Beroaldo, Filippo, il Vecchio
Nacque a Bologna nel 1453 e vi morì nel 1505. Non è difficile immaginare come a Firenze potesse essere nota a M., fin dalla adolescenza, la fama del celebre professore bolognese con il quale Angelo Poliziano aveva scambiato un serrato e proficuo dialogo filologico (soprattutto all’altezza della seconda centuria dei Miscellanea) su autori come Stazio e Plinio il Vecchio. Pur nella distanza di modalità espressive e linguaggi filologici, i due maestri condivisero nel profondo un metodo ecdotico ed esegetico che trovava nell’ultimo ventennio del Quattrocento l’apice della maturità e a un tempo il canto del cigno del sogno dell’Umanesimo.
D’altra parte, M. dovette ritrovare ampia eco della gloria del bolognese anche durante i suoi soggiorni in Francia dove B. aveva insegnato dal 1476 al 1479, e dove le sue opere conobbero un larghissimo consenso e una straordinaria fortuna editoriale. Accanto alla conoscenza della storia più e meno recente della città felsinea mostrata in vari luoghi della prosa del Principe (xix 15-17, xx 25, xxv 18), ma anche nella poesia del Decennale II, vv. 94-96 («Ma cedendo e’ Baglion a la sua voglia, / restorno in casa, e sol del Bolognese / cacciò l’antica casa Bentivoglia»), è plausibile che fossero note al Segretario fiorentino le più importanti opere del maestro bolognese, come i commenti a Sallustio, Apuleio, Svetonio – per menzionare quelli più vicini agli interessi machiavelliani – o trattati quali il De optimo statu et principe, in cui troviamo spunti di indubbio interesse per il futuro autore del Principe sulla qualità dei governanti e sul rapporto tra virtus e fortuna; senza dimenticare che l’assiduo esercizio filologico che i maestri dello Studio bolognese (B., Antonio Urceo detto Codro, Giovan Battista Pio) esercitarono sull’opera di Plauto finisce con l’operare in M. una profonda assimilazione del linguaggio e dei paradigmi ermeneutici della teatralità.
Per quanto riguarda Sallustio, evocato per opere diverse e con differenti finalità esemplari, nei Discorsi II viii 7, III vi 166, M. poteva disporre di una edizione beroaldina francese (Parigi, Ulrich Gering, non dopo il 1478); Svetonio invece (cfr. Baldan 1978) poteva esser letto da M., con l’ampio commento beroaldino, in una delle sei edizioni che, dalla princeps bolognese del 1493 (per i tipi di Benedetto Faelli), videro la luce tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento. Qui B. aveva delineato le sfere in cui l’interprete può concedersi ampiezza di trattazione, privilegiando in particolare quella del ventaglio delle ipotesi interpretative da offrire al lettore per i loci oscuri, e si era premurato di fornire la varietà delle possibilità ermeneutiche per le eventuali congetture, non mancando di affermare l’originalità e la validità intuitiva delle proprie ipotesi rivelate dal fiero moltiplicarsi di formule come «ego existimo» o «ego sentio».
Il Frontino edito fra gli Scriptores rei militaris da B. a Bologna nel 1495-1496 per i tipi di Platone de Benedetti è tra gli autori menzionati nelle Istorie fiorentine (II ii 8); e nemmeno l’interesse filologico per Plinio, che era stato al centro delle Annotationes centum di B. (1488), come del resto della seconda Centuria dei Miscellanea di Poliziano e delle Castigationes plinianae di Ermolao Barbaro, rimane estraneo al M., se è vero che nelle Istorie fiorentine II ii 7-9 dimostra di conoscere il dibattito filologico sul nome di Firenze e dei fiorentini, rigettando come corrotta la lezione pliniana «Fluentia» e «Fluentini» (così chiamati perché vicini all’Arno fluente), da emendare sulla scorta di Frontino e di Tacito. D’altra parte, come per B., anche per M. il naturalismo pliniano – da coniugare con quello lucreziano – poteva rappresentare «una versione ‘elegante’ della scienza aristotelica, dunque una specie di aristotelismo ‘latino’, esatto e insieme eloquente» (Raimondi 1972, p. 65 nota 13).
Ma il lavoro esegetico di B. destinato a consacrarne la fortuna europea – tanto da valergli ripetuti strali nell’epistolario erasmiano (Gilmore 1967, p. 383) per la linea argentea e asiana della lingua e dello stile del commentatore che entra in gara con l’autore esaminato – è il commento ad Apuleio, che svolge un ruolo decisivo nella ricezione machiavelliana. Stampato a Bologna da Benedetto Faelli nel 1500, il commento beroaldino poté giungere fra le mani di M. tramite Mino de’ Rossi, senatore bolognese, figura di primissimo piano della cerchia bentivolesca, amico e mecenate di B., che gli dedica vari componimenti di occasione e opere di maggiore respiro (come il commento a Properzio, Bologna 1487; un Carmen de fortuna nella silloge poetica del 1491; la già ricordata edizione di Frontino del 1495-1496), oltre a esaltarlo in molti luoghi delle sue orazioni e prolusioni e a tesserne le lodi nell’epicedio contenuto nei Symbola Pithagorae moraliter explicata (1503).
Il nome del senatore bolognese ricorre infatti con frequenza nella legazione al duca Valentino del 1502 (Brugnoli 2000, p. 92). D’altra parte, il paradigma ermeneutico sotteso al commento beroaldino e all’Asino machiavelliano trova un’humus feconda proprio nella produzione esegetica dell’Umanesimo bolognese, più di ogni altro aperto alla ricezione profonda dei classici del metamorfico e del proteiforme, del gusto profondo della parola e del gesto teatrale, talora bizzarro fino al paradosso (si pensi al Sermo I di Codro, degli anni 1494-1495, in cui viene trattato il tema De metamorphosi humana in belvas). L’analisi testuale ravvicinata di alcuni luoghi dell’Asino rivela una conoscenza diretta del commento di B.: in particolare, in Asino iii, vv. 1-48, la descrizione del palazzo di Circe (che risente anche della memoria dantesca di Inferno IV 106-11) richiama quella della villa di Pontecchio nel territorio bolognese di proprietà di Mino de’ Rossi, che B. inserisce in uno dei suoi consueti excursus a proposito di Metamorfosi V 1; la presenza di una tessera verbale, il «ponticello» di Asino iii, v. 25, assente nel testo apuleiano, ma presente nel commento beroaldino («Ponticulanum») come particolare architettonico della villa suburbana del de’ Rossi, costituisce una spia lessicale che denuncia il legame fra i due testi.
D’altra parte, non poté sfuggire a M. quella digressione di B., in corrispondenza di Metamorfosi VII 16, che ha per oggetto la «caeca fortuna». Qui, con il consueto gusto della comparatio attualizzante, fra suggestioni emerse dal testo e aspetti del quotidiano o della storia recente, il commentatore di Apuleio (che era stato ambasciatore e oratore a Milano e aveva assisistito ai disordini creati dalla seconda invasione francese) si apre ad amare considerazioni sul destino di Ludovico Sforza e del ducato di Milano, individuando nei dissidi e nelle contese tra principi e potenti l’origine della grave crisi italiana. E non è un caso che Antonio Fileremo Fregoso, in Dialogo de Fortuna 16 (la cui princeps è del 1507), si soffermi proprio sulla figura del duca milanese che incarna in modo esemplare gli effetti dei capricci di quella forza che può cambiare quel «favor in pianto». E l’essere versipellis (Metamorfosi II 22), che torna in Asino iii, vv. 115-18 («Ma prima che si mostrin queste stelle / liete verso di te, gir ti conviene / cercando il mondo sotto nuova pelle»), diviene metafora centrale che porta con sé una nuova interpretazione della realtà, che proprio i classici come Apuleio o i comici (Plauto e Terenzio) in primis avevano trasmesso e che i commentatori dello Studio bolognese avevano ripreso e amplificato nelle loro prolusioni accademiche.
Nella Firenze umanistica era certo ben noto il lavoro filologico che Poliziano aveva operato su quel Terenzio (a cominciare dal celebre intervento sul codice Bembinus, il Vaticano latino 3226) a cui M. dedica varie espressioni del suo lavoro intellettuale (dalla trascrizione dell’Eunuchus sul codice Rossiano 884 al volgarizzamento dell’Andria); ma anche l’esegesi di scuola felsinea sui testi plautini, accanto a certa novellistica e alla lezione dell’umorismo albertiano, dovette giocare qualche ruolo nella scrittura comica nel senso della teatralità machiavelliana. Se Leon Battista Alberti ricorda nel Theogenius (in un passo ben presente a M. della celebre lettera a Francesco Vettori del 1513) come lo dilettino «e’ iocosi e festivi, tutti e’ comici, Plauto,Terrenzio, e gli altri ridicoli, Apulegio, Luciano, Marziale e simili facetissimi» (L.B. Alberti, Opere volgari, 2° vol., 1966, p. 74), non si può dimenticare l’edizione di B. (Bologna 1503), in cui il maestro bolognese parla di «plautina elegantia» e definisce il testo del comico latino come un «enchiridion» che bisogna sfogliare quotidianamente.
L’asino apuleiano, come i sales plautini (che trovano in Codro momenti tanto di raffinatissima ecdotica quanto di divertita scrittura creativa, come per es. nel fortunatissimo Supplementum alla Aulularia) filtrati dall’esegesi di scuola bolognese, diventa una lezione fondativa della dialogicità umanistica. La lingua plautina e il romanzo apuleiano assurgono a modello della realtà mutevole e proteiforme e adombrano, nella complessità delle forme testuali, i giochi combinatori che regolano tanto le finzioni letterarie quanto la realtà terrena. Difficile pensare che M. non abbia colto il fascino di questa elegantia indicata da B. nell’etica dei sales, espressione di una civile urbanitas che invita al modus, all’equilibrio interiore dell’uomo, a una divertita capacità di compostezza morale che si riflette anche sul piano sociale. La lezione di elegantia, che proveniva dall’esegesi beroaldina, additava il giusto e misurato adeguarsi e rapportarsi dei verba alla mutevolezza delle res e dei gesta di fronte alla varietà delle indoli e delle circostanze umane, in un’ottica di certo non estranea al pensiero machiavelliano.
Dovettero certo piacere a M. ‒ sensibile peraltro al rapporto con il mondo femminile e non solo nella scrittura delle commedie ‒ certe digressioni sulla sua vita privata che B. inserisce nel commento ad Apuleio:
quella in cui, per es., durante il racconto del matrimonio fra Amore e Psiche, B. fa irrompere la notizia del suo recente matrimonio con Camilla Paleotti, chiedendo, complici i lettori, il favore e l’auspicio degli dei per tale unione. La scrittura esegetica di B. ha insomma insita in sé una tensione teatrale e narrativa che si coniuga con l’acribia esegetica e filologica e che consacra il maestro a una straordinaria fortuna europea.
E l’Asino apuleiano con il commento beroaldino, più volte ristampato tra l’Italia e l’Europa nel giro di un decennio (Venezia 1501, 1504, 1510; Parigi 1512), godette di una tale fortuna da costituire esso stesso materia romanzesca: si pensi alla menzione di B. nei Ragguagli di Parnaso (XCIII) di Traiano Boccalini.
Non si può escludere, inoltre, che, sempre per il tramite di Mino de’ Rossi, o per altre vie, M. possa essere venuto a conoscenza di altre espressioni della produzione beroaldina per lui di qualche interesse, come il libello De optimo statu et principe (Bologna 1497) in cui l’umanista bolognese, nelle forme e nei modi peculiari della trattatistica politica dell’Umanesimo premachiavelliano, si sofferma sulle virtutes del principe, vale a dire sulle qualità personali necessarie a governare. M., che in Principe xxi 28 suggeriva, «ne’ tempi convenienti dello anno», di «tenere occupati e’ populi con feste e spettaculi», poteva trovare – seppure mosso da spirito e finalità differenti – consonanza con la lode della magnificentia del principe intellitessuta dal commentatore bolognese che ricorda, a tale proposito, la celebrazione di Traiano tessuta da Plinio il Giovane in Panegyricus 51.
Non si può infine tacere del comune interesse, fra il professore dello Studio bolognese e il Segretario fiorentino, per Lucrezio, il classico che, dalla scoperta di Poggio Bracciolini, segna nel profondo la cultura filosofica, filologica e letteraria dell’Umanesimo e si configura come tratto costitutivo dell’antropologia machiavelliana, testimoniato dalla copia autografa del già menzionato ms. Vaticano Rossiano 884 della BAV; all’esegesi del De rerum natura sono infatti dedicati vari luoghi della filologia beroaldina, che precedono e preparano il primo commento sistematico al testo (Bologna 1511), non a caso dovuto a un allievo di B., Giovan Battista Pio. B. lascia spesso trasparire l’intenzione di far luce sui luoghi oscuri del testo; e l’attenzione lucreziana alla durezza delle res, che ha nella descrizione della peste uno dei suoi momenti più significativi, costituisce una continua fonte di confronto e di riflessione sulle tragedie del presente. Se è vero che il metodo filologico di B. consistette nel tirar fuori («eruere») «il sangue e il midollo delle parole», come si dichiara nel commento ad Apuleio, si può dire che l’acume dello sguardo del filologo si sia trasposto, in M., nell’occhio che penetra e indaga la realtà, gli eventi e le alterne vicende della storia, la varietà dei gesti e delle indoli umane.
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