Bernardino da Siena
Sin dalla metà del 20° sec. Bernardino da Siena è stato indicato come il più importante ‘economista’ medievale (de Roover 1967): questa anacronistica definizione tendeva a rappresentare Bernardino mediante una categoria interpretativa desunta dall’universo concettuale scaturito, fra 19° e 20° sec., dalla prima rivoluzione industriale, secondo una sintassi intellettuale del tutto estranea al mondo e alle logiche caratteristiche dell’Italia quattrocentesca. Un’analisi realistica dei discorsi di Bernardino in materia economica non potrà prescindere sia da un’analisi della tradizione concettuale precedente, rifluita negli scritti bernardiniani, sia da una considerazione del contesto economico dell’epoca.
Bernardino degli Albizzeschi nacque nel 1380, da una famiglia socialmente rilevante, a Massa Marittima, notevole centro produttivo soggetto alla dominazione senese, e morì nel 1444 a L’Aquila, nel pieno della sua attività di predicatore e di uomo politicamente attivo; venne santificato nel 1450, in seguito a un importante processo di canonizzazione, di cui ci rimangono gli atti (Il processo di canonizzazione di Bernardino da Siena, 2009). Egli fu nello stesso tempo uno dei più importanti predicatori del 15° sec., il massimo rappresentante dell’osservanza francescana (ala riformatrice in senso rigorista dell’ordine dei minori, affermatasi a partire dalla fine del Trecento) e un raffinato intellettuale, capace nei suoi scritti e per mezzo della sua azione di interpretare criticamente il clima politico della sua epoca.
Bisognerà innanzi tutto ricordare che, come molti altri esponenti dell’osservanza francescana, Bernardino proveniva da una famiglia di ceto medio-alto e aveva avuto una formazione accademica di tipo notarile e giuridico. L’abitudine degli appartenenti agli ambienti del diritto di entrare nell’ordine francescano, già ben attestata nel Duecento, fra Tre e Quattrocento era certamente una caratteristica ormai saliente, ma diventerà un tratto identificativo forte dell’osservanza nel pieno Quattrocento, come ben mostrano i casi del bolognese Francesco di Piazza, del piemontese Angelo da Chivasso, dell’abruzzese Giovanni da Capistrano e di numerosi altri rappresentanti della cosiddetta scuola bernardiniana. Si dovrà poi notare che della formazione intellettuale di Bernardino a Siena fece parte, nel momento stesso del suo ingresso nell’ordine e del suo apprendimento giuridico, e poco prima dell’inizio, nel 1405, della sua attività di predicatore, una presenza come consigliere dell’Opera dei Battuti (1400-1402), nell’ambito di un’amministrazione economicamente fondamentale per la città di Siena come era quella dell’ospedale di Santa Maria della Scala (Piccinni, Vigni 1989).
Il grande bagaglio culturale più volte riconosciuto a Bernardino dalla storiografia, sia nel suo aspetto giuridico sia in quello teologico, dovrà dunque essere inteso come arricchito da esperienze amministrative di cui si dovrà almeno ipotizzare l’importanza alla luce sia dei successivi sviluppi della dottrina bernardiniana in campo economico, sia della capacità da lui manifestata per circa quarant’anni di comunicarla, diffonderla e tradurla in proposte operative, ossia politicamente specifiche. Se si riflette sul fatto che i superiori nell’ordine ne autorizzarono la predicazione già dal 1405, per poi riconoscerlo quale vicario toscano dell’Osservanza nel 1415, si avrà subito l’impressione di una preparazione rapidamente riconosciuta e immediatamente intesa come funzionale alla crescita istituzionale del gruppo degli osservanti.
Come rivela la ‘biblioteca’ di Bernardino, ossia una raccolta di codici manoscritti da lui verosimilmente posseduti e conservata nella Biblioteca comunale di Siena, e ancor meglio i riscontri bibliografici compiuti sulla sua maggiore opera economica, il cosiddetto De contractibus et usuris, dai Frati editori di Quaracchi del Collegio di San Bonaventura (Quadragesimale de Evangelio aeterno, ed. 1956; Pacetti 1937, 1965), la cultura economica di Bernardino riassumeva in modo ampio e specifico, sulla base di una lettura per lo più diretta dei testi, la maggior parte delle elaborazioni scolastiche dei due secoli precedenti in materia di scambi, moneta e finanza. La produzione economica di ambiente francescano vi prevaleva, senza che, però, questa predominanza oscurasse i risultati della riflessione economica di ambiente tomista o agostiniano.
Accanto alla produzione di testi ‘moderni’ sull’economia, tuttavia, Bernardino faceva uso costante di quanto la testualità patristica e teologica aveva prodotto nel passato, con un’attenzione particolarmente mirata ai risultati raggiunti fra 12° e 14° sec. dal diritto canonico e civile. I continui richiami, nel suo ‘trattato’ sui contratti, alle elaborazioni giuridiche del Decretum Gratiani e delle decretali di papa Gregorio IX, alle soluzioni di Enrico da Susa e di altri importanti canonisti e civilisti, fra i quali bisognerà ricordare almeno Giovanni d’Andrea e Lorenzo de’ Ridolfi, permettono di comprendere il suo costante dialogo con le discussioni dei giuristi dei tre secoli precedenti, soprattutto per ciò che riguarda la contrattualistica creditizia.
La presenza di questi rinvii alla cultura economica e morale della tradizione di cui Bernardino faceva parte è, del resto, ben visibile anche nelle prediche in volgare che le trascrizioni dell’epoca ci hanno trasmesso per gli anni 1424, 1425 e 1427 (Le prediche volgari, edd. 1934, 1940, 1958, 1989). Questa densità culturale non dovrà essere trascurata nemmeno nel caso della fittissima predicazione bernardiniana di argomento economico: la magnificenza retorica e la capacità narrativa di Bernardino erano in effetti in grado di raggiungere, per la via della predicazione in volgare, sia le piazze a cui egli si venne rivolgendo per quarant’anni, sia i governi delle città nelle quali i suoi cicli di predicazione si svolgevano, proprio perché si articolavano ed erano costruiti a partire da un materiale dottrinale, quello antiusurario innanzi tutto, pienamente padroneggiato e lungamente sedimentato in ambiente canonistico e civilistico.
Da questo punto di vista è importante comprendere la corrispondenza esistente fra i discorsi economici bernardiniani formulati in latino nell’ambito dei sermoni che compongono la sequenza quaresimale dedicata ai contratti e alle usure, e i discorsi economici che Bernardino pronunciava in forma di prediche in volgare sulle piazze, stando alle trascrizioni che possediamo; in luogo di opporre queste due forme del pensiero economico o di subordinarle variabilmente l’una all’altra, come spesso si è fatto, appare più fondato anche dal punto di vista cronologico, intendere queste due tipologie di fonte scritta come sistematicamente interdipendenti, e ricavare dal doppio registro comunicativo a nostra disposizione una migliore comprensione dell’elaborata riflessione bernardiniana in materia economica.
L’opera di Bernardino da Siena principalmente riconosciuta come ‘economica’ sin dalla metà del Quattrocento è l’insieme di sermoni latini (XXXII-XLV) contenuto nella raccolta quaresimale De Evangelio aeterno. Questo insieme, cioè, in origine era parte integrante di un complesso più vasto, dedicato all’analisi teologico-morale dei comportamenti dei cristiani sia in quanto membri della comunità ecclesiale sia in quanto cittadini delle città-Stato e delle repubbliche italiane del primo Quattrocento. Una prima edizione di questa serie di sermoni, estrapolata dal quaresimale di cui faceva parte, appare già nel 1474, appena trent’anni dopo la morte dell’autore. La sequenza, tuttavia, sarà intesa come un tutto a sé stante sino al 18° sec. avanzato, tanto da essere più volte ristampata in forma di trattato autonomo (Istruzioni morali [...] intorno al traffico, ed all’usura [...], 1774).
Il testo, dunque, non ha finalità ‘trattatistiche’ in senso moderno, ma verrà letto in questa prospettiva, soprattutto a partire dal Cinquecento, per la precisione anche tecnica dei problemi impostati e delle soluzioni, così come per l’ordine logico con il quale essi vengono presentati. Per meglio comprendere la struttura, anche formale, del De contractibus et usuris bernardiniano, bisognerà tenere a mente che l’approccio scolastico e accademico dei due secoli precedenti aveva tradizionalmente collocato il ragionamento economico nella sezione teologico-morale dedicata all’analisi dei comportamenti connessi all’avere, al distribuire e al tenere da parte. Appunto per queste ragioni, la sequenza di sermoni poi intitolata De contractibus et usuris appare in origine, nell’ambito del quaresimale De Evangelio aeterno, come un’amplissima specificazione della riflessione teologico-morale in materia di uso, possesso e proprietà dei beni economici, intesi come oggetto di comportamenti eventualmente deformabili nell’ambito di pratiche illegali e immorali, riassumibili per mezzo della parola avaritia.
Non è un caso che il primo dei sermoni in questione, il XXXII (De origine dominiorum et rerum translatione), sia dedicato all’origine della proprietà privata e agli scambi che a essa sono connessi; il secondo, il XXXIII (De mercatoribus et artificibus in generali et de conditionibus licitis et illicitis eorundem, stando all’edizione del 1474; De mercationibus et vitiis mercatorum, stando all’edizione critica del 1956), passi per conseguenza logica a esaminare le forme dei contratti di compravendita; il terzo, il XXXIV (De temporis venditione et quando hoc liceat), specifichi la questione affrontando il tema delle vendite a termine o a credito e così via. L’andamento del discorso è, cioè, nettamente orientato ad analizzare le pratiche di mercato nella prospettiva pedagogica e magistrale propria della tradizione degli scolastici, secondo un procedimento di tipo deduttivo che, in questo caso, giunge alla definizione e alla valutazione dei contratti nell’ambito di una loro decifrazione come sezioni tecniche di più vasti campi d’azione.
Si viene così determinando una gerarchia precisa degli argomenti e delle derivazioni, sì che, per es., il problema cruciale della commercializzazione dei titoli del credito pubblico verrà a trovarsi nel sermone dedicato ad approfondire il significato dei contratti di compravendita.
La recensione accurata delle citazioni di testi economici della tradizione presenti (esplicitamente e implicitamente) nel De contractibus di Bernardino, fatta dai Frati editori di Quaracchi (De Sancti Bernardini Senensis operibus, 1947), offre un risultato non trascurabile: vi si trovano ottanta rinvii testuali e letterali al De contractibus composto a Montpellier dal minorita Pietro di Giovanni Olivi verosimilmente intorno al 1294; trentanove citazioni dal commento alle Sentenze letto a Oxford dal francescano Giovanni Duns Scoto verso il 1300; trentasette rimandi alle definizioni economico-giuridiche che Enrico da Susa aveva inserito verso il 1260 nei suoi commenti alle Decretali; ventisette citazioni dal Tractatus de usuris del francescano Alessandro di Alessandria, scritto a Genova nei primi anni del Trecento; e un centinaio di rimandi, in genere letterali, a un fitto gruppo di autori e testi, fra i quali l’agostiniano trecentesco Gerardo da Siena, il fondamentale canonista Raimondo di Peñafort, la francescana Summa Astesana composta nei primi anni del Trecento in area ligure-piemontese, le questioni di argomento economico del francescano inglese Riccardo di Mediavilla (Richard of Menneville, o of Middleton), i domenicani Tommaso d’Aquino ed Egidio di Lessines.
Un ulteriore gruppo di citazioni e rinvii alla letteratura civilistica e canonistica trecentesca, da Baldo degli Ubaldi a Lorenzo de’ Ridolfi, permette di vedere sino a che punto il trattato economico di Bernardino sia impregnato di quanto la scienza giuridica e interpretativa aveva prodotto in materia contrattuale sino a pochi anni prima della sua stesura. Per comprendere a fondo il senso del De contractibus di Bernardino, è dunque fondamentale intenderne la natura di testo contenitore, di testo-ponte, in grado di trasmettere al futuro pensiero economico, e finanche alla scienza economica moderna, un intero archivio testuale, riassuntivo nel suo insieme di molta parte della cultura economica medievale, ma soprattutto, ovviamente, della cultura e delle soluzioni economiche elaborate in seno alla scuola francescana: una scuola caratterizzata sin dal 1240, ossia dai primi commenti alla regola di Francesco, da un’attenzione tesissima al rapporto fra uso, proprietà e gestione dei beni economici, ovvero da un interesse specificamente giuridico per il significato degli elementi economici preliminari a ogni relazione contrattuale.
Da un lato, dunque, il De contractibus bernardiniano inserisce la riflessione economica nel quadro di un’analisi teologico-morale, ossia penitenziale, dei comportamenti economici, giungendo quindi a esaminare le tipologie contrattuali (compravendita, locazione, mutuo, soccida e così via) come specificazioni tecniche di relazioni sociali determinate dal fatto di voler avere, possedere, scambiare, guadagnare; ma d’altro canto questa riflessione economica procede servendosi sistematicamente dei discorsi, delle frasi e delle parole elaborati dalla tradizione composita a cui Bernardino fa riferimento. Il testo si propone, dunque, sia come una trattazione sistematica sia come un’enciclopedia economica.
Sin dai primi sermoni che compongono il trattato, dunque, Bernardino argomenta servendosi di quanto il mosaico testuale della tradizione gli offre, salvo specificarlo e per così dire attualizzarlo, quando ciò gli appaia opportuno. È il caso, nel sermone XXXIII (De mercationibus et vitiis mercatorum), del complesso discorso, fondativo, a proposito della professione dei mercatores, ossia di coloro che frequentano da professionisti il mercato per scambiare merci e denaro, per lucrare e arricchirsi grazie alla loro conoscenza del gioco dei valori e delle tecniche contrattuali.
Bernardino desume da Scoto l’argomento principale a sostegno del suo discorso sul valore sociale dei ‘mercanti’: l’utilità pubblica. Inserisce poi il tema, sempre ricavabile da Scoto, ma anche da Olivi, da Tommaso e da altri, della perniciosità di quei mercanti che, indifferenti all’utile collettivo, accaparrano, monopolizzano e dunque bloccano la circolazione di merci e denaro, ritenuta, da Bernardino, come da Olivi, Scoto e Alessandro di Alessandria, l’essenza stessa di un’economia produttiva ed etica.
A questo punto, però, il nostro autore, uscendo per un momento dalla selva di citazioni che letteralmente compongono il suo discorso, si sofferma su quelli che in realtà, più che mercanti, gli appaiono la negazione di questa categoria professionale: coloro, cioè, che
giustamente odiosi a Dio e agli uomini, non trasferiscono le merci da un luogo all’altro, non le conservano nei magazzini, né le trasformano con il loro lavoro e con abilità professionale (sermone XXXIII, II 6, in Quadragesimale, cit., p. 150).
Questa sottospecie di negozianti, denominati in ‘volgare’ da Scoto regratiers, sono i protagonisti di sottospecie contrattuali che Bernardino designa con parole anch’esse imparentate con il volgare delle piazze: stramazi, bistracti, retrangole, baroccola, stochos. Parole in ogni caso ironicamente indicative del carattere strozzinesco, e cioè non mercantile, dei contratti praticati dai regratiers, ossia da chi la ragione teologico-giuridica segnalava come commercianti depravati, il cui obiettivo non è lo scambio ma l’accaparramento sottocosto delle merci introdotte nel mercato dall’attività dei veri mercanti, quelli che importano, esportano, trasformano e dunque approvvigionano la piazza cittadina.
Sin da qui, si chiarisce un tratto fondamentale del testo bernardiniano: la tendenza a definire in termini specificamente tecnici la professionalità dei mercatores, sottolineando cioè come caratteristica specifica della loro identità professionale non solo l’integrità morale, ma anche, e forse soprattutto, la competenza economica e contrattuale. In questa luce, si comprende meglio perché Bernardino, stabilita la liceità o illiceità, e dunque le tipologie economiche riassunte nel tipo del contratto di vendita a termine, o a credito (sermone XXXIV), dedichi poi ben tre sermoni (XXXV-XXXVII) alla nozione di prezzo e valore delle merci, e alle pratiche che concretizzano i diversi modi di definire prezzi e valori. In questo quadro, l’attenzione dedicata all’usura e alle sue manifestazioni molteplici (sermoni XXXVI-XXXVII-XXXVIII) appare con chiarezza una pista tematica quanto mai funzionale alla ricostruzione delle logiche contrattuali che producono o meno un prezzo delle cose e del denaro socialmente corretto, e cioè funzionale nella prospettiva di quanto Bernardino definisce utilitas generalis. La competenza mercantile, in effetti, viene riscontrata in rapporto a un’avvenuta (o non avvenuta) alfabetizzazione economica, i cui rudimenti sono costituiti innanzi tutto dalla comprensione dei differenti tracciati contrattuali che conducono alla formazione dei prezzi.
È su questo sfondo che avviene, in primo luogo, la ricapitolazione bernardiniana di alcuni cruciali passaggi del trattato sui contratti del francescano rigorista Pietro di Giovanni Olivi, riletto insieme con quello, che pure ne dipendeva, di Guiral Ot, ministro generale dell’ordine dei minori dal 1329 (Ceccarelli, Piron 2009). Il fatto che l’opera dell’Olivi, condannato come eretico dopo la morte, fosse stata messa al bando non impedisce a Bernardino di fare larghissimo uso del De contractibus oliviano (Un trattato di economia politica francescana, 1980; Todeschini 2004), come ben dimostra il manoscritto contenente l’opera oliviana, annoverato fra i volumi che componevano la biblioteca personale di Bernardino, ora conservato nella Biblioteca comunale di Siena e da lui minuziosamente annotato.
Da quest’opera, che costituisce, a un tempo, uno dei più importanti e precoci contributi francescani alla crescita dell’analisi economica prodotta nell’Occidente cristiano e la prova più evidente del rapporto che, dal Duecento, venne collegando in chiave volontarista la definizione giuridica della povertà volontaria a quella della ricchezza organizzata in termini di mercato, Bernardino ricava innanzi tutto una definizione dei criteri di definizione del valore delle merci ma anche del lavoro che il mercator esperto deve fare propri. Nelle chiose al manoscritto contenente il De contractibus dell’Olivi, Bernardino aveva sintetizzato questi criteri, enunciati estesamente dall’Olivi nella prima parte del suo trattato, quella dedicata alle compravendite, per mezzo di tre parole fortemente evocative: utilitas, raritas, complacibilitas. Il valore commerciale di un bene economico dipende, aveva affermato Olivi e ripete Bernardino su un registro più nettamente didattico, dall’utilità convenzionalmente riconosciuta alle sue proprietà intrinseche, dalla sua abbondanza o al contrario scarsità, e infine dal gradimento specifico e soggettivo che quanti partecipano al mercato manifestano nei confronti di esso.
Questi tre fattori costitutivi del prezzo riconoscibile come giusto di un oggetto, e soprattutto l’ultimo, quello più direttamente inerente a una definizione del valore commerciale come valore dipendente dal gusto soggettivo e relativo di chi determina la domanda nell’ambito del rapporto domanda-offerta, permettono a Bernardino, ancora sulla scorta di Olivi, di leggere il sistema di relazioni che formano un mercato nei termini dell’accordo fra persone di cui si presuppone la competenza. L’appartenenza al mercato, e cioè la conoscenza delle sue regole, di cui i tre criteri suddetti formano il cardine, stabilisce a sua volta quello che ormai, nel Quattrocento cittadino e mediceo in cui Bernardino vive e opera, s’intende per giustizia economica. L’impossibilità di fissare il valore, ossia il prezzo, di un bene economico secondo una misura incontrovertibile (punctualiter), e invece la necessità di stabilirlo in termini probabilistici (secundum latitudinem), fanno tutt’uno per Bernardino, che in questo attualizza e sviluppa la riflessione economica oliviana, con la possibilità di circolazione della ricchezza, monetata o no che sia: ossia con una dialettica economica sempre rinnovata, fondata sulla consensualità contrattuale, in grado di determinare con i suoi stessi movimenti la diffusione nel corpo civico, che coincide con il mercato, dei beni economici, merci e denaro, raffigurati metaforicamente da Bernardino con l’espressione «calore naturale» (sermone XLIII, III 3).
Il denaro e le merci che esso acquista, in altre parole, sono rappresentati da Bernardino, anche in questo ancora una volta fortemente influenzato da Olivi, come un insieme il cui significato economico dipende da un accordo fiduciario fra coloro che compongono la società dello scambio: la buona salute di questo organismo è dovuta sia all’assenza nel mercato di soggetti inesperti o malintenzionati, sia a una continua fluttuazione dei valori, adeguata in quanto tale a rispecchiare il gioco delle contrattazioni, e cioè non soltanto delle effettive variazioni di valore ma anche degli umori e delle volontà di chi, da competente, costituisce la «comunità di coloro che contrattano» (communitas contrahentium).
Che l’ottica economica di Bernardino, coerentemente con le sue premesse oliviane e scotiste, sia fortemente orientata a rappresentare i mercati come teatri identificabili con gli spazi civici se, e soltanto se, chi ne è protagonista ha i requisiti di una compiuta alfabetizzazione economica appare già chiaro se si osserva la distinzione operata da Bernardino fra il tempo ‘comune a tutti’ e il tempo inteso come «un arco temporale attribuibile a una data cosa» (sermone XXXIV, I 1). La cultura del mercator è verificata dalla comprensione di questa differenza, una comprensione che è in se stessa uguale a una consapevolezza del fatto che la proibizione dei contratti speculativi, rappresentati formalmente come mutui fruttiferi, poggia non su una definizione astratta della sterilità del denaro, ma piuttosto sulla possibilità di stabilire una differenza tra i contratti che prevedono un’alienazione o una cessione del tempo inerente alla cosa posseduta e legittimamente commerciata e i contratti nell’ambito dei quali il tempo venduto non appartiene al venditore.
Questa differenza, per Bernardino come per Scoto e Alessandro di Alessandria, deriva sostanzialmente dal senso economico, ma anche politico, dello scambio. È fertile e produttivo, dunque in grado di generare legittimi interessi, il denaro (il capitale, aveva scritto l’Olivi) di chi lo presta sottraendolo a investimenti commerciali abituali e presumibilmente fruttuosi, un’abitudine, questa, confermata dalla pubblica fama, che fa di questo tipo di denaro un segno in grado di quantificare valori del tutto ipotetici e di definire il tempo dei contratti come appartenente a chi lo possiede, lo spende o lo presta. È invece sterile e improduttivo il denaro di chi, senza abitualmente investirlo in commerci o in attività potenzialmente produttive, lo vende senza dunque possederne in realtà il valore implicito, eventuale, ipotetico, senza quindi possedere a buon diritto il tempo inerente a questa potenzialità.
Come Bernardino afferma con chiarezza nel sermone XXXIV (I 3), trascrivendo un celebre passaggio dell’Olivi:
Ciò che stando alla ferma intenzione del suo proprietario è destinato ad essere investito in vista di un profitto probabile, non ha il semplice valore aritmetico esplicitamente attribuibile alla somma di denaro o all’oggetto, ma ha oltre a questo un certo valore implicito calcolabile in rapporto al profitto potenziale, un valore che comunemente viene chiamato capitale.
A suffragare il testo oliviano, non esplicitamente attribuito, Bernardino richiamava l’autorità della decretale Naviganti (1234) di papa Gregorio IX, oltre a quella di Scoto e Alessandro di Alessandria. Non si dovrà dimenticare che questa formulazione, che qui si cita dall’incunabolo che fra i primi propose, verso il 1470, una versione a stampa del ‘trattato’ bernardiniano [De contractibus et usuris, Henricus Ariminensis (Georg Reyser?), prima del 1474], diffondeva potentemente la nozione di riproducibilità implicita del denaro di chi era abituato e ben determinato a farlo fruttare in un circuito d’affari, all’interno di un contesto sociale ed economico che, come quello quattrocentesco, era ormai pienamente caratterizzato dal protagonismo di mercanti-banchieri appartenenti di fatto e di diritto alla ‘repubblica internazionale’ della finanza.
Benché la storiografia abbia di frequente inteso questo e altri simili passaggi bernardiniani come automatiche ripetizioni di un astratto principio di legalizzazione dell’interesse derivante da un generico e altrettanto astratto venir meno di possibili guadagni commerciali (lucrum cessans), appare invece chiaro che quanto qui si sta affermando e introducendo nel dibattito economico europeo, a partire da un assunto oliviano, è, molto più concretamente, che il denaro di chi agisce sul mercato da professionista ha in se stesso un valore calcolabile esclusivamente in termini probabilistici.
L’accumulo ‘enciclopedico’ di definizioni contrattuali e di pareri giuridici finalizzati a rintracciare soluzioni possibili ai conflitti che si creavano fra le esigenze del profitto individuale e quelle del ‘bene comune’, ovvero istituzionale, delle città e degli Stati, produce nel testo bernardiniano, in primo luogo, una raffigurazione della professione mercantile e dei suoi strumenti, il denaro monetato o virtuale fatto di lettere di cambio o titoli di credito, in grado di definirne la specificità e l’esclusività. Il mercante veramente tale, e cioè capace di distinguere fra la propria voglia di ricchezza e il benessere della comunità alla quale appartiene, dovrà essere in possesso di un bagaglio di conoscenze, tecniche innanzi tutto, strettamente in contatto, nel discorso di Bernardino, con il sistema di definizioni sottilmente giuridiche dei contratti elaborato dal diritto canonico e civile nei due secoli precedenti. Gli strumenti monetari che conducono al profitto dovranno poi essere vissuti dal mercator come segni del valore presente o futuro delle cose, come un’astrazione comparabile al «calore naturale» che anima il corpo della città (sermone XLIII, III 3), e non come oggetti naturalisticamente accumulabili.
Questa didattica economica definisce con una certa chiarezza, soprattutto negli ultimi cinque sermoni che compongono il trattato, l’economia della città e dello Stato come un’economia di cui sono responsabili i mercanti provetti (probati, e cioè di competenza accertata), a loro volta uniti fra loro in una rete fiduciaria in grado di garantire l’equilibrio dei prezzi e, in sostanza, l’esistenza stessa di un mercato inteso come base della socialità. Non a caso, infatti, sin dal sermone XXXIII Bernardino aveva stabilito che il sistema delle relazioni economiche su una piazza di mercato si regge su una dialettica fiduciaria, tenuta in equilibrio dai mercatores in quanto arbitri riconosciuti del gioco dei prezzi, e spezzata la quale, a opera di un mercante disonesto e cioè incompetente, viene a dissolversi, con la fiducia nella buona fede del ceto mercantile, un intero contesto di accordi grandi e piccoli.
Moltissimi compratori in buona fede hanno una tale fiducia nel venditore, da delegare al suo parere e alla sua valutazione i prezzi delle merci e il controllo di pesi e misure visto che gode di una buona reputazione. Eppure a volte costui non si vergogna di ingannarli perfidamente. Si può pertanto affermare ragionevolmente che, se un venditore gode, fra la gente, di tale stima e di tale buon nome o sia di ceto tanto elevato, che si è soliti credere alla sua parola di più o comunque non di meno che al giuramento di altri, allora è certo che peccherà mortalmente falsificando il prezzo delle merci, o dicendo bugiardamente: – Mi è costato tanto –, o – avrei potuto avere tanto per questa merce –; poiché in questi casi è come se il compratore si affidasse alla reputazione del venditore e il venditore accettasse questo riconoscimento, e tuttavia vendesse le proprie merci disonestamente contraddicendo alla fiducia data e ricevuta. In casi simili la frode dev’essere risarcita ed ogni disavanzo costituisce un peccato mortale poiché avviene contro un patto fondato sulla fiducia (sermone XXXIII, De mercationibus et vitiis mercatorum, II 9).
Si noterà che l’affidabilità del mercante dipende, per Bernardino come per i suoi contemporanei, dalla sua indiscussa e riconosciuta conoscenza dei rapporti fra pesi, misure e valori, ma anche che la stima e la fama (si venditor sit tante estimationis et fame in populo) di cui gode possono scaturire, oltre che da una sua celebrità professionale, anche da una sua appartenenza cetuale (tam perfecti status). Il ruolo di arbitro del mercato riconosciuto da Bernardino, in accordo con la scuola francescana, al mercator attivo e abile (industrius) nella pesatura dei valori, dei prezzi e dell’utilità di merci e denaro (in rerum valoribus et pretiis, expensis, periculis et commoditatibus subtiliter extimandis), rinvia dunque tanto a una fiducia riposta in lui dalla comunità dei partecipanti al mercato intesa come collettività civica, quanto a un’appartenenza sociale che, in linea di principio, ne fa un membro dell’élite cittadina o statale. Questa partecipazione del mercante propriamente tale, se non al governo, alla dimensione governativa si chiarisce ulteriormente nei sermoni dedicati da Bernardino al prestito pubblico (sermone XLI, De imprestitis Venetorum), come pure nella riflessione riguardante il pagamento lecito o proibito di interessi in differenti situazioni contrattuali (sermoni XLII-XLV).
Benché questi due momenti della trattazione bernardiniana siano stati spesso artificiosamente considerati indipendentemente l’uno dall’altro, è invece necessario esaminarli come aspetti complementari del medesimo discorso, riguardante il rapporto fra natura, ovvero utilità pubblica, del credito e legittimità del profitto degli uomini d’affari che investono il loro denaro in operazioni finanziarie a sfondo creditizio. Il fatto stesso, da un lato, che la tradizione testuale precedente a Bernardino affrontasse già tali questioni, almeno a partire dalla metà del Trecento, come articolazioni dello stesso argomento, e, dall’altro, che appunto Bernardino le proponga nell’ambito di una sequenza testuale ininterrotta, conferma la necessità di intendere i due punti come momenti dello stesso sviluppo. Non a caso, la trattatistica europea successiva a Bernardino e che al suo testo farà riferimento, a cominciare da quella di Konrad Summenhart (1450-1502), considererà la tematica concernente il credito gestito fra privati come uno snodo cruciale della tematica riguardante il prestito pubblico, e cioè le politiche fiscali delle città e degli Stati.
Bernardino, dunque, affronta il problema del credito pubblico, dibattuto in Italia almeno a partire dalla metà del Trecento, impostando la questione nei termini, casistici e confessionali, di un’analisi delle motivazioni che inducono i ‘privati’ a dare/prestare denaro allo Stato. Stabilendo immediatamente una secca differenza fra chi dà questo denaro coacte, e cioè contro la propria volontà, e chi invece lo dà spontaneamente o volontariamente. Nella prospettiva di un’armonizzazione di quanto avevano stabilito la tradizione domenicana e quella francescana in materia, Bernardino indica come prevedibilmente usurario, e cioè dannoso per l’ordine civico, l’atteggiamento di coloro che prestano volontariamente denaro allo Stato per ricavarne interessi, e facendo di questo investimento il punto di partenza di un commercio dei titoli di credito pubblico determinante, in sostanza, uno sperpero delle risorse civiche per mezzo delle quali gli interessi vengono pagati.
Allo stesso tempo, Bernardino contrassegna come ammissibile e pubblicamente utile, e dunque remunerabile con un pagamento di interessi liberamente programmati dalla respublica, il finanziamento dello Stato determinato da un obbligo di tipo fiscale (prestito forzoso) che danneggia gli affari di chi presta allo Stato, oppure da una volontà di contribuire ai bisogni dello Stato in conseguenza di un affetto per la cosa pubblica tipico, osserva Bernardino, dei reipublicae amatores (sermone XLI, II 1). La posizione del trattato bernardiniano, in altre parole, come si evince anche da un confronto fra questo sermone e il successivo, dedicato ai casi nei quali il pagamento di interessi non è da considerarsi usurario (sermone XLII, De interesse et in quibus casibus quare liceat accipere ultra sortem), anche in questo caso non si assesta su un fondamento ‘dottrinale’ indiscutibile e assoluto, ma, procedendo per definizioni successive e avvalendosi costantemente di una logica eccettuativa, perviene a concludere una volta di più la questione riguardante la legalità ovvero la legittimità del debito pubblico, considerandola in una prospettiva etica, politica ed economica, tutta impostata – in ultima analisi – a partire dall’intenzionalità (intentio, animus, affectus) di chi fa affari con lo Stato.
Anche la scottante questione del commercio dei titoli, il dubbio cioè sulla commerciabilità dei titoli di credito pubblico e dunque sulla possibilità di svincolarli legalmente dalla nominalità che li caratterizzava, è significativamente presentata da Bernardino come un problema la cui soluzione può unicamente derivare da una serrata discussione sulla commerciabilità dei diritti di riscossione, secolare e controversa tematica apertasi già sul finire del Duecento a partire dalla pratica corrente del commercio dei censi ovvero delle rendite ecclesiastiche. Il problema, abbondantemente trattato fra Tre e Quattrocento, tra gli altri, da Enrico di Langenstein e Juan di Segovia, e che ancora aveva afflitto i Concili di Basilea e di Costanza fra il 1414 e il 1431 – dunque esattamente negli anni immediatamente precedenti la composizione da parte di Bernardino del Quadragesimale che contiene il trattato sui contratti – sarebbe stato infine regolamentato da due bolle pontificie, la Regimini di Martino V nel 1425, e la Regimini universalis di Callisto III nel 1455 (Vismara 2004).
Bernardino, dunque, nel caso della commerciabilità di rendite che, come quelle derivanti dal prestito allo Stato, dipendono dalla relazione fiduciaria tra cittadini specificamente resi riconoscibili dalla qualità della loro cittadinanza e dunque dalla visibilità delle motivazioni che li hanno determinati a prestare allo Stato, risolve caratteristicamente il problema insistendo sulla non trasferibilità di un diritto di riscossione basato per sua natura su un accordo, la cui legalità deriva dall’accertabilità dell’intenzione del mutuante, ovvero dell’intitolato, a riscuotere gli interessi. Diversamente – nota Bernardino – dal contratto di compravendita dei censi, il pagamento effettuato dalle città a vantaggio di chi presta allo Stato non mette in gioco delle rendite ben definite e dei precisi diritti di riscossione, benché il pagamento degli interessi garantiti dai titoli ricada sulle entrate fiscali. Si tratta insomma di un contratto, fra il cittadino e lo Stato, la cui ragion d’essere economica fa tutt’uno con la ‘buona salute’ della cosa pubblica, condizionata a sua volta dall’accertamento delle motivazioni di chi finanzia lo Stato.
Per la stessa ragione – osserva Bernardino – che impedisce il trasferimento della ‘fama’, ossia della buona reputazione, da una persona all’altra, il diritto di riscuotere interessi fondato sulla relazione fiduciaria tra Stato mutuatario e cittadino mutuante, una relazione che implica il riconoscimento della buona fede del cittadino, ossia della sua identità non speculativa, non può diventare anonimo ed essere ceduto o trasferito.
Se qualcuno ha acquisito un’ottima reputazione in conseguenza delle sue azioni ed ha dunque un diritto [di proprietà] su di essa, non tuttavia per questo potrà trasferire quel diritto ad un’altra persona (sermone XLI, III 3).
Il percorso che va dall’investimento privato al credito pubblico tratteggia, quindi, nel discorso economico bernardiniano, un perimetro possibile del mercato come immagine fedele di una società che, dal punto di vista del pensiero economico di tradizione francescana ricapitolato da Bernardino, nei movimenti della ricchezza legge una cifratura della rete fiduciaria cristiana. La circolazione delle monete, delle promesse di pagamento e delle merci, in questa logica, per rivelarsi produttiva, per poter creare ricchezza ‘viva’ e non ‘morta’ (Quadragesimale de christiana religione, Sermones XLI-LVI, in Opera omnia, studio et cura patrum collegi s. Bonaventurae, 2° vol., 1950, sermone XLVI, III 3), deve obbedire a due regole fondamentali: quella che esclude gli investimenti in beni economici, il cui valore si risolve nell’accrescimento di un benessere meramente individuale (o familiare nel senso ristretto del termine), composto cioè di beni e risorse non reinvestibili nell’ambito del mercato, e quella che definisce l’affidabilità economica dei soggetti che agiscono sul mercato a partire dalla ‘fiducia’ che, prevedibilmente, il mercato, in quanto contesto culturale ed economico, riconosce loro.
Se la prima di queste due regole indica come improduttive, inutilmente tesaurizzatrici e immorali, ovvero usurarie, le scelte economiche fondate su un calcolo del valore ipotetico del denaro investito che prescinde dall’utilità sociale dell’investimento, la seconda designa come inaffidabili, e dunque come delegittimati ad agire sulla scena del mercato cittadino o internazionale, coloro che la comunità dei cristiani intesa come collettività culturalmente specifica non riconosce come cives degni di fede. La comunità attiva sui mercati, a questo punto, appare nettamente suddivisa in gruppi dal diverso significato e dalla diversa competenza. Vi saranno, dunque, cittadini affidabili in grado di investire i propri beni nel circuito della ricchezza che fa capo alla comunità politica e che si riassume nel sistema del credito pubblico: essi saranno capaci di fare tutto questo in conseguenza della loro abilità a distinguere fra utile privato e utile pubblico, fra ricchezza immediatamente fruibile e profitti probabili.
Costoro, ‘veri mercanti’, reipublicae amatores, poiché ben inseriti nella società dei ben reputati per le loro scelte tanto economiche quanto culturali e religiose, per le loro frequentazioni e i loro imparentamenti, potranno essere riconosciuti come persone pregiudizialmente affidabili, così come le loro opzioni economiche risulteranno presumibilmente orientate da un’intenzionalità mirante alla realizzazione del ‘bene comune’. Al contrario, e all’esterno di questo spazio del mercato propriamente tale, staranno tutti coloro che, dai regratiers agli usurarii, dai ricchi cristiani che tesaurizzano la ricchezza agli ebrei che prestano a interesse, appaiono a Bernardino i rappresentanti di una realtà inutile e parassitaria, resa omogenea, al di là delle ovvie differenze che la caratterizzano, da un’incompetenza di quanti la compongono nell’uso e nell’investimento del denaro.
Un’incompetenza che, nel discorso bernardiniano, altro non è che il versante economico di un’aggressività distruttiva, tipica in se stessa, stando alla tradizione teologico-economica sintetizzata da Bernardino, del popolo oscuro degli infedeli e dei falsi cristiani. Di chi, pur agendo sulle piazze dei mercati, non sembra o non vuole comprenderne la natura di spazi della socialità e della fiducia.
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