Bernardo Tanucci
Nella complessa vicenda del Settecento, Bernardo Tanucci occupa a ragione un ruolo di primo piano. Rivisto il giudizio sostanzialmente negativo di Vincenzo Cuoco (Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, 1801, 18062), ma ancor più di Pietro Colletta (Storia del reame di Napoli dal 1784 al 1825, 1834) e di Michelangelo Schipa (Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, 1904), è innegabile che nella prima metà del Novecento la poliedrica figura di Tanucci, nella scia della lettura fattane da Benedetto Croce (Storia del Regno di Napoli, 1925, 19534, pp. 212-14, 221), sia stata oggetto di una decisa rivalutazione, effettuata per merito di numerosi studiosi. Più di recente si è palesato un sensibile mutamento negli studi tanucciani, volti non più a sancire successi o fallimenti né a individuare ‘moralisticamente’ luci o ombre, ma a delineare quanto effettivamente posto in essere e quali «intrecci d’influenze e di rapporti, d’incontri e di scontri personali, ideali, culturali» (Galasso, in Bernardo Tanucci statista letterato giurista, 1986, p. 19) abbiano connotato quella lunga stagione riformatrice nel contesto di un Regno di Napoli restituito all’autonomia dinastica dal 1734, cui il ministro toscano portò in dote la sua profonda cultura giuridica e un suo preciso progetto istituzionale.
Discendente 'per li rami' dall’illustre feudista Antonio Minucci da Pratovecchio («celebre giureconsulto del Secolo XV, della cui cognazione io mi glorio, avendo di quella Casa sortita l’Avola mia paterna»: B. Tanucci, Difesa seconda dell'uso antico delle Pandette, 1739, p. 171; cfr. anche Maccioni 1764), il giovane Tanucci – era nato a Stia presso Arezzo il 20 febbraio 1698, da Giuliano e da Lucrezia Tommasi, «famiglie ambedue per splendore ed antichità ragguardevoli» (C. Beni, Guida illustrata del Casentino, 1889, p. 146) – «apprese in Perugia i primi rudimenti della grammatica, e con tutto lo zelo dopo l’arte del bello stile si dedicò alle discipline filosofiche nel Collegio degli Scolopi» (P. Prezzolini, Storia del Casentino, 1° vol., 1859, p. 221). Già nel 1712, però, «si matricolò per scolare legista» nell’Ateneo pisano (Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di lettere e filosofia, serie II, 29° vol., 1962, p. 260), ove ebbe come primo maestro di diritto lo zio, Andrea Tanucci, docente di jus canonicum e rettore del Collegio dei legisti (Storia dell’Università di Pisa, a cura della Commissione rettorale per la storia dell'Università di Pisa, 1° vol., 1343-1737, t. 2, Ospedaletto 1993, pp. 96, 107, 170). Notevole influenza esercitò, in effetti, nella formazione del giovane il ‘prudente’ zio («un vecchio ecclesiastico della […] casa», che volle studiasse «la teologia di S. Tomasso»: Viviani della Robbia 1942, 1° vol., Biografia, p. 17), come si desume dal tono perentorio della sua richiesta di restituzione, rivolta ad Agostino Padroni, di un esemplare con dedica degli Elementa juris civilis nova quadam methodo studiosae iuventuti proposita (1688) di Jacopo Rilli, appartenuto al congiunto.
Nello stesso torno d’anni erano maestri nell’Ateneo pisano il frate camaldolese Guido Grandi (1671-1742), autorevole matematico aperto alle più moderne prospettive scientifiche, sulla base di uno studio approfondito delle dottrine di René Descartes e di Isaac Newton, e il poliedrico scienziato Giuseppe Averani (1662-1738), giureconsulto e filosofo, letterato e fisico, considerato dai contemporanei il più illustre esponente della scuola italiana di Iacopo Cuiacio (1522-1590), e autore di Interpretationes iuris (5 voll., 1713-1746), opera che gli diede fama europea. Averani, «maestro diletto» – così fu sempre riconosciuto da Tanucci, anche dopo la scelta 'filograndiana' –, ebbe un’incidenza molto rilevante sugli orientamenti giuridici del suo allievo che, già da lettore di Istituzioni si era attivato per dare alle stampe la prolusione accademica averaniana del 1723, apparsa nel 1724 con il titolo Oratio de iurisprudentia.
Dopo la scomparsa del granduca di Toscana Cosimo III de' Medici (1723), il clima nello Studio pisano diveniva in effetti più libero (E. Cochrane, Tradition and enlightenment in the Tuscan academies 1690-1800, 1961, p. 39), e Tanucci, già esponente di una corrente irrequieta – nel corso del tardo processo inquisitorio nei confronti suoi e di Giovanni Agostino Padroni, il lettore di teologia morale, il carmelitano Nicolò di S. Lorenzo, dichiarò di aver saputo che i sospetti «mettessero qualche volta in celia le cose spirituali […] per comparire più eruditi degl’altri e uomini di buon gusto e di letteratura più ripulita» (cit. in A. Prosperi, L’Inquisizione romana: letture e ricerche, 2003, p. 263) –, affrontava un passaggio decisivo per i suoi futuri destini.
Egli diveniva, anzitutto, protagonista di quella disputa sulle Pandette che può ritenersi, anche per la risonanza emblematica che assunse, uno degli eventi culturali di maggior rilievo del secolo, com’è stato ampiamente posto in rilievo da Danilo Marrara (in Bernardo Tanucci e la Toscana, 1986, e in Bernardo Tanucci statista letterato giurista, 1986) e più di recente, nei contenuti di merito, da Dario Luongo (2008). Nei tratti essenziali, motivo accidentale dello scontro fu il vincolo di amicizia che con Averani durante il soggiorno fiorentino aveva stretto l’olandese Hendrik Brenkmann, assertore nell’Historia Pandectarum (1722) della tradizionale tesi del rinvenimento ad Amalfi nell'11° sec., da parte di un gruppo di pisani, del manoscritto delle Pandette. Grandi, deciso a confutare quella tesi, aveva stilato in forma epistolare una dissertazione, in cui dissentiva da Brenkmann pacatamente ma con fermezza, dandone comunicazione il 1° ottobre 1723 ad Averani, che il 22 dello stesso mese ne faceva a sua volta parola con Tanucci. Questi si ritenne in obbligo verso il «diletto maestro» a scendere in campo, ma il dibattito inopinatamente assunse toni accesissimi, trascendendo ben presto dal livello scientifico al piano personale.
In effetti Averani, in una fitta corrispondenza con Grandi (Biblioteca Universitaria di Pisa, ms. 84), palesò un avvicinamento al camaldolese, mentre la divergenza dei pareri assunse toni oltremodo aspri tra Grandi e Tanucci, dopo che l’autorevole matematico, in replica alle osservazioni tanucciane (Ad nobiles socios Cortonenses, 1728), dette alle stampe nello stesso anno le sue Vindiciae pro sua epistola de Pandectis Florentiae [...], a cui l’ormai cattedratico di diritto civile (nel 1726 il successore di Cosimo III, il granduca Giangastone de' Medici, gli aveva conferito la nomina di straordinario di diritto civile) rispose con la Difesa seconda dell’uso antico delle Pandette (1729), dedicata nel sottotitolo Agl’illustrissimi, e nobilissimi signori priori del popolo pisano.
Repliche e controrepliche non si arrestarono, e anzi l’accusa di plagio rivolta da Tanucci a Grandi, ovvero di aver realizzato null’altro che una pedissequa traduzione di un’opera di Donato Antonio D’Asti pubblicata pochi anni prima (Dell’uso, e autorità della ragion civile nelle provincie dell'Imperio Occidentale [...], 2 voll., 1720-1722 ), configurava tout court un'accusa di sostanziale contraffazione. E se Grandi (con lo pseudonimo di Bartolo Luccaberti, anagramma del suo servo converso), nella Nuova disamina delle Pandette pisane [...] del 1730, puntualizzò «aspramente» la propria posizione, Tanucci nel 1731, con l’Epistola de Pandectis Pisanis e con l’edizione latina rivista della Difesa seconda (la Defensio secunda) palesò un vero e proprio «sfogo di collera contro le replicate illiberali ingiurie di quel buon frate» (Lettera a Muratori, 21 marzo 1730, in Epistolario, 1° vol., 1723-1746, a cura di R.P. Coppini, L. Del Bianco, R. Nieri, 1980, p. 7).
L’attacco di Grandi era diretto contro quel 'partito' di juvenes, in cui Tanucci si proponeva come l’esponente di maggior spicco, insofferente all’autorità e ai metodi dei veteres accademici, ove non si dovesse pensare a più vaste mire (G. Ortes, Vita del padre d. Guido Grandi abate Camaldolese matematico dello studio pisano, scritta da un suo discepolo, 1744, pp. 121, 124). Certo, pur ove tale non sia stato il disegno di Tanucci, non v’è dubbio che egli, «con questo libro, volle mostrare il suo talento, e la sua abilità nel maneggiar lo stile satirico, e derisorio» (pp. 124-125), cosicché, quando la durissima controversia fu alfine composta (per la mediazione autorevole del professore di medicina Pascasio Giannetti), avvalendosi del tramite benevolo dello scienziato Antonio Cocchi riuscì a essere introdotto presso Ludovico Antonio Muratori, il maggior esponente della cultura italiana della prima metà del Settecento, a cui annunciava già nel 1730 di avere in preparazione l’opera, poi non pervenutaci, De auctoritate prudentum.
A ben vedere, in queste controversie Tanucci non rinunciava ad avvalersi di categorie tradizionali, ma segnalava una sostanziale discontinuità, cosicché le sue critiche investivano direttamente
l’architrave stesso della tradizione: il diritto romano [...]. Andare oltre Giustiniano significava valorizzare le peculiarità delle esperienze giuridiche nazionali, apprezzando la loro autonomia dal diritto romano, e insieme dare spazio a quelle dimensioni del sapere, in primis la storia, che costituivano un antidoto all’ipostatizzazione delle categorie romanistiche (Luongo 2008, p. 1007).
Tanucci segnalava di avere competenze adeguate e propensioni attuative meritevoli di migliori destini, che di lì a poco lo avrebbero visto da Parma accompagnare il giovane duca Carlo I di Borbone, destinato a insediarsi sul trono di Napoli, e con lui portare innanzi un disegno politico di assoluto rilievo politico-istituzionale. Si pose infatti al suo seguito nel 1734, quando, come scrisse a Muratori il 19 giugno 1736,
lasciando la Lombardia e la Toscana m’imboscai nella folta barbarie che ingombra la maggior parte delle due Sicilie, ove ho dovuto per questi due anni pellegrinare colla corte del Re mio Signore (Epistolario, 1° vol., cit., p. 23).
Consigliere di fiducia di Carlo di Borbone e da lui assai ascoltato, Tanucci nel governo napoletano fu dapprima segretario di Stato, quindi ministro di Giustizia nel 1752 e degli Affari esteri e di Casa reale nel 1754. Nel 1759, quando Carlo, con il nome di Carlo III, salì sul trono di Spagna, la sua posizione divenne ancora più rilevante, fungendo da membro autorevole del Consiglio di reggenza sino al 1767, allorché Ferdinando IV compì sedici anni. Primo ministro infine, dal 1768 venne osteggiato dalla crescente influenza della nuova regina, Maria Carolina d'Asburgo-Lorena, decisa a sostituire, anche contro il consorte, l'influenza spagnola con quella austriaca. Così nel 1776 fu congedato e, lontano dalla vita politica, il 29 aprile 1783 si spense nella sua casa di Napoli.
Oltre a quella sulle Pandette, un’altra vicenda giuridica di vasta eco contrassegnò la formazione culturale di Tanucci, incidendo significativamente sulle sue future opzioni: la successione medicea. Il concentrarsi dell’attenzione delle grandi potenze europee sulla Toscana e in particolare su Cosimo III, in previsione dell’estinzione della dinastia dei Medici, aveva fatto balenare l’ipotesi di un gran gesto: riconoscere come erede dei Medici l’antica Repubblica fiorentina. A ciò evidentemente ostavano sia lo status feudale originario di Siena e del suo territorio sia la dipendenza diretta della Lunigiana dall’impero.
La decisa posizione dell'imperatore Carlo VI, fermo nel far valere l’alta sovranità dell’impero sui territori italiani, suscitò vivaci reazioni, e anzitutto diede spunto al trattato De libertate civitatis Florentiae, eiusque dominii (1721) di Averani, il venerato maestro di Tanucci; quest'ultimo nel 1726 ebbe dal diplomatico fiorentino Carlo Rinuccini l’incarico di confutare le risposte di parte austriaca allo scritto di Averani (Viviani della Robbia 1942, 1° vol., Biografia, p. 42). Germinava, così, quello ‘spagnolismo’ che avrebbe determinato Tanucci a porsi al servizio del giovane Carlo di Borbone: la dissertazione sulla libertà della Toscana dalla feudalità imperiale, le Vindiciae Italicae, non fu pubblicata, per chiari motivi di riserbo diplomatico, ancorché rivista da Tanucci quando fu a Napoli, ma fu alla base di uno scritto, il Diritto della Corona di Napoli sopra Piombino, pubblicato nel 1760, ossia dopo la partenza di Carlo di Borbone da Napoli. Le argomentazioni tanucciane, desunte in via indiretta e anzitutto dalla Memoria al marchese di Salas per mandar a Spagna, datata 23 ottobre 1742 (Epistolario, 1° vol., cit., p. 633), possono con sue parole così sintetizzarsi:
Io che nella storia d’Italia ho preso un sistema diversissimo dal romano vostro e dal germanico del Muratori, rido di coteste contese e mi pare che l’una e l’altra parte diverberet umbras. Stimo che il regno italico finisce legittimamente in Federico II […]; credo fermamente che tutti i principi e repubbliche italiane sieno indipendenti e che il re di Germania abbia in Italia il medesimo impero che vi possa pretendere il re della Cina (Epistolario, 2° vol., 1746-1752, a cura di R.P. Coppuni, R. Nieri, 1980, p. 116)
Si evidenzia l’intento di Tanucci di segnalare il discrimine della sua prospettiva da quella del Muratori, di cui pur si esalta la straordinaria importanza («come l’Italia ha avanzato d’importanti e numerose azioni tutte le altre, così verrà ora [con Muratori] nella grandezza della storia a superarle» (Difesa seconda, cit., p. XXXIII). Tanucci non intende, però, limitare i suoi interessi allo studio dotto ed erudito delle fonti, ma si mostra «pronto a cogliere nuovi orientamenti che ampliano notevolmente la prospettiva meramente erudita, sì che la filologia venga a coincidere con il mondo umano delle istituzioni e si stabilisca un intimo nesso, proprio per il tramite del diritto, fra storia e politica» (D’Addio, in Bernardo Tanucci statista letterato giurista, 1986, pp. 33-34).
Sulla scorta della lettura vichiana, la dissertazione Del dominio antico pisano sulla Corsica, scritta tra il 1731 e il 1733 e pubblicata nel 1758, palesava appieno il rapporto che Tanucci istituisce fra storia, potere e diritto, inteso soprattutto come fenomeno storico del diritto pubblico italiano, da cui discende il giudizio sul Pietro Giannone dell’Istoria civile del Regno di Napoli (1723) come «un grande scrittore di questi tempi» (Difesa seconda, cit., p. CLXXXV).. La storia costituisce, quindi, il presupposto e il fondamento di ogni programma politico di ampio respiro. L’analisi fatta da Niccolò Machiavelli e da Francesco Guicciardini del quadro politico presente nella penisola, diviene la base di un disegno politico inteso ad attuare un grande Stato italiano, autonomo e indipendente, inserito con una propria forza nel sistema delle alleanze europee. Secondo Tanucci, l’impero, su un riscontro di realismo storico, non può assurgere più a ordinamento politico a carattere universale, mentre ormai indiscusso nucleo di riferimento è lo Stato, in quanto forza politica che, nella visione di Jean Bodin, trova in se stessa la sua legittimazione. Nella prospettiva della sovranità, così come posta da Ugo Grozio e Samuel Pufendorf a base del nuovo diritto pubblico europeo, ai cui principi deve informarsi il diritto pubblico dei singoli Stati, Tanucci può asserire: «i sovrani sono eguali nella potenza interiore. Quale e quanto è uno nel suo paese, tale e tanto è l’altro nel suo» (Epistolario, 2° vol., cit., p. 274).
La sovranità, quindi, si configura per Tanucci come l’esito di un lento processo di formazione storica delle comunità e dei relativi ordinamenti: proprio alla luce del moderno diritto pubblico risulta, così, pienamente sancito il criterio dell’autonomia degli ordinamenti statali e, coordinandosi a esso il principio del riconoscimento dell'esistenza del popolo come soggetto costitutivo dello Stato, è dal consensus omnium, tacito o espresso, che scaturisce la legittimità del potere sovrano. Il consenso, però, non è astratta affermazione di principio, è forza effettiva di chi governa.
Il vero comando nel mondo sta nelle braccia; ove son più braccia ivi è la vera potenza. Già si vede che nel popolo son le braccia e il popolo si deve non solamente ben servire dai ministri dalla nobiltà dal Sovrano, ma ancora ben trattare (Viviani della Robbia 1942, 2° vol., p. 116).
Era questo il bagaglio di cultura giuridica con cui Tanucci si pose al seguito di Carlo di Borbone. In quel pellegrinare Tanucci si rese conto delle ‘due Italie’: una aveva combattuto e distrutto il sistema feudale, l’altra lo serbava sano e vegeto. Tutto l’impegno ministeriale doveva perciò concentrarsi nel combattere «la mala bestia baronale», quel «baronaggio del regno che me solo teme». Traspare appena un accenno di presunzione, ma inequivoco è il ragionamento volto all’amico Francesco Nefetti:
La tirannide feudale, la più vergognosa invenzione politica di quante se ne sieno escogitate pel genere umano, per cui un privato domina privati non rei di alcuna colpa, per cui sieno schiavi, fu a noi portata da barbari Trioni; ma […] gli altri d’Italia fecero pur qualche cosa per purgare da quell’infamia le loro popolazioni. Solo in questi paesi nulla si è fatto, e l’oppressione è stata sempre la stessa che cominciò, non avendo questa mollissima gente né pur tentato di sciogliere le disonorate catene (Epistolario, 1° vol., cit., p. 891).
In conclusione, durante la sua lunga permanenza nel Regno di Napoli, Tanucci riversò ogni energia nel disegno ambizioso di costruire un grande Stato nell'Italia meridionale, attraverso un riformismo politico-giuridico e istituzionale attuato con indubbia passione civile, sia pure con esiti parziali e talora discutibili.
La ‘modernizzazione’ del Regno napoletano presupponeva infatti un forte ridimensionamento della giurisdizione ecclesiastica e nobiliare, indispensabile per rafforzare la potestà unitaria del sovrano e superare i numerosi vincoli che ostacolavano la produzione economica, mantenendola in uno stato di grave arretratezza. L'iniziativa di Tanucci fu rivolta soprattutto contro le prerogative ecclesiastiche, in linea con le idee degli esponenti più illustri dell'Illuminismo napoletano, e si tradusse in un progetto di decisa secolarizzazione del Regno di Napoli.
Tra le misure più importanti adottate in quegli anni, vale la pena di menzionare l'abolizione delle decime, la soppressione dei monasteri e conventi superflui, l'attribuzione alla corona delle entrate di episcopati e abbazie vacanti, il divieto per la Chiesa di acquisire nuovi patrimoni attraverso i cosiddetti testamenti dell'anima, l'obbligo dell'autorizzazione reale per la pubblicazione delle bolle papali. Effetti significativi produsse inoltre l'espulsione della Compagnia di Gesù (1767) e la conseguente confisca dell'ingente patrimonio dell'ordine, che nella sola Sicilia ammontava a circa 40.000 ettari di terreni coltivati in vario modo. Le terre confiscate non furono acquisite al demanio, ma parcellizzate e concesse in uso ai contadini, nel tentativo di mettere in pratica il programma di Antonio Genovesi, volto alla creazione di un ceto di coltivatori diretti indipendenti e in generale alla moltiplicazione dei piccoli proprietari. Connesso all'espulsione dei gesuiti fu anche il progetto di dar vita a un sistema di istruzione pubblica, che si scontrò però con notevoli difficoltà di carattere finanziario.
I nuovi studi
Il recente e deciso mutamento negli studi su Tanucci ha indubbiamente fatto luce sia sulla sua figura di intellettuale sia sul suo ruolo di riformatore. Così, dopo il meritorio lavoro di Rosa Mincuzzi, Bernardo Tanucci, ministro di Ferdinando di Borbone, 1759-1776 (1967), accompagnato dalla pubblicazione della corrispondenza con Carlo di Borbone dopo l'ascesa di questi al trono di Spagna (Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo III di Borbone, 1759-1776, 1969), l’edizione, in corso dal 1980 sotto la direzione di Mario D’Addio, dell’intero, monumentale Epistolario si propone come supporto critico fondamentale agli studi di Raffaele Ajello (1968 e 1972) e di Franco Venturi (1976), che, insieme a uno stuolo di studiosi – per lo più coinvolti nelle due importanti iniziative per il secondo centenario della scomparsa (Bernardo Tanucci e la Toscana, 1986, e Bernardo Tanucci statista letterato giurista, 1986) –, hanno profondamente innovato la storiografia su Tanucci, ora di spessore critico notevole e certamente di per sé congrua a giustificare l’attenzione per le rilevanti iniziative che egli pose in essere. Questa storiografia ha saputo ricostruire e valorizzare l'opera da lui compiuta in molteplici ambiti (tentativo di codificazione carolino, trasformazione dell’apparato giudiziario e amministrativo, espulsione dei gesuiti, motivazione delle sentenze), nonché, in generale, il ruolo assunto nel più ampio contesto della cultura giuridica del 18° secolo.
Ad nobiles socios Cortonenses qui Academici Etrusci dicuntur, Epistola in qua nonnulla refutantur ex Epistola Guidonis Grandi […] De Pandectis ad Josephum Averanium [...], Lucae 1728.
Difesa seconda dell'uso antico delle Pandette e del ritrovamento del famoso manoscritto di esse ad Amalfi [...] contra le Vindicie del P.D. Guido Grandi [...]. Libri due. Agl'illustrissimi, e nobilissimi signori priori del popolo pisano, Firenze 1729; trad. latina rivista, Defensio secunda usus antiqui Pandectarum et earum celebris exemplaris in Amalphitana direptione a Pisanis inventi adversus Vindicias guidonis Grandii Camaldulensis, Firenze 1731.
Epistola de Pandectis Pisanis in Amalphitana direptione inventis, ad Accademicos Etruscos, in qua confutantur quae Guido Grandius cremonensis abbas et antecessor in pisano Gyimnasio opposuit Francisco Taurellio et Henrico Brencimanno, Florentiae 1731.
Del dominio antico pisano sulla Corsica composta da un professore dell'Università Pisana Accademico Etrusco (1731-33), in Saggi di dissertazioni accademiche pubblicamente lette nella nobile Accademia Etrusca dell’antichissima città di Cortona, 7° vol., s.l. 1758, pp. 173-98; rist. anast. a cura di C. Bruschetti, N. Fruscoloni, Cortona 1983.
Brieve dissertazione sul sagro militar ordine costantiniano di S. Giorgio, s.l., s.d. (ma Napoli 1760).
Diritto della Corona di Napoli sopra Piombino (1738), Napoli 1760.
Inquietudini de' Gesuiti, 3 voll., s.l. (ma Napoli) 1764-1767.
Istruzioni di Sua Maestà il Re delle due Sicilie per lo sfratto de’ Gesuiti e sequestro de’ loro beni, Venezia s.d. (ma 1767).
[con lo pseud. di Draunerus Cibanctus], Epistola ad Janum Bonaventuram Nerium, in Variorum opuscula ad cultiorem jurisprudentiam adsequendam pertinentia, Pisis 1769-1771
Regolamento prescritto da sua Maestà pel real convitto del Salvatore di Napoli e degli altri convitti del Regno, Napoli s.d. (ma dopo il 1770).
Per la vedova Fortunata de Martino, madre de' minori Antonio, e Caterina Mescovischi. Da esaminarsi nella Suprema Giunta degli abusi, s.l. 1772.
Diritto del re delle Sicilie sul Ducato di Castro e Ronciglione, s.l., s.d. (ma Napoli 1773).
Lettere a Ferdinando Galiani, a cura di F. Nicolini, 2 voll., Bari 1914.
Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo III di Borbone, 1759-1776, a cura di R. Mincuzzi, Roma 1969.
Il tramonto di Bernardo Tanucci nella corrispondenza con Carlo III di Spagna (1776-1783), a cura di L. Barreca, Palermo 1976.
Epistolario: 1° vol., 1723-1746, a cura di R.P. Coppini, L. Del Bianco, R. Nieri, M. D’Addio, Roma 1980; 2° vol., 1746-1752, a cura di R.P. Coppuni, R. Nieri, Roma 1980; 3° vol., 1752-1756, a cura di A.V. Migliorini, Roma 1982; 4° vol., 1756-1757, a cura di L. Del Bianco, Roma 1984; 5° vol., 1787-1758, a cura di G. De Lucia, Roma 1985; 9° vol., 1760-1781, a cura di M.G. Maiorini, Roma 1985; 10° vol., 1761-1762, a cura di M.G. Maiorini, Roma 1988; 11° vol., 1762-1763, a cura di S. Lollini, Roma 1990; 12° vol. (2 tt.), 1763-1764, a cura di M.C.Ferrari, Napoli 1997; 13° vol., 1764, a cura di M. Barrio Gozalo, Napoli 1994; 14° vol., 1764, a cura di M. Barrio Gozalo, Napoli 1995; 15° vol., 1765, a cura di M.G. Maiorini, Napoli 1996; 16° vol., 1765-1766, a cura di M.G. Maiorini, Napoli 2000; 17° vol., 1766, a cura di M.G. Maiorini, Napoli 2003; 20° vol., 1768, a cura di M.C. Ferrari, Napoli 2003; 18° vol., 1766-1767, a cura di M.G. Maiorini, Napoli 2007.
M. Maccioni, Osservazioni e dissertazioni varie sopra il diritto feudale concernenti l'istoria, e le opinioni di Antonio da Pratovecchio celebre giureconsulto del secolo XV [...], Livorno 1764.
P. Calà Ulloa, Di Bernardo Tanucci e dei suoi tempi, Napoli 1875.
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Il riformismo di Tanucci. Le leggi di eversione dell’asse gesuitico, 1767-1773, a cura di F. Renda, Catania 1969.
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R. Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone: la fondazione e il 'tempo eroico', in Storia di Napoli, 7° vol., Dal Viceregno alla Repubblica del '99, Cava dei Tirreni 1972, pp. 461-717.
F. Venturi, Settecento riformatore, 2° vol., La Chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, 1758-1774, Torino 1976.
Bernardo Tanucci e la Toscana. Tre giornate di studio. Pisa-Stia 28-30 settembre 1983, Firenze 1986 (in partic.: M. D’Addio, Tanucci e la Toscana, pp. 9-29; D. Marrara, La polemica pandettaria e l’Epistolario di Guido Grandi. Lettere di Gerardo Maria Capassi, pp. 55-78).
Bernardo Tanucci statista letterato giurista, Atti del Convegno internazionale di studi per il secondo centenario, 1783-1983, a cura di R. Ajello, M. D’Addio, 2 voll., Napoli 1986 (in partic.: G. Galasso, Immagine e prospettiva storiografica, pp. 3-21; M. D'Addio, Impero, feudalesimo e Storia d’Italia nel pensiero civile di Tanucci, pp. 23-56; D. Marrara, Donato Antonio D’Asti e la polemica pandettaria tra Guido Grandi e Bernardo Tanucci, pp. 157-79; ).
D. Luongo, Consensus Gentium. Criteri di legittimazione dell’ordine giuridico moderno, 2° vol., Verso il fondamento sociale del diritto, Napoli 2008, pp. 991- 1014.