allargata in piccoli centri e in case sparse sul mare, per bagni e per sbocco del traffico delle valli interne. In generale la ferrovia non ha prodotto nuovi centri, e perché corre in zone malariche, e perché i centri ne son lontani, e anche per il fenomeno della diminuzione anziché dell'accrescimento della popolazione.
L'onomastica dei comuni accenna alla loro situazione, dovuta a ragioni storiche o fisiche. Quelli che all'appellativo premettono Castello, Castro, Rocca, Guardia, son sorti per difese e vedette di valli. Episcopia è una vedetta della valle del Sinni, Potentia fu un luogo fortificato dei Romani. Altri han preso il nome dalla loro elevata posizione su rocce e picchi: Pescopagano, Acerenza, Pietragalla; e altri premettono Sasso, Ripa, Monte, con attributi indicanti la forma, la costituzione, l'aspetto: Montescaglioso, Montepeloso (oggi Irsina), Montalbano, Ripacandida e Montemurro (cioè "monte franoso").
Densità della popolazione. - Le fasi della densità della popolazione in Basilicata oscillano secondo l'aumento o la diminuzione, nei varî censimenti: 1861, 49,35; 1871, 52,47; 1881, 53,90: 1901, 49,21; 1911, 48,56; 1921, 46,91. Quest'ultima densità è maggiore soltanto di quella della Sardegna (32), eguale a quella della Venezia Tridentina, molto minore di quella della vicina Calabria (100); supera la densità delle provincie di Sondrio (41) e di Grosseto (36). Con la divisione del compartimento in due provincie si ha: provincia di Potenza, kmq. 6.193,86, ab. 329.094, densità 53,13; provincia di Matera, kmq. 3.793,57, ab. 139.463, densità 37,02. La minore densità della nuova provincia di Matera, rispetto all'altra, deriva dal fatto che essa comprende comuni con estesi territorî, mentre nell'altra di Potenza sono in generale piccoli e montani, resi autonomi per la difficile viabilità. La provincia di Matera, come la Puglia, per condizioni agrarie opposte, sviluppa centri agricoli collinosi o pianeggianti, con una densità da 25 a 50 ab. per kmq. La massima densità ai ha nei comuni di Bernalda (superficie 2275 ha., densità 293) e di Rionero (superficie ha. 5319, densità 207), per la ragione storica che tutt'e due si sono incuneati nei vasti territorî rispettivamente di Montescaglioso e di Atella, ove gli abitanti ancora coltivano le terre della vecchia circoscrizione. Alla feracità dei terreni vulcanici del Melfese debbono l'alta densità Barile (155) e altri contermini, e al clima mite quelli posti nelle coste del Tirreno. La minima densità, al di sotto di 25, è data dall'alta montagna e dalle marine ioniche, che hanno radissime case rurali in vaste estensioni territoriali dei comuni.
Bibl.: G. M. Galanti, Descrizione geografica e politica delle Due Sicilie, Napoli 1789-1794; L. Giustiniani, Dizionario geografico del regno di Napoli, Napoli 1797; E. Pani Rossi, La Basilicata, Verona 1868; G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, IV, Roma 1902; Fabris, la Basilicata, in Terra del Marinelli; E. Germano, La Basilicata, Firenze 1909; Cavara-Grande, Esplorazioni botaniche in Basilicata, in Boll. dell'Orto Botanico R. Università di Napoli, 1913.
Etnografia. - Il popolo lucano derivò dalla fusione di elementi etnici immigrati d'oltre mare e d'oltre terra: Enotrî, Greci, Sanniti; i Basilicatesi sono una fusione degli antichi elementi con Langobardi, Arabi, Bizantini e Normanni, Albanesi; rivoli di Bulgari e di Schiavoni (a Ruoti, Matera, Pomarico ecc.), di Ebrei (a Melfi e Venosa, Lavello, Matera), sono attestati da sepolcri e da iscrizioni, dalle contrade Giudecca e Sinagoga; vi sono rappresentati anche Saraceni provenienti dalla Sicilia; l'onomastica di castelli, di paesi, di cognomi, frazioni Rabatane in alcuni paesi, corniole con caratteri arabi (Lagopesole) sono tracce del loro passaggio. Monaci, cenobî, colonie, chiese di rito greco, antiche carte, oggetti ritrovati dimostrano la sussistenza dei Bizantini specialmente nel bacino del Sinni.
Il Basilicatese si mostra mesocefalo (ind. cefalico 80,8). La sua statura non è alta: i dati antropometrici sui coscritti ci danno una media di m. 1,60, e i maggiori riformati sono per stature basse: le stature alte raggiungono solo il 10%. Prevalgono il tipo basso e tarchiato, bruno misto, dai capelli e dagli occhi castani e il tipo dagli occhi e capelli neri, mentre è scarso il tipo biondo: viso ovale, fronte bassa, sopracciglia bene arcuate, naso leptorrino, bocca media, denti bianchi, mento piuttosto appuntito. D'aspetto malinconico, come la natura che lo circonda, il Basilicatese è pertinace come i montanari, sveglio d'ingegno, di cuore generoso, ma feroce nella vendetta, tradizionalmente ospitale, tenace negli difetti, onesto, resistente al lavoro, conservatore dei costumi famigliari, religioso, rispettoso della legge, della proprietà, geloso della sua donna, sobrio, morigerato.
Istruzione. - La cultura non è generalizzata per ragioni storiche, economiche e perché non accresciuta dal contatto di altri popoli. L'"americano" di ritorno ha dato un certo risveglio all'istruzione elementare. I possidenti continuano a mandare i loro figli allo studio, per farne dei professionisti, la media borghesia per farne gl'impiegati: spesso i non possidenti con inauditi sacrifici fanno studiare i figli, per nobilitare la casa, come un tempo li facevano preti. Il Basilicatese, raggiunta una professione, difficilmente resta in paese, e in Italia e all'estero sono note la sua intraprendenza e le alte posizioni da esso raggiunte. Così l'artigiano andato in città per perfezionarsi nella sua arte o mestiere, finisce per rimanervi, disdegnando il paese.
Nella percentuale degli analfabeti in Italia, la Basilicata occupa il secondo posto (dopo la Calabria) con 65% analfabeti nel 1911 e 52% nel 1921. La lotta che l'Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno conduce contro l'analfabetismo dà molto bene a sperare: essa fonda asili infantili e li sussidia, fonda biblioteche popolari, sale di lettura, dona materiale scolastico e igienico.
Folklore.
Le tradizioni e le usanze popolari si sono ben conservate, per l'isolamento in cui la regione è vissuta per tanti secoli. Innumerevoli superstizioni accompagnano l'uomo dalla culla alla fossa. Il bambino porta appeso al collo il corno contro il fascino e tanti altri amuleti; la donna si premunisce in varî modi contro il malocchio, e inchioda sulle porte ferri di cavallo e corna di animali. Fattucchieri e fattucchiere sciolgono gl'impotenti (invalidi), rappaciano i ziti (sposi), allontanano le concubine dai talami coniugali; donne, mediante orazioni, fanno sparire la cefalea. Uomini fattucchieri abbondano specialmente nella gente di campagna, e facendo recare galline, galli e monete cacciano il diavolo (quello che non si nomina). Specialisti poi sono i cerusici: raddrizzano le storte e guariscono il torcicollo con scongiuri, preparano contro la malaria miscele e decotti, accompagnando sempre le loro operazioni con formule misteriose, biascicate in solitudine, perché il medico non sappia e il prete non accusi di connivenza col nemico di Dio.
I proverbî regionali sono veramente caratteristici; interessanti quelli che riguardano la meteorologia, le stagioni, le malattie.
Il folklore sacro è numeroso e svariato: S. Laviero, S. Vitale, S. Canio, S. Luca, S. Giovanni di Matera, S. Gerardo Maiella, S. Guglielmo da Vercelli, il Beato Lentini, il Beato Giovanni, i 12 figli di Tecla formano oggetto di sacre leggende. Gli angeli portano sacre immagini da un luogo all'altro, i paesani le rubano ai vicini. Grotte miracolose e sacrileghi irrigiditi; un soldato pugnalò un Crocefisso di legno, dal quale sgorgò sangue vivo. Il diavolo entra in tante leggende: S. Antonio fu preso dai diavoli, che lo fecero loro portinaio, ma egli, sentendo le loro ribalderie, li percoteva; essi vollero disfarsi di un custode così manesco e l'Eterno Padre lo chiamò in cielo e gli affidò la protezione degli animali. Il diavolo entra nei corpi degli uomini; lo spirito dell'ucciso si prende alle fontane e bisogna esorcizzarlo. Il diavolo spacca monti, apre voragini con un calcio, a lui bisogna raccomandarsi, fare atto di ossequio per ottenere la fecondità. La lucertola nella sua boccuccia portò acqua per dissetare Gesù; il fico è maledetto perché non lo accolse fuggiasco inseguito dai Giudei.
Un mondo vasto di leggende sull'antichità dei paesi, con eroi eponimi, e fate, orchi, regine, re, maghi, palazzi incantati; la comparsa degli spiriti e del monaciello popola fantasie e racconti orali; diavoli che costruiscono ponti giganteschi, o sovrappongono montagne e montagne; città distrutte per violenza contro donne. I briganti entrano nei racconti di ogni veglia invernale, specialinente nelle campagne, dove risuona ancora l'eco paurosa delle scene orrende tra il 1860 e il 1865: grotte, rifugi, delitti, orecchie mozzate, ricatti, manutengoli, "faccia a terra" e "in alto le mani" risuonano tristemente ancora.
Ma questo folklore va sbiadendo, come vanno sbiadendo i costumi popolari nel vestire e nelle usanze domestiche e paesane, come vanno sempre più spegnendosi i racconti tradizionali nei paesi albanesi (S. Paolo e S. Costantino) sui contrafforti occidentali del Pollino, mentre sono già spente quelle alle falde del Vulture, ove l'italianizzazione è avvenuta più rapidamente.
Ogni paese aveva il suo costume nel vestire, ricco, chiassoso, pittoresco. Gli uomini negli ultimi tempi, quelli addetti ai lavori campestri o i mandriani, portavano sul capo un cappello a cono ornato di trine, poi si coprirono di cappelli rotondi; gli artigiani sono passati dalle papaline ai berretti; il contadino portava scarpe grosse e calzari, ghette, brache, cinture turchine, panciotto e giacchetta ornati di lucidi bottoni, il colletto della camicia rimboccato: le stoffe casalinghe erano felpe e velluti importati.
Le donne calzavano zoccoli o semplici scarpine; i capelli divisi con sottili drizzature erano raccolti in trecce sull'occipite; le teste erano coperte di panni scuri o scarlatti, o da zendadi di vario colore. Le sottane per lo più rosse a fitte pieghe, corpetti e pettiere multicolori con ricami sullo sparato e sul collo della camicia. Grembiali multiformi e multicolori. Maniche intere o interrotte nella parte mediana, allacciate da nastri multicolori; ricami, broccati, galloni d'oro e d'argento davano al costume un non so che di fastoso e di leggiadro. Ricchi orecchini e collane e anella luccicavano tanto da abbagliare.
Le albanesi del Vulture hanno smesso i loro costumi; ancora intatti sono quelli delle albanesi del Pollino: queste conservano ancora sul capo la chesa, acconciatura speciale, diversa per le maritate e per le nubili; la zoga (gonna) scarlatta in varie fogge e oro e merletti e nastri disposti con gusto.
Ogni paese, ogni casa aveva le sue usanze tradizionali.
A S. Giuseppe, si fa l'invito ai poveri: uno di essi, la canna in mano con un fiore in cima, è il Santo, gli altri siedono in giro serviti dalle padrone e mangiano paste di casa condite con molliche di pane fritto. Il Natale conserva il ceppo tradizionale. La Quaresima conserva il rudere di una vecchiaccia di cenci, sospesa in casa con sette fuscelli alla cui estremità sono conficcate sette coccole: tiene fuso e conocchia di capezzo. La notte dei morti (2 novembre) sui davanzali si mettono cibarie perché le anime vaganti ne possano mangiare.
Al battesimo, i bambini spesso sono vestiti del saio di s. Antonio, per voto fatto, saio che poi è appeso alla statua del Santo Patrono, che del resto riceve tanti vestitini donatigli per grazie ricevute e che vengono poi dispensati ai bambini poveri.
Per lo più si sposa di domenica: lo sposo ha già recato solennemente a casa della sposa gli oggetti d'oro di cui ella si adorna ed ha avuto dai parenti altri doni. Il giovedì precedente le nozze, si consegnano i panni (corredo) che delle donne portano in enormi cesti alla casa coniugale. Il corteo nuziale si reca alla chiesa; al ritorno si gettano grano e confetti; la suocera accoglie la sposa dandole dei dolciumi.
Il morto è pianto con alte grida, con alti pianti e con nenie, commiste alla storia buona del morto e al salmodiare dei preti. Il lutto prescrive, per gli uomini, il non radersi; la vedova, tenacissima nel lutto più stretto, in alcuni paesi è ancor detta cattiva (captiva "prigioniera").
Le raccolte dei campi, la loro cura nelle case sono spettacoli interessanti per i canti e per certe usanze; le fiere, i mercati, le processioni, nelle feste dei santi, o per implorare la pioggia nelle siccità estive, sono ancora chiassose, numerose, canore e sonore, luminose, orribilmente rintronanti di spari.
Interessantissime sono alcune feste religiose, come quella di S. Gerardo a Potenza, della Madonna della Bruna a Matera, e i pellegrinaggi al Carmine (Avigliano), a S. Michele di Monticchio (Rionero), a S. Maria di Pierno, a S. Michele del Gargano, alla Madonna di Viggiano, alla Madonna del Pollino, ecc. In tutti i paesi il sepolcro di Cristo è pittoresco. Ogni festa è accompagnata da canzoncine in lode dei santi, da passionarî, da sequenze, e da giuochi: albero della cuccagna, corse di cavalli e di asini, lotte, mangiate a gara di maccheroni su tavole poste in alto. Diffuso il giuoco della gallina o del gallo: l'animale è conficcato in una buca e se lo mangerà chi, bendato, partendo da una certa distanza, l'avrà colpito con un randello.
Dialetti.
Un criterio discriminativo per una partizione dei dialetti della Basilicata in occidentali e orientali è fornito dalle sorti dell'-u e, in genere, delle vocali finali. Le quali scadono nella sezione orientale in -ə, o addirittura scompaiono, mentre nella sezione occidentale hanno, si può dire, il trattamento calabrese (-u conservato, -o in -u ed -e in -i). A Matera (sezione orientale): nakə"culla", päkra "pecora", orə"oro", ecc. A Moliterno (sezione occidentale): primu, patroni, leggi, omu, ronna "donna", ecc. (Papanti).
La cosiddetta metafonesi (cioè la determinazione della tonica in rapporto con la vocale finale) fa sentire variamente, suoi effetti su é e ó, i quali, chiusisi in i e u, hanno poi subito le sorti di ogni ē e ū del latino (come in abruzzese): laddove queste vocali si sono in qualche maniera modificate, la metafonesi è di ragione antica, mentre altri sviluppi vocalici sono relativamente recenti. A Matera, p. es., abbiamo: névə, krîcə, ma: dücətə(digitu), con ü da anteriore i, e silə"sole", lipə"lupo" (lopə"lupa"), con i da anteriore u. Così, vi abbiamo: nütə"nido" (da anteriore nitə) e lice "luce", iva "uva", mirə"muro", ecc. La metafonesi di é??? (che, fuori di questa condizione, volge a ö, p. es. mölə"miele", arrötə(retro) "di nuovo") è, sempre a Matera, i: timbə"tempo", firrə"ferro"; mentre rimaniamo alla fase ie a Moliterno, Senise, Saponara, Spinoso, ecc., cioè nella maggior parte della Basilicata (soprattutto occidentale). Quella di o è, a Matera, u (lukə, fukə) e più spesso i (rəzzilə"orciuolo", ecc.).
Nell'ordine delle consonanti, c'è da fare un'importante osservazione. Una sezione (Potenza, Tito e paesi limitrofi) si differenzia da tutti i dialetti meridionali per il trattamento delle sorde intervocaliche, che si fanno sonore, e di cui alcune s'indeboliscono sino a scomparire. Per Potenza, citeremo: savé "sapere"; fraas "fracasso"; vá "giocare", meicamento "medicamento". Per Tito, ricorderemo: conguistada "conquistata", venuda "venuta i, sfuhava "sfogava", paharme "pagarmi" (Papanti). E ancora briogna "vergogna", con lo scadimento completo, e divu "dico", dove, dopo lo scadimento, abbiamo avuta l'epentesi labiale, come nel citato guvá.
Le condizioni consonantiche sono spiccatamente meridionali: -ll- in -dd- (Moliterno: puviredda "povelella"), -ld- in ll (Matera: kńalla); cl, tl, pl coincidono nel riflesso kj- -kkj (kokkjə"coppia", kjekə "piega", ecc.); lj e gl in øøj (aøøjə "aglio"); fl- in j; mj in ñ: šuñə"scimmia"; mb, nb, nv in mm (kəmmutə"convito", a Matera); nf in mb ('mbaććə"in faccia"); nd in nn (kuanne "quando"); nt in nd; dv in bb (abbində"riposo", dal lat. adventu; cfr. sicil. abbentu); g iniziale o mediano in j; b iniziale o mediano in b (varvə "barba"); d- in r- in una sezione del dominio (p. es., a Saponara, Spinoso, ecc.); rb in rv; br in vr (vrazzə"braccio"); pj in ćć (aććə "sedano", da apium); vj, bj in ǵǵ (kaǵǵolə"gabbia" da caveola). Poco, dunque, di spiccatamente caratteristico di fronte ai dialetti meridionali. Vi abbiamo, però, più vigorosa che altrove (p. es., negli Abruzzi e nelle Puglie) l'epentesi di u dopo k, a cui segua un a, quando nella sillaba precedente sia o sia stato un u (p. es. nu quân "un cane", Papanti; u kuavaddə"il cavallo", ma plurale kaváddərə, ecc.); vi abbiamo, almeno a Matera, il nesso -gn- che si sviluppa in alcune voci al modo abruzzese-pugliese settentrionale (p. es. é???nə da agnu) e in altre al modo calabrese-pugliese meridionale (p. es. lajona da ligna, cfr. tarant., barese: liona, lionə), il che significa che nella Basilicata confluiscono i due fenomeni.
Abbondano, nei maschili e nei femminili, i plur. in -ərə(-ŏra), p. es. frátərə"fratelli", játtərə"gatti", anáddərə"anelli", ecc. L'articolo è lu (Moliterno, S. Mmtino, Tito) o u (Matera, Senise, Spinoso, Saponara); e vi si hanno tracce del neutro lə. Pronome dimostrativo kiessaə, kessə, e relativo ćü. Il futuro è formato per via di perifrasi: aøøj'a kkandà "canterò". Il cong. pres. (identico all'indicativo) è preceduto dalla congiunzione ka (lat. quia). L'infinito è apocopato: kandá "cantare", mévə"muovere", səndü "sentire". La forma organica del condizionale non esiste, ed è sostituita da una perifrasi con l'imperfetto di "volere" o con il presente o l'imperfetto di "potere".
Bibl.: G.B. Festa, Il dialetto di Matera, in Zeitschr. f. rom. Phil., XXXVIII (1914), p. 129 segg.; C. Salvioni, Per la fonetica e la morfologia delle parlate meridionali d'Italia, in Misc. Acc. scient. lett., Milano 1912.
Poesia e musica popolare.
I canti popolari sono d'una malinconia severa e serena; tanto diversi dalla sollazzevole poesia napoletana, molle e piena di facezie, e dal brio e dalla disinvoltura dei canti calabresi dal meno aspro dialetto. Minore è il ritmo; giacché, incapace ad esprimere i suoi pensieri in un lungo periodo, il popolo basilicatese disgrega le ottave degli strambotti in distici, a rima o ad assonanza baciata. Il canto è quasi sempre accompagnato da un motivo musicale, semplice e malinconico anch'esso, dalla cui grazia dipendono la fortuna e la durata dell'altro. L'organetto e il mandolino accompagnano di solito strambotti e serenate; caratteristico è l'uso del violino e dell'arpa presso i Viggianesi, la cui sviluppatissima facoltà musicale, oggi riconosciuta in Europa e oltre oceano, fu un secolo addietro celebrata dalla dotta musa popolare di Paolo Parzanese.
Poche e tenui le corde dei canti popolari di Basilicata: la religione, l'amore, il piccolo mondo contadinesco. I canti religiosi sono suppliche al santo protettore perché non si vendichi con temporali e siccità degli immemori fedeli, o implorazioni semplici e schiette nei momenti di più acuto bisogno (iu sai li mei bisogne - tante chiacchiere nun ci nni vòlene, si prega tuttora a Paterno, borgata di Marsico nuovo), o preghiere miste a narrazioni della vita della Madonna cantate nei pellegrinaggi (ad es. alla Vergine del M. Serino, di Viggiano) o della passione e morte di Cristo. L'amore materno si esterna in ninne-nanne talvolta vuote di senso, meccaniche e noiose quando non le canta una mamma; più spesso poema di tenerezza che si concreta in espressioni immaginose sulla bellezza del figlio, in invocazioni alla Madonna, madre tenera, perché lo benedica e gli dia il sonno (o suonno, ca pi l'aria fai la via - vieni a dormire 'stu palummu mio, canta un'invocazione di S. Chirico Raparo al sonno, alla Madonna, ai Santi), e poi, nella vita, fortuna, saggezza e felicità.
La poesia amorosa, conforme all'indole severa del popolo, è castigata, non galante se pur ridondante nelle immagini, dettata da passione viva, semplice e spontanea: dalla protesta d'amore ai canti di gelosia, dalle lodi della donna amata a quelli dolorosi per la partenza del soldato, per la lontananza e per la morte, per il timore dell'abbandono, ai canti di delusione, di sdegno, di sprezzo, di odio. La giovine è trattata con molto rispetto; vi è ritratta quasi sempre restia a fare all'amore, sorda agli allettamenti di mutare fortuna col matrimonio (cafuncella io so' nata - cafuncella voglio morì, canta la popolana di Melfi). Rare sono le note di aspro realismo. Non è sempre amore fatto di idealità; spesso si sposano i denari con una donna brutta, che manco in chiesa nu' la puoi portare, - viri (vedi) le belle e ti squagli lu core. Ai canti di lode si collegano le serenate, cantate dalla strada, o, dopo il fidanzamento ufficiale, in casa, presenti i parenti; in esse, oltre alle lodi della fidanzata, ricorrono pure accenni, più galanti che affettuosi, ai doni promessi o recati. Nei canti a rampogna lo sdegno e la rozza veemenza del popolo non hanno misura: la donna è dileggiata; è schernita la sua bruttezza con immagini sarcasticamente pungenti (faccia di legname tarlato; faccia di cicoria male cotta - fai vinì lu vòmito alli gatti), a volte triviali, che dànno origine a risse sanguinose tra il nuovo e il vecchio innamorato o tra questi e i parenti della ragazza.
La poesia basilicatese canta la famiglia ed è gelosa custode delle tradizionali virtù domestiche; spregia gl'infingardi - àrvulu (albero) senza frunnu (fronde) e senza frasche - e i prepotenti. Canta l'umile mestiere del borgo e l'aspro quotidiano lavoro del contadino estenuato dalla fatica e invecchiato anzitempo.
La tristezza si manifesta talvolta anche negli stornelli, cantati nella campagna, nella piena luce viva, sotto il sole della mietitura o fra le gioie della vendemmia e dello svinamento - come, ad es., in quello, che è quasi una sentenza, cantato a Melfi: la morte jè nu metitore ca sempe mete - mete li creature de sei misi nate - e quiri de seuant'anni ri resta 'ndrete.
Altri canti popolari ritraggono dal vivo l'insieme casalingo e primitivo di quel mondo piccino, nel quale vivono i contadini, gli artigiani e le nostre donne del popolo chiacchieranti al forno, alla fontana, in mezzo alla strada, il litigio d'un contadino brillo, la nuora golosa e lussuosa e la suocera parca e casalinga, ecc.
Se si eccettuino due canti melfesi sull'accoglienza fatta nel 1799 alle orde devastatrici del cardinal Ruffo, sulla rivoluzione del '48 e sulla paura dei Borboni, e un terzo cantato durante la reazione del 1861, e inoltre qualche accenno, vago e fugace, a sbarchi di Saraceni e di Turchi, manca pure la poesia patriottica, o perché l'oppressione della vita feudale e le dominazioni straniere soffocarono la voce celebrante nazionali o regionali imprese, o perché il popolo basilicatese fu per sua natura più disposto a cogliere un bene presente e ad agitarsi per sentimenti e passioni del momento, che non a tornare indietro con la mente e a ripetere vecchie canzoni che non lo commuovono più.
Tra i poeti popolari possiamo ricordare Nicola Tommasello, Francesco Festa, e Michele Granata di Rionero in Vulture.
Bibl.: Oltre le opere citate in S. De Pilato, Saggio bibliografico sulla Basilicata, Potenza 1914, si possono ricordare le seguenti: N. Congedo, Note di folklore melfitano, Viterbo 1911; R. Danzi, Poesie scelte in dialetto potentino, Potenza 1912; V. Granata, Poesie in dialetto rionerese, e relativo Supplemento, Trani 1899, 1900; I. Lauria, Sulla letteratura popolare della Basilicata, Potenza 1921; P. Rosa, Lu paisieddu mii, Caserta 1914; A. Tosti, Poeti dialettali dei tempi nostri, Lanciano 1921.
Il popolo di Basilicata conserva tradizioni musicali antiche e profonde, intimamente connesse con quelle delle regioni limitrofe. Così le ninne-nanne, le canzoni d'amore, i dispetti, gli stornelli, il canto a ballo, i canti che accompagnano le fatiche dei campi, le lodi ai santi e le nenie funebri, somigliano a quelli della Calabria, salvo in qualche particolare di poco momento e quale si riscontra spessissimo anche fra diverse lezioni di uno stesso canto raccolte in due o più paesi della medesima regione. Uguali gli usi musicali, gli strumenti pastorali vi sono aggruppati allo stesso modo. La zampogna quasi sempre sposata al piffero o cennamella ad ancia doppia; il caratteristico "concertino" formato, come nelle regioni limitrofe, di uno zufolo acuto o di un ottavino, accompagnato da triangolo, tamburello, campanelli, e fino a sei o sette strumenti del genere. Qualche ninna nanna natalizia, simile a quelle della Calabria e dell'Abruzzo, si apre con un cantabile che, sostituendo le parole, i giovani cantano sotto le finestre delle loro belle: tipico esempio del permanere di melodie tradizionali, anche con diversa destinazione e attraverso un totale mutamento del testo.
Bibl.: E. Levi, Fiorita di canti tradizionali del popolo italiano, Firenze 1895.
Preistoria.
Il territorio oggi formato dalle provincie di Potenza e di Matera ha fornito larga messe di materiali archeologici, che permettono di seguire le varie fasi dell'incivilimento umano, a partire dai remotissimi tempi del Pleistocene, quasi ininterrottamente. I materiali recuperati, e nella maggior parte conservati nei musei di Matera, di Potenza e di Taranto, furono il frutto di numerosi scavi e di ricerche metodiche, alle quali si legano i nomi di G. De Lorenzo, V. Di Cicco, G. Patroni, Q. Quagliati, U. Rellini, e soprattutto di D. Ridola, indefesso nell'esplorazione della sua terra natale, il Materano. All'attività svolta in lungo volgere d'anni dal Ridola si deve l'esistenza d'un ricco museo (il R. Museo Ridola di Matera), che, donato allo stato dal suo creatore nel 1910, ha più che valore regionale, perché contribuisce efficacemente alla illustrazione dei problemi paletnologici d'Italia in generale.
Paleolitico. - La regione del Vulture, così interessante dal punto di vista geologico e geografico, è anche quella che ha rivelato i più antichi manufatti umani in strato geologico e con associazione di fauna fossile ben determinata. Il giacimento di selci amigdaloidi, l'unico del genere che sia stato esplorato finora in Italia con metodo e con la concordanza dei dati stratigrafici e paleontologici, appartiene ai depositi fluvio-lacustri dell'agro di Venosa, dove le eruzioni del Vulture, nel Quaternario, ricoprirono un antichissimo bacino lacustre. Fu nel 1879, che, a quattro chilometri dalla patria di Orazio, in località Terranera, si rinvennero ossa fossili di animali giganteschi e le caratteristiche pietre lavorate in forma amandolare; primo ad occuparsi della scoperta fu G. Guiscardi nel 1880, seguito poi dal geologo G. De Lorenzo, che ne trattò con più ampiezza e competenza nel suo Studio geologico del Monte Vulture (1900), cui tennero dietro alcune fruttuose ricerche compiute dal Quagliati nel 1909. L'esplorazione più completa fu poi eseguita dal Rellini nel 1914, la quale ha fornito i dati della stratigrafia in una sezione di circa dieci metri, così disposta dal basso verso l'alto:
1°-4°, calcari lacustri e marnosi con gasteropodi e ossami fossili (m. 2.30 circa); 5°-9°, tufi litoidi e tufi argillosi lacustri con gasteropodi, alternati (da m. 2,50 a 3,25); 10°, argilla finissima con picchiettature limonitiche brune (da m. 0,90 a 1,10); 11°, strato ora sabbioso, ora tufaceo, con venature limonitiche, cristallini di augite, concrezioni calcaree, valve frammentate di lamellibranchi, ossa di mammiferi e pietre lavorate (da m. 1,20 a 1,50); 12°, terra marnosa, con chiazze di calcare (da n. 0,50 a 0,70); 13°, humus (da m. 0,65 a 0,75).
Lo strato 11°, è quello che contiene il deposito di selci lavorate associate con i resti di fauna estinta. Fra questi avanzi fossili vennero riconosciuti: l'Elephas antiquus in abbondanza, l'Hippopotamus amphibius maior, il Cervus elaphus, l'Ursus spelaeus, la Hyaena crocuta spelaea, la Felis leo spelaea. La presenza dei mammiferi tipici del clima caldo, come l'elefante e l'ippopotamo, rendono sicura la datazione del deposito, il quale è concordemente attribuito al Quaternario medio.
Gli oggetti dell'industria umana si presentano in un insieme assai omogeneo, composto soprattutto di strumenti amigdalari, perfettamente analoghi ai tipici del classico acheuleano, lanceolati, di forma regolarizzata, con punta nettamente distinta, per lo più col margine tagliente anche alla base; armi quindi che dovevano adoprarsi immanicate o innastate, e la cui lunghezza in generale oscilla fra i 15 e i 20 centimetri. Accanto a queste amigdale, perfette nella scheggiatura bifacciale oltre che nella forma regolarissima, ne compaiono altre con base un poco più spessa, rozza, generalmente più piccole e che possono giudicarsi come strumenti da impugnare. La materia onde gli amigdaloidi venosini furono tratti è l'arenaria silicea, il calcare silicifero, la quarzite: tutte rocce abbondanti nelle colline alluvionali plioceniche circostanti al bacino lacustre. All'infuori di un piccolo numero di schegge, nessun altro strumento di tecnica diversa è stato raccolto; quindi quelh) di Terranera venosina è un deposito di amigdaloidi puro. La stessa purità si nota in un secondo giacimento di amigdaloidi, sempre di tipo acheuleano ma un poco diverso da quello venosino, scoperto dal Rellini nella località Sansanello presso Castelluccio, a cinque chilometri di distanza da Venosa; giacimento di superficie che ha permesso la raccolta di parecchie centinaia di manufatti amigdaloidi, in quarzite, in calcare, in selce, in arenaria. Più piccoli dei venosini precedenti, generalmente col corpo più appiattito, di forma ovalare o subtriangolare, possono intendersi come forme progredite o di tipo evoluto. Anche a Sansanello, all'infuori di rozzi raschiatoi e di schegge residuali, nessuna traccia di manufatti rivelanti la tecnica mousteriana. Ma l'industria delle schegge, che trae il nome da Le Moustier, secondo Rellini e Ridola, è largamente presente nell'agro Materano, sulla riva destra del Bradano, soprattutto sotto la forma di lame-raschiatoi e di cuspidi più o meno triangolari (a dente di squalo). L'agro materano ha dato anche manufatti amigdaloidi, analoghi ai tipi chelleani e acheuleani, raccolti in numero così grande da superare il mezzo migliaio, specialmente sulle alture e sempre in giacitura superficiale. In sostanza, per la Basilicata si hanno indubbie e larghe testimonianze della dimora dell'uomo quaternario.
Neolitico. - L'età della pietra levigata è ancora più largamente rappresentata; anzi i ritrovamenti fatti con continuità e con intensità, specie per il territorio materano, attestano con sepolcri e con tracce di abitazioni una non indifferente densità di popolazione e anche una lunga durata della civiltà neolitica; la quale, propriamente nella regione apulo-lucana, con i centri importanti di Molfetta e di Matera, raggiunse un alto grado di sviluppo. Nel territorio di Potenza, le ricerche compiute dal Di Cicco hanno rivelato la presenza di villaggi di capannicoli; ma l'agro materano ha offerto un quadro più completo di vita primitiva con grotte abitate, grotte sepolcrali, fondi di capanna, e, fatto più importante, con un sistema difensivo degli abitati costituito da grandi trincee scavate nella roccia tufacea e abbraccianti largo spazio in linee circolari o ellittiche. Le alture circostanti Matera hanno rivelato un complesso assai singolare di centri abitati e in quel modo difesi; un sistema di abitazione dapprima insospettato e che si è poi riscontrato analogo a quello dei villaggi siracusani di Stentinello e di Matrensa, anch'essi circondati da trincea. Murgia Timone, Murgecchia, Tirlecchia, Serra d'Alto, sono i nomi delle alture dove a tutt'oggi si sono scoperti cinque campi trincerati, raccogliendovi un'ingente quantità di materiali archeologici. Spetta al Ridola il vanto di aver riconosciuto il vero carattere di queste trincee; mentre il Patroni, che nel 1896-1897 eseguì una prima campagna di scavo a Murgia Timone, aveva nominato "corsia di scarico" la grande fossa difensiva. Ma gli scavi intrapresi poi dal Ridola sulla collina di Murgecchia e a Tirlecchia, e quelli più recenti del Rellini a Serra d'Alto hanno posto in chiaro la vera natura di quelle grandiose opere compiute dall'uomo in età così remota.
Il quadro di vita materiale rivelatoci dalle trincee è completato dai materiali raccolti nella Grotta dei Pipistrelli, situata a quattro chilometri da Matera, con una grotta sepolcrale contigua. Armi ed arnesi litici (nuclei, percussori o martelli, macine, raschiatoi, coti, coltelli e seghe, cuspidi di frecce e di giavellotti, asce levigate, pietre forate), ossa lavorate e fossili, strumenti di ossidiana, ceramica varia (dall'impasto grossolano e dalle semplici forme ovoidali e tronco-coniche, all'impasto di argilla depurata con pareti sottili e lucidate e con ornati geometrici graffiti e poi dipinti e alle forme più evolute) comprovano la lunga dimora fattavi da tribù neolitiche che si sovrapposero a più antichi abitatori, poiché lo strato più profondo della grotta ha dato strumenti di selce scheggiata proprî dei tempi quaternarî. Materiali analoghi, fra cui per l'importanza spiccano le ceramiche dalla superficie levigata adorna di disegni geometrici graffiti, e più ancora quelle dipinte, per lo più in colore rosso e bruno, sono venuti fuori dai fondi di capanna (Sette Ponti, Serra d'Alto) e dalle trincee. A Serra d'Alto, le capanne sono apparse talora isolate, ma per lo più raggruppate, benché senza regolarità, a pianta circolare e anche elissoidale, vare in profondità e in ampiezza; degno di rilievo è il fatto che più di una volta la capanna fu usata infine come sepolcro. Il rito funebre praticato è l'inumazione con cadavere rannicchiato.
Oltre alla presenza della ceramica graffita e dipinta, è notevole la grande quantità di strumenti di ossidiana; mentre strumenti e armi di metallo assolutamente difettano.
Ciononostante, pur se l'impianto degli abitati può attribuirsi al vero e proprio Neolitico, i documenti di vita raccolti nei campi trincerati, e così pure nella Grotta dei Pipistrelli, si riferiscono nella massima parte alla fine dell'età della pietra, a quel periodo Eneolitico, durante il quale in altre regioni di Europa e d'Italia si cominciò ad usare largamente il rame. Tanto più ammirevoli sono quei grandi solchi aperti con dura fatica nel terreno (a Serra d'Alto la trincea raggiunge perfino quattro metri di larghezza), non sempre tenero, ma, come sulla Murgia Timone, tufaceo, per mezzo di soli arnesi di pietra, spesso ritrovati logori e spezzati.
L'affinità che gli strati preistorici materani mostrano di avere con quelli siculi di Stentinello e Matrensa, affinità valevole anche dal punto di vista della spiegazione in senso etnologico, e la presenza della ceramica fine e dipinta, sono dati sicuri per l'attribuzione cronologica. In ogni modo, lunga durata di vita intensa, attività manuale notevolissima, un certo senso estetico, sono le caratteristiche più salienti della gente che tante reliquie lasciò sulle murge e nelle gravine.
Età del bronzo. - Gli oggetti relativi a questa età tardarono a comparire; nel 1886 avvenne la prima scoperta di un sepolcro nel Parco dei Monaci (Matera) contenente tre oggetti di bronzo. Il Pigorini (Bullett. Paletn. Ital., XXVI, 1900, p. 8), pur rilevandone il tipo caratteristico e arcaico, notava che quella sola tomba materana non bastava per stabilire l'esistenza nell'Italia meridionale di una pura età del bronzo paragonabile a quella del settentrione della penisola. Ma sopravvenne la scoperta e poi l'esplorazione, nel 1901, di un'intera necropoli a cremazione con oggetti appartenenti alla fine dell'età e al periodo di transizione al ferro, a dieci chilometri circa da Matera, sulla collina di Timmari; e a dimostrare vieppiù l'esistenza dell'età enea si agginnsero altre reliquie, quali i sepolcri a pozzetto di tipo siculo di S. Martino, della Selva, dei Cappuccini, le camerette sotterranee precedute da pozzetto o da corridoio di Murgia Timone, e i sepolcri a tumulo di tipo speciale di Santa Lucia a Bradano. La civiltà rivelata da queste reliquie appare completamente diversa da quella delle trincee neo-eneolitiche; chiara è la sovrapposizione a Murgia Timone, dove i circoli di pietra, che talora sovrastano la cameretta, poggiano sopra il riempimento, dovuto certo all'abbandono, delle trincee dell'età precedente.
Ben 248 furono i sepolcri esplorati dal Quagliati e dal Ridola a Timmari, costituiti da rozze urne di terracotta deposte in piena terra senza rivestimenti all'intorno, distanti l'una dall'altra in media circa un metro, coperte da una ciotola o scodella, con le ossa combuste ammucchiate nel fondo. Ossuarî assai semplici, come quelli lerramaricoli, pochi presentano ornati graffiti all'esterno; solo quarantadue contenevano oggetti di corredo (fibule, vezzi di collana, oggetti di corno cervino, rasoi); il fatto più notevole è la presenza di rozze pietre ritte presso gli ossuarî, pietre-segnali che in progresso di tempo e di rito diventeranno le vere e proprie stele funebri della civiltà detta villanoviana.
In conclusione, la necropoli di Timmari, cui si aggiungono chiare tracce dell'abitato, sito molto lungi e più in alto, è molto importante, perché, collegandosi per il rito e per gli oggetti alle altre arcaiche necropoli a cremazione dell'Italia settentrionale, terramaricola, e del centro della penisola (Pianello di Genga, Monteleone di Spoleto, Allumiere, Palombara Sabazia), e potendosi mettere in relazione con la stazione d'impianto terramaricolo dello Scoglio del Tonno a Taranto, serve come punto di appoggio ai sostenitori della teoria che, con il Pigorini alla testa, ammette l'immigrazione di genti nuove nella penisola italiana per l'età del bronzo, produttrici della civiltà più propria di questo periodo. A parte ogni discussione di carattere generale, per restare nei limiti regionali, data la diversità sopra notata delle reliquie e la sovrapposizione degli strati cronologicamente distinti, l'idea sostenuta dal Ridola di una gente diversa, la quale penetra nella regione importando il iito della cremazione e la cui civiltà si sovrappone nettamente a quella precedente dei neo-eneolitici, formidabili scavatori di fossati e praticanti il rito funebre dell'inumazione rannicchiata, è la più plausibile. E questa nuova gente, nel perdurare della dimora, avrebbe trasformato il proprio rito funebre passando all'uso siculo delle camerette scavate nella roccia. Ma la qualità e l'entità dei rapporti intercorsi fra questi invasori e le popolazioni preesistenti sono ancora da porre in luce.
Età del ferro. - Le tracce finora riscontrate del primo periodo della civiltà del ferro, che in altre regioni d'Italia è rappresentata con numerose e ricche vestigia, sono ben poche; pallide tracce ma sicure. Avanzi di una stazione all'aperto furono riconosciuti a Vietri di Potenza; una necropoli dove probabilmente i due riti, della cremazione e dell'inumazione, vigevano associati, fu rintracciata a Stigliano; più notevole quella di San Martino presso Matera, che, con la posizione rannicchiata dei cavaderi inumati, mostra la persistenza di un rito antichissimo, notata anche in un sepolcro a tumulo di questa età, scavato nel 1926 nella località Due Gravine. Altra necropoli, dove i due riti si trovano mescolati, fu scoperta dal Di Cicco a Garaguso, ma essa discende verso i tempi storici, forse al sec. VI; tracce della civiltà preclassica, del ferro, devono anche riconoscersi nello strato di base della più importante fra le città megalitiche che lo stesso Di Cicco ebbe cura di studiare in terra lucana, sulla vetta di un monte, a Croccia Cognato. Certamente, i vivi rapporti commerciali con l'Oriente, e poi lo sviluppo della colonizzazione greca, devono aver contribuito a una rapida trasformazione della civiltà locale, sì da lasciarne le pallide tracce che pur si sono notate, alle quali succedono le ricche manifestazioni di quella civiltà apulo-lucana, dominata dall'ellenismo che gli scavi archeologici estesamente hanno riportata alla luce.
Bibl.: Bullettino Paletn. Ital., XXIV (1898), p. 263 (Stigliano); ibid., XLVII (1927), p. 192 (Due Gravine); G. De Lorenzo, Venosa e la Regione del Vulture, Bergamo 1906; V. Di Cicco, Nuove osservaz. sulle antichità d. Lucania, in Notizie degli scavi, 1900, p. 32 segg.; F. von Duhn, Matera, in Ebert, Reallexikon d. Vorgesch., VIII, pp. 61-64; id., in Italische Gräberk, I, Heidelberg 1924, pp. 42-45; M. Mayer, Molfetta und Matera, Lipsia 1924, cap. VI; T. E. Peet, Prehistoric finds at Matera, ecc., in Annals o Archaeol. a. Anthrop. Liverpool, II (1909), pp. 72-90; G. Patroni, Un villaggio siculo presso Matera, in Mon. Antichi Lincei, VIII (1898), coll. 418-520; id., La Grotta Cicchetti nell'agro di Matera, in Bullett. Paletn. Ital., XXIV (1898), p. 81 segg.; Q. Quagliati-D. Ridola, Necropoli arcaica a incinerazione presso Timmari, in Mon. Antichi Lincei, XVI (1906), coll. 5-166; U. Pellini, Sulle stazioni quaternarie... dell'agro Venosino, in memorie Lincei, classe sc. mor., XV (1915), fasc. 2°; id., Scoperte e problemi paletnol. nella Lucania occ., in Atti Soc. Natural. e Matematici Modena, s. 5ª, II (1916), pp. 33-43; id., I villaggi preistor. trincerati di Matera, in Riv. di Antrop., XXIII (1919), pp. 57-89; id., Appunti sul paleolitico ital., in Bullett. Paletn. Ital., XLIV (1924), pp. 1-34; id., Scavi preist. a Serra d'Alto, in Not. degli Scavi, 1925, pp. 257-295;D. Ridola, La Paletnol. nel Materano, in Bullett. Paletn. Ital., XXVII (1901), pp. 27-41; id., La Grotta dei Pipistrelli e la Grotta funeraria, Matera 1912; id., Le grandi trincee preistor. di Matera, Roma 1926, estr. da Bullett. Paletnol. Ital., XLIV-XLV-XLVI (1924-1926); R. Vaufrey, La Paléolithique italien, Parigi 1928, pp. 9-20, 61.
Storia.
Nell'antichità la Basilicata non rappresentò un'unità a sé, ma fu parte della Lucania, il cui territorio scendeva sull'Ionio fino al fiume Coscile, e si estendeva verso Occidente fino alle coste del Tirreno, comprendendo un buon tratto dell'attuale provincia di Salerno, con le importanti colonie greche di Posidonia-Pesto e Velia; d'altro lato la sua storia in quell'età fu strettamente connessa con quella del vicino Bruzio; onde si rinvia la trattazione di essa alla v. lucania e bruzio.
Sul finire dell'età antica, per effetto delle invasioni barbariche e dello stato di guerra pressoché continuo, per il brigantaggio, per le frequenti devastazioni dei campi e soprattutto per la malaria, provocata dalle acque dilaganti, le popolazioni, ricacciate dal piano e dal mare, ove per l'innanzi avevano tranquillamente vissuto e prosperato, si ritirarono nell'alto. I popolosi centri abitati italogreci scomparvero del tutto fino quasi a non lasciar traccia, o conservarono l'antico nome, ma in forma diminutiva. Da allora la Basilicata venne acquistando man mano la odierna caratteristica: centri abitati in alto con circostanti proprietà frazionate e coltivate; nel basso terre comuni, acque dilaganti, malaria.
Nei primi secoli del Medioevo la regione fu disputata fra Greci, padroni delle due penisole meridionali d'Italia e delle coste intermedie, e Goti prima e Longobardi poi, accampati nell'interno. Fra gli uni e gli altri, stipendiati o alleati, mossi da cupidigia di bottino o da vendetta, i Saraceni. Nella divisione del ducato di Benevento, la Lucania, compreso il Cilento, divisa in castaldati, venne aggregata al novello principato di Salerno, salvo i paesi del Vulture, Forenza, Genzano, Montepeloso. Costumanze, leggi, ordinamenti civili e militari furono profondamente mutati. Lo stesso nome di Lucania fu attribuito, a metà del sec. IX, al solo Cilento. La parte della regione rimasta in potere dei Greci, dai confini non esattamente delimitabili, fu aggregata al tema di Longobardia, retto da uno stratego prima, e poi, dalla metà del sec. X, da un catapano, supremo magistrato civile e militare. La venuta dei Normanni e la costituzione del loro stato portarono, nella prima metà del sec. XI, a un nuovo frazionamento della regione, la quale trovò la sua unità solo dopo la riorganizzazione della monarchia del 1130. Allora il nome di Basilicata, già entrato nell'uso ufficiale (significante probabilmente "terra del basilico", ufficiale greco capo del distretto, come Capitanata significò "terra del catapano"), fu esteso, come dimostra il catalogo normanno dei baroni (1154-1168), ai bacini dei cinque fiumi sfocianti nell'Ionio, ma non più ai territorî dell'antica Lucania, che dalla catena appenninica declinano verso il Tirreno ed il Sele. Questa delimitazione amministrativa, salvo ritocchi più o meno notevoli e duraturi, rimase immutata fino a noi.
Capitale dello stato normanno fu Melfi, posta nella Basilicata settentrionale, forte per natura, a dominio di importanti nodi stradali. A Melfi appunto furono stipulati patti di pace e di alleanze fra i conti, il re normanno e il papa; e lì il pontefice Niccolò II, nel 1059, legittimò la conquista dei Normanni. I Greci invece perdettero continuamente terreno. Fatti guerreschi, insurrezioni di città e della stessa capitale, scomuniche ed alleanze, paci tra re e conti irrequieti e papi, preparativi per le crociate contrassegnano il periodo di storia dalla seconda metà del sec. XI al tramonto dei Normanni. Ma pur in quel trambusto sorsero celebri costruzioni, quali la badia della SS. Trinità di Venosa, il castello di Melfi e quello di Lagopesole, delizioso soggiorno di caccia posto tra i boschi, completato poi da Federico II. Centro delle opere di pace e di guerra resta la Basilicata anche durante il dominio Svevo: a Melfi nel 1231 Federico II emana le famose Constitutiones; ai suoi confini egli muore, in terra di Puglia; nel castello di S. Fele non lungi da Melfi muore il figlio Arrigo; un altro, Corrado, si spegne presso Lavello dov'era accampato con l'esercito; Manfredi non si sente sicuro se non quando, ridotta all'obbedienza Lucera ed ottenuta a patti Foggia, riprende Melfi e tutto il Melfese ed espugna Acerenza. Dalla Basilicata, contristata di incendî e di sangue da Carlo d'Angiò, parte la scintilla della ribellione continentale, repressa per allora con la morte di centosei sostenitori degli Svevi, alcuni dei quali precipitati dalle mura della rocca di Melfi. Durante la guerra del Vespro il folto nucleo dei feudatarî ostili agli Angioini si fortifica nel Lagonegrese, in molte terre di Val di Crati, sostenuti da 2000 Almugavari, comandati da Matteo Fortuna; mentre un basilicatese di Lauria, Ruggiero, il più grande uomo di mare fino a Colombo, tiene in scacco per alcun tempo la flotta angioina.
La storia della Basilicata nel secoli seguenti è tutta occupata dalle ripercussioni delle lotte dinastiche, da ostilità di feudatarî contro altri feudatarî e contro la monarchia, di questa contro quelli, a datare soprattutto da Ladislao di Durazzo. Lotte nelle quali i condottieri mutano spesso le parti. Date significative: 1382, morte misteriosa di Giovanna I nel castello di Muro Lucano; 1404, guerra di Ladislao contro i Sanseverino, padroni di quasi tutta la Basilicata, del Cilento, del Casentino; 1421-441, guerra tra Angioini e Aragonesi, nella quale figura un condottiero di Lavello, Angelo Tartaglia, e la furia del saccheggio si abbatte su Lavello, Venosa, Ruvo del Monte, Pescopagano. In terra di Easilicata, a Melfi e a Miglionico, si inizia e termina la tragica congiura dei Baroni. Pure in Basilicata, ad Atella, si svolge l'ultimo scontro fra Carlo VIII e il re di Napoli; a Rionero, sulla via da Atella a Melfi e nell'alta Potenza si tentano gli ultimi accordi tra Ferdinando il Cattolico e Luigi XII per la divisione del regno. L'espugnazione di Melfi nel 1528 da parte del Lautrec ai servizî di Francia fu uno degli episodî più significativi nella guerra contro Carlo V dichiarata dalla lega santissima.
Nessun fatto politico notevole è da ricordare durante i secoli della dominazione spagnola, salvo la levata di scudi di quasi tutta la Basilicata e delle terre limitrofe del Salernitano e di Terra di Bari come ripercussione del moto masanelliano, per opera di Matteo Cristiano, dottore di Castelgrande, nominato dal duca di Guisa capitano generale: moto di popolo contro nobili e contro alto clero sostenitori della Spagna, tendente a francare borghesi dalla prepotenza baronale, e borghesi e villani dagli aggravî fiscali. Fra i mali che il governo spagnolo apportò per l'insania degli ordinamenti economici, per lo spadroneggiare dei nobili e dei feudatarî, per l'instabilità e l'inosservanza della legge, ci fu almeno di buono che la pace mantenuta rigidamente per oltre un secolo e mezzo finì col giovare alla popolazione. Questa che dalla metà del sec. XIII a mezzo il'400, quando cioè il feudo veniva acquistando importanza e forza, era diminuita da 17.132 fuochi nel 1276-77 (circa 85.660 ab. calcolando 5 persone per famiglia) a 14.680 nel 1320 (circa 73.400 ab.) e poi ancora a meno nei secoli seguenti (contemporaneamente i centri abitati scendevano da 148 nel 1276-77 a 96 nel 1445), dalla seconda metà del' 400 cominciò a presentare una certa ascesa: 1505, famiglie 22.295 (ab. 111.475); 1561, 38.753 famiglie (abitanti 193.765); 1648, famiglie 39.266 (ab. 196.330): aumento che è solo in minima parte spiegato dalle nuove immigrazioni in Basilicata, a datare dalla metà del'400, di coloni albanesi, illirici, greci e bulgari, adescati a popolare terre deserte da larghe promesse e lauti patti, non sempre però mantenuti da feudatarî laici ed ecclesiastici. Solo però a datare dal'700 il ritmo della vita si eleva: la popolazione ha un sempre maggiore incremento; s'avvicina ai 375 mila ab. nel 1778; oltrepassa i 488 mila nel 1841, tocca vent'anni più tardi i 492.959; culmina nel 1881 con 524.500 ab. (Per questi dati e per le loro fonti cfr. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania, ecc., Roma 1902, II, 295,299-300,317-18,354-59). Con l'esercizio dell'industria armentizia, con l'agricoltura, con l'accorto uso del denaro s'elevano la classe borghese e il medio ceto professionista. Le leggi antifeudali dell'inizio dell'800 facilitano l'ascesa, dando alla proprietà feudale l'impronta del diritto comune e riconoscendo diritti della cittadinanza sulle proprietà feudali.
Nei lunghi secoli di lotte dinastiche, feudali, di stranieri dominatori, una notevole trasformazione sociale si venne a grado a grado compiendo: il riscatto dalla servitù feudale. La condizione dei villani migliorò di secolo in secolo. Se nel periodo normanno una stessa popolazione era talvolta divisa perfino tra sette o otto militi e feudatarî, a datare dal tempo degli Svevi, per una serie di oscure vicende di concessioni e di transazioni, il popolo acquistò la libertà di muoversi, di possedere, di testare, di mettere su famiglia, di abbracciare lo stato ecclesiastico senza il consenso del feudatario: lascia la servitù e diviene vassallo del re o del barone, alla pari degli altri ceti. Il comune, di cui il ricordo più antico per la Basilicata rimonta al 1044 (di Melfi), viene a poco a poco aumentando le sue attribuzioni e migliorando il suo organamento, fino a presentarsi nella prima metà del sec. XV nella duplice caratteristica dell'assemblea, fonte del diritto municipale e del potere esecutivo (regimentarî, deputati, sindaci, eletti). Agl'inizî dell'epoca moderna si determina in Basilicata la lotta, che durerà a lungo, fra comune e feudo; organo di sempre progrediente libertà è il comune. Giacché il feudatario si considera padrone di tutto, e di tutto ha il possesso; le università comprano da lui di volta in volta o prendono in fitto perpetuo parte della giurisdizione signorile (la bagliva, la catapania, la portolania, la polizia delle fiere e dei mercati). Le più popolose tra esse acquistano le condizioni essenziali di vita, ordinano i loro poteri interni e la partecipazione delle varie classi del popolo, mettendo in iscritto le modalità ed ottenendone conferma dal re o dal feudatario. Si vengono così fissando le carte costituzionali, gli ordinamenti di giustizia delle università, a pezzo a pezzo, consuetudine aggiunta a consuetudine. Concessioni sempre onerose; ottenute e riconfermate dopo lunghi piati giudiziarî davanti al Sacro R. Consiglio, o con l'appellazione al demanio regio contro la giurisdizione feudale, mettendosi cioè sotto la diretta dipendenza del re; cosa che invero avveniva raramente, giacché su 108 fra terre o castelli di Basilicata, le terre demaniali erano appena 5 nel'500 e '600, e 7 nel sec. XVIII. Fra i gravi sacrifici delle università per sottrarsi ai balzelli o alle prepotenze baronali, o per ritornare al demanio regio dal quale, contro ogni impegno e ogni equità, erano frequentemente vendute, le comunità di Basilicata all'alba dell'800 s'erano liberate di tutti i pesi, avevano quasi tutte commutato in denaro le opere e i servizî personali. Dell'antica qualità feudale del territorio rimanevano soltanto le decime i terraggi e alcuni diritti proibitivi, aboliti poi in parte dalla legislazione eversiva della feudalità.
La Basilicata non fu estranea al movimento culturale e politico del sec. XVIII; centri di cultura, l'università napoletana e i seminarî diocesani della regione; palestre, il foro e la scuola. Mario Pagano, di Brienza, fu uno dei più celebri discepoli del Genovesi; il vescovo Serrao centro del giansenismo di Basilicata; l'uno e l'altro sacrificati dalla violenza reazionaria del 1799. Alla preparazione culturale della borghesia intellettuale e alla propaganda dei patrioti si deve se l'albero della libertà repubblicana fu elevato nel capoluogo e in molti altri centri. La democratizzazione fu fatta, tra manifestazioni contro nobili e feudatarî, dal popolo aspirante a dividersi le terre demaniali usurpate, rivendicante usi civici su beni feudali, agitantesi per la diminuzione del prezzo del sale e del pane e per l'esonero di alcuni tributi. Le insurrezioni divamparono più gravi alla notizia dello sbarco del Ruffo in calabria: a Potenza fu assassinato a furia di popolo il vescovo; a Matera si salvarono con la fuga il preside Blanch, i magistrati, l'arcivescovo; a Melfi ed altrove furono saccheggiate case di notabili e uccisi pubblici ufficiali. Sul cadere del maggio 1799 tutta la Basilicata era realizzata - nonostante l'eroica difesa di Picerno e di Avigliano, magnificata dal Cuoco - e poco dopo dava il suo contributo di sangue e di condanne (189 condannati all'esilio) alla causa della libertà. Il restaurato governo francese del 1806, se poté aver facile vittoria delle resistenze del Lagonegrese e soprattutto di Maratea, non riusci a ricondurre nel paese l'ordine e i modi corretti del vivere cittadino, sia per l'imperversare del brigantaggio, sia per i continui tentativi di restaurazione borbonica: fra questi degno di ricordo è quello tentato dai "calderari" di cinque paesi che, rispondendo a un appello di Ferdinando IV, marciarono su Potenza. La rivoluzione del 1820-21 trovò nella Basilicata costituite numerose vendite carbonare: fede al re e alla costituzione, sgravio d'imposte, diminuzione del prezzo del sale era il loro programma a Balvano e a Potenza. Tanto radicata era la convinzione che il nuovo ordinamento politico importasse sgravio di tributi, che il Senato carbonaro di Basilicata vietò che s'inviassero alla tesoreria centrale dello stato le pubbliche entrate già riscosse. Feroce la repressione del moto costituzionale: in un solo giorno, dalla corte marziale di Basilicata, installata nell'antica rocca di Calvello, furono condannati a morte 24 imputati, 9 all'ergastolo, altri a minori pene. Ne fu scandalizzato finanche l'austriaco generale Frimont.
La concessione dello statuto del'48 sorprese alquanto l'opinione pubblica basilicatese. I dirigenti del Circolo lucano, fascio di forze liberali del centro, non ebbero forse iniziativa sufficiente per organizzare le milizie e il nuovo reggimento; se tentarono una federazione coi circoli di Bari, Lecce, Capitanata, Molise, ebbero così scarso fiuto politico, che ancora il 10 luglio, quand'era già domata l'insurrezione calabrese e sciolto il governo provvisorio di Calabria, chiedevano in un memorandum l'annullamento degli atti del governo posteriori al 15 maggio: ingenuità o fede eccessiva nella parola del re, che fu scontata con la prigionia di ben 1116 liberali, 68 dei quali furono condannati ai ferri. Dopo la spedizione Pisacane, che non ebbe alcun'eco nel paese, anche nella Basilicata, come nel resto d'Italia, l'opinione della colta borghesia liberale si orientò verso il Piemonte; e ancor prima che Garibaldi passasse lo stretto erano già cominciati segreti preparativi d'uomini e di armi. L'insurrezione, proclamata a Corleto il 18 agosto '60, s'estese ben presto a tutta la provincia, che fu centro di movimento di truppe verso l'Avellinese e il Barese, e che partecipò con una sua brigata alla battaglia del Volturno e ad altri fatti d'arme. Mentre modeste minoranze lavoravano per la causa nazionale, risorsero le tumultuose aspirazioni popolari per la quotizzazione delle terre demaniali, le vecchie odiosità fra contadiname aspirante alla proprietà della terra e borghesia latifondista e proprietaria di bestiame. Approfittando dell'indecisione o del panico delle autorità comunali e dei comandanti la guardia nazionale, la plebe, sobillata da gente amante di novità, come nel maggio 1848 a Venosa s'era sollevata al grido di "morte alla giamberga", e aveva barbaramente ucciso un benestante e menatone in trionfo per le vie il cadavere e schiantata la sua casa, così si abbandonò anche allora a eccidî di "galantuomini" e di borghesi, a incendiare boschi e siepi, ad occupare terre e pascoli, a quotizzare violentemente terreni di privati e demaniali a Matera, a Calciano, a S. Mauro e in numerosi altri territorî della regione, sperando "tra i barcollamenti dello stato uscirne impuniti".
La reazione politico-sociale cominciò proprio nello stesso giorno dei comizî per l'annessione al Piemonte. Serpeggiavano nelle plebi delle provincie umori avversi al movimento nazionale suscitati dalla caduta signoria, ravvivati da autentici borbonici, da quanti erano scontenti della non equa distribuzione degli uffici o erano rimasti esclusi dal nuovo ordine di cose per le gare municipali orpellate di nomi politici. La parte vinta, abbeverata di paure, di soprusi, tenuta continuamente d'occhio dai liberali o sedicenti tali - dittatori di villaggio o insolente ragazzaglia inebriata dalla facile vittoria - divenne per necessità borbonica, ciò che non era stata mai. Voci che il buon re Francesco II avesse inviato da Gaeta vettovaglie e formaggio e grano che i "galantuomini" avevano ghermito di sottomano; voci d'un ritorno prossimo dei Borboni ed altre sobillazioni spinsero la plebe di tre o quattro paesi alla restaurazione del governo borbonico, all'eccidio di "galantuomini" in fama di liberali e all'occupazione delle terre demaniali. Quei moti vennero presto e ferocemente repressi dalle volontarie milizie cittadine, composte da proprietarî preoccupati dalla piega che prendevano le cose. Ma il fermento continuò, si riacutizzò ben presto, ravvivato dagli scandali del disciolto esercito borbonico, dai renitenti di leva e dai disertori dell'esercito italiano, ed ebbe una gravissima manifestazione in quella reazione politico-sociale, borbonica e brigantesca insieme, che aflisse la regione intera fino al 1865 (cfr. brigantaggio).
Se la Basilicata ebbe comune con tutte le altre regioni del Mezzogiorno difficoltà di ordine amministrativo nel passaggio dall'antico al nuovo ordine di cose, calcato sullo stampo del più progredito Piemonte, risentì più d'ogni altra le aspre ripercussioni sulla sua economia, come quella ch'era la più povera e la meno progredita fra le provincie dell'antico reame delle Due Sicilie. Proletarî e proprietarî, borghesi e contadini, galantuomini e cafoni di Basilicata, accomunati da un frugalissimo tenor di vita ch'era privazione, reso ancor più penoso dai debiti e dall'assoluta mancanza di capitali, furono oppressi dal duro fiscalismo piemontese al quale non sfuggirono neanche le più povere aziende domestiche e neppure i tugurî scavati nella roccia e le catapecchie dei contadini raccolte in paese. Dal bisogno di far fronte a quella grave oppressione tributaria derivarono il progressivo depauperamento della regione, l'inconsulto disboscamento, causa di smottamento e di frane delle terre argillose disfatte dalle acque, il contrarsi dell'industria armentizia, l'abbandono di terre a grano di recente sottoposte all'aratro e rapidamente depauperate da una coltura da vampiri.
Ciò nonostante, e quantunque più gravi pesassero i tributi sulla Basilicata e sulle altre regioni meridionali in confronto di quelle più ricche del Nord d'Italia - sperequazione lesiva del principio su cui si fondava il sistema proporzionale - l'unità politica fu vantaggiosa alla Basilicata. Fu apprestata se non la totalità parte almeno degli strumenti di civiltà, già usati in altre parti d'Italia: ferrovie, strade, scuole, ecc. Dell'inizio del regno unitario è la ferrovia Metaponto-Sibari riunente la Basilicata alla litoranea calabrese; dal 1874 in poi furono costruite quelle tra Napoli, Potenza e la costa ionica, l'altra congiungente il Lagonegrese alle capitali della provincia e del regno, e poi la Potenza-Rocchetta S. Antonio collegante il Potentino e il Melfese con le Puglie. Si vanno ora costruendo in Basilicata e in Calabria centinaia di km. di ferrovie a scartamento ridotto, che uniranno alla rete ferroviaria ordinaria numerosi paesi montani. Più di 2000 km. di strade rotabili furono costruiti in un solo ventennio dall'80 in poi; la rete automobilistica si viene allargando di anno in anno e allaccia paesi, molti dei quali si potevano per l'addietro raggiungere appena a schiena di mulo. Al momento dell'annessione la posta giungeva due volte la settimana da Napoli a Potenza, dond'era inoltrata ai comuni per mezzo di corrieri privati, e il telegrafo, privilegio dei soli capoluoghi di provincia e dei circondarî, non era aperto a tutti; nei decennî seguenti invece gli uffici postali e i "pali magici", apportatori di civiltà, vennero impiantati man mano per tutta la regione anche in località di montagna. Parecchi paesi si sono ripuliti; alcuni hanno mutato addirittura fisionomia. Tutti i comuni che ancora dopo il'60 inumavano in fosse comuni o abbandonavano addirittura all'aperto i loro morti - teste un prefetto della provincia di Potenza di quegli anni, Errico Pani-Rossi (La Basilicata, Verona 1868, p. 254 e segg.) - ebbero i loro cimiteri; molti li ampliarono. Molti altri che difettavano di acqua o ne avevano di cattiva, ebbero acquedotti (ottanta milioni circa sono tuttora stanziati per nuovi acquedotti). Alcuni ebbero asili infantili e scuole medie; la popolazione scolastica da 10.198 con 386 scuole nel 1862-63 è salita a circa 30.000 nel 1921; l'analfabetismo dal 91,2% nel 1860 era sceso a 74,8% nel 1901. Tutto ciò è effetto dell'opera redentrice dell'unità nazionale.
Stazionarie rimasero a lungo le condizioni della terra, unica fonte di vita della regione; non tanto per l'ignoranza di migliori metodi agrarî, quanto per l'assoluta scarsezza di capitali dovuta in parte alla vendita dei beni ecclesiastici - vera speculazione fondiaria che stornò sempre più le scarse forze finanziarie dai miglioramenti agrarî - in parte all'assorbimento del denaro operato dai frequenti prestiti pubblici, antichi e recenti, necessarî a fronteggiare le spese varie (prestiti che rappresentavano un più elevato e più sicuro investimento di quello agrario). L'abuso o il mal uso del credito, i cattivi risultamenti delle banche popolari - donde fallimenti, sequestri, processi, passaggi di proprietà dalle mani dei debitori in quelle dei creditori - sono indici della stazionaria potenzialità della produzione della Basilicata per lunghi decennî. Come rimedî a questi mali, ch'erano comuni a molta parte dell'Italia meridionale, i più illuminati rappresentanti politici della regione sostennero la necessità di una riforma tributaria meno dura e meglio proporzionata alla sua ricchezza, l'abolizione dei dazî protettivi, denaro a basso prezzo, il che avrebbe reso possibile la trasformazione dell'agricoltura basilicatese. Questo programma, che importava una politica di raccoglimento e di economie fino all'osso non trovò nel paese la preparazione morale e nel Parlamento la forza politica per essere attuato; ma non si poté non addivenire alla legge speciale sulla Basilicata del 31 marzo 1904, riguardante opere pubbliche e ricostituzione dei boschi, e contenente provvedimenti sull'agricoltura, sul credito agrario e qualche agevolazione tributaria. Legge tuttavia pressoché sterile negli effetti per l'insincerità con cui fu voluto il decentramento amministrativo mediante il commissario civile, per la limitatezza degli stanziamenti finanziarî, per l'insincerità nell'affrontare la riforma tributaria, per la lentezza o la sproporzione degli organi che dovevano attuare quella legge. Più che quelle e altre poche particolari disposizioni, valsero leggi dettate da principî generali, quella ad es. sul chinino di stato (che in Basilicata ridusse da un migliaio all'anno a circa 200 i morti per malaria) e sull'istruzione pubblica. Ed ancor più valse il coraggio del contadiname e dell'artigianato, i quali, sfuggendo alla miseria e all'indebitamento della madre patria, cercarono lavoro oltre oceano; e coi risparmî raggranellati mercé una vita avara e tutta di sacrifici, tornati in patria riattarono la cadente casa, comperarono la terra e dettero all'agricoltura quell'aflfusso di capitali e alle poche industrie quell'iniziativa che era mancata fin allora nella morta gora della provincia. A questo ceto nuovo di "americani" e alla feconda ripercussione che il loro arricchimento operò nella vita e nell'economia regionale, si deve se la Basilicata superò le numerose crisi fra il 1890 e il 1910, e se essa, che pur resta ancora la più povera e diseredata regione d'Italia, sia oggi tanto diversa da ciò che era intorno al 1860.
Bibl.: S. De Pilato, Saggio bibliografico sulla Basilicata, Potenza 1914; G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Roma 1902, II; G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo stato italiano, Firenze 1926, voll. 2; le opere notissime di E. Ciccotti, di F. S. Nitti; S. De Pilato, Fonti, cose e figure di Basilicata, Roma 1923; U. Zanotti-Bianco, La Basilicata, Roma 1926, nella cui "introduzione storica" si trovano ricordati i più importanti e più recenti scritti sulla Basilicata.
Arte.
L'età antica. - I monumenti dell'arte antica che la Basilicata ci offre sono il prodotto o dei Greci che ne colonizzarono le coste, o dei popoli indigeni Lucani, che tuttavia operarono in questo campo soltanto dopo avere risentito l'influsso della civiltà ellenica. Fra i prodotti delle officine artistiche locali i più copiosi e i più caratteristici sono quelli della ceramica (v. lucani, vasi).
Non molto ci hanno lasciato i Romani nella regione, all'infuori delle più comuni opere d'utilità pubblica, ponti, acquedotti, strade; uno dei complessi monumentali più notevoli di questo periodo è quello della città di Grumento (v.).
L'età medievale e moderna. - Architettura. - Le più remote testimonianze dell'architettura cristiana in Basilicata sono da ricercare in taluni elementi della più antica fra le due chiese della Trinità a Venosa (v.) che risalgono, molto probabilmente, ai primi secoli del Medioevo e che mostrano che non dovettero mancare importanti edifici sacri in Basilicata già sul principio del Medioevo.
Al tempo del rinnovamento romanico forme svariate sorgono nella regione che, considerata da noi nella sua attuale configurazione politica, mostra come, necessariamente, dovesse partecipare un tempo dell'arte fiorente delle Puglie. Le due chiese della Trinità di Venosa sono uno dei più vasti e interessanti complessi architettonici dell'Italia meridionale: l'una più antica e coperta, incompiuta l'altra e scoperta. Delle due chiese la prima, consacrata nel 1059, è certamente sorta dalla ricostruzione di un più antico edificio. Anteriormente al 1135 i benedettini cominciarono invece la nuova fabbrica, che rimase incompiuta allorché nel 1297 Bonifazio VIII chiamò a prenderne possesso gli ospitalieri fuggiti dalla Terra Santa. Come nel Saint-Nectaire (Puy-de-Dôme), che ne ripete quasi esattamente la pianta, l'abbaziale di Venosa poté esser concepita coi matronei e la vòlta centrale a botte. Ma oltre alla pianta e all'iconografia, anche le singole forme richiamano in tutto e per tutto l'arte francese: i magnifici capitelli sono molto simili a quelli del Saint-Laumer di Blois. Il materiale di costruzione è in gran parte di provenienza romana.
Modellato sulla grande abbaziale di Venosa è il duomo di Acerenza. Al XII secolo risalgono il castello e il campanile del duomo di Melfi (1153) che mostra, nella decorazione, influssi dell'arte coeva sicula e campana. Ma accanto a queste opere capitali pochi altri edifizî ci restano dell'era romanica, e di poca importanza, quando si sia ancora accennato alla squisita chiesa di S. Lucia di Rapolla, a pilastri quadrati sormontati da semplici abachi (modello ridotto alla sua più umile espressione nella chiesa di Capitignano presso Muro, nel S. Michele di Potenza, nelle chiese di Pescopagano, di Montemilone) e riuniti da archi leggermente acuti che sostengono la vòlta a botte della nave maggiore, mentre le laterali sono coperte da volticine a crociera. Tra il 1189 e il 1197 l'architetto Sarlo di Muro costrui la chiesa di S. Maria di Pierno, preceduta da un vestibolo, divisa in tre navate da colonne (e non da semicolonne addossate a pilastri, come altri vuole), i cui capitelli sono sormontati da abachi con ricco profilo; e nel 1209 innalzò il campanile del duomo di Rapolla. Del tutto bizantina è invece la chiesa basiliana di S. Angelo ai Monte Raparo, laddove solo alcuni elementi greci sono visibili nella chiesa di Anglona (sec. XIII). Forme pugliesi sono presenti nel duomo di Matera (sec. XIII), in alcuni portaali di Melfi, a Tricarico (portale del S. Francesco). Frammentario è quanto ci resta della dirutissima abbazia di Banzi, forse dello scorcio del sec. XII, e tale da provarci come anche le sue forme non dovessero discostarsi da quelle dell'architettura pugliese. E non mancano nella decorazione durante il sec. XIII influssi francesi a Melfi, musulmani a Venosa (porta dell'abbazia vecchia).
Tra le fabbriche civili è da menzionare in primo luogo il castello di Lagopesole (prima metà del sec. XIII), palatium, caserma e residenza di caccia di Federico II, con richiami all'architettura cisterciense. Né va dimenticata, tra l'architettura minore, la grande quantità delle chiese rupestri, già abitate e decorate da monaci basiliani, esempî rudimentali di costruzioni spesso riflettenti schemi orientali, sparse in gran numero intorno a Matera, nella regione del Vulture, nell'alta valle dell'Agri.
Il gotico non lascia in Basilicata monumenti di grande rilievo, quando se ne tolga l'alterata cattedrale di Rapolla, costruita in puro stile cisterciense da un architetto italiano, Melchiorre da Montalbano, nel 1253, il campanile del duomo d'Irsina, il S. Giovanni di Matera che riflette caratteri borgognoni (sec. XIII). Invece il S. Francesco di Tricarico, nobile e modesto edificio, ha l'abside quadrata, affine a un tipo che troviamo ripetuto nella Champagne e in Piccardi a.
Sono molto più deboli i riflessi del Rinascimento nelle architetture della regione, dove forme del sec. XV sono palesi nel castello e nella manomessa cattedrale di Venosa, compaiono in edifici civili di Tricarico, con un buon secolo di ritardo, e appena rivestono qualche grazia nella cripta della cattedrale acheruntina, costruita nel 1524 dal signore della città, Giacomo Alfonso Ferrillo. Questa è sorretta da quattro colonne su piedistalli, adorne di ricchi capitelli; dodici pilastri scompartiscono le pareti dove le modulazioni architettoniche sono, nonostante qualche rozzezza, schiette e armoniose. Più intonate al proprio tempo e più vive appaiono invece le note di architettura aragonese-catalana; ne fanno fede tra l'altro il portale del Liceo e della chiesa di S. Francesco in Potenza, quello del S. Antonio di Tricarico, ed alcune ornate finestre della diruta abbazia di Banzi.
Più diffusa, l'architettura barocca. Non fabbriche monumentali, non complessi di edifici e di piazze, non sontuosità di ville a di palazzi, come nella Campania, ma pur sempre costruzioni, la maggior parte sacre, di nobile gusto, spesso decorate internamente a stucchi (duomo di Melfi; chiese di Maratea e di Lauria Superiore; Chiesa Madre di Moliterno, di un allievo del Vanvitelli); buone architetture di questo periodo, non molto inferiori a quelle che si potrebbero trovare a Napoli o a Lecce, non maneano neppure in località remotissime: nominiamo, per esempio, la facciata di S. Anna, del 1660, a Lagonegro, e il palazzo Corradi, in Piazza Grande, del 1762, portali dei secoli XVII e XVIII a Rionero, a Latronico, ecc.
Un posto a parte nella storia dell'architettura, non soltanto regionale, è occupato dalla città di Matera, agglomerato, unico in Italia, di abitazioni scavate in parte nel vivo del sasso, in parte costruite col tufo, secondo le leggi che nei secoli si vennero elaborando in relazione alle particolari condizioni della "gravina" pittoresca e rupestre.
Scultura. - Alcuni tra i più importanti saggi di scultura medievale si vedono a Venosa, dove non meno d'una dozzina di leoni, chiamati certamente a sorreggere i portali della costruenda chiesa della Trinità, ornano la cittadina nei più varî punti (i capitelli di squisita fattura della chiesa incompiuta son forse di artefici venuti, come l'architetto, d'oltremonte). Altri leoni stilofori sono a Tricarico, a Capitignano, ad Acerenza, dove le sculture, ora ruinate, che coronavano l'arco della porta maggiore del duomo seguivano modelli pugliesi. Anche più strettamente legate all'arte delle Puglie sono le sculture del duomo di Matera; mentre a un dittico eburneo bizantino sembra essersi ispirato lo scultore Sarlo nelle due figurazioni con l'Annunciazione e il Peccato originale (1209), murate nel campanile del duomo di Rapolla. Per il resto, la scultura di quest'epoca in Basilicata è ritardataria, come appare dai bassorilievi che fregiano gli sguanci della porta di S. Maria di Pierno (seconda metà del sec. XII) con figurazioni incoerenti e svariatissime (teste umane, rettili, anfore, ecc.), da due frammenti del secolo XIII, e forse più tardi, ma pur tuttavia romanici nello spirito, che decorano con intrecci di forme umane e bestiali una bifora del campanile della cattedrale di Tricarico. Un'opera che occupa un posto a sé, capace di rammentare le sculture ravennati dei primi secoli, è un tondo di marmo a traforo con l'agnello e la croce, visibile sulla facciata della chiesa dei francescani a Cancellara, circondato da una scritta in caratteri gotici e riferibile al sec. XIII. Due begli esemplari di statue lignee, simili ad altre rinvenute negli Abruzzi e nel Lazio, si ritrovano nella chiesa di San Biagio a Rapolla e in quella di Banzi.
Con l'inoltrarsi del sec. XV le influenze napoletane si fanno sempre più forti nella scultura, per quanto non appaia copiosa la produzione. Un altarino marmoreo è donato nel 1519 dal dottore napoletano Guglielmo Deodato al santuario di S. Biagio presso Maratea; un S. Egidio, datato del 1570, nella Chiesa-Madre di Latronico risente dell'arte di Giovanni da Nola o del Santacroce. E non mancano opere che si possono riferire a altre tendenze, come due angioli del sec. XV, murati di fianco alla porta laterale di S. Maria Maggiore a Maratea, il gruppo calcareo di una Pietà sul vertice della chiesa di S. Biagio a Venosa, della metà del secolo XV, con palesi influssi d'arte nordica, la tomba, in quest'ultima chiesa, d'Isabella Orsini, moglie di Pirro del Balzo. Si ritrova persino una non lontana eco dell'arte toscana nel sarcofago del Ferrillo nella cattedrale di Acerenza (1524), dove putti reggono ghirlande intorno all'impresa del signore; nel sarcofago di Donato de Grassi nel S. Francesco di Potenza (1534).
Passato il Rinascimento, la scultura decade e forse nessun'opera notevole è possibile rintracciare in Basilicata. Le belle statue colorate, di legno e di cartapesta, che s'incontrano dappertutto, spesso di buona fattura, sono forse importate da Napoli. Così di artefici napoletani sono certamente le statuette da presepio che qua e là si ritrovano.
Pittura. - La pittura medievale ha lasciato non infrequenti e non trascurabili tracce in Basilicata. E in primo luogo nominiamo qui gli affreschi che vanno del sec. XI al XV e decorano le numerose grotte dell'Agro Materano, una nicchia dipinta nella chiesa di S. Michele a Monticchio, i tardi affreschi bizantini di S. Angelo al Monte Raparo. Le grotte del Materano, ancora in gran parte mal note e inesplorate, non offrono generalmente pitture di alta qualità; non è tuttavia da escludersi che vi si possano trovare testimonianze di valore pari a quelle offerte dalle Puglie. A un fine artista dev'essere ascritta una Vergine col Bambino tra due Santi nel duomo di Melfi, la quale nonostante i guasti, appare di tale pastosità da rammentare i migliori esempî dell'arte bizantina del sec. XII. Di fattura larga, potente e dove tuttavia le tre gradazioni convenzionali del modellato son condotte con raffinata scioltezza, è una testa della Vergine, bizantineggiante, del sec. XIII, nella chiesa di Banzi. Di pittori diversi più o meno grossolani, che risentono influenze bizantine sono invece gli affreschi della grotta di S. Margherita presso Melfi. Un altro ciclo di mediocri affreschi decora la cosiddetta cripta del S. Francesco a Irsina. Delle due mani almeno, che vi si possono riconoscere, operanti sul principio del sec. XV, l'una segue goffamente i modelli di Oderisi; l'altra sembra ligia a forme umbro-marchigiane.
Nel sec. XV la Basilicata è campo d'incrocio alle più svariate correnti pittoriche. Così mentre da un lato Matera dà al suo S. Francesco un insigne polittico di Bartolomeo Vivarini (circa del 1459), e a Miglionico, nella chiesa dei Riformisti, trova posto uno stupendo polittico di Cima da Conegliano (1499) dall'altro lato troviamo un superstite trittico di Andrea da Salerno a Banzi e influssi di Cristoforo Scacco in un trittico del S. Antonio di Melfi. Influssi di Alvise Vivarini si riconoscono in un dipinto del S. Francesco di Tricarico; influssi di Andrea Sabatini e, in genere, del raffaellismo napoletano del sec. XVI, si ritrovano in dipinti di Muro Lucano, Rivello, Moliterno, ecc. Il manierismo napoletano domina nella seconda metà del secolo XVI: in ogni angolo della Basilicata è facile ritrovar cose che appaiano prossime specialmente al Santafede, all'Imparato. Un artista locale, Pietro Antonio Ferri (v.), è specialmente attivo a Tricarico, nel duomo (tela del 1607), in S. Chiara e al Carmine (1612); negli affreschi di queste due ultime chiese si mostra ispirato a Michelangiolo e al manierismo; copia persino un'intera composizione del Baroccio, pittore che, col Parmigianino, ebbe grande influenza su tutta la produzione del sec. XVII in Basilicata, sorda a ogni più eletto richiamo della pittura napoletana. Contemporaneo al Ferri è Giovanni di Gregorio, detto il Pietrafesa, che decorò il convento dei Riformati di Tito.
La pittura napoletana, insieme con quella romana e siciliana, non mancò di mandare in Basilicata qualche buon dipinto. Incontriamo così Luca Giordano a Rionero, il Maratta nella chiesa del Purgatorio a Venosa, probabilmente il Monrealese e il Lanfranco in S. Maria a Potenza e in S. Marco a Muro Lucano. Tele di pittori giordaneschi, solimeniani, demuriani o sottoposti ad altri svariati influssi, talora assai buone, sono visibili nelle chiese di Rivello, di Muro, di Rapolla, di Melfi, di Rionero, di Lagonegro. Né va dimenticata qui la raccolta D'Errico a Palazzo San Gervasio, l'unica quadreria importante esistente in Basilicata. Un mediocre artista che dagli ultimi schemi settecenteschi passa al neoclassicismo è Salvatore Cascini, del principio del secolo XIX, le cui opere si vedono specialmente a Lagonegro.
Arti minori. - La miniatura, se un giorno poté essere largamente diffusa, specie nei monasteri, non si ritrova ora che in alcuni corali del sec. XV nel duomo di Matera.
Nell'intaglio del legno dovette eccellere il magistero di molti artisti, fin dai più remoti secoli, nella boscosa regione; tra le più antiche testimonianze citiamo la porta lignea del S. Francesco a Potenza, del sec. XV. Tra i cori intagliati, che sovente rispecchiano forme sorpassate, conviene in primo luogo nominare quello, precedente forse ogni altro per il tempo e per la qualità, di S. Maria Maggiore a Maratea, opera notevolissima del sec. XV, di stile fiammeggiante; segue, nel 1453, il coro del duomo di Matera. Cori di tarde forme rinascimentali sono in S. Maria della Rupe a S. Martino d'Agri (sec. XVI) e in S. Giacomo a Lauria Inferiore (1554). Molto più tardo (sec. XVIII), impiallicciato e intarsiato di legni diversi, è il coro dei Cappuccini a Muro Lucano. Nella stessa cittadina sono altre preziose testimonianze di quell'arte: dal pulpito e dalla cantoria del Carmine, dove fregi dorati staccano su un fondo verde, alla ricca sedia vescovile fatta erigere dal vescovo Clemente Confetti nel 1631, cui fu aggiunto nel '700 il magnifico postergale decorato dallo stemma del cardinale Orsini, poscia Benedetto XIII. L'intarsio non fu praticato con minore finezza nella Basilicata meridionale come sembra indicare, ad esempio, la suppellettile di Lagonegro. Legni intagliati e dorati con esuberante maestria decorativa si vedono invece particolarmente nelle chiese dei conventi e la loro eleganza non ha nulla da invidiare ai più raffinati prodotti cittadini. Notevoli sono particolarmente gl'iritagli che si conservano nel monastero dei francescani a Cancellara.
Non sono frequenti invece le buone orencerie, delle quali nomineremo qui soltanto un riccio di pastorale del sec. XV a Tricarico, un ostensorio rimaneggiato del sec. XV-XVI a Muro Lucano, due cassette rivestite di lamine argentee nel duomo di Tricarico (sec. XVII), due ricche croci astili della stessa epoca a Moliterno e a Lagonegro, un reliquiario in forma di braccio a Grottole.
Opere di ferro battuto (cancellate, balconi) sono conservate a Grottole, a San Fele, a Lauria Inferiore. E dell'uso tutto meridionale delle piastrelle maiolicate non mancano esempî notevoli; così un curioso pilastro-monumento dedicato a S. Giacomo Maggiore a Lauria Inferiore ne è rivestito per tre lati (1771), e un bel pavimento si ritrova quella sacrestia di S. Chiara a Tricarico.
Del tesoro, oltremodo ricco, delle stoffe nelle chiese molto è ancora rimasto e di altissimo pregio, sebbene quella suppellettile non risalga, a nostra conoscenza, oltre il sec. XVII. Un fantastico parato completo a ricamo multicolore su fondo di velluto rosso è conservato nella chiesa arcipretale di Grottole; altri saggi stupendi sono a Castelluccio Inferiore, Lauria Inferiore, ecc.
Lontano dai grandi centri, per l'ispirazione di umili artefici, la decorazione spesso perseguendo motivi d'ingenuo afflato paesano, incanta per l'immediatezza dell'espressione. Sul presbiterio della chiesa del Carmine a Muro Lucano è un soffitto piano di tavole dipinte sotto la badessa Costanza Farenga, nel 1783; e di gusto anche più arguto è il soffitto d'un tal Gerardo Pascaretta da Vietri di Potenza, nella chiesuola del Soccorso pure a Muro, del 1767. Così è da notare anche la vòlta della chiesa del Crocifisso a Lagonegro. (V. Trav. CXXIX a CXXXII).
Bibl.: F. P. Volpe, Descrizione ragionata di alcune chiese di tempi remoti esistenti nel suolo campestre di Matera, Napoli 1842; S. Volpicella, La madonna di Atella, in Poliorama pittoresco, Napoli 1853-54; P. A. Ridola, La porta dei Leoni nella Cattedrale di Matera, in Poliorama pittoresco, XVIII (1858-59); H. W. Schulz, Denkmäler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien, Dresda 1860; F. Lenormant, À travers l'Apulie et la Lucanie, Parigi 1833; G. Fortunato, Due iscrizioni del secolo XII (S. Maria di Perno in Basilicata), in Archivio storico per le prov. napol., XVI (1891), fasc. 3; B. Croce, Sommario critico della storia dell'arte nel napoletano, in Napoli nobilissima, I-III (1892-94); C. Diehl, L'art byzantin dans l'Italie méridionale, Parigi 1894; V. Di Cicco, Calvello (Basilicata). Pala di S. Giuseppe, in Arte e storia, XIV (1895), p. 87; id., Calciano (Basilicata), Trittico antico, ibid., XIV (1895), p. 190; id., Tricarico. Il convento di S. Antonio, ibid., XV (1896), I, p. 22; id., L'arte nella Lucania, ibid., XVI (1897), p. 109; E. Bertaux, I monumenti medievali nella regione del Vulture, suppl. alla Napoli nobilissima, VI (1897), p. vi segg.; G. B. Guarini, S. Margherita cappella vulturina del '200, in Napoli nobilissima, VIII (1899), p. 113 segg. e IX (1900), p. 132 segg.; G. Fortunato, Rionero medievale, Trani 1899; id., S. Maria di Perno, Trani 1899; G. Crudo, La SS. Trinità di Venosa, Trani 1899; V. Di Cicco, in Arte e storia, XIX (1900), pp. 60-61 e 71; G. B. Guarini, Curiosità d'arte medievale nel Melfese, in Napoli nobilissima, IX (1900), pp. 132-36, 152-58; B. Berenson, Roberto Oderisi und die Wandgemälde der Incoronata, in Repert. f. Kunstw., XXIII (1900), pp. 448-50; G. B. Guarini, Chiesette medievali della Basilicata. La Madonna della Foresta e di S. Biagio, in Napoli nobilissima, X (1901), pp. 93-96; A. Simonetti, La cappella di S. Leonardo a Roccanova in Basilicata, in Arte e storia, XXI (1902), p. 5; G. Fortunato, Il castello di Lagopesole, Trani 1902; R. Delbrück, Ein Porträt Friedrich's II von Hohenstaufen, in Zeitschrift für bild. Kunst, XIV (1903), p. 17 segg.; G. B. Guarini, Un monumento obliato. L'abbazia di S. Angelo in Montescaglioso, in Napoli nobilissima, XIII (1904), pp. 6-8, 23-27; E. Bertaux, L'art dans l'Italie méridionale, Parigi 1904; G. De Lorenzo, Venosa e la regione del Vulture, Bergamo 1906; M. Wackernagel, Un altare del Cima a Miglionico, in L'Arte, X (1907), p. 372 segg.; G. Lipparini, Monumenti di Basilicata. Il convento di S. Angelo, in Vita d'arte, II (1908), pp. 103-13; G. Frizzoni, Opere d'arte venete, ecc., in Boll. d'arte, VIII (1914), p. 23 segg.; G. Paladino, La badia di S. Angelo in Basilicata, in Boll. d'arte, XIII (1919), p. 57 segg.; E. Galli, Attività della Sopraintendenza Bruzio-Lucana nel suo primo anno di vita 1925, Roma 1926; L. De Fraja, Il nostro bel S. Giovanni, Matera 1926; E. Galli, La cripta di S. Francesco a Irsina, in Boll. d'arte, n. s., VII (1927-28), p. 385 segg.; W. Arslan, Relazione di una missione artistica in Basilicata, in Campagne della Società Magna Grecia 1926-27, Roma 1928; id., Un polittico di Bartolomeo Vivarini in Basilicata, in Rivista mensile della Città di Venezia, VII (1928), p. 565 segg.