BILANCIO (VII, p. 11)
Bilancio delle aziende commerciali (p. 11). - Le profonde innovazioni introdotte dal cod. civ. 1942 in materia di regolamentazione legislativa del bilancio delle aziende commerciali, a simiglianza di quanto dettato dalle cosiddette legislazioni interventiste, traggono origine dalle critiche mosse alla precedente legislazione italiana di tipo liberista (cod. di comm. del 1882, art. 176) e alla sua lamentata insufficienza riguardo alla precisazione di norme di valutazione e di tipici schemi di bilancio.
Il bilancio delle imprese costituisce uno dei documenti riassuntivi più importanti nell'economia aziendale, in quanto mira a esprimere in una sintesi numerica e bilanciante la consistenza patrimoniale dell'azienda, rilevata in un certo istante, nonché il reddito prodotto in un determinato spazio di tempo dall'attività di gestione. Generalmente dal bilancio si esigono però anche altre finalità, e cioè quella di fornire la possibilità di apprezzamento e di controllo sull'operato degli amministratori; di consentire il giudizio complessivo sulla situazione economica e finanziaria dell'impresa; di indicare lo stato di liquidità nella graduazione dei diversi investimenti dati al capitale di funzionamento; di porre in luce il rapporto tra il capitale proprio dell'impresa e quello attinto a fonti esterne, ecc.
Troppi compiti, in verità, per essere congiuntamente conseguiti e espressi in un semplice prospetto contabile, compilato sia pure attraverso le complesse e difficili operazioni di raccolta, valutazione, coordinazione e rielaborazione dei dati contabili, che si richiedono per la formazione del bilancio. Troppi, soprattutto, in relazione alla pretesa, imposta anche dalle leggi, della veridicità e precisione delle indicazioni fornite. Il frazionamento della gestione in distinti periodi annuali o esercizî, richiesto per la compilazione dei bilanci, è del tutto convenzionale e fittizio, in quanto l'impresa, come coordinazione economica in continuo divenire, mal si presta a misurazioni perfette della sua entità, a intervalli fissi di tempo. Inoltre, la valutazione dei diversi beni costituenti nel loro complesso unitario il capitale aziendale, a parte l'eterogeneità dei criterî che possono essere applicati dai misuratori nelle situazioni tanto diverse di tempo, di luogo, di forma, di mercato, di ambiente, in cui si trovano tutte le svariate imprese, risulta troppo intimamente legata ad avvenimenti e sviluppi della futura gestione, per essere suscettibile di obiettive misurazioni. E ancora può osservarsi che la staticità della rilevazione patrimoniale compiuta in un certo istante della gestione, contrasta evidentemente con la dinamicità della formazione del reddito, il quale deriva dal continuo trasmutare dei varî componenti del capitale, su cui appunto si fonda l'attività della gestione aziendale.
Tuttavia, le accennate ineliminabili imperfezioni nulla tolgono alla grande importanza e utilità attribuita ai bilanci, sia dal punto privatistico che pubblico. La dottrina economico-aziendale, con un contributo ognor progrediente, ha offerto alla tecnica del bilancio possibilità di successivi perfezionamenti; mentre il legislatore, in tutti i paesi, si è trovato di fronte alla necessità di regolamentare questa materia in modo da impedire che l'assoluta libertà dei compilatori o manipolatori di bilancî potesse essere volta alle più dannose mistificazioni nei confronti di tutti gli interessati in siffatti documenti valutativi dell'impresa.
Negli studî economico-aziendali italiani, che negli ultimi decennî hanno visto un rifiorire di opere di profonda dottrina, la teoria dualistica del bilancio s'è generalmente affermata: essa attribuisce al bilancio la duplice finalità di deterrninare la situazione patrimoniale dell'impresa (la quale vien fatta risultare dal cosiddetto Conto patrimoniale o Stato dell'attivo e del passivo) e di accertare il reddito conseguito nell'esercizio (documentato dal Conto dei profitti e delle perdite o Rendiconto economico). Tuttavia, per merito soprattutto di G. Zappa, un indirizzo nuovo considera scopo preminente del bilancio la determinazione del reddito e pertanto informa tutto il criterio della rilevazione e della valutazione patrimoniale a questo fine essenziale, mentre la cognizione degli altri scopi sopra accennati è affidata a rilevazioni extra-contabili, ossia elaborate fuori conto, su elementi quantitativi e qualitativi anche non monetarî.
Da parte degli autori anglo-americani è concordemente riconosciuta la duplice finalità del bilancio, come sintesi di una doppia rilevazione patrimoniale e reddituale (esposta nel Balance sheet e nel Profit and loss account). Fra gli autori tedeschi, invece, taluni (come F. Schmidt), pur allogandosi sempre tra i fautori della teoria dualistica, sostengono la tesi della formazione di un bilancio unitario, che porterebbe alla fusione del conto patrimoniale (Vermögensbilanz) e del conto reddituale (Erfolgsbilanz); mentre altri, come E. Schmalenbach, si fanno sostenitori di una teoria monistica, contestando che il bilancio composto per la determinazione dei risultati economici dell'impresa in funzionamento, possa servire anche alla determinazione del valore del patrimonio: e pertanto assegnano al cosiddetto "bilancio dei risultati economici" (dynamische Bilanz), il compito di esprimere l'economicità aziendale, considerata prevalentemente dal punto di vista collettivistico piuttosto che da quello privato. In buona parte tali concetti sono stati accolti nella legge azionaria tedesca del 30 gennaio 1937, che contiene una minuziosa regolamentazione del rendiconto annuale, nella prescrizione dello schema e delle norme di valutazione.
In materia di bilancio il cod. civ. 1942 prescrive che dallo stesso "devono risultare con chiarezza e precisione la situazione patrimoniale e gli utili conseguiti o le perdite sofferte" (art. 2423). L'abbandono della vecchia dizione del cod. di comm. (art. 176) che pretendeva la dimostrazione, con evidenza e verità, degli utili realmente conseguiti e del capitale realmente esistente, dimostra il riconoscimento del legislatore delle difficoltà tecniche che rendevano inoperanti le norme concepite in siffatta maniera.
Sulla forma e contenuto del conto patrimoniale, l'art. 2424 detta uno schema minuzioso delle poste che debbono essere indicate nell'attivo e nel passivo, vietando esplicitamente la compensazione di partite. Lo schema è prescritto per le società per azioni, fatte salve le disposizioni di leggi speciali per le società che esercitano particolari attività (come le bancarie, assicuratrici), ma vale pure per le società in accomandita per azioni, per le società a responsabilità limitata, per le società cooperative e per le società estere, e in quanto applicabile, anche per tutti gli imprenditori esercenti in genere un'attività commerciale. Nulla, invece, è detto riguardo alla forma e contenuto del conto dei profitti e delle perdite, che può essere pertanto compilato secondo il libero criterio dell'imprenditore: e si comprende la preoccupazione del legislatore di vincolare con un rigido schema questa seconda parte del bilancio, data la diversa derivazione del reddito, determinato per differenza tra costi e ricavi della gestione, nei più svariati tipi d'impresa.
Particolare importanza assumono le prescrizioni sui criterî da osservarsi nella valutazione degli elementi dell'attivo e del passivo.
In particolare l'art. 2425 richiede: 1) per i beni destinati durevolmente all'uso (immobili, impianti, macchinarî, mobili): l'iscrizione per un valore non superiore al prezzo di costo, con il computo di una quota d'ammortamento annuale da contabilizzarsi al passivo in apposito fondo; 2) per i beni destinati alla vendita (materie prime, prodotti in corso di fabbricazione, prodotti finiti, merci in genere): la valutazione al minor prezzo tra quello di acquisto o di costo e quello di mercato alla chiusura dell'esercizio; 3) per i cosiddetti beni immateriali (brevetti, marchi, diritti di concessione, ecc.): un valore non superiore al prezzo di acquisto o di costo, con la decurtazione annuale di una quota di utilizzazione o di perdita; 4) per i titoli pubblici e privati: la valutazione è rimessa al prudente apprezzamento degli amministratori, tenuto presente l'andamento delle quotazioni di borsa, per i titoli ivi quotati; 5) per le partecipazioni non azionarie: il valore non può essere superiore a quello risultante dall'ultimo bilancio delle imprese a cui si riferiscono; 6) per i crediti: la valutazione deve tener conto del presumibile valore di realizzo; 7) per le obbligazioni emesse può procedersi all'iscrizione all'attivo della eventuale differenza in più tra il ricavato del prestito obbligazionario e le somme dovute per rimborso alle scadenze, con l'obbligo di un graduale ammortamento di tale differenza.
Le svalutazioni di elementi dell'attivo possono trovare iscrizione nel passivo in appositi fondi.
Altre norme regolano l'iscrizione delle spese d'impianto e di ampliamento, nonché dei ratei e dei risconti contabili attivi e passivi (art. 2426), dell'avviamento e della sua valutazione (art. 2427), dei fondi di anzianità e di quiescenza del personale (art. 2429), ecc.
I predetti criterî di valutazione non sono rigorosamente imperativi in quanto ne è ammessa la deroga, purché indicata e giustificata dagli amministratori. In complesso, quindi, la legislazione italiana in materia di bilancio, pur essendosi modellata sul tipo di quelle interventiste (tedesca, svizzera, inglese, americana), è rimasta sufficientemente elastica per essere più praticamente e concretamente adattabile alle innumerevoli e svariate esigenze aziendali, collimando in questo con la dominante dottrina economico-aziendale.
Il nuovo codice riconferma poi con rafforzata severità le norme, già elaborate in leggi speciali, riguardanti la pubblicità dei bilanci (prescritta per le società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, cooperative, estere), il controllo sindacale, la responsabilità degli amministratori.
Per taluni soggetti, quali le società suddette e altri enti collettivi, come le società civili costituite nella forma di società per azioni e le aziende municipalizzate autonome, il bilancio consente all'amministrazione finanziaria l'accertamento dell'onere contributivo.
Il reddito degli enti tassati in base al bilancio può essere determinato col metodo analitico o con quello induttivo. Con la legge 8 giugno 1936, n. 1231, è stato confermato esplicitamente il principio del metodo analitico, con la prescrizione che per la rettifica del reddito contabile deve procedersi alla correzione delle impostazioni risultanti dal bilancio. L'accertamento induttivo o presuntivo o globale è ammesso solo nel caso in cui gli uffici finanziarî possano presumere la frode fiscale: altrímenti vale la presunzione della verità del bilancio presentato, che può essere combattuta solo mediante impugnativa delle impostazioni del bilancio stesso.
Sulla base del metodo analitico la determinazione del reddito imponibile si ottiene aggiungendo all'utile di bilancio le spese indetraibili e sottraendo da questo totale i redditi che non sono assoggettabili all'imposta di ricchezza mobile o perché esenti o perché già colpiti da altre imposizioni. In tal modo il reddito fiscale finisce per divergere sempre dal reddito contabile, cosicché non infrequenti sono i casi di bilanci contabili passivi che si trasformano in bilanci fiscali attivi, mentre teoricamente può accadere anche l'inverso.
L'imposta sui redditi proprî degli enti tassabili in base al bilancio viene commisurata sul bilancio dell'anno solare antecedente a quello in cui si debbono presentare le denunce. Questa norma ha dato luogo a non pochi inconvenienti ed è stata perciò modificata dalla predetta legge dell'8 giugno 1936, la quale ha disposto che le tassazioni eseguite sul bilancio di rotazione (quello cioè al quale si riferisce la denuncia) hanno carattere provvisorio e devono essere rettificate in base alle risultanze del bilancio di competenza (quello dell'anno su cui cade la tassazione).
Bibl.: F. De Gobbis, Il bilancio delle società anonime, Milano 1931; E. Schmalenbach, Dynamische Bilanz, Lipsia 1931; P. Onida, Il bilancio delle aziende commerciali, Milano 1935; T. D'Ippolito, Strutture e bilanci delle aziende divise, Milano 1937; G. Zappa, Il reddito d'impresa, 2ª ed., Milano 1937; A. De Gregorio, I bilanci delle società anonime, Milano 1938; A. Amaduzzi, Aspetti di problemi di valutazione delle imprese commerciali, Padova 1939; A. Ceccherelli, Il linguaggio dei bilanci, Firenze 1941; C. Fabrizi, Il problema delle valutazioni patrimoniali in rapporto alle variazioni del valor monetario, Milano 1941; P. Saraceno, Il bilancio dell'azienda industriale, Milano 1941.
Il bilancio dello stato (p. 14).
È sempre più diffusa la persuasione che la solidità di una situazione finanziaria non può poggiare unicamente sul pareggio di un elenco di entrate e di un elenco di spese (equilibrio formale), esposti in un pubblico bilancio, e che non basti procedere a ritocchi di tributi o a riduzioni di spese per assicurare un più profondo e sostanziale equilibrio fra attività finanziaria che preleva continuamente tributi da un determinato livello di redditi e attività economica che quel livello continuamente ristabilisce. Il fenomeno finanziario non può essere considerato come un'attività di carattere secondario e marginale da limitare il più possibile; bensì deve essere posto in relazione con l'intera attività economica del paese. Solo in tal modo è possibile accertare se la politica delle spese e quella delle entrate siano bene indirizzate, se il pareggio del bilancio sia effettivo, se gli espedienti messi in essere per conseguire tale pareggio siano veramente idonei allo scopo e quali ripercussioni esplichi tutta questa complessa attività finanziaria sul livello del reddito reale della collettività.
Proprio perché il bilancio non è, in fondo, che un artificio contabile, risulta evidente il valore puramente convenzionale dei "cicli" o "esercizî" in cui si fraziona l'attività statale. Come questa si svolge nel tempo senza soluzione di continuità, così le conseguenze della spesa pubblica impiegano un certo intervallo di tempo per spiegare i loro effetti. Da ciò deriva, secondo alcuni, che è artificioso richiedere che l'equilibrio di bilancio si consegua puntualmente in ciascun esercizio e non piuttosto in periodi più lunghi, tanto più che la vita economica non si svolge come un flusso uniforme, ma è caratterizzata da ondate alterne di prosperità e di depressione.
Queste fasi alterne dipendono, come è noto, più che da oscillazioni dei prezzi, da oscillazioni del reddito, nelle quali deve vedersi l'aspetto sostanziale e più profondo delle crisi economiche.
In relazione a tali fatti resta acquisito dalla dottrina il fenomeno della variabilità del gettito dei tributi, in connessione con le diverse fasi del ciclo economico, perché, aumentando o diminuendo il livello del reddito collettivo, le imposte dirette e indirette che ad esso attingono ne seguono anch'esse - sia pure con diverso grado di intensità e di prontezza - le oscillazioni in aumento o in diminuzione. A queste fluttuazioni le autorità finanziarie tentano di reagire con una politica tributaria di alleggerimenti o inasprimenti fiscali, che difficilmente si palesa la più idonea ad attenuare l'ampiezza del movimento ondoso. D'altra parte è difficile che nei periodi di crisi lo stato riesca a contrarre le sue spese - in armonia con il diminuito gettito fiscale - in quanto in tali momenti forze diverse premono aspramente per ottenere piuttosto una espansione delle spese, per esecuzione di lavori pubblici, per pagamento di sussidî ai disoccupati, ecc. Il canone di un bilancio equilibrato tra entrate e spese viene così infranto.
Ma di recente la dottrina ha mosso più decisi attacchi alla concezione puramente formale dell'equilibrio finanziario, in base alla considerazione che le spese pubbliche sono esse stesse suscettibili di provocare incrementi del reddito collettivo, mediante l'esecuzione di opere pubbliche e le conseguenti ripercussioni sull'occupazione e sul reddito: in sostanza, si dice, le spese statali costituiscono reddito addizionale per determinati gruppi di imprenditori e di lavoratori, favoriscono maggiori consumi, eccitano la ripresa economica. Queste affermazioni vanno accolte con le necessarie cautele, perché si deve osservare che le spese statali solo in parte costituiscono veramente un reddito addizionale, capace di accelerare la ripresa, mentre un'altra parte - più o meno notevole - si astiene dal circolo; come non si può fare a meno di osservare che le spese statali, per un complesso di ragioni, si palesano scarsamente ispirate a criterî di economicità e di produttività. Resta sempre la difficoltà pratica di precisare poi una corrispondenza, anche approssimativa, fra entità e durata di uua fase di ascesa e entità e durata di una fase di depressione.
Anche la politica delle entrate può costituire un ottimo strumento per attenuare l'entità delle fluttuazioni cicliche, in quanto mediante accorti alleggerimenti o inasprimenti fiscali può dirigere gli investimenti privati e stimolare l'attività produttiva in genere. Queste considerazioni sono state recentemente sviluppate e ribadite in occasione degli studî sulla "piena occupazione" (v. occupazione piena, in questa App.), osservandosi che il volume dell'occupazione è determinato dall'ammontare globale delle spese e degli investimenti e che, ove spese e investimenti dei privati non siano sufficienti, è compito dello stato anzitutto provocarne con apposita politica fiscale l'incremento e, in definitiva, colmare la differenza eventuale mediante spese pubbliche coperte da prestiti. In tal modo il bilancio è veramente al centro della vita economica nazionale. In base a tali considerazioni non sembra possibile negare, almeno in linea di principio e sia pure entro certi limiti, l'esattezza delle accennate affermazioni, le cui indicazioni vanno tanto più favorevolmente accolte, ove si rifletta che sempre è da preferire una politica congiunturale attiva a provvedimenti slegati e dispendiosi che si finirebbe ad ogni modo col prendere durante un periodo di crisi.
L'entità del reddito reale collettivo costituisce il limite della politica congiunturale, la quale, pertanto, mentre deve preoccuparsi di attuare un'accorta redistribuzione degli oneri derivanti dalla congiuntura, deve avere come fine precipuo, attraverso la politica delle entrate e delle spese, l'incremento del livello del reddito predetto.
Necessariamente occorre procedere con la dovuta cautela al riguardo, perché - rotto il principio dell'equilibrio nell'ambito di ciascun esercizio - non v'è alcuna garanzia che le spese statali siano effettivamente produttive, ossia riescano a incrementare o almeno garantiscano il ricostituirsi del reddito nazionale in periodo successivo; del pari non v'è alcuna sicurezza circa la durata della fase depressiva, la quale potrebbe impegnare troppo a fondo le risorse finanziarie dello stato, per consentire, poi, che esse si risollevino.
Bibl.: Sir W. Beveridge, Full Employment in a free Society, Londra 1944; G. U. Papi, Equilibrio fra attività economica e finanziaria, Milano 1945; E. F. Schumacher, Public Finance. Its Relation to Full Employment, in The Economics of Full Employment, Oxford 1945.
Procedura parlamentare per l'approvazione in Italia (p. 19). - La procedura parlamentare per l'approvazione dei bilanci nella legislatura XXVIII (20 aprile 1929-10 gennaio 1934) è continuata - più sotto l'aspetto formale che nella sostanza - come nel passato. I due rami del parlamento si attennero cioè ancora alle norme osservate in precedenza, pur dedicando all'importantissimo argomento, che si può dire il centro della vita politica delle nazioni, un'attenzione relativa e soprattutto un minore contributo di esame e di controllo sulle entrate e sulle spese dello stato. Nell'ultimo esercizio di quella legislatura (1934-35), la discussione dei bilanci fu anzi ridotta a tal punto che alcuni di essi furono approvati senza che nessun deputato e nessun senatore chiedesse la parola.
I ministri dimostravano insofferenza alle osservazioni e alle critiche e il parlamento si acconciava a tale stato di cose. Inoltre, per i bilanci di cui era titolare il primo ministro presidente del consiglio, la discussione fu assunta dai sottosegretarî di stato e il disinteresse intorno all'argomento ne risultò ancora accresciuto. Si vide allora lo spettacolo di numerosi bilanci approvati con una precipitosa lettura dei capitoli e degli articoli nella stessa seduta del parlamento, fra la generale disattenzione. Questa decadenza degli istituti rappresentativi si accentuò sempre più nella legislatura XXIX (28 aprile 1934-2 marzo 1939). Gli oratori sui bilanci diminuirono ancora e si limitarono alla trattazioni di questioni di secondaria importanza soprattutto alla Camera, con qualche maggiore dimostrazione da parte del Senato del desiderio di mantenere la funzione di controllo e di vigilanza sulle entrate e sulle spese pubbliche.
Abolita l'origine elettiva della Camera dei deputati e alterata la composizione del Senato con la introduzione in esso di un assai notevole numero di funzionarî, di militari, di dipendenti o ex-dipendenti di pubbliche amministrazioni, la decadenza della funzione del parlamento in materia di bilanci era destinata ad aumentare e la legislatura XXX segnò addirittura la fine del sistema parlamentare.
Infatti, abolita con la legge del 19 gennaio 1939, n. 129, la Camera dei deputati e istituita la Camera dei fasci e delle corporazioni, furono costituite nelle assemblee legislative le commissioni legislative, le quali si adunarono in seduta privata e alle quali furono deferiti la maggior parte dei disegni di legge. La discussione dei bilanci e quella dei disegni di legge di carattere costituzionale e degli altri di maggiore importanza, per l'art. 15 della predetta legge, era deferita alle assemblee plenarie della Camera dei fasci e delle corporazioni e del Senato. Per gli esercizî 1939-40 e 1940-41 i bilanci furono ancora sottoposti all'esame delle assemblee plenarie, ma la discussione fu notevolmente affrettata. Al Senato l'esame di tutti i bilanci 1939-40 fu esaurito in sette sedute e quello per il 1940-41 in nove. L'esame del rendiconto generale dell'amministrazione dello stato fu notevolmente sommario anch'esso; anzi, per l'ultimo rendiconto approvato e cioè quello del 1939-40, non fu nemmeno presentata la relazione.
Sopraggiunta la guerra, il governo assunse pieni poteri anche in materia di bilanci e fino alla caduta del fascismo questi furono esaminati dalle commissioni legislative riunite, in sedute private, delle quali fu dato un resoconto molto succinto.
I governi che si succedettero dopo, data la situazione, dovettero assumere interamente anche il potere legislativo. Istituita dal ministero Bonomi con decr. legge luog. 5 aprile 1945, n. 146, la Consulta nazionale, questa non si occupò di questioni relative ai bilanci se non nelle sue commissioni, per esprimere il parere sopra talune variazioni di stanziamenti agli stati di previsione per l'esercizio 1945-46 e sugli stati di previsione dei bilanci dei ministeri di nuova istituzione. Né i bilanci furono presentati poi all'assemblea costituente. Dal 1944 in pai i bilanci risultarono così approvati con decreti legislativi preceduti da un certo periodo di esercizio provvisorio: per il 1944-45 con decr. legge luog. 31 dicembre 1944, n. 492, per il 1945-46 con decreto legislativo del 10 agosto 1945, per il 1946-47 con decreto del capo provvisorio dello stato del 6 settembre 1946. Per il bilancio 1947-48 si ricorse all'esercizio provvisorio fino al 31 marzo 1948, necessariamente prorogato poi fino alla convocazione delle nuove camere legislative elette il 18 aprile 1948, che riprendono l'esame dei bilanci a norma della nuova Costituzione.
Questa, che è in vigore dal 1° gennaio 1948, ha fissato in precisi termini la competenza delle Camere rappresentative in materia di bilanci stabilendo, all'art. 81, che le camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal governo e che la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte delle camere è sempre adottata per l'approvazione dei bilanci e consuntivi (art. 72). Non è ammesso referendum per le leggi di bilancio. Per gli esercizî provvisorî è stabilito, all'art. 81, che essi sono approvati soltanto con legge e non possono essere concessi per periodi complessivamente superiori ai quattro mesi. Inoltre con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese, e ogni legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. Così, dall'esercizio 1947-48, l'Italia riprende per l'esame dei suoi bilanci la normale procedura parlamentare costituzionale, come in passato.