DEL GIUDICE (De Juge), Boffillo
Originario di Amalfi, figlio del nobile Tommaso e di Giovannella Capece, è attestato dal 1443 come paggio di Alfonso d'Aragona, re di Napoli, anche se il Camera lo dice - inattendibilmente - già attivo al tempo di re Ladislao. Il 23 sett. 1450 fu investito dei beni del padre defunto. Alla morte di Alfonso d'Aragona nel 1458, quando prese corpo l'opposizione alla successione di Ferdinando il D. si schierò dalla parte di Giovanni d'Angiò, duca di Calabria, che nell'ottobre del 1459 scese nel Regno a sostenere i diritti degli Angiò al trono; già il 25 maggio dall'anno successivo Ferdinando d'Aragona gli confiscava i beni, concedendoli a Pascasio Diaz Garlon. Terminato senza successo il tentativo angioino di impadronirsi del Regno e partito quindi il duca Giovanni, dopo la sosta ad Ischia, per la Provenza, il D., avendo scelto una volta per tutte la parte che voleva seguire, facendosi "di nobilissimo partenopeo volontario oltramontano", come si esprime Masuccio Salernitano, che gli dedicò la cinquantesima novella del Novellino, o piuttosto ritenendo di non poter ottenere il perdono dell'Aragonese e di dover affrontare un troppo duro avvenire rimanendo in patria, partì anch'egli per la Provenza.
Sembra che fra gli altri esuli si trovasse anche la madre, e, forse, due nipoti, Ludovico e Bernardino Abenavoli. Non si ha notizia, invece, di una moglie (Covella Caracciolo) e di figli (Berteraino, Ettore e Leonetta), che il Camera gli attribuisce, peraltro piuttosto inattendibilmente.
Quando il 14 ott. 1466 re Renato accettò la corona offertagli dai Catalani ribellatisi a Giovanni II d'Aragona, il D. fu nominato comandante dell'armata inviata in Catalogna.
Giunse a Perpignano il 3 genn. 1467, donde avvertì il Consiglio di Barcellona del suo prossimo arrivo al comando di 110 lance francesi e 30 provenzali. Il 1° febbraio occupò Castellón de Ampurias e il 22 giunse a Barcellona. Rimase in Catalogna durante tutta la campagna e, dopo la morte del duca Giovanni d'Angiò (14 dic. 1470), fu nominato ciambellano di re Renato, che gli aveva già concesso una pensione annua di 400 fiorini.
Nel 1471 l'Angiò ritenne di poter ottenere dagli Stati italiani, e in particolar modo da Milano, aiuti per continuare la guerra nella penisola iberica. Inviò quindi il D., con istruzioni datate 15 giugno, a Galeazzo Maria Sforza, presso il quale si trovavano già due inviati di Luigi XI. Egli doveva chiedere un prestito di 50.000 ducati e tentare di concludere una lega offensiva e difensiva. Riuscì soltanto a ricevere un prestito di 12.000 ducati e il permesso di reclutare uomini in Lombardia; naturalmente neanche la lega fu conclusa.
L'ambasceria del D., che rimase in Italia dall'ottobre alla fine di novembre, visitando a Vercelli la duchessa di Savoia e soggiornando anche a Casale Monferrato per il reclutamento di due compagnie, ebbe tuttavia due risultati per lui positivi: fece un'ottima impressione ai due inviati francesi, che non dovettero mancare di darne conto a Luigi XI, e instaurò con il duca di Milano e con i suoi consiglieri relazioni personali, per cui in seguito egli fu sempre considerato un tramite fra il Ducato e il re di Francia.
Nella prima decade di dicembre il D. era di ritorno ad Aix, dove si premurò di chiedere la reversibilità della pensione in favore della madre in caso di decesso. Si recò quindi di nuovo in Catalogna, ove la situazione si volgeva sempre di più in favore di Giovanni II d'Aragona. Pochi mesi prima che questi rientrasse trionfalmente in Barcellona (17 ott. 1472), i condottieri angioini, Cola di Monforte, Gaspare Cossa e il D. stesso, al comando di 400 cavalieri e di 600 fanti, muovendo da Castellón de Ampurias, piombarono su Peralada, dove solo il caso impedì agli Angioini, che riportarono una clamorosa quanto inutile vittoria, di impadronirsi del sovrano aragonese.
Già dall'anno successivo troviamo il D. al servizio del re di Francia, che, creatolo suo consigliere e ciambellano, gli concesse una pensione di 2.000 tornesi annui. Ribellatisi nel medesimo 1473 il Rossiglione e la Cerdaña, annessi nel 1462 alla Francia, due ambasciatori delle province sollevate si recarono a Parigi nell'aprile del 1474. Come usava fare, il re non si abboccò direttamente con loro, ma incaricò di riceverli il D., insieme con il vescovo Tristano d'Aure, ed essi non tardarono a rendersi conto che gli inviati non volevano che prendere tempo al fine di permettere ai concittadini la raccolta del grano. Al comando di 100 lance il D. lasciò Parigi il 18 aprile, avviandosi verso la Catalogna. Le truppe francesi dovettero attendere fino al 5 dicembre prima di ottenere la capitolazione di Elna, alle cui trattative prese parte il D. e il 10 marzo 1475 per quella di Perpignano.
Le condizioni cui dovette sottostare quest'ultima città sorpresero il re per la loro mitezza: egli avrebbe voluto che fossero inasprite. Tuttavia accondiscese ai consigli del D., che suggeriva di bandire soltanto i maggiori personaggi compromessi nell'insurrezione. Scrivendo il 20 aprile a Ymbert de Batarnay, signore di Bouchage, luogotenente generale nel Rossiglione, il re dava in effetti il permesso al D. di condursi come aveva disegnato, lo creava luogotenente del Bouchage, lo incaricava di costruire la cittadella di Perpignano nel modo che credeva più opportuno, gli concedeva l'ufficio di balivo, gli donava beni confiscati ai banditi.
Partito il Bouchage, il 23 luglio 1475, il D. diveniva luogotenente del re nel Rossiglione e nella Cerdaña. Tutti gli storici sono concordi nell'attribuire al D., relativamente all'espletamento di quest'ufficio, meriti per la sua organizzazione militare, per l'amministrazione civile, per l'opera di pacificazione, per il ristabilimento dell'ordine e per la costruzione della cittadella di Perpignano.
Subito dopo la capitolazione di Elna (dicembre 1474) era accaduto un episodio che ebbe alcune conseguenze per il Del Giudice. La città era difesa contro le truppe francesi da un tale Bernard de Doms, considerato un traditore dagli assedianti, e da Giulio da Pisa. Dopo la capitolazione, il primo di costoro fu decapitato e la sua testa fu infissa ad una picca alla porta di Perpignano. L'altro difensore sostenne di aver capito durante le negoziazioni che invece la vita di Bernard sarebbe stata risparmiata e accusò il D., che aveva fatto da interprete, di averlo consapevolmente ingannato. Dopo che il D. ebbe replicato dandogli del mentitore, Giulio da Pisa nel marzo del 1475 gli inviò un cartello di sfida. Il D. si rivolse al re, chiedendogli l'autorizzazione a difendere il suo onore, supplicandolo di fare da arbitro e di concedere un salvacondotto allo sfidante. Il re accondiscese alle richieste, facendosi sostituire nell'arbitraggio da Antoine de Chabanne, conte di Dammartin, e stabilendo come luogo dello scontro la piazza davanti all'Hôtel de Ville di Parigi. Il 26 dic. 1475, a mezzogiorno, il D. si presentò "tout armé de son harnois... sa hache on poing" accompagnato da parecchi ufficiali e da un araldo, preceduto dalla sua insegna, ma l'avversario non si presentò; fu chiamato tre volte ed atteso fino al tramonto. Dichiarate non valide le scuse dello sfidante il Dammartin rimise tutto alla decisione del re, che il 7 genn. 1476 dichiarò false le accuse di Giulio da Pisa contro il Del Giudice.
La cosa ebbe uno strascico anche in Italia, poiché Giulio da Pisa il 4 aprile di quel medesimo anno si presentò a Galeazzo Maria Sforza, chiedendogli il permesso di misurarsi con il suo avversario. Il duca si limitò ad emettere una lettera patente attestante la richiesta, a cui fece seguito una di Luigi XI, datata Lione, 22 maggio 1476, in cui il sovrano esprimeva la sua meraviglia per la pretesa di Giulio da Pisa. Il 5 giugno a Milano lo Sforza si dichiarava contrario allo svolgimento del duello; Giulio allora fece appello a Galeotto della Mirandola, che riuscì a convincere a spedire una citazione al Del Giudice. Questi nell'ottobre inviò al signore della Mirandola un suo uomo, il quale aveva il compito di sostenere che riaprire la questione avrebbe recato offesa al re di Francia, il quale aveva già emesso un giudizio sul quale non v'era motivo di ritornare.
Intanto un'ordinanza del re del 20 maggio 1476 aveva accresciuto i poteri del D. nel Rossiglione e alla stessa data egli aveva ricevuto in dono dal sovrano vita natural durante Sommières, presso Nimes in Linguadoca, e Crestarnault nel Delfinato. Già dall'agosto, mentre si stava preparando il processo di Jacques d'Armagnac, duca di Nemours, il D. non era più a Perpignano; il giorno 12 scriveva infatti da Lione a Galeazzo Maria Sforza per discolparsi dall'accusa, a sua detta calunniosa, di aver incitato i Genovesi alla rivolta contro Milano.
Ai primi di settembre era a corte, a Selommes. In quei giorni era già noto che il re gli aveva promesso parte dei beni del duca di Nemours, per l'istruzione del processo del quale il D., il 22 settembre, fu designato come uno dei commissari. Presente a Parigi alla prima seduta del 30 settembre, con il presidente della commissione e con un altro membro, il D. si recò dal duca, trasferito alla Bastiglia dal 4 ottobre, per annunciargli che sarebbe stato interrogato e per invitarlo a rispondere con sincerità e quando, il 27 genn. 1477, il duca scrisse al sovrano per supplicarlo di concedergli il perdono, fu il D. a presentare la lettera al re. Dopo che i commissari ebbero delegato a giudicare il Parlamento, questo si era riunito a Noyon il 2 giugno quando il D. presentò una missiva reale, che lo accreditava per presenziare al processo, dal quale il re sarebbe stato assente. Tuttavia allorché il 9 luglio a Noyon fu pronunziata la sentenza di morte per il duca, il D. si astenne. Il 1° settembre, poco meno di un mese dopo l'esecuzione della sentenza, il re donò al D., con facoltà di trasmetterle agli eredi, la contea di Castres e la signoria di Lézignan, nel Narbonese, già appartenute al duca di Nemours.Contemporaneamente al processo dell'Armagnac, il D. aveva assolto altre funzioni, di carattere diplomatico. Morto Galeazzo Maria Sforza (26 dic. 1476) e scoppiata la rivolta dei Genovesi contro Milano (marzo 1477), la reggente Bona di Savoia gli aveva inviato l'oratore milanese perché intervenisse presso il re, al fine di dissuaderlo dall'aiutare i rivoltosi. Luigi XI si servì ancora del D. per comunicare all'ambasciatore i suoi rallegramenti allorché la rivolta fu soffocata ed anche per riferire alla duchessa la sua buona disposizione nei confronti di lei e dei figli. L'oratore milanese ricorreva al D. sia per ottenere colloqui con il sovrano sia per fargli riferire notizie o esortazioni. Nell'estate del 1477 il D. fu incaricato, insieme con Pierre Doriole, di trattare con l'inviato veneziano Domenico Gradenigo.
Dopo la morte di Carlo il Temerario, antico alleato di Venezia, si stava infatti operando un riavvicinamento fra il re di Francia e la Repubblica lagunare. Le trattative si dimostrarono molto laboriose, poiché, mentre su alcuni articoli riguardanti in generale l'accordo e la libertà di commercio c'era identità di vedute, su due in particolare esistevano contrasti. Prescrivendo un articolo che ognuna delle due parti non potesse portare aiuto ai nemici dell'altro, i due delegati francesi volevano che fosse fatta espressa riserva nei riguardi di Firenze, legata alla Francia da alleanza e da amicizia, e che fosse specificato il nome di Maria di Borgogna fra coloro che non potevano essere sostenuti da Venezia contro il re di Francia. Il Gradenigo, affermando di non aver istruzioni per enunciazioni particolari, pur essendo d'accordo su quelle generali, mandò a chiedere ulteriori disposizioni. Nel frattempo, il 23 agosto a Thérouanne, presente anche il D., Luigi XI ratificò le convenzioni sulle quali c'era accordo completo.
Ottenute dal sovrano la contea di Castres, che comprendeva sessantanove insediamenti, fra città e villaggi, e rendeva 7.000 tornesi l'anno, e la signoria di Lézignan, il D. si avviò a prenderne possesso. Senza tenere alcun conto dell'opposizione del Parlamento, che aveva sentenziato che la contea era inalienabile, egli il 30 ott. 1477 ne prese solennemente possesso, ricevendo l'omaggio dei nobili e della popolazione e, dopo aver acquistato il 12 febbr. 1478 le signorie di Séranie e di Langons, il 29 maggio otteneva la registrazione delle lettere di donazione.
Sin dal marzo il D. che continuava a governare il Rossiglione, lasciando come luogotenente durante le sue assenze Giacomo Capece Galeota, era stato incaricato da Luigi XI di un'altra missione. Giunsero infatti in Francia alla fine di quel mese tre inviati del re d'Inghilterra, che avevano il compito di prolungare a tempo indeterminato la tregua di Picquigny. Il D., doveva ufficialmente portare i saluti del re agli ambasciatori, ma la volontà del sovrano era soprattutto che egli ne sondasse le intenzioni e gli umori. E il D., in effetti, poté assicurarsi che Edoardo IV, interessato vivamente al prolungamento della tregua, pur dimostrandosi insoddisfatto del mancato pagamento della dote di Margherita d'Angiò, desiderava altresì che si concludesse il matrimonio fra il delfino e la figlia Elisabetta. L'11 luglio inoltre il D. fu uno degli arbitri incaricati di decidere sulla tregua conclusa dalla Francia con Massimiliano d'Austria.
Si sviluppava dall'agosto di quell'anno la politica di ingerenza di Luigi XI nelle questioni italiane e da alcune testimonianze possiamo arguire che il D. lo assistette e lo coadiuvò. Il 17 ag. 1478 egli fu presente alla redazione delle lettere dettate dal re per favorire la pacificazione in Firenze dopo la congiura dei Pazzi. Nel dicembre il sovrano, alla presenza del D. e di Philippe de Commynes, illustrava agli oratori delle potenze italiane le istruzioni date a un'ambasceria da lui inviata al papa nel novembre, per indurlo all'accordo con Firenze. Il 15 marzo 1479 fu lo stesso D. che redasse le istruzioni per un segretario del re incaricato di accompagnare a Roma un inviato del re d'Inghilterra. Intanto era impegnato a rappresentare il re negli abboccamenti fra i delegati di Milano e degli Svizzeri; infatti il sovrano, pregato da Bona di Savoia per mezzo del D., aveva accettato di fare da arbitro fra i due contendenti.
Il 1° dicembre il D., che aveva compiuto dal giugno all'ottobre una missione diplomatica nel Lussemburgo, si avviò verso i Pirenei. Oltre a visitare i suoi feudi, compì una spedizione militare nell'Ampurdán, per punire il castellano di Amposta, che aveva compiuto scorrerie nel Rossiglione; si occupò poi di operare una ridistribuzione delle truppe nel territorio e di risolvere questioni di delimitazione di frontiere intervenute dopo la conclusione della pace del 9 ott. 1478 fra Luigi XI e il re Giovanni II d'Aragona.
Il 5 apr. 1480 una lettera del re ampliava le attribuzioni del D. come viceré del Rossiglione e della Cerdaña, concedendo gli poteri vastissimi in campo militare, finanziario, giuridico e commerciale. Sembra che anche a proposito del matrimonio del D., avvenuto a Nérac il 23 ag. 1480, il re sia intervenuto per favorirlo. Infatti pare che Alain d'Albret, fratello della sposa, Maria, che portava in dote 30.000 tornesi, sia stato dal sovrano spinto ad acconsentire agli sponsali. Al D., già insignito dell'Ordine di S. Michele, il 14 febbr. 1482 furono affidate la capitaneria e la guardia del castello di Perpignano, con uno stipendio annuo di 1.200 tornesi.
Nel mese successivo la commissione d'inchiesta contro René d'Alençon, conte di Perche, a cui era stato aggiunto il D., rimise la sentenza al Parlamento di Parigi. A questo il 9 luglio il D. presentò lettere patenti che gli davano l'incarico di "vacher et besoigner" al processo del conte. Venne poi inviato il 9 agosto dalla corte stessa, che era contestata dall'accusato, al re per sondarne la volontà. Espletò in seguito, almeno un'altra volta, il 13 febbr. 1483, questo ruolo di tramite fra la corte e il re, che gli dette l'incarico di sollecitare lo svolgimento del processo. Poco prima di morire (30 ag. 1483) Luigi XI gratificò con un altro dono il suo favorito, regalandogli tutte le somme dovute allo Stato fino al 31 agosto dal suo tesoriere del Rossiglione e della Cerdaña.
Morto Luigi XI, il D. rimase viceré delle due regioni, ma il 20 ott. 1484 il Consiglio di Carlo VIII, pur confermandogli le cariche di castellano di Perpignano e di Collioure, gli comunicava che i luogotenenti non avrebbero rappresentato più lui, ma direttamente il re.
Tuttavia le difficoltà per il D. furono in un primo tempo soprattutto private. Oltre ai figli del duca di Nemours, il D. aveva contro per il possesso della contea di Castres anche il fratello del duca, Jean d'Armagnac, che, vescovo di Castres, aveva visto nel 1477 per ordine di Luigi XI sequestrati i beni del vescovato e incaricato il D. dell'amministrazione temporale della diocesi. Invano il re aveva tentato, scrivendo anche a Lorenzo de' Medici perché intervenisse presso il papa, di far togliere il vescovato al suo nemico, che, morto il sovrano, rientrò nella sua sede vescovile. Il presule, che pretendeva la metà della contea di Castres e della signoria di Lézignan, provocò la ribellione delle terre contese.
Il D. tenne testa alla rivolta con le armi, fece impiccare un tale che aveva tentato di impadronirsi del castello di Roquecourbe e imprigionò il procuratore del re, che aveva accompagnato un inviato del sovrano, incaricato di prendere cognizione dei termini della contesa. Il balivo d'Autun, per incarico del re, riuscì a far cessare le ostilità, ma gli avversari accusarono il D. davanti al Parlamento di Parigi, che iniziò il dibattimento il 13 apr. 1486. Fra le molteplici accuse, si cercò di attribuire al D. anche la responsabilità della morte del primogenito del duca di Nemours, che, a lui affidato, era morto di peste, e, benché in possesso di lettere di remissione di Carlo VIII, il D., presentatosi alla corte il 20 novembre, fu imprigionato. La contea comunque rimase a lui, benché egli fosse stato condannato a risarcimenti e restituzioni di varie somme nei confronti del vescovo.
In ogni modo la situazione del D. era totalmente cambiata, talché nel novembre 1488 egli scrisse e fece scrivere alla Signoria di Venezia offrendosi come capitano generale. L'ambasciatore veneto - che aveva, tramite il D., ottenuto poco prima dal re di Francia un risarcimento di 8.000 franchi - procedette ad una raccolta di informazioni su di lui, che, essendo risultate ottime, provocarono l'assenso della Signoria all'invio a Venezia di un agente del Del Giudice. Questi, giunto nella città lagunare nell'aprile del 1489, espose le richieste del D., che erano di 40.000 ducati l'anno e di una casa a Brescia per la moglie. Venezia, che aveva già specificato di aver bisogno non di un capitano generale, ma soltanto di un governatore generale, pur con estremo garbo respinse l'offerta, anche dopo il ritorno nella città dell'agente del D. nel luglio.
Un ulteriore regresso nella posizione del D. si ebbe il 25 luglio 1491, quando gli fu tolto il governo del Rossiglione in favore di Gilbert de Montpensier, benché la regione sotto di lui avesse goduto per sedici anni di tranquillità e di benessere. A lui rimase lo stipendio di 2.000 tornesi relativo alla carica. Fu probabilmente per questo che egli riprovò ad ottenere da Venezia il posto desiderato. Il suo segretario era lì nel gennaio del 1492 a questo scopo, ma, come era accaduto precedentemente, la proposta non fu accettata. Del resto si deve anche considerare che il D. non doveva essere più in un'età tanto verde.
Anche sul piano privato gli interessi del conte andarono precipitando. Con un atto del 22 sett. 1494 donava al cognato, Alain d'Albret, da cui aveva ricevuto conforto e aiuto, con notevole dispendio di denari, tutti i suoi beni, riservandosi solo l'usufrutto della contea di Castres; il congiunto lo aveva infatti aiutato a recuperare i beni sottrattigli dalla moglie con l'ausilio di Charles e Jean de Montferrand, l'ultimo dei quali aveva sposato, contro la sua volontà, la figlia Luisa.
Quattro anni più tardi il D. ottenne una rendita di 8.000 tornesi annui invece dell'usufrutto della contea. Fece testamento il 18 ott. 1499, confermando quanto aveva disposto nell'atto del 1494, diseredando la moglie e la figlia, che avrebbe potuto pretendere soltanto la legittima, ed esprimendo la volontà di essere seppellito nella chiesa conventuale di Castres, in un sepolcro di marmo su cui dovevano essere incise le sue armi e il suo nome. Dopo la sua morte, avvenuta a Roquecourbe il 10 o l'11 ag. 1502, la sua volontà fu rispettata, nonostante l'opposizione dei canonici della cattedrale. La contea rimase a lungo al centro dei contrasti fra Maria e Alain d'Albret e finì per essere incamerata dal re nel 1519.
Un manoscritto miscellaneo del 1489, conservato nella Bibl. Braidense di Milano (AD XI 44), contiene carmi a lui dedicati.
Fonti e Bibl.: Lettres et négociations de Philippe de Commines, a cura di J.-M.-B.-C. Kervyn de Lettenhove, I, Bruxelles 1867, ad Ind.; Journal de Jean de Roye, a cura di B. de Mandrot, I, Paris 1894, p. 327; II, ibid. 1896, pp. 2 ss., 354-58, 368; Lettres de Louis XI, a cura di J. Vaesen-B. de Mandrot, V-X, Paris 1895-1908, ad Ind.; J. Molinet, Chroniques, a cura di G. Doutrepont-O. Jodogne, I, Bruxelles 1935, p. 286; Masuccio Salernitano, Il Novellino, a cura di S. Nigro, Roma-Bari 1979, pp. 391, 415 s.; M. Camera, Memorie storico-diplomatiche... di Amalfi, I, Salerno 1876, p. 640; B. de Mandrot, Jacques d'Armagnac, duc de Nemours, in Revue historique, XLIV (1890), pp. 292 s., 300, 308; P. M. Perret, La paix du 9 janvier 1478 entre Louis XI et la République de Venise, in Bibl. de l'École des chartes, LI, (1890), pp. 123-26; Id., Boffille de Juge comte de Castres et la République de Venise, in Annales du Midi, III (1891), pp. 159-231; Id., Hist. des relat. de la France avec Venise, Paris 1896, I, pp. 576 s.; II, pp. 100 s., 103, 174; J. Calmette, Louis XI, Jean II et la révolution catalane, Toulouse 1903, pp. 274 ss., 326 ss.; F. Torraca, B. D., in Arch. storico per le prov. napol., n. s., IV (1918), pp. 74-88 (con ulter. bibl., poi riedito in F. Torraca, Scritti vari raccolti a cura dei discepoli, Milano 1928, pp. 235-51); G. Dionisotti, Miscell. umanistica transalpina, in Giorn. stor. d. letter. ital., CX (1937), pp. 256-300; B. Croce, Vite di avventure, di fede e di passione, Bari 1947, pp. 71 s., 91, 99; L. Cerioni, La politica ital. di Luigi XI…, in Arch. stor. lomb., s. 8, II (1950), p. 72; J. Dufournet, Commynes et quatre serviteurs de Louis XI, in Bibl. d'humanisme et Renaissance, XXXVI (1974), pp. 515 s.; Dictionn. de biographie franç., VI, coll. 771 ss.