BIOTECNOLOGIA
Con il termine b. dev'essere inteso, nel senso più ampio, qualsiasi processo produttivo che preveda l'utilizzo di agenti biologici, cellule o loro prodotti. Si tratta di una disciplina applicativa, caratterizzata dall'integrazione di conoscenze e tecniche appartenenti a varie scienze di base quali microbiologia, chimica, biochimica, genetica, immunologia. Essa ha origini molto antiche: basti pensare alle tecnologie fermentative applicate da millenni nella produzione di alimenti e alle tecniche di selezione e reincrocio utilizzate in agricoltura e in zootecnia. L'era nuova ha inizio recente, con l'impiego di agenti microbici con caratteristiche selettive per specifici processi produttivi, contemporaneamente alla capacità di selezionarli e propagarli su larga scala. Tuttavia solo nell'ultimo decennio, con l'apporto decisivo della chimica delle proteine, della fusione di cellule animali e vegetali e dell'ingegneria genetica, si sono determinati progressi tecnologici e conoscitivi sostanziali, e intravisti nuovi orizzonti sperimentali e applicativi. In alternativa alle applicazioni delle tradizionali tecniche genetiche, si possono ottenere nuove cellule microbiche e vegetali o modificare cellule animali, al fine di disporre di sistemi cellulari e/o loro componenti, utili a settori produttivi.
Premessa. − Gli acidi nucleici sono costituiti dall'acido desossiribonucleico, DNA, e dall'acido ribonucleico, RNA. Nelle cellule eucariote, il DNA è aggregato in strutture nucleari, i cromosomi, dove sono contenute tutte le informazioni che determinano la crescita e lo sviluppo degli organismi. L'RNA è invece presente soprattutto nel citoplasma e presiede alla traduzione del codice genetico, cioè alla sintesi delle proteine. Entrambi gli acidi nucleici sono costituiti da catene nucleotidiche. Ogni nucleotide è composto da una base azotata e da una molecola di fosfato. Le basi azotate sono: adenina, citosina, guanina e timina per il DNA, mentre nell'RNA la timina è sostituita dall'uracile; lo zucchero è il desossiribosio per il DNA e il ribosio per l'RNA. L'RNA è costituito da una catena polinucleotidica lineare, il DNA da due catene disposte in senso antiparallelo a formare una doppia elica. Le basi azotate delle due catene sono rivolte all'interno e sono appaiate in modo specifico: guanina con citosina, adenina con timina (fig. 1).
L'informazione genetica è presente nel DNA sotto forma di triplette di basi, i codoni, che corrispondono a un dato aminoacido. La sequenza lineare delle basi del DNA determina l'ordine degli aminoacidi in tutte le proteine: strutturali, funzionali ed enzimatiche. L'informazione contenuta nel DNA viene trascritta in un filamento di RNA messaggero (mRNA) e successivamente tradotta in proteine con la cooperazione dell'RNA di trasporto (tRNA) e dei ribosomi. L'unità di materiale genetico che contiene tutte le informazioni necessarie per la sintesi di una catena polipeptidica (proteina) viene definita gene (fig. 2). Nei procarioti vi è una corrispondenza diretta tra le sequenze di DNA, RNA e proteine, mentre negli eucarioti le regioni codificanti, gli esoni, sono interrotte da sequenze non codificanti, gli introni. L'informazione contenuta nei geni così frammentati viene trascritta in una molecola di RNA, che nel nucleo viene rielaborata mediante eliminazione degli introni: gli esoni così affiancati costituiscono l'mRNA che successivamente viene trasferito nel citoplasma e tradotto in proteine (fig. 3). Alcuni introni svolgono funzioni importanti per la corretta trascrizione, altri per l'espressione, come i promotori, altri ancora rappresentano invece sequenze ripetitive di cui non è ancora nota la funzione. Tutte le proprietà delle cellule sono determinate dalle proteine in esse contenute; in ciascuna cellula sono presenti tutti i geni dell'organismo, ma solo una parte di essi è attiva: questo comporta che cellule diverse contengono proteine diverse.
Tecniche. - Le tecniche del DNA ricombinante e della fusione di cellule animali e vegetali costituiscono le basi delle b. avanzate. Esse consentono di ottenere microorganismi, piante e animali geneticamente modificati, nonché di utilizzare questi sistemi biologici per la produzione su larga scala di sostanze con caratteristiche strutturali e funzionali predeterminate.
Il DNA ricombinante. − Si definisce DNA ricombinante una moleco la di DNA ottenuta con opportune manipolazioni, in cui sono presenti in modo contiguo sequenze nucleotidiche provenienti da DNA appartenen ti a organismi diversi.
Le tecniche del DNA ricombinante, o ingegneria genetica, vengono utilizzate per studiare la struttura molecolare, le funzioni e la regolazione del materiale genetico (geni) o dei suoi trascritti (proteine). Questi procedimenti permettono di manipolare il materiale genetico e di trasferirlo da un organismo all'altro, preservandone la possibile espressione. Il loro sviluppo è legato alla scoperta degli enzimi di restrizione, per la frammentazione del DNA, e della trascrittasi inversa, un enzima che permette la sintesi in vitro della sequenza di un tratto di DNA, DNA complementare (cDNA), utilizzando come stampo il corrispondente mRNA. Con le ligasi si realizza il vero processo di ricombinazione, cioè la congiunzione tra frammenti di DNA di diversa origine. L'uso di opportuni vettori molecolari permette l'inserimento delle molecole ricombinanti in cellule ospiti, dove tali molecole si possono replicare ed essere espresse. Il riconoscimento e l'analisi dei frammenti possono essere effettuati con sonde molecolari costituite da sequenze complementari opportunamente marcate (sonde o bioprobe); inoltre, con adatte tecniche (sequenziamento) può essere definita la sequenza delle basi che compongono il cDNA.
Estrazione e frammentazione degli acidi nucleici. − L'isolamento e la purificazione degli acidi nucleici si effettuano su omogenati cellulari (linfociti periferici, amniociti, ecc.). Il DNA viene estratto con metodi chimici che impiegano solventi organici, dopo digestione con proteasi che degradano la maggior parte del materiale proteico. L'RNA totale si estrae con un forte agente caotropico, l'isotiocianato di guanidio, e un agente riducente, il β−mercaptoetanolo che inattiva le RNasi.
Per la frammentazione si utilizzano enzimi di restrizione, endonucleasi di origine batterica, che tagliano le molecole di DNA in corrispondenza di precise sequenze nucleotidiche. Nelle cellule batteriche essi hanno una fun zione protettiva nei confronti di molecole di DNA estraneo (batteriofagi). Attualmente sono noti almeno 500 enzimi specifici per 100 diversi siti di riconoscimento. Ogni enzima dà origine a frammenti aventi una distribuzione di basi caratteristica per ciascuna molecola di DNA. Si possono pertanto generare frammenti di dimensioni costanti, contenenti geni o loro parti, in base alla caratteristica distribuzione dei siti di riconoscimento presenti nella molecola. I siti di taglio sono costituiti da sequenze con simmetria bilaterale, dette palindromiche (cioè leggendo da sinistra a destra la composizione nucleotidica di un segmento si ottiene la composizione del segmento complementare letta da destra verso sinistra). In rapporto al modo con cui interrompono la molecola si distinguono due tipi di enzimi: quelli che generano tagli sfasati nella doppia elica originando polinucleotidi con estremità ''coesive'' (sticky ends), e quelli che generano tagli netti originando polinucleotidi con estremità ''tronche'' (blunt ends) (fig. 4).
Separazione dei frammenti. − La separazione dei frammenti viene effettuata mediante migrazione in gel di agarosio sotto l'effetto di un campo elettrico (elettroforesi orizzontale). La visualizzazione della distribuzione dei frammenti nel gel si effettua con bromuro di etidio, un colorante fluorescente che si lega alle basi nucleotidiche.
Perché i frammenti separati possano essere identificati con tecniche d'ibridazione molecolare è necessario trasferirli su supporti solidi, come nylon e nitrocellulosa. La tecnica proposta da E. Southern nel 1975 può essere utilizzata per trasferire sia il DNA (Southern blot) sia l'RNA (Northern blot). Un flusso costante di ioni determina il trasferimento dei frammenti dal gel al supporto, con esso in contatto, nell'esatta posizione in cui vengono localizzati dalla migrazione elettroforetica. Il trasferimento avviene facilmente per RNA e DNA a singola elica, mentre il DNA a doppia elica dev'essere prima denaturato. Solo se le due eliche sono disgiunte, i frammenti si legano efficacemente al filtro e possono poi dare reazioni d'ibridazione con sonde specifiche opportunamente marcate (fig. 5).
I vettori. − Sono costituiti da molecole di DNA non cromosomico, plasmidi, fagi, cosmidi, retrovirus che, opportunamente manipolati, consentono di trasferire all'interno del genoma di cellule ospiti i frammenti del DNA oggetto di studio (fig. 6).
I plasmidi sono strutture presenti nei batteri, costituite da DNA circolare a doppia elica in cui vi sono, in numero limitato, specifici siti di restrizione e geni responsabili della resistenza batterica per alcuni antibiotici. Vengono utilizzati per inserire frammenti di poche migliaia di basi in cellule procariote. I plasmidi, trattati con enzima di restrizione, assumono la forma lineare; a essi vengono aggiunti i frammenti di DNA ottenuti con lo stesso enzima. In presenza di DNA ligasi buona parte dei frammenti generati s'integrano nel plasmide che riassume la forma circolare. Questa è la vera fase di ricombinazione: si ottengono infatti molecole di DNA ibride, una parte delle quali appartiene al plasmide e un'altra all'organismo in studio. I plasmidi ricombinanti vengono posti in presenza di cellule batteriche ospiti competenti permeabili al passaggio (trasformazione) dei plasmidi. La selezione dei batteri così trasformati si basa sull'acquisizione della resistenza ad antibiotici conferita dai plasmidi. La capacità replicativa dei plasmidi non è legata ai cicli di divisione batterica, di conseguenza possono essere ottenute numerose copie di DNA plasmidico, ciascuna contenente il frammento esogeno.
I batteriofagi (fagi) sono virus a DNA che infettano i batteri e possono replicare o autonomamente o incorporando il proprio DNA nel cromosoma batterico. Il fago più studiato è il fago lambda che è costituito da 60 geni le cui sequenze sono ormai note. Questi vettori vengono utilizzati quando i frammenti di DNA che s'intendono inserire (clonare) hanno dimensioni superiori alle 15 chilobasi (kb). I fagi costituiscono un importante strumento di amplificazione in quanto replicano nella cellula diverse migliaia di volte. L'infezione di un batterio da parte di un fago ricombinante si definisce transfezione e comporta la lisi dei batteri da parte dei fagi (placche di lisi).
Se i frammenti da clonare presentano dimensioni notevoli, fino a 50 kb, come vettori vengono utilizzati i cosmidi. Essi sono costituiti da molecole ibride di DNA a doppia elica, di cui una parte è di origine plasmidica e una parte fagica. Essi contengono geni per l'antibiotico-resistenza, siti di restrizione e siti coesivi (cos) che ne permettono la circolarizzazione.
I vettori retrovirali sono costituiti da genomi virali in cui i geni strutturali sono sostituiti con il segmento di DNA da clonare affiancato da sequenze LTR (Long Terminal Repeat) che regolano l'espressione del frammento e deter minano la fine della trascrizione. In quanto mutati nei geni strutturali que sti vettori possono infettare e integrarsi nelle cellule bersaglio ma non pos sono replicare. I retrovirus sono dei sistemi ideali per il trasporto di geni in cellule eucariote, consentono l'infezione simultanea di un elevato numero di cellule e il gene transfettato viene trascritto e tradotto con buona efficienza. Il virus più utilizzato per preparare vettori retrovirali è quello responsabile della leucemia murina tipo Moloney (MoMuLV).
Clonazione e selezione di ibridi ricombinanti. − Dopo la trasformazione o la transfezione, le cellule ospiti, in cui sono presenti molte molecole di DNA ricombinante, vengono cresciute in terreni di coltura dove formano colonie costituite da cloni cellulari derivanti da un singolo elemento e che pertanto conterranno tutti lo stesso inserto. Questo procedimento si definisce clonazione o clonaggio e permette di ottenere copie multiple (generalmente milioni) di una particolare sequenza di DNA ricombinante (fig. 7). Il metodo più utilizzato per identificare e analizzare i cloni ricombinanti è l'ibridazione o tecnica di Grunstein-Hogness. Le colonie batteriche cresciute in agar, o le placche di lisi, vengono duplicate per apposizione su filtro di nitrocellulosa, e quindi lisate con alcali. Il DNA così denaturato si lega al supporto solido su cui si effettua la reazione d'ibridazione con sonde specifiche.
Le sonde molecolari, bioprobe, sono costituite da frammenti di acidi nucleici (DNA, RNA) omologhi a quelli che si vogliono indagare. Possono essere costituite da DNA genomico (ottenuto per frammentazione e clonazione), da DNA complementare (cDNA) ottenuto per retrotrascrizione dell'mRNA, oppure da RNA. L'ibridazione fra frammenti complementari viene evidenziata in quanto la sonda è opportunamente marcata con isotopi radioattivi (32P) o con sistemi biochimici (biotina). La composizione nucleotidica del DNA può quindi essere analizzata in dettaglio (sequenziamento) mediante le tecniche proposte da Maxam-Gilbert e da F. Sanger.
Gli anticorpi monoclonali. − Gli anticorpi sono glicoproteine prodot te da cellule del sistema immunitario, i linfociti B, in risposta a molecole esogene, gli antigeni. La caratteristica fondamentale degli anticorpi è la specificità dell'interazione (riconoscimento) con una o più strutture molecolari, gli epitopi, presenti sugli antigeni. Ogni antigene è quindi in grado di attivare molti linfociti (risposta policlonale), ognuno dei quali produrrà anticorpi con diversa specificità e affinità verso i differenti epitopi determinando una miscela estremamente eterogenea (antisiero). Ciò rende impossibile predeterminare le caratteristiche di riconoscimento di un antisiero limitandone l'utilizzo sia in diagnostica che in terapia. Al contrario, con la tecnica dell'ibridazione cellulare proposta da G. Köhler e C. Milstein nel 1975, è possibile produrrre anticorpi monospecifici ad alta affinità (fig. 8). Tale tecnica consiste nella fusione di cellule neoplastiche plasmacellulari (mieloma) con linfociti B sensibilizzati verso un determinato antigene in modo da consentirne la coltura in vitro. La cellula ibrida che ne deriva, ibridoma, è dotata delle caratteristiche di ambedue le cellule parentali: come il mieloma si riproduce per un tempo illimitato, come il linfocita secerne anticorpi. Gli anticorpi secreti da un clone di linfociti presentano tutti le stesse caratteristiche strutturali e funzionali e vengono detti monoclonali. La tecnica è ormai di larga applicazione e, in seguito alle molte modifiche apportate in questi anni, permette la produzione in vitro di anticorpi specifici verso ogni antigene. La sensibilizzazione dei linfociti può essere effettuata in vivo, somministrando l'antigene per via parenterale ad animali, generalmente topi del ceppo BALB/c ma anche ratti e conigli, o in vitro, quando si vogliano produrre anticorpi umani o verso molecole con scarsa attività antigenica, antigeni labili, antigeni self. In questo caso i linfociti, presenti nel circolo periferico, vengono separati dalle altre cellule ematiche e posti, in opportuni terreni di coltura, a contatto con l'antigene. Dopo un tempo variabile, in funzione del protocollo d'immunizzazione utilizzato, si devono rendere i linfociti in grado di proliferare e quindi di secernere anticorpi. I procedimenti utilizzati sono la fusione cellulare, la trasformazione e la transfezione. La fusione cellulare si effettua ponendo in contatto i linfociti con cellule di tumori plasmacellulari in modo da fondere le rispettive membrane. Questo è possibile mediante l'impiego di agenti chimici, come il polietilenglicole, o biologici come il virus Sendai, oppure generando campi elettrici in modo che le membrane citoplasmatiche vengano temporaneamente depolarizzate favorendo la fusione e la ricombinazione del materiale nucleare delle due cellule. La trasformazione si ottiene con il virus di Epstein Barr (EBV), un virus linfotropo che infetta cioè selettivamente i linfociti B integrandosi nel loro genoma, rendendoli stabili e in grado di secernere anticorpi. Questa tecnica è impiegata per la produzio ne di anticorpi monoclonali umani, il cui interesse è legato al loro utiliz zo terapeutico.
La transfezione consiste invece nel trasferimento diretto ai linfociti di DNA genomico contenente sequenze oncogene. La selezione degli ibridi secernenti gli anticorpi d'interesse si effettua attraverso l'analisi dei surnatanti di coltura e il clonaggio, cioè l'isolamento delle singole cellule per ottenere una progenie omogenea o clone. Esse vengono quindi espanse mediante coltura su larga scala per la produzione di grandi quantità di anticorpi. L'applicazione della tecnica del DNA ricombinante alla fusione cellulare ha offerto la possibilità di produrre anticorpi monoclonali con caratteristiche predefinite di grande importanza applicativa sia diagnostica che terapeutica: gli anticorpi chimerici. Gli anticorpi chimerici (ibridi) sono anticorpi monoclonali prodotti da una cellula ottenuta per fusione di due diversi ibridomi. Questi anticorpi presentano pertanto una doppia specificità in quanto esprimono sulle due catene immunoglobuliniche due siti combinatori per due diversi determinanti antigenici.
Settori applicativi. − Microbiologia industriale. − I microorganismi utilizzabili nei processi industriali appartengono a due gruppi tassonomici: batteri e miceti (funghi). I batteri sono procarioti costituiti da cellule di dimensioni variabili da 0,5 a 2 μm; contengono un solo cromosoma a doppio filamento di DNA e sono privi di membrana cellulare. I miceti sono eucarioti costituiti da cellule con dimensioni da 5 a 10 μm, e contengono più cromosomi (alcune specie fino ad alcune decine) deliminati da membrana nucleare.
Fra i gruppi di microorganismi ve ne sono alcuni in grado di produrre spontaneamente sostanze d'interesse industriale (antibiotici, enzimi, aminoacidi, vitamine, ecc.). Gli actinomiceti, per es., vengono utilizzati per la produzione di antibiotici; i lieviti per produrre le cosiddette biomasse e metaboliti primari; i batteri come mezzo di espressione di geni di organismi superiori.
Caratteristiche peculiari che rendono i microorganismi estremamente versatili nei processi industriali sono: la capacità di riprodursi con grande rapidità e l'utilizzo di elementi nutritivi a basso costo. Le più grandi riserve naturali di microorganismi sono costituite dal suolo e dall'acqua, ed è da queste fonti che si attingono nuovi microorganismi su cui si effettuano isolamenti selettivi con mezzi chimico-fisici. I sistemi di selezione sfruttano le caratteristiche intrinseche di crescita di ogni ceppo: temperatura, pH, presenza di antibiotici, substrati specifici. Il metabolismo microbico implica una serie complessa di reazioni chimiche che portano alla produzione di metaboliti intermedi o finali utilizzabili da vari settori industriali: acido piruvico e lattico, alcool etilico, aminoacidi, antibiotici, vitamine, nucleotidi. In condizioni normali, tutte queste sostanze vengono prodotte dai microorganismi in quantità definite, regolate con vari meccanismi. I più semplici sono rappresentati dall'azione dei parametri che condizionano la velocità delle reazioni enzimatiche attraverso cui si formano le varie sostanze (pH, concentrazione enzimatica, prodotti intermedi, sali) e dalla retroinibizione determinata dal prodotto finale. Vi sono microorganismi utilizzabili, nei processi industriali, come si trovano in natura, oppure possono essere manipolati in modo da alterarne il programma genetico e quindi le funzioni.
Le tecniche utilizzate sono la mutazione e la ricombinazione. La mutazione, spontanea o indotta da mutageni, è la conseguenza di cambiamenti casuali nella sequenza del DNA con alterazione dei singoli codoni che possono determinare variazione nelle proteine codificate. La ricombinazione è dovuta invece all'introduzione, nel DNA, di materiale genetico estraneo, appartenente a cellule anche di specie diverse, e dà origine a nuovi organismi. Questi eventi, che peraltro avvengono da sempre spontaneamente in natura essendo la base del processo evolutivo, possono essere riprodotti in modo mirato in vitro per ottenere ceppi con predeterminate caratteristiche di produttività e selettività.
A questo scopo la tecnica più utilizzata per manipolare microorganismi è quella del DNA ricombinante. Essa consente la produzione in microor ganismi di proteine tipiche di altri organismi, il controllo della quantità prodotta (per aumentare la quantità di enzima sintetizzato), la modificazione, in modo predeterminato, della struttura di una proteina (per es., per una maggiore stabilità).
Queste possibilità hanno comportato sviluppi fortemente innovativi nei procedimenti di fermentazione (colture massive di microorganismi in mezzo liquido) e di bioconversione (trasformazioni specifiche di sostanze mediante enzimi). La crescita su larga scala di cellule microbiche viene anche utilizzata per la produzione di biomasse, metaboliti primari (alcool, aminoacidi) e secondari (antibiotici, enzimi). Con le nuove tecniche dell'ingegneria proteica è inoltre possibile produrre molecole enzimatiche non esistenti in natura, capaci di agire in condizioni critiche (temperature e concentrazioni saline elevate, solventi non acquosi, pH diversi dalla neutralità). I campi applicativi di questa tecnologia sono molteplici: produzione di composti a elevato valore aggiunto, estrazione e produzione di biocombustibili, utilizzo di sostanze non facilmente o per nulla biodegradabili.
Enzimi e ingegneria proteica. −Gli enzimi naturali estrattivi utilizzati nei processi industriali possono non essere stabili alle condizioni operative in cui si effettuano. La loro stabilizzazione è pertanto un'esigenza primaria per realizzare bioconversioni in condizioni non fisiologiche. I procedimenti sviluppati a tal fine sono vari, per es. l'immobilizzazione su supporti solidi e/o loro modificazioni strutturali. L'ingegneria proteica, o mutagenesi sito-specifica, è una tecnica che permette di modificare la struttura primaria di varie proteine, fra cui gli enzimi. Variando in modo selettivo e predeterminato la molecola enzimatica − attraverso la manipolazione di geni precedentemente clonati in vitro- si può conferire ad essa maggior stabilità e/o variarne le proprietà funzionali (proprietà di binding, specificità di substrato).
La tecnica consiste nella sintesi chimica di un oligonucleotide (12÷16 nucleotidi) complementare al gene nelle regioni in cui si trova il sito che s'intende mutare ma che contiene alcune basi variate, corrispondenti all'aminoacido che s'intende introdurre o sostituire (fig. 9). L'oligonucleotide viene ap paiato a una copia del gene a singola catena e, con l'aggiunta di DNA polimerasi, si realizza la sintesi della rimanente porzione di DNA complementare. La molecola di DNA così ottenuta viene inserita in batteri da cui si otterranno cloni contenenti il gene originale e cloni contenenti il gene mutato. Questi ultimi possono essere identificati mediante ibridazione con una sonda costituita dall'oligonucleotide sintetico impiegato per la mutazione.
La mutazione di microorganismi produttori di enzimi utili per scopi industriali è già largamente utilizzata. Un esempio è costituito dalla produzione batterica di penicillina, la cui resa di produzione, legata alla funzionalità dell'apparato enzimatico del batterio, è stata negli ultimi 40 anni incrementata di 10.000 volte. Inoltre vi è la possibilità di produrre ex novo proteine con inusuali proprietà funzionali e catalitiche (denovo enzyme synthesis). Attualmente vi sono alcune limitazioni applicative di questa tecnica dovute alla scarsa conoscenza delle relazioni struttura-attività enzimatica e dei loro meccanismi d'a zione, per cui non sempre è prevedibile l'effetto funzionale di una modifica nella sequenza aminoacidica. L'ingegneria proteica, pur essendo di recente introduzione, ha già fornito alcuni promettenti risultati; fino a ora le proteine studiate sono essenzialmente di natura enzimatica ma le tecniche e le metodologie sviluppate sono applicabili per la modifica di qualsiasi proteina.
Biodegradazioni. − Lo smaltimento dei rifiuti urbani e industriali rappresenta un aspetto importante per la salvaguardia di tutto l'ecosistema. Lo sviluppo di nuove tecnologie per questo settore si fonda sull'uso combinato di sistemi biologici (microorganismi o loro componenti) e chimici. Le degradazioni del materiale organico si possono realizzare impiegando microorganismi specifici, e possono essere condotte in presenza di ossigeno (processi aerobici) o in sua assenza (processi anaerobici).
I processi aerobici determinano la demolizione del materiale organico con formazione di ammoniaca, anidride carbonica e consumo di energia. Vi sono molti microorganismi, presenti in natura, attivi in questo processo: batteri (Pseudomonas, Nocardia), funghi (Geotricum, Fusarium, e lieviti), alghe e protozoi. Altri ancora intervengono poi nella trasformazione dell'ammoniaca in nitrati e infine in azoto, che sono utilizzabili come fertilizzanti. Da questo tipo di demolizione si formano tuttavia quantità notevoli di materiali insolubili, i fanghi, che a loro volta devono essere smaltiti e che contengono tracce considerevoli di metalli pesanti.
I processi anaerobici portano invece alla produzione di acidi organici, alcool, chetoni, gas, enzimi e vitamine. Questo tipo di trasformazione avviene ad opera di tre gruppi di microorganismi (batteri idrolitici, batteri acetogenici, batteri metanogenici), e comporta la formazione di una quan tità considerevole di metano (biogas) riutilizzabile come combustibile.
Molti tipi di rifiuti possono quindi essere trattati con sistemi biologici e convertiti in materiali riutilizzabili. Per es., i rifiuti organici derivati dall'allevamento intensivo di bestiame possono essere fermentati in condizioni anaerobiche per produrre biomassa e metano; quest'ultimo costituisce il prodotto più rilevante della degradazione anaerobica con rese e composizioni che variano in rapporto alle caratteristiche del substrato decomposto e alla temperatura a cui viene condotto il processo.
Agricoltura. − Gli obiettivi perseguiti dalle b. nel settore agricolo sono rappresentati dalla produzione di specie vegetali resistenti a patogeni e a erbicidi; capaci di utilizzare l'azoto atmosferico; con maggior contenuto proteico dei semi qualitativamente migliori; resistenti a condizioni chimiche e climatiche sfavorevoli quali salinità, gelo, siccità. I vegetali sono costituiti da cellule eucariote derivanti tutte da un singolo elemento, e che pertanto contengono tutte lo stesso patrimonio genetico.
Il differenziamento e la crescita cellulare sono legati alla presenza di sostanze chimiche prodotte dalle cellule stesse: le auxine e le citochine. La loro concentrazione e il loro rapporto varia a seconda delle condizioni in cui la cellula si trova a operare. Le auxine stimolano la proliferazione di cellule non differenziate − callo - da tessuti differenziati (steli, foglie, ecc.) e la radicazione. Le citochine stimolano l'organogenesi e la formazione di germogli nel callo, mentre inibiscono la radicazione. La conoscenza dettagliata delle funzioni di questi ormoni sulla crescita cellulare ha consentito la riproduzione controllata in vitro dei fenomeni proliferativi. Le cellule vegetali, come quelle di altre specie, possono essere fatte crescere in coltura per la produzione massiva di metaboliti utili. Esse presentano, rispetto a quelle animali, un'importante proprietà biologica, la ''reversibilità dello stato differenziato'', cioè la possibilità di rigenerare una pianta completa a partire da una singola cellula. Questa possibilità, pur con le limitazioni dovute all'ancora scarsa conoscenza genetica dei vegetali, permette d'intervenire sul genoma di cellule isolate per inserire geni esogeni e ottenere una pianta trasformata. In analogia con le cellule microbiche, la parete cellulare delle cellule vegetali può essere rimossa enzimaticamente dando origine a protoplasti (fig. 10A). Le cellule così trattate, se sospese in soluzioni ipertoniche di sali e zuccheri, si mantengono vitali e, ripristinando opportune condizioni, rigenerano la parete. La fusione di protoplasti di specie diverse, anche sessualmente incompatibili, consente la ricombinazione del materiale genetico con la formazione di una cellula ibrida. Con questa tecnica è possibile ottenere ricombinazione intraspecifica (fra ceppi della stessa specie), interspecifica (fra ceppi di specie diversa), e intergenerica (fra generi diversi della stessa famiglia). La fusione di protoplasti è largamente utilizzata per sviluppare e selezionare nuove varietà, e offre rispetto alle tecniche d'incrocio e selezione (breeding) notevoli vantaggi. Essa è utile quando il gene da trasferire non sia già stato clonato, quando si debba trasferire un intero sistema di geni oppure si vogliano generare nuove combinazioni tra geni organellari e nucleari. La base genetica di questa tecnica è legata alla ricombinazione fra geni strutturali silenti di un ceppo e geni regolatori di un altro che inducono l'espressione e/o la ricombinazione di geni strutturali di ceppi diversi, con produzione di sostanze ibride.
Altre tecniche utilizzate per il trasferimento di geni in cellule vegetali sono l'inserimento diretto di DNA nei cromosomi di protoplasti (micro iniezione) e il trasferimento mediato da Agrobacterium tumefaciens o dal vi rus del mosaico del cavolfiore (CaMV). Nel plasmide pTi (plasmid tumor inducing) dell'Agrobacterium tumefaciens sono presenti geni che causano nel le dicotiledoni una malattia neoplastica nota come ''galla del colletto'' (crow gall). Questi geni, non espressi nel batterio, diventano attivi quando trasferiti nelle cellule vegetali e portano alla produzione di opine, sostanze che vengono utilizzate come fonti di energia per la proliferazione batterica dopo l'infezione. Le sequenze oncogene del plasmide possono essere sostituite con geni esogeni che vengono così integrati nel DNA genomico ed espressi, consentendo la selezione di protoplasti o di plantule trasformate (fig. 10B). Nelle colture non infettabili con Agrobacterium vengono inseriti per microiniezione, direttamente nel DNA di protoplasti, geni chimerici prodotti in vitro contenenti sequenze capaci di determinare un elevato grado di trascrizione genica nella cellula vegetale.
Bioinsetticidi. − L'impiego di sostanze prodotte da microorganismi o di microorganismi dotati di attività insetticida per proteggere le colture vegetali dai parassiti (batteri, funghi, virus) costituisce un'alternativa all'uso massivo di prodotti chimici fortemente inquinanti e spesso dannosi all'uomo e agli animali. Queste sostanze comprendono inibitori della respirazione e della sintesi proteica e molecole attive sulla membrana cellulare. Le nikkomicine, per es., analoghi dei nucleosidi naturali, inibiscono la sintesi di una sostanza presente nell'esoscheletro di vari insetti: la chitina. L'avermectina invece − un lattone macrolide prodotto da Streptomyces avermictilis - è ormai da tempo impiegata nella disinfestazione da elminti negli animali. Il microorganismo più studiato per la sua attività patogena nei confronti di insetti infestanti è il Bacillus thuringiensis, un batterio sporigeno che protegge piante arboree ed erbacee da larve di lepidotteri e ditteri. La sua attività insetticida è dovuta a una glicoproteina che si forma contemporaneamente alla spora e che diventa attiva quando viene ingerita dagli insetti. Recentemente, i geni codificanti per questa proteina sono stati isolati, sequenziati e utilizzati per trasformare piante di tabacco e pomodoro. Le piante trasformate si sono mostrate in grado di sintetizzare tossine fisiologicamente attive contro gli insetti. I bioinsetticidi mostrano elevata specificità, non producono, come avviene per quelli chimici, specie resistenti, e non sono inquinanti.
Un altro obiettivo fondamentale è la produzione di piante resistenti a erbicidi: l'uso eccessivo di queste sostanze è infatti responsabile dell'inquinamento delle falde acquifere. Si conoscono sostanze ad azione erbicida molto elevata ma non selettiva, come il glifosato e le solfaniluree, che inibiscono la crescita di piante sia agrarie che infestanti e vengono rapidamente degradate dai microorganismi del suolo. Recentemente è stata dimostrata la possibilità di ottenere specie vegetali resistenti al glifosato, manipolando il gene che codifica per un enzima localizzato nei cloroplasti (organelli citoplasmatici responsabili della fotosintesi clorofilliana) che nella forma nativa determina la sensibilità della pianta all'erbicida.
La produttività dei terreni è direttamente correlata alla quantità di sostanze azotate in essi presenti. I vegetali utilizzano per il loro metabolismo solamente l'azoto nitrico e ammoniacale che dev'essere fornito in massima parte sotto forma di composti chimici. In natura sono però presenti microorganismi (batteri e alghe) che fissano l'azoto atmosferico trasformandolo in ammoniaca. Alcuni vivono liberi nel terreno (Klebsiella, Azobacter, Clostridium, Azospirillum), altri vivono in simbiosi con le radici delle leguminose (Rhizobium, Actinomices). I geni nif, responsabili dell'azotofissazione, sono stati identificati e nella specie Klebsiella pneumonia sono raggruppati in otto operoni mentre nel genere Rhizobium sono localizzati sul plasmide; questo fa supporre la possibilità del loro trasferimento ai vegetali in modo da renderli capaci di fissare direttamente l'azoto atmosferico. Altri microorganismi che opportunamente manipolati sono utili al miglioramento delle colture vegetali sono lo Pseudomonas putida e lo Pseudomonas syringae: il primo agisce rilasciando fattori protettivi dall'aggressione di altri microbi, il secondo determina la protezione delle colture dal gelo.
Animali transgenici. − L'espressione di geni esogeni in batteri o in cellule animali coltivati in vitro non consente di evidenziare e studiare le complesse interazioni con cui avviene la regolazione dello sviluppo embrionale e la loro diversa espressione in specifici tessuti dell'organismo.
Gli animali transgenici, animali nelle cui cellule germinali sono state introdotte copie di geni esogeni, rappresentano validi modelli per lo studio dei meccanismi sopraelencati, oltre che per lo studio delle malattie genetiche umane, della cancerogenesi e per la selezione di specie animali più produttive.
I punti nodali per la produzione di animali trans genici sono rappresentati dalla preparazione di costrutti idonei di DNA esogeno, dalla preparazione e selezione delle cellule in cui inserirli, e dal trasferimento delle cellule manipolate. I metodi più comunemente utilizzati per l'inserimento di geni in cellule animali sono: la microiniezione di DNA nudo nei pronuclei di cellule uovo già fecondate, l'infezione di embrioni con retrovirus, la transfezione di cellule germinali embrio nali. Ognuno di questi approcci presenta, allo stato attuale, ancora molti limiti perché possa venir applicato su larga scala. Il più promettente appare il trasferimento di geni con vettori retrovirali che penetrano attivamente nelle cellule attraverso appositi recettori. Essi permettono d'inserire una singola copia di geni in un sito predeterminato, sebbene le dimensioni degli inserti siano piuttosto piccole (inferiori cioè alla lunghezza della maggior parte dei geni) e non sempre venga rispettata l'entità e la regolazione della loro trascrizione nelle cellule trasformate.
Il primo esperimento riguardante la manipolazione di cellule germinali animali risale al 1982, quando il gene per l'ormone della crescita (GH = Growth Hormone) appartenente a un'altra specie (ratto) fu inserito in topi, ottenendo come risultato un animale di dimensioni più grandi. Questo risultato, di per sé non rilevante, dimostrava però che il gene esogeno si era integrato nella linea germinale e che si potevano produrre nuove linee animali in cui erano espressi caratteri di altre specie. Questo lascia intravedere la possibilità di produrre in animali transgenici importanti proteine che potrebbero essere sintetizzate e immagazzinate nelle cellule ematiche o trasportate con il sangue alla ghiandola mammaria e direttamente secrete con il latte. Un altro obiettivo perseguito con le tecniche transgeniche è il miglioramento delle specie animali d'interesse produttivo.
Medicina. − Biodiagnostici. - Gli anticorpi monoclonali. Le caratteristiche intrinseche degli anticorpi monoclonali (purezza, omogeneità di legame, specificità, disponibilità illimitata) li rendono reagenti versatili e innovativi con un largo spettro applicativo. Il settore diagnostico è quello che finora ha maggiormente beneficiato dell'uso degli anticorpi monoclonali. Il riconoscimento selettivo di strutture molecolari d'interesse biologico presenti sulle superfici cellulari o nei liquidi organici ha consentito di realizzare e standardizzare sistemi analitici estremamente sensibili per la misura di un gran numero di composti: proteine, ormoni, farmaci, antigeni virali e batterici, antigeni associati a neoplasie. Ed è proprio in ambito oncologico che gli anticorpi monoclonali si sono mostrati reagenti innovativi nella diagnostica sia in vitro che in vivo. Opportunamente coniugati con molecole radioattive, essi possono essere impiegati in sensibili tecniche immunoscintigrafiche per la localizzazione di neoplasie o metastasi anche di dimensioni ridotte ( v. oltre, Biofarmaci, e anche tab. 1).
Il DNA ricombinante. La tecnologia del DNA ricombinante ha fornito gli strumenti necessari per un approccio diagnostico diretto di molte patologie. Le sonde molecolari permettono di evidenziare, direttamente sul DNA, le alterazioni responsabili di molte malattie genetiche in epoca precoce (diagnosi prenatale) anche quando il difetto non comporti un'espressione fenotipica (eterozigoti). Quando sia nota la sequenza del gene alterato, l'analisi può essere effettuata con una sonda costituita da una sequenza a essa complementare. In alternativa, per l'analisi di geni complessi di cui non sia nota la struttura, la diagnosi può essere posta attraverso lo studio dell'associazione (linkage) tra gene mutato e alterazioni del DNA esterno al gene ma a esso adiacente. Variazioni nella struttura del gene possono determinare, nelle regioni che lo fiancheggiano, la perdita o la formazione di siti di restrizione. Pertanto i frammenti generati da un particolare enzima di restrizione avranno lunghezza diversa. Poiché i frammenti di restrizione vengono trasmessi per semplici rapporti mendeliani di segregazione, è possibile utilizzare i polimorfismi del DNA come marcatori genetici nello studio della trasmissione di alleli specifici. Un'ulteriore applicazione diagnostica delle sonde è rappresentata dalla rilevazione diretta, su tessuti (ibridazione in situ), di segmenti di DNA o RNA a esse complementari. Si può quindi effettuare lo studio diretto di eventi fisiologici come la sintesi di proteine strutturali, enzimi, messaggeri, ed eventi patologici come le infezioni virali e l'espressione di oncogèni. Gli oncogèni sono geni che in condizioni normali codificano per proteine recettoriali e per proteine che rendono la cellula ''sensibile'' a segnali extracellulari (ormoni, neurotrasmettitori, fattori di crescita), determinando quindi la regolazione del metabolismo e della proliferazione. Cambiamenti strutturali di questi geni di ''attivazione'' determinano la sintesi anomala di queste proteine e quindi una proliferazione cellulare incontrollata con fenotipo mutato come nelle lesioni precancerose o cancerose.
Biofarmaci. − Gli anticorpi monoclonali sono stati ormai ampiamente sperimentati in terapia oncologica. Essi possono veicolare selettivamente tossine e chemioterapici direttamente alle cellule tumorali, riducendo in tal modo l'elevata tossicità sistemica di questi farmaci. Particolarmente efficaci in tal senso sono gli anticorpi ibridi chimerici che in rapporto alle loro caratteristiche esercitano un'azione citotossica selettiva legandosi contemporaneamente sia a cellule neoplastiche che a cellule con attività citotossiche di cui amplificano l'attività litica. Inoltre si stanno conducendo interessanti sperimentazioni utilizzando anticorpi anti-idiotipo allo scopo di far seguire all'immunoterapia passiva, mediante somministrazione di immunoglobuline, una risposta attiva e specifica da parte del sistema immunitario del soggetto. Gli anticorpi anti-idiotipo sono anticorpi che riconoscono come antigeni alcune strutture molecolari presenti nelle regioni variabili di altri anticorpi, gli idiotipi, le quali possono mimare le proprietà biologiche dell'antigene e possono quindi sostituirsi a esso per indurre una risposta immunitaria specifica attraverso la produzione di anticorpi anti-idiotipo.
Il riconoscimento di antigeni cellulari specifici da parte degli anticorpi monoclonali viene anche sfruttato nel trattamento in vitro di cellule midollari prima del trapianto, con due possibili obiettivi. Il primo consiste nell'eliminazione selettiva di cellule neoplastiche residue dal midollo di soggetti nei quali si voglia effettuare un trapianto autologo; il secondo nell'eliminazione dei linfociti T immunocompetenti che potrebbero determinare una reazione di ''trapianto verso l'ospite'' a seguito di trapianto di midollo allogenico. I primi prodotti terapeutici ottenuti con la tecnica del DNA ricombinante sono state alcune proteine umane con attività biologica (ormone della crescita, insulina e fattori della coagulazione), che hanno consentito di sostituire l'uso di molecole eterologhe estrattive difficilmente disponibili in quantità adeguate. Più recentemente sono state prodotte sostanze immunomodulanti, gli interferoni alfa e gamma e l'interleuchina 2, impiegate con qualche successo nella terapia antitumorale o antivirale. Per queste patologie è prevedibile la produzione di altre molecole, parallelamente alla scoperta di nuovi composti a elevata attività biologica come il TNF (Tumor Necrosis Factor), una molecola che mostra attività citotossica nei confronti di molti tipi di cellule neoplastiche.
I vaccini. − Un vaccino ideale dev'essere in grado d'indurre nell'organismo una risposta immunitaria protettiva identica a quella associata all'infezione naturale causata dal microorganismo, senza presentare effetti collaterali.
I vaccini convenzionali vengono prodotti con due approcci: inattivazione dei patogeni o isolamento di ceppi attenuati. Entrambe queste procedure presentano molti inconvenienti: la possibile presenza di virus virulenti residui, e la presenza di acidi nucleici che possono determinare dopo l'inoculo effetti collaterali indesiderati e rischiosi.
Le strategie seguite per lo sviluppo di nuovi vaccini sono l'identificazione e quindi l'espressione di subunità attive (ricombinanti), i peptidi sintetici e gli anticorpi anti-idiotipo. Mediante l'analisi della struttura antigenica dell'agente infettivo si possono identificare le porzioni in grado di evocare una risposta immunitaria protettiva, e dall'analisi della sequenza proteica si può derivare quella del corrispondente mRNA e quindi sintetizzare la copia del gene (cDNA) che può essere opportunamente inserito in cellule batteriche per la produzione di grandi quantità di proteine ricombinanti utilizzabili come vaccini. Esempi in tal senso sono costituiti dal vaccino contro il virus dell'epatite di tipo B e verso le tossine di E. coli.
I vaccini peptidici, sintetici, sono invece prodotti per sintesi chimica. La capacità di una proteina di stimolare o legare anticorpi è ristretta a deter minate aree della sua struttura: gli epitopi o determinanti. Essi sono costi tuiti da pochi residui aminoacidici (5÷8) esposti sulla superficie proteica che possono essere contigui oppure distanti nella sequenza ma avvicinati dai ripiegamenti della catena. Dopo avere individuato queste regioni si posso no sintetizzare in vitro peptidi con sequenza corrispondente in grado di stimolare la sintesi di anticorpi capaci di combinarsi con la proteina intera neutralizzandone l'effetto.
I vantaggi offerti dai vaccini prodotti secondo tecniche biotecnologiche sono: una maggior sicurezza rispetto a quelli estrattivi, la riproducibilità e la possibilità di orientare la risposta del sistema immunitario limitatamente alla porzione di molecola proteica attiva. Questa strategia è stata utilizzata per produrre vaccini verso il plasmo dio della malaria e il vibrione del colera. Un limite è dovuto alle ridotte dimensioni molecolari dei peptidi sintetici che spesso non consentono al sistema immunitario un riconoscimento efficace per la produzione di anticorpi specifici; in questi casi è necessario legarli a opportuni carrier per renderli immunogenici.
Per ora l'impiego di anticorpi anti-idiotipo come vaccini è limitato a sperimentazioni in animali, in quanto la loro preparazione è difficilmente controllabile, sì che possano essere prodotti con efficienza su larga scala.
Terapia genica. − Con il termine terapia genica s'intende l'inserimento di un gene specifico in un organismo che ne è costituzionalmente deficitario allo scopo di ottenere l'espressione del prodotto da esso codificato in modo da ripristinare la funzione alterata o mancante determinata dall'alterazione genica. L'introduzione di geni esogeni può essere fatta sia nelle cellule germinali che nelle cellule somatiche. Il primo caso non trova allo stato attuale nessuna applicazio ne pratica sull'uomo, mentre il secondo si propone come terapia d'elezione nelle malattie genetiche dovute a difetti di singoli geni trasmessi come caratteri autosomici recessivi o recessivi legati al cromosoma X (tab. 2).
Requisiti fondamentali per poter effettuare la terapia genica nell'uomo sono la possibilità di trasferire con efficienza il gene ricombinante nelle cellule bersaglio e la possibilità che questo venga adeguatamente espresso senza comportare effetti collaterali. Allo stato attuale questo tipo di terapia è limitato per la scarsa conoscenza dei meccanismi di regolazione dell'espressione genica e del tipo di cellule somatiche nelle quali i geni ricombinanti possono essere inseriti.
La cellula su cui sono stati finora condotti il maggior numero di espe rimenti è la cellula staminale midollare, e la tecnica più efficace per il trasferimento genico è quella che utilizza vettori retrovirali. Il gene esogeno, veicolato dal costrutto, può integrarsi nel DNA nucleare o rimanere libero nel citoplasma, come elemento extracromosomico autoreplicante. Esso viene poi trascritto in RNA e successivamente tradotto nelle proteine corrispondenti. I fattori limitanti sono: l'efficienza dei sistemi di trasferimento; il grado di espressione dei geni ricombinanti in vivo; i rischi di ricombinazione tra vettore retrovirale ed elementi omologhi del genoma con possibilità di produzione di retrovirus selvaggi; il rischio mutageno da inserzione del vettore su geni normali.
Pur con questi limiti, tentativi di terapia genica sono stati effettuati con successo, sia pur transitoriamente, in modelli animali compresi i primati. È verosimile che questa tecnica terapeutica trovi applicazione nei prossimi anni anche nell'uomo, almeno relativamente ad alcune malattie in cui il gene da trasferire presenti struttura e regolazione di espressione relativamente semplici.
Le tecniche di fecondazione in vitro. − Un aspetto importante dello sviluppo delle b. riguarda le tecniche di fecondazione e crescita in vitro degli embrioni e il successivo impianto in utero. Queste tecniche già largamente impiegate in animali sono attualmente in uso anche per l'uomo. Esse consentono una gravidanza normale anche quando alterazioni anatomico-funzionali non permettono una procreazione naturale (fig. 11).
L'inseminazione artificiale AI (Artificial Insemination) consiste nell'introdurre gli spermatozoi, preventivamente prelevati, in cavità peritoneale o in utero. La FIVET (In Vitro Fertilization and Embryo Transfert) consiste invece nel prelievo di oociti (la cui produzione può essere stimolata attraverso la somministrazione di farmaci) e, dopo fecondazione in vitro, nel successivo trasferimento dell'embrione nell'utero. In alternativa si può utilizzare la GIFT (Gametes Intra Fallopian Transfert) che consiste nel trasferimento dei gameti nelle tube. Essa prevede il prelievo di gameti maschili e femminili (spermatozoi e oociti) e il loro trasferimento contemporaneo nelle tube. In questo caso non si effettua nessuna selezione o manipolazione e l'eventuale fecondazione avviene nelle stesse condizioni in cui si verifica per via naturale.
Bibl.: J. D. Watson, J. Tooze, T. Kurtz, Recombination DNA-A short course, New York 1983; A. E. H. Emery, An introduction to recombinant DNA, ivi 1984; Basic biotechnology, a cura di J. Bu' Lock e B. Kristiansen, Londra 1987; C. M. Brown, I. Campbell, F. G. Priest, Introduction biotechnology, Oxford 1987; Basic microbiology, vol. 10; DNA cloning, vol. 3, a cura di D. M. Glover, Londra 1987; J. D. Watson, N. H. Hopkins, J. W. Roberts e altri, Molecular biology of the gene, voll. 1-3, Menlo Park (California) 19874.