Segni, Bernardo
Storico, letterato e filologo di orientamento repubblicano moderato, nato a Firenze nel 1504 e ivi morto nel 1558. Appartenente a una nobile e ricca famiglia, era nipote per parte materna di Niccolò Capponi, al quale dedicò una biografia, La vita di Niccolò Capponi, composta verso la fine degli anni Quaranta (e la cui paternità fu negata da Giuseppe Sanesi in La Vita di Niccolò Capponi attribuita a Bernardo Segni, 1896, ma riaffermata dalla bibliografia successiva, in particolare da Angelo Baiocchi in Storici e politici fiorentini del Cinquecento, a cura di A. Baiocchi, S. Albonico, 1994, p. 677). Ricevette una buona educazione letteraria, e nel dicembre del 1526 venne inviato a Padova e a Venezia, dove entrò in contatto con – tra gli altri – Alessandro de’ Pazzi, Donato Giannotti e Filippo Strozzi.
Dopo la seconda cacciata dei Medici del 1527, rimpatriò e frequentò la cerchia del gonfaloniere Capponi, appoggiando la nuova Repubblica senza tuttavia condividere le posizioni più radicali degli ‘arrabbiati’. Il ritorno dei Medici nel 1530 mise la famiglia di S. in serie difficoltà economiche per la restituzione coattiva di beni e terreni confiscati agli esuli. Nel 1531 S. sposò la ricca e nobile Costanza Ridolfi; e la condizione economica della famiglia si stabilizzò definitivamente quando S. entrò al servizio del duca di Firenze, Cosimo I de’ Medici. Venne inviato nel 1541 come ambasciatore presso l’imperatore Ferdinando I d’Asburgo e nel 1547 fu nominato commissario a Cortona. Grazie all’ottima conoscenza delle lingue classiche divenne membro dell’Accademia fiorentina, con il rango di console, censore e consigliere. A testimonianza della buona sensibilità letteraria di S. va ricordato l’allestimento – con altri brillanti filologi fiorentini come Piero Vettori – della celebre raccolta di Sonetti e Canzoni di diversi antichi autori toscani in X libri raccolte, edita dai Giunti nel 1527, che rivalutava la poesia duecentesca (modellata sulla Raccolta aragonese e su altri canzonieri perduti) negli anni dell’incipiente petrarchismo cinquecentesco (la cosiddetta Giuntina di rime antiche è leggibile in riproduzione anastatica, con introduzione e indici di D. De Robertis, 2 voll., 1977). L’attività filologica di S. ruotava attorno a uno specifico interesse per Aristotele, che lo portò a tradurre la Politica, la Retorica, la Poetica, i libri Dell’anima – tutte edizioni apparse presso Lorenzo Torrentino a Firenze nel 1549 – e l’Etica – pubblicata presso lo stesso editore l’anno successivo.
Dal 1553 al 1558 (anno della morte) si dedicò alla composizione delle Storie fiorentine, che rimasero allora inedite e furono pubblicate solo nel 1723. L’opera affronta l’arco cronologico che va dal 1527 al 1555, in linea di continuità con altri storici fiorentini come Iacopo Nardi e Filippo de’ Nerli. Rudolf von Albertini (1955) ne ridimensiona l’originalità storiografica:
Questa storia di Firenze non si basa né sull’esperienza né sull’attività politica dell’autore e si distingue per l’abile impiego delle opere storiche precedenti: in particolare quella del Nerli per la politica interna e quella del Giovio per la politica estera (trad. it. 1970, p. 330).
Ben diverso è il giudizio generalmente accordato alla perspicuità dello stile di S., come rivela la lusinghiera lode di Ugo Foscolo:
Tuttavia mutilata com’è, e benché letta da pochi, la Storia del Segni, dopo quella del Machiavelli e del Guicciardini, merita il primo luogo. È più esatta dell’una e più veritiera dell’altra: e s’ei nello stile cede d’energia e di profondità al Machiavelli, avanza in naturalezza e sobrietà il Guicciardini (Discorso storico sul testo del Decamerone di Messer Giovanni Boccaccio [1825], in Opere edite e postume di Ugo Foscolo, 3° vol., Prose letterarie, 1923, p. 23).
Le Storie di S. rappresentano il punto di massima lontananza dall’orizzonte storiografico e politico di M., non tanto per l’approccio di metodo alle fonti storiche, quanto per la prospettiva generale che ricostruisce il transito dalla repubblica al principato con uno spirito di graduale rassegnazione, sintomo dell’esaurimento storico e ideologico della spinta repubblicana di M. e del conseguente riflusso verso una dimensione prudenziale, accettata con latente fatalismo. S. non riesce a scrivere una storia che valga a spiegare lo sbocco del principato (come fa, per es., Nerli), ma non riesce neppure a delineare un percorso alternativo fondato su un progetto repubblicano, come ancora Giannotti aveva avuto il coraggio di fare. S. si pone nell’ottica di chi ritiene ‘predestinata’ la storia fiorentina e italiana, senza contraddizioni o lacerazioni. Sembra che non vi siano altre ragioni per spiegare il crollo della repubblica e la perdita dell’indipendenza italiana che non quelle ascrivibili alla cattiva «fortuna». La repubblica è la più alta forma di Stato ma Firenze non sa più essere libera: da questo assioma argomentativo discende l’intera operazione delle Istorie fiorentine.
Come osservato da Alessandro Montevecchi a proposito della Vita di Niccolò Capponi (nel suo Biografia e storia nel Rinascimento italiano, 2004, p. 131), la «virtù», per S., appare una semplice qualità innata, totalmente priva di forza rivoluzionaria.
Una dichiarazione rivelatrice dell’orizzonte entro il quale si muove la dialettica «virtù»-«fortuna» nelle Storie di S. è contenuta nel I libro, dove si osserva che le forze della Francia, dell’Inghilterra e dei veneziani, benché superiori a quelle dell’imperatore tedesco, vennero egualmente sconfitte nel 1527:
Senzaché le vittorie e le perdite che succedono in guerra, molto più si debbono attribuire alla fortuna che alla virtù d’un agente o d’un capitano, la qual fortuna, sovente rivolgendosi, non doveva dare speranza di sé perpetua (Storie fiorentine, ed. 1723, p. 16).
Per S. l’esito delle battaglie va attribuito molto più alla «fortuna» che non alla «virtù» militare; la «fortuna», mutando in continuazione, non consente il radicamento di una ‘speranza’ duratura. È interessante notare come lo smottamento verso un fatalismo assoluto e acritico, nei riguardi della guerra, ponga S. in una posizione molto distante non solo rispetto a M., che in Principe xxv teorizza un’equa ripartizione tra campo della «virtù» e campo della «fortuna» e in Arte delle guerra VII – pur nel disincanto – sostiene che «sapere nella guerra conoscere l’occasione e pigliarla, giova più che niuna altra cosa», ma dallo stesso Francesco Guicciardini, che nella Storia d’Italia (II xii) assegna alla «riputazione», più che a una generica «fortuna», le sorti della guerra:
Dependono in grande parte, come ognuno sa, dalla riputazione i successi delle guerre, la quale quando declina, declina insieme la virtù de’ soldati diminuisce la fede de’ popoli annichilansi l’entrate deputate a sostenere la guerra.
Altro elemento che segna una divaricazione rispetto a M. è il giudizio storico sul ‘conflitto sociale’ nell’antica Roma. Leggiamo nel proemio del libro XI:
Chi andrà considerando ne’ passati tempi le Storie scritte e notate dagl’ingegni celebrati, troverà i nostri moderni non esser punto dissimili da quegli del Triumvirato di Roma, quando tutto il mondo e particolarmente l’Europa, e sopra ad ogni altra la Provincia d’Italia lacerata e guasta, si condusse ad estrema miseria [...]. Furono allora per molti e molti anni distrutti li popoli non pure delle facultà, dell’onore e degli altri beni di fortuna, ma, spenta ogni virtù, fu alla maggior parte di quei che vivevano, a’ migliori dico, ed a’ più giovani tolta la vita per la strage di loro fatta nelle guerre, per la penuria sopportata nelle cose necessarie a vivere, e per la marcigione ed infermità cagionata in loro da diversi stenti (Storie fiorentine, ed. 1723, p. 281).
Scompare la doppia lettura del conflitto sociale, ‘buono’ a Roma e ‘cattivo’ a Firenze, tipica delle Istorie fiorentine di Machiavelli. La storia italiana del periodo romano è già la storia di una provincia «lacerata e guasta». I tempi ‘moderni’ sono simili a quelli del triumvirato di Roma (un’età nella quale – sia detto per inciso – neanche M. scorgeva più una vitale «virtù» repubblicana). Anche allora si moriva di stenti per le guerre e per la penuria: la crisi di ogni visione ideale della Roma antica, già avviata da Guicciardini, raggiunge così il suo culmine, al di fuori di ogni prospettiva idealizzante. I moderni non hanno ‘perduta’ la virtù degli antichi; l’assenza di virtù è solo accentuata nella rovina italiana successiva al sacco di Roma del 1527. Vi è in S. una disillusa acquiescenza davanti a un male strutturale, connaturato all’uomo.
Bibliografia: Storie fiorentine di messer Bernardo Segni, gentiluomo fiorentino, dall’anno MDXXVII al MDLV. Colla vita di Niccolò Capponi, Gonfaloniere della Repubblica di Firenze, descritta dal medesimo Segni suo nipote, Augusta 1723.
Per gli studi critici si vedano: R. von Albertini, Das florentinische Staatsbewusstsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat, Bern 1955 (trad. it. Firenze dalla Repubblica al Principato. Storia e coscienza politica, Torino 1970, pp. 329-34); E. Scarano Lugnani, Storiografia e pubblicistica minore, in La letteratura italiana. Storia e testi, 4° vol., t. 2, Roma-Bari 1973, pp. 349-51; E. Cochrane, Historians and historiography in the Italian Renaissance, Chicago-London 1981, pp. 278-82.