Balázs, Béla
Pseudonimo di Hermann Bauer, scrittore, teorico del cinema e sceneggiatore ungherese, nato a Szeged il 4 agosto 1884 e morto a Budapest il 17 maggio 1949. Con capillare completezza affrontò nei suoi testi tutti i problemi connessi all'immagine filmica, ritornando più volte sugli stessi concetti e riuscendo a modularli con preziose variazioni formali, riadattando gli argomenti ai contesti cambiati, ponendo in scena il tessuto problematizzato della sua logica in progress. Adottando una prospettiva antropologico-culturale, fu il primo tra i teorici a rilevare la condizione rivoluzionaria di un'arte, quella cinematografica, nata sotto gli occhi degli studiosi. Con i suoi contributi impose un rovesciamento del punto di vista tradizionale in virtù del quale l'estetica non veniva più chiamata a legittimare lo statuto d'arte del cinema, ma a riconsiderare, proprio per l'affermarsi del cinema stesso e sulla base dell'analisi delle sue peculiari caratteristiche, tutte le altre arti.
Cosmopolita per vocazione, convinto di non appartenere a nessuna nazione e sentendosi fondamentalmente europeo, si laureò in lettere e partecipò alla Prima guerra mondiale, ma prima ancora di compromettersi con la Repubblica dei Consigli (nov. 1918 ‒ marzo 1919), divenendo, dopo la sua caduta, un perseguitato politico costretto a lasciare l'Ungheria come altri esponenti della sinistra, B. già era abituato a spostarsi tra Vienna, Parigi e Budapest, manifestando così il suo nomadismo e lo spessore e la qualità mitteleuropei della sua cultura. Ebreo non del tutto osservante, poi convertitosi negli anni della maturità al cattolicesimo, 'viandante' della cultura, fu segnato per tutta la vita dal fatto di sentirsi escluso da una comunità senza però appartenere a un'altra, di ritrovarsi al di fuori di qualsiasi Chiesa. Esiliato più metafisico che concreto, non a caso scelse il tedesco come lingua di lavoro (per poi eventualmente tradursi in ungherese) anche per le sue opere narrative e poetiche. Attratto inizialmente dalla musica (fu compagno di stanza in collegio del futuro compositore Z. Kodaly, uno dei primi etno-musicologi, e scrisse poi per l'amico B. Bartók libretti considerevoli di opere come Il principe di legno e Il castello del principe Barbablù), all'epoca della collaborazione con la rivista "Nyugat" (Occidente), coacervo di intelligenze moderniste e simboliste, considerevole fu la sua produzione narrativa e poetica, pervasa da un interesse per l'elemento favolistico e per l'Oriente. Ma soprattutto intrecciò rapporti significativi con personaggi come lo storico K. Polanyi, il filosofo G. Lukács (che scriverà un pamphlet politico in sua difesa), il sociologo dell'arte A. Hauser e lo studioso del Rinascimento F. Antal, mostrando di concepire l'amicizia come Sternenfreundschaft, amicizia mistica quasi eletta a patria spirituale. Il primo testo teorico sul cinema di B., Der sichtbare Mensch, oder die Kultur des Films, venne pubblicato a Vienna nel 1924, ossia un anno prima di La naissance du cinéma di Léon Moussinac, considerata la base fondante delle teoriche del film. Nel saggio di B. il cinema si rivela una vera, inedita Weltanschauung da analizzare con estrema attenzione, e non solo per l'aspetto artistico, in quanto il teorico ungherese ne intuisce subito la grande importanza sociale come linguaggio e come comunicazione. Egli ripubblicò l'intero capitolo dedicato alla cultura visiva sviluppatasi attraverso il film muto nell'opera più tarda, Der Film: Werden und Wesen einer neue Kunst, rimeditandolo però in una diversa prospettiva segnata dall'affermarsi del sonoro. Per il teorico il cinema si rivela una vera novità antropologica che rivoluziona la società moderna ed è pari per importanza solo all'invenzione della stampa, sulla quale B. ha idee originali. Ritiene infatti che proprio tale invenzione ha reso illeggibile con il tempo il volto degli uomini che hanno finito per trascurare l'altra forma di comunicazione, la lingua, madre della mimica "così dallo spirito visibile si è passati allo spirito leggibile: la cultura visiva si è trasformata in concettuale" (frase ripresa in Der Film, 1948; trad. it. 1987², p. 31). Un impoverimento letto da B. in termini marxiani, come reificazione dell'uomo ormai vuoto, senz'anima, che nel cinema può intravedere una nuova salvezza per saturare la frattura tra anima e corpo, grazie a una macchina che, per paradosso, potrà incrementare le potenzialità dello spirito, in una circolarità virtuosa fra arte e tecnica. Così l'arte cinematografica si conferma una summa di tutte le altre arti dotata di un linguaggio specifico che, come presto teorizzato anche da Vsevolod I. Pudovkin, potrà rendere visibile l'uomo. Verrà infatti sottolineato da Umberto Barbaro pochi anni più tardi, in una nota a Film e fonofilm (1935) di Pudovkin, il fatto che lo scritto di B. costituisce uno dei fondamentali precedenti del regista russo, in particolare per il saggio sul primo piano (Die Grossaufnahme). Come sarà poi anche per il pittore-regista Fernand Léger, il cinema è per B. una macchina misteriosa e grandiosa, che permette di riscoprire, di 'vedere' per la prima volta, il mondo che ci si è assuefatti a 'dare per scontato'. La sua seconda opera, concepita a Berlino nel 1930 e tradotta in Italia nel 1954 per volontà di Barbaro, s'intitola hegelianamente Der Geist der Film. Scritta all'indomani dell'invenzione del sonoro, risulta strutturata in modo da partire progressivamente dal muto per arrivare ad analizzare la nuova realtà te-cnica. Il testo risente della formazione fenomenologica di B., maturata accanto a E. Bloch, che solo più tardi risulterà sostanziata dalla lezione marxista. Allievo di W. Dilthey, B. fu anche legato da rapporti di amicizia al filosofo G. Simmel, da cui riprese il concetto di Erlebnis, l'esperienza vissuta. Anche il cinema per B. è direttamente connesso a questo sostrato, dal momento che il film non è riproduzione passiva, fotografica, 'realistica' della realtà (come sostenuto da Sigfried Kracauer), ma attraverso l'inquadratura svela sotto specie di esperienza vissuta le forme esistenti della realtà. Anzi, grazie al montaggio, riesce a dare "consistenza […] a ciò che è invisibile" (p. 131) e stabilisce addirittura un contatto con l'inconscio dello spettatore. Dalla Germania, dove aveva trascorso alcuni anni, nel 1932, alla vigilia dell'avvento di Hitler, B. si trasferì a Mosca per insegnare al VGIK, pur guardato con sospetto dai quadri del partito, e fece confluire la sua esperienza didattica in un saggio composito e straordinario concluso a Mosca nel 1945 e pubblicato a Budapest nel 1948 e a Vienna l'anno successivo con il titolo Der Film: Werden und Wesen einer neue Kunst (nell'edizione su cui si basò la trad. it., 1952). In quest'opera egli mostra di aver preso le distanze dall'architettura cronologico-progressiva che aveva caratterizzato Der Geist, e il discorso viene rielaborato nel suo complesso, senza scindere tra muto e sonoro, dando una nuova impostazione ai principi teorici espressi in precedenza e riconsiderando tutti gli argomenti coinvolti dal sopraggiungere della nuova tecnica. Ne derivò un saggio-collage geniale, ripensato in maniera originale e con onestà filologica ricomposto collazionando i saggi precedenti, e concepito polifonicamente come una partitura musicale, con Leitmotive, modulazioni tematiche e variazioni poetiche, a partire, retrospettivamente, dalla 'sommità del fono-film'. Ovvero dalla novità esplosiva dello sviluppo del cinema sonoro, che aveva gettato tanti teorici (come Rudolf Arnheim) e registi (Charlie Chaplin, Erich von Stroheim) in un panico paralizzante in quanto per molti il cinema come arte non poteva che essere muto. B. è più sottile, concepisce anche il cinema sonoro come un utile esperimento per ripensare le altre arti. "Se mi avessero dato ascolto, i cultori dell'estetica e di storia dell'arte, e gli psicologi, avrebbero potuto seguire da vicino il faticoso evolversi iniziale di un'arte nuova: il cinema è ‒ tutti lo sanno ‒l'unica arte di cui si conosca la data di nascita" (trad. it. 19872, p. 10) Un'occasione mancata, per B., quella degli 'accademici' che non hanno saputo approfittare di questo miracolo di poter "seguire ora per ora lo sviluppo del neonato" (p. 11). In questa sua opera, egli vuole proprio stabilire in progress le regole e la sintassi nuova di questa unica arte nata dal capitalismo che nel suo spirito però contraddice. Perché il rapporto tra parola a stampa (alienata) e immagine incarnata, che rende visibilità al corpo, è quello stesso, marxista, tra valore di scambio e valore d'uso. Ma quali sono gli specifici elementi che connotano autonomamente il linguaggio del cinema, secondo anche i dettami della storia dell'arte del periodo, di impianto purovisibilista (C. Fiedler e K. Hildenbrandt) che certo egli conosceva, impianto basato sulla convinzione che a determinare le leggi e le regole sintattiche di ogni arte siano i materiali specifici di queste discipline? Il cinema deve esprimere quello che né la pittura né il teatro possono o sanno fare. B., d'altra parte, non fu solo un teorico ma, studioso di drammaturgia, si fece anche coinvolgere dal concreto lavoro cinematografico. Negli anni Venti aveva infatti scritto le sceneggiature di Madame wünscht keine Kinder di Alexander Korda, Eins + Eins = Drei diretto da Felix Basch, Die Abenteuer eines Zehnmarkscheins di Bertolt Viertel, tutti del 1926, mentre nel 1929 aveva collaborato con il regista Alfred Abel alla sceneggiatura di Narkose (1929), e con Georg Wilhelm Pabst nel 1931 all'adattamento di Die Dreigroschenoper (L'opera da tre soldi), da B. Brecht; l'anno seguente aveva progettato e realizzato con Leni Riefenstahl Das blaue Licht (La bella maledetta) e, tornato infine in Ungheria nel 1945, per Géza Radványi si occupò nel 1947 della sceneggiatura e dei dialoghi di Valahol Európában (È accaduto in Europa), film che risente profondamente della sua estetica del cinema. In Der Film B. spiega di aver realizzato in Narkose una sequenza emblematica, che solo nel cinema poteva trovare una compiutezza estetica: uno smemorato di guerra ritrova la propria memoria perché posto a confronto con una sequenza che ripropone una situazione del passato e che viene percepita anche dal pubblico come un effetto realizzato di déjà vu. A differenza del teatro la vera sostanza poetica, 'la materia primigenia' del film, è il 'gesto visibile', che si ottiene con il solo 'materiale incontaminato della pura visualità' (e qui emerge il suo rapporto con la corrente purovisibilista). Il vero 'testo' del film consiste nella sua 'tessitura', che si produce sotto gli occhi collaborativi del pubblico, nel 'respiro della narrazione'. Respiro determinato dall'artificio d'attrazione e dalla durata (bergsoniana) del montaggio, che crea un ritmo molto simile al metro poetico.
I due elementi cardine dell'estetica, della 'tessitura' cinematografica sono dunque il montaggio e il primo piano (anche se, a differenza del 'cerebrale' Sergej M. Ejzenštejn, B. insiste molto sull'importanza dei piani, delle angolazioni di ripresa e sulla mobilità dell'inquadratura). In realtà, B. non parla mai esplicitamente di montaggio, ma usa una metafora più fiorita, quella di Bilderführung, di guida delle immagini (oppure di "forbici poetiche"). Un regista autentico deve essere infatti un convogliatore di sensazioni, magari fatte affiorare dall'inconscio dello spettatore (sempre in quest'atmosfera animistica e di vibrazione esoterica, non lontana da certe soluzioni del manifesto di G. Balla e F. Depero, Ricostruzione futurista dell'universo). "Il montaggio come associazione visiva conferisce alle singole immagini il significato definitivo" (p. 117): ma le inquadrature non si devono coniugare secondo un modulo discorsivo-letterario, anche perché ognuna di esse ha a disposizione soltanto il presente (pure quando ricorda) ed è carica di un significato nascosto che viene fatto emergere dalla successione delle inquadrature stesse. E a questo punto interviene il primo piano, ovvero 'la poesia del film', che, a differenza del teatro, crea una vicinanza privilegiata alla microfisionomia e suggerisce un massimo di intensità drammatica con minimi mezzi. B. rivendica l'esistenza autonoma del primo piano come microcosmo significante, universo intero affrancato da spazio e materia, come sembra esemplificare La passion de Jeanne d'Arc (1927) di Carl Theodor Dreyer. Eppure, libero e imprevedibile come può manifestarsi sullo schermo, se disgiunto dal tessuto del racconto, il primo piano non deve mai essere fine a sé stesso, fuori dalle logiche del dramma. In questo senso B. si dichiara polemico nei confronti del cinema impressionistico francese o di quelli che considera degli artifici estetizzanti da evitare. Né sposa la poetica sghemba dell'espressionistico Das Cabinet des Dr. Caligari (1920) di Robert Wiene, in cui "non è l'inquadratura che capovolge e deforma gli oggetti" (p. 103), mostrando lo stato d'animo di un personaggio, ma è la scenografia dominante del film a essere distorta. Il primo piano è dunque una sorta di atomo-microcosmo che deve rispecchiare l'intero film. Ma esiste anche un 'primo piano sonoro', che rischia di sconvolgere l'intera storia del muto. E B. ripensa l'intera estetica del film proprio a partire dal sonoro, in quanto "il suono non sarà solo un compimento dell'immagine, ma diverrà anche oggetto, causa e fase dinamica dell'azione", ossia "elemento drammatico del film" (p. 212). Non limitandosi a una registrazione opportunistica, teatrale, della realtà, che doppi banalmente l'immagine, ma proponendosi quale elemento creativo, innovativo: una "grande arte nuova" (p. 210). E questo si può ottenere con l'asincrono, dissociazione tra suono e immagine, con il suono che può anticipare drammaturgicamente una sensazione o prolungarsi in una nuova sequenza. Anche in questo caso una vera 'microfisionomia' atomizzata, microscopica, del suono. "Tocca al film sonoro scoprire l'ambiente acustico, il "paesaggio sonoro" in cui viviamo: la parola delle cose e il recondito linguaggio della natura […] tutto ciò che […] parla a noi al di fuori del linguaggio umano, e influisce e guida ininterrottamente i pensieri e i sentimenti dell'uomo" (p. 210). Perché in fondo questo sta sempre a cuore a B.: l'antropomorfismo dell'arte.
U. Barbaro, Ricordo di Béla Balázs, in "Filmcritica", 1951, 8.
G. Aristarco, Storia delle teoriche del film, Torino 1963, nuova ed. riveduta e ampliata, pp. 136-46 e passim.
M. Vallora, Guardare lo sguardo. In viaggio dentro l'immagine, introduzione a B. Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un'arte nuova, Torino 19872, pp. XV-LI.
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A. Boschi, Teorie del cinema. Il periodo classico: 1915-1945, Bologna 1998, pp. 229-32.