BOLOGNA
(lat. Bononia)
Città dell'Italia settentrionale, capoluogo dell'Emilia Romagna, situata nella pianura padana allo sbocco delle valli del Reno e del Savena.
La città di B. trae le sue origini da un insediamento di età villanoviana, noto con il nome di Felsina, situato nella parte centrale dell'attuale centro storico. La colonizzazione di Roma portò alla fondazione nel 189 a.C. di Bononia, colonia latina, con piano urbano a maglie ortogonali, attraverso il quale fu fatta passare la via Emilia, costruita due anni dopo, nel 187.In età romana la città ebbe uno sviluppo di un certo rilievo, tanto da obbligare alla pedonalizzazione nel settore centrale delle strade che congiungevano i più importanti edifici pubblici; allo stato attuale delle ricerche non risulta fosse protetta da una cinta di mura.La grande crisi tardoantica colse B. e il territorio centuriato dipendente in maniera assai grave. La testimonianza della contrazione demografica e dell'abbandono è fornita da un celebre passo di s. Ambrogio, il quale, intorno al 387, percorrendo la via Emilia verso Milano, aveva notato i segni della crisi definendo - sia pur in un contesto retorico - le città padane come dei semirutarum urbium cadavera (Ep., XLIX, 944; PL, XVI, col. 1146). Non solo la testimonianza ambrosiana, ma anche le fonti archeologiche mostrano che calo demografico, abbandono e progressiva rovina avevano determinato anche a B. - come in molti altri fiorenti municipi, per es. Firenze, Milano e la stessa Roma - la 'città retratta', cioè un restringimento della superficie abitata rispetto alla struttura urbana antica.La crisi economica si accompagnò anche a reiterate crisi politiche, dovute all'alternarsi di nuove genti e di nuovi poteri: gli Eruli di Odoacre (476-493), i Goti (493-553), i Bizantini (553-727). Nell'inverno fra il 727 e il 728 B. fu occupata dai Longobardi, che dalla fine del sec. 6° avevano posto il confine del loro regno poche miglia a O della città, sullo Scoltenna-Panaro.Della città in età tardoantica e altomedievale si sa pochissimo: resti archeologici e sopraterra di qualche edificio religioso, avanzi della prima cerchia di mura che proteggeva la 'città retratta', nota con il nome di 'cerchia di selenite' dalla pietra di cui è costruita (gesso estratto dalle cave di monte Donato, a S della città). Delle poche informazioni pervenute, quelle che consentono di formulare ipotesi sull'evoluzione della città sono relative alle quattro croci attualmente all'interno della basilica di S. Petronio e alle mura di selenite. La tradizione che la cattedrale fosse dedicata ai ss. Naborre e Felice e fosse situata fuori città verso O sulla via Emilia, in una zona cimiteriale, non trova riscontro nelle fonti, che tacciono fino al 9°-10° secolo.Alla fine del sec. 4° la diocesi di B. dipendeva dalla Chiesa milanese. Fu per questa ragione che Ambrogio, metropolita di Milano, visitò B. anche nel 392-393, tanto che al suo nome sono legati avvenimenti religiosi e devozionali che hanno contribuito a modificare la struttura della città. Secondo la tradizione agiografica, infatti, egli avrebbe rinvenuto in quegli anni, insieme al clero bolognese, nel quadro di un'attività di affermazione del metropolita lombardo e dell'episcopato locale, le reliquie dei ss. Vitale e Agricola in un cimitero ebraico e le avrebbe traslate sul luogo dell'antico tempio di Iside, dove si era costituita una necropoli cristiana. Attorno a quel primo centro devozionale si sarebbe poi articolato, nei secoli successivi, il grande complesso di S. Stefano, chiamato anche Sancta Jerusalem.Risale all'epoca ambrosiana anche la collocazione, in punti eminenti della parte della città allora meglio conservata, delle quattro croci, nella forma attuale marmoree e monumentali, dedicate ai santi, alle vergini, agli apostoli e ai martiri, dedicazioni che non hanno nessun altro riscontro a B., ma che corrispondono, a eccezione di quella dei santi, alle tre basiliche fondate da Ambrogio a Milano in punti similmente eminenti al di fuori della cinta muraria romana. Tali dedicazioni sono una traccia ineludibile dell'influenza ambrosiana su B., fatto che consente di datare la loro collocazione alla fine del 4° secolo. I luoghi in cui esse furono collocate - e dove rimasero, non si sa quante volte sostituite, fino al 1798, quando i francesi per ragioni di viabilità, le fecero rimuovere - rappresentavano originariamente punti di grande significato topografico-urbanistico. La croce degli Apostoli era situata a E del torrente Aposa, presso il ponte della via Emilia, nell'od. piazza di Porta Ravegnana. La croce delle Vergini era situata più a S, sempre a E dell'Aposa, presso il ponte della via tangente a meridione la città, nei pressi di una necropoli. La croce dei Santi era posta all'esterno del teatro romano. La croce dei Martiri si trovava presso una struttura di età romana, poderosa per lo meno quanto il teatro, riferibile alla zona del foro commerciale di Bononia.La collocazione delle quattro croci aveva un particolare significato urbanistico all'interno della città romana, semidistrutta e abbandonata. Mentre la zona occidentale e settentrionale di B. era ormai degradata, quella orientale, meglio conservata, disponeva di un sistema idrico ancora efficiente, ospitava gli edifici pubblici ancora funzionanti e le abitazioni delle famiglie più potenti. Non dovrebbe essere troppo lontana dal vero l'ipotesi che la devozione degli abitanti, sostenuta dagli apparati della chiesa locale in piena attività organizzativa, abbia voluto cingere questo 'resto' di città con una cintura protettiva di 'oggetti sacri', probabili tappe di percorsi processionali. Le quattro croci, quindi, indicano altrettanti punti significativi della città, che con il tempo consolidarono la loro importanza urbanistica; su tre dei quattro lati del quadrilatero, i cui vertici erano segnati dalle croci (N, S, O), vennero infatti costruite le mura di selenite, mentre il lato orientale che lasciava la croce di porta Ravegnana a qualche decina di metri di distanza, utilizzava il torrente come fossato naturale.La cerchia delle mura di selenite rappresenta uno dei più complessi problemi della storia urbanistica di Bologna. Pur essendo questa prima cerchia di mura restituita da sporadici rinvenimenti archeologici, non sussistono precisi elementi di datazione. I blocchi squadrati di selenite montati a secco (piedi 422: cm. 1185959; altezza del muro m. 6 ca.) non sono sufficienti per determinarne la datazione, dal momento che tale tecnica fu utilizzata per un millennio, dall'età romana a tutto l'Alto Medioevo. Tuttavia, il fatto che in alcuni punti le mura poggino direttamente su strade romane urbane e in altri sia stato impiegato materiale proveniente dal teatro romano e infine che esse delimitino la 'città retratta', consente di fissare il termine post quem alla crisi tardoantica. Inoltre, dal momento che i Longobardi nel 727-728 dovettero sferrare un attacco impegnativo per conquistare B., si suppone che in quel momento la città fosse ben munita, cosa che consente di restringere al 727 il termine ante quem della costruzione del muro.Sulla datazione delle mura di selenite tra il sec. 4° e l'8° sono state avanzate molte ipotesi, a seconda del tratto di manufatto che di volta in volta è venuto alla luce: i lacerti ben costruiti hanno fatto pensare a epoche di fioritura economica, mentre i tratti mal connessi a momenti di crisi militare quando si aveva urgenza di costruire. In realtà la muraglia è un'opera possente, che deve aver richiesto tempo e manodopera, nella quale furono utilizzati anche materiali provenienti da edifici antichi, come dalla metà del sec. 4° si faceva ovunque, nonostante l'imperatore Teodosio avesse cercato di impedirlo. Le ipotesi che tale opera sia stata eseguita in età di relativa stabilità e prosperità sono le più attendibili; la muraglia dovrebbe risalire all'età teodericiana o alla dominazione bizantina (secc. 6°-7°).Nelle mura di selenite si aprivano quattro porte, note con nomi più tardi: a E la porta Ravegnana - dove si trovava una delle croci - da cui si irradiavano le strade verso Ravenna, Rimini (via Emilia) e la Toscana (via Flaminia minor); a S, verso la collina, la porta Procola; a O, all'uscita della via Emilia, la porta Stiera; a N la porta S. Cassiano, detta poi Piera. Fuori dal circuito delle mura di selenite ma a esso tangente, oltre alle quattro croci, era una necropoli paleocristiana sorta presso i resti del tempio di Iside, nucleo da cui avrebbe tratto origine il complesso di S. Stefano e dove, secondo la tradizione, si sarebbe fatto seppellire s. Petronio. Tracce, per ora solo documentarie, di un battistero paleocristiano fanno supporre che l'ubicazione originaria della sede episcopale e della cattedrale, dedicata a s. Pietro, coincida con quella attuale, all'interno delle mura di selenite.Le tracce della presenza longobarda a B. sono molto rare e provengono dalla toponomastica e dalla dedicazione di alcune chiese a santi venerati dai Longobardi, oltre che dal catino litico di S. Stefano, che porta incisi i nomi dei re Liutprando e Ildeprando. Tali elementi sono tutti concentrati nella zona orientale esterna alla porta Ravegnana. Essi fanno ritenere che in quel luogo fosse uno stanziamento longobardo a guardia delle mura della città e della strada che conduceva a Ravenna, per la quale si era allontanato il contingente militare bizantino in ritirata.Ai Longobardi successero i Franchi, che cedettero l'esarcato e quindi anche B. al papa, dono che sta all'origine dello Stato della Chiesa. In realtà per molto tempo i papi non riuscirono ad affermare il loro governo né su B., né sulla Romagna, su cui governarono invece gli arcivescovi di Ravenna. Nei secc. 9° e 10°, nella piccola B. chiusa nelle mura di selenite si attuarono varie trasformazioni. La parte urbana della via Emilia - l'antico decumano massimo - rivelò presto la propria incapacità a svolgere la sua funzione di asse di disimpegno E-O, data la sua posizione troppo settentrionale rispetto al baricentro della città. Sui lati di levante e di ponente si aprirono due porte più meridionali rispetto alle precedenti, la porta Nova di Castiglione a E e la porta Nova a O. Questo nuovo asse viario interno rese meno agibile il quadrante nordoccidentale della città, nel cui angolo, poggiandosi a quello che restava delle antiche e possenti strutture romane e a cavallo delle mura di selenite, si era stabilita la residenza dell'autorità pubblica (castello o rocca imperiale), determinante a sua volta l'apertura della porta di Castello.Nel corso del sec. 10° cominciò a manifestarsi, sia pure lentamente, una certa ripresa economica che incise in maniera positiva sull'andamento demografico e quindi sulla necessità di reperire nuove aree di espansione, che furono individuate lungo gli assi viari che si irradiavano verso il territorio, dove si formarono dei borghi esterni alle mura. Nella parte nordoccidentale, fuori dalla porta di Castello, una nuova strada congiunse la porta urbana alla via Emilia (od. via Montegrappa), dall'andamento sghembo rispetto agli orientamenti determinati dai decumani e dai cardini che, nonostante l'abbandono, permasero attraverso i secoli, evidentemente affioranti fra le rovine.La ripresa economica che caratterizzò la storia delle città europee tra i secc. 10° e 11° si manifestò anche a Bologna. Si trattò di un periodo contraddistinto da una crescita demografica che determinò un consistente inurbamento, soprattutto di famiglie di possidenti delle campagne che avevano investito i loro guadagni nell'acquisizione di una casa in città, dedicandosi poi ad attività di produzione e commercio. Tale fenomeno determinò mutamenti sostanziali nella struttura della società cittadina bolognese, inserendovi un nuovo ceto intraprendente che seppe approfittare della congiuntura economica favorevole e di conseguenza incise anche sullo sviluppo urbanistico della città. Nel corso del sec. 11° la città andò espandendosi anche nel settore occidentale, quello che era stato abbandonato in età tardoantica, che le fonti indicano come civitas rupta antiqua, oppure civitas Bononia antiqua destructa.Nel sec. 11° anche nel campo politico-sociale le trasformazioni furono enormi. La lotta per le investiture si manifestò a livello locale con forme di insofferenza per la vecchia struttura di potere costituita dai rappresentanti dell'impero, i funzionari o i vassalli di Matilde di Canossa, la quale non permise che in nessuna città su cui direttamente o indirettamente governava, si realizzassero forme di gestione autonoma. Solo quando a B. giunse la notizia della sua morte (1115), i Bolognesi assalirono e distrussero il castello, dove aveva sede il suo governo. Fu un'azione dalle conseguenze politiche enormi, poiché ne derivò poi l'autonomia cittadina e la nascita del comune. Da un punto di vista urbanistico fu un'operazione che aprì una breccia nella vecchia, del tutto insufficiente, cerchia di selenite, ormai circondata quasi da un'altra città nuova e più grande.Risale alla fine del sec. 11° anche la costruzione della torre degli Asinelli, la più antica delle torri bolognesi. La mancanza di documentazione non consente di sapere se fu di origine pubblica o privata. In ogni caso fu collocata in un punto nodale della città, dove si congiungevano a ventaglio le strade che assicuravano i collegamenti con il territorio e dove la croce degli Apostoli continuava a rappresentare un antico ma sempre vivo segno urbano.Con l'autonomia cittadina, B. si dotò dei principali servizi urbani, frutto della capacità dei governi locali di regolare in maniera ordinata la crescita della città. Alla metà del sec. 12° fu costruita una nuova fortificazione urbana - detta, per la forma delle porte, cerchia dei Torresotti - quando fu necessario proteggere la città nei momenti difficili della lotta contro Federico Barbarossa. Di quelle mura, di rilevante impegno progettuale ed esecutivo, restano oggi solo brevi tratti. Il loro andamento è però ben leggibile nel tessuto urbano, nelle strade parallele concentriche che successivamente sono cresciute sulle loro strutture. Negli stessi anni furono portate in città le acque del fiume Reno, mediante opere idrauliche di notevole rilevanza tecnica ed economica.Il sec. 12° fu per B. un'epoca di grande sviluppo, dovuto al fiorire delle attività economiche e alla presenza dello Studio (privo di sede fino al sec. 16°), che portò in città un alto numero di studenti, forniti, per lo più, di buone capacità economiche. Anche il potere pubblico, rappresentato dai cittadini, trovò una prima sede in una zona abbastanza centrale - nei pressi dell'od. piazza Maggiore - di cui resta la struttura lignea portante, costituita da pilastri di quercia, non diversi da quelli usati dall'edilizia civile che a quell'epoca caratterizzava la città.La costruzione delle numerose torri private presenti in città è da collocare altresì nel corso del sec. 12°, poiché in quello successivo la legislazione ne proibì la costruzione e di alcune ordinò l'abbattimento fino a una certa altezza, in quanto considerate un pericoloso strumento nelle lotte civili.Mentre la cattedrale si rinnovava in forme romaniche e il complesso di S. Stefano si ristrutturava a imitazione dei luoghi santi di Gerusalemme, in breve volgere di anni lo sviluppo mise in crisi anche la recente cerchia dei Torresotti, tanto che si formarono altri borghi lungo le strade esterne.Nei primi anni del Duecento il comune, in pieno sviluppo politico e amministrativo, costruì la propria nuova sede nel centro di B., all'incrocio del decumano e del cardine massimo della città romana, e acquistò le case e i terreni per aprirvi davanti la piazza pubblica (od. piazza Maggiore). Fra il 1219 e il 1221, fuori dalle mura dei Torresotti, fu approntata una grande piazza per il mercato settimanale (campus Fori), ancora oggi destinata allo stesso uso. Nel corso del sec. 13° furono costruiti i grandi complessi conventuali degli Ordini mendicanti (S. Domenico, S. Francesco, S. Giacomo Maggiore).Nel secondo quarto del sec. 13°, B. dovette respingere i tentativi di Federico II di toglierle quell'autonomia politica che si era conquistata da più di un secolo e pertanto partecipò alla seconda Lega Lombarda. Contemporaneamente si provvide a progettare e a tracciare una nuova fortificazione, la terza cerchia di mura (abbattuta nel 1902 e sostituita dai viali di circonvallazione), con le fosse e le porte, terminata nel corso del Trecento, entro la quale la città ha contenuto il proprio sviluppo fino alla seconda metà del secolo scorso.Nel 1249 i Bolognesi rinchiusero nel palazzo del Comune, appena terminato, Enzo, figlio di Federico II, catturato in battaglia, e ve lo trattennero fino alla morte (1272), tanto che l'edificio, posto al centro della piazza Maggiore, ancor oggi si chiama palazzo di re Enzo. Nel 1286 il comune acquisì la casa che era stata di Accursio, celebre dottore dello Studio, e ne fece il primo edificio dell'attuale palazzo Comunale, di cui conserva ancora il nome (palazzo d'Accursio).Il 2 giugno 1274, dopo quaranta giorni di scontri armati, saccheggi e incendi fra le due opposte fazioni cittadine, la parte geremea (che si riconosceva nel guelfismo) riuscì ad avere la meglio sulla parte lambertazza. I Lambertazzi con le loro famiglie - stimati in 12.000 persone, quasi un quarto della popolazione urbana - abbandonarono la città. I loro beni furono confiscati e redistribuiti a vantaggio dei Geremei, in cui si identificava ormai il comune. Con ogni probabilità in quell'occasione si approfittò per dare sistemazione urbanistica ad alcune parti della città, anche se non sono pervenute testimonianze dirette.Gli statuti cittadini, le cui principali redazioni sono del 1250 e del 1288, contengono una serie di norme che regolavano lo sviluppo ordinato della città e le disposizioni di igiene pubblica. Proprio negli statuti del 1288 è presente la disposizione che obbligava la costruzione delle case all'interno della città e con portico che insistesse su suolo privato, e l'aggiunta del portico alle case che ne fossero sprovviste. Con questa ultima disposizione si segnò un irreversibile processo verso un sistema edilizio che costituisce la principale caratteristica della città di B., che conserva ancora, all'interno della terza cerchia, più di km. 37 di portici.L'uso di fabbricare la casa con il portico su suolo privato, ma a uso pubblico, compare, nella documentazione superstite che non è necessariamente la più antica, già all'inizio del sec. 13°, proprio alla stessa epoca in cui nelle altre città comunali si cominciava a proibirli, non tanto perché non se ne riconoscesse l'utilità, ma perché andavano a invadere il suolo pubblico. Quello che differenzia B. e che ha consentito la diffusione a scala urbana dell'edilizia civile porticata fu proprio il regime giuridico del suolo del portico, regime ancora oggi in vigore.L'edilizia civile del Duecento superstite è costituita da pochissimi esemplari. Si tratta di edifici di un certo pregio (palazzo Isolani, palazzo Grassi), con le strutture principali del portico in quercia; questo però risulta quasi sempre giustapposto alla casa stessa, mentre la facciata vera e propria, come indicano le decorazioni delle finestre e dei portali, è quella più interna. Nei secoli successivi si cercò di proibire l'uso del legno, per evitare di offrire materiale infiammabile in caso di incendio. Inoltre nel centro storico l'edilizia medievale è stata quasi completamente sostituita, pur mantenendone invariata la struttura.Se il Duecento fu il secolo delle più importanti sistemazioni urbanistiche, dei grandi progetti con i quali si pensava di pianificare lo sviluppo dei secoli futuri, il Trecento, e ancor più il Quattrocento, furono i secoli in cui si cominciò a dare forma architettonica a quei piani, non senza però che le nuove sistemazioni risentissero dei cambiamenti politici via via verificatisi. Dal comune popolare, che nel Duecento aveva tanto chiaramente individuato la normativa che regolava la città, si passò a vari signori e anche alla dipendenza dal papa, l'antico signore che fin dal sec. 8° avrebbe dovuto - in base alla donazione dell'esarcato fatta dai Carolingi alla Santa Sede - governare la città.Si aprirono i grandi cantieri di S. Maria dei Servi (1383) e di S. Petronio (1390), chiesa cittadina comunale che, chiudendo il lato della piazza Maggiore prospiciente il palazzo del Podestà o di re Enzo, occupava il posto che idealmente doveva essere quello della cattedrale. Si aprirono anche i cantieri dei grandi edifici pubblici: il palazzo del Comune (quello comprendente le case d'Accursio) si trasformò in una fortezza all'epoca del governo pontificio, che non poteva più contare sul consenso dei cittadini per governare; fu costituita la loggia della Mercanzia, opera, insieme a S. Petronio, di Antonio di Vincenzo. Si aprì anche il grande cantiere del palazzo signorile di Taddeo Pepoli in via Castiglione e del collegio di Spagna per gli studenti spagnoli, voluto dall'Albornoz.
Bibl.: G. Gozzadini, Delle croci monumentali ch'erano nelle vie di Bologna nel secolo XIII, Atti Memorie Romagna 2, 1863, pp. 27-63; id., Studi archeologici-topografici sulla città di Bologna, ivi, 7, 1868, pp. 3-104; G. Fasoli, Momenti di storia urbanistica bolognese nell'alto Medioevo, ivi, n.s., 12-14, 1960-1963, pp. 313-343; A. Hessel, Geschichte der Stadt Bologna von 1116 bis 1280, Vaduz 1965 (trad.it. Storia della città di Bologna dal 1116 al 1280, a cura di G.Fasoli, Bologna 1975); C. De Angelis, P. Nannelli, Il palazzo Ghisilardi-Fava, nuova sede del museo civico medievale e del rinascimento. La costruzione del Quattrocento e le sue trasformazioni, Il Carrobbio 2, 1976, pp. XXIII-XXXVII; M. Fanti, Le lottizzazioni monastiche e lo sviluppo urbano di Bologna nel Duecento, Atti Memorie Romagna, n.s., 27, 1976, pp. 121-144; F. Bergonzoni, Venti secoli di città. Note di storia urbanistica bolognese, Bologna 1980; Muratori in Bologna. Arte e società dalle origini al secolo XVIII, Bologna 1981; J. Heers, Espaces publics, espaces privés dans la ville. Le Liber Terminorum de Bologne (1294), Paris 1984; A.I. Pini, Bologna bizantina: le mura di selenite o delle ''Quattro Croci'', Il Carrobbio 11, 1985, pp. 263-277; G. Roversi, Le mura perdute. Storia e immagini dell'ultima cerchia fortificata di Bologna, Casalecchio di Reno 1985; F.Bocchi, Attraverso le città italiane nel medioevo, Bologna 1987; Le torri di Bologna, a cura di G. Roversi, Casalecchio di Reno 1989.F. Bocchi
Sono assai rari i resti di strutture architettoniche altomedievali conservati a B. e ciò che è pervenuto riguarda soprattutto edifici religiosi. Anche in questo caso nulla è però giunto integro nel suo complesso attraverso i secoli: ovunque si verificarono cambiamenti radicali delle strutture originarie onde consentirne via via l'adeguamento alle nuove funzioni liturgiche che erano chiamate a svolgere. Dal Basso Medioevo in poi si susseguirono inoltre numerosi interventi di trasformazione edilizia, senza contare l'opera dei restauratori della fine dell'Ottocento e dell'inizio del Novecento, che in alcuni casi ha completamente obliterato, rendendolo illeggibile, quanto di altomedievale era riuscito a superare le vicissitudini storiche.
B. è una delle numerose città italiane della cui cattedrale non si sa nulla fino all'11° secolo. La tradizione storica locale la colloca, per l'epoca paleocristiana, a O, fuori dalla città romana, nel luogo in cui ora si trova la cripta della chiesa dei Ss. Naborre e Felice (sec. 12°); non sussistono tuttavia prove archeologiche e/o documentarie che suffraghino tale tradizione. Le prime informazioni sicure sulla cattedrale di B., dedicata a s. Pietro, risalgono al 1019, anno in cui fu fondata la basilica protoromanica a tre navate con tre absidi orientate, situata al centro di un isolato tangente il cardine massimo della città romana. Tale localizzazione consente di avanzare l'ipotesi che anche la cattedrale paleocristiana fosse situata nello stesso luogo, anche se non vi sono dati archeologici che lo confermino. Infatti tale sito, in zona centrale rispetto alla città romana - e anche rispetto alla 'città retratta' -, trova paralleli con la collocazione della cattedrale di Milano, città con cui B. ebbe stretti contatti religiosi, poiché fino alla prima metà del sec. 5° fece parte della provincia metropolitana milanese, dipendendo in seguito da quella ravennate.Contemporaneamente alla costruzione della cattedrale, all'inizio del sec. 11°, venne costruita sul fianco meridionale la torre campanaria, originariamente alta m. 31, ellittica alla base e circolare nel fusto, illuminata da monofore; la tipologia rivela la diretta influenza delle analoghe architetture ravennati.La cattedrale aveva anche un proprio battistero autonomo, di cui si ha una prima notizia nel 1054, rimosso alla metà del sec. 13° perché impediva alla facciata della cattedrale di essere in piena vista.Nella prima metà del sec. 12° un incendio devastò l'edificio protoromanico, che nella seconda metà del secolo venne ricostruito conservando però l'originaria tipologia architettonica di basilica a tre navate. Anche la torre campanaria a sezione circolare fu inglobata in una torre più alta, a pianta quadrata, che nel suo interno conserva ancora la primitiva torre cilindrica. Le ricostruzioni della fine del Cinquecento e dei secoli successivi modificarono profondamente l'aspetto dell'edificio romanico, di cui sono testimonianza i resti delle sculture del portale, risalenti peraltro al 13° secolo.I primi documenti relativi alla chiesa di S. Maria Maggiore - della cui primitiva costruzione si sono conservati nell'edificio attuale alcuni lacerti, datati da Russo (1972-1973) al sec. 6° - risalgono all'11° secolo. Situato all'interno della cinta romana, nella zona che in età tardoantica fu abbandonata, fuori dalle mura di selenite, l'edificio primitivo sembrerebbe derivare - secondo quanto indicano la dedicazione, alcuni particolari della muratura, la tipologia e la qualità dei materiali - dagli esempi dell'architettura ravennate del 6° secolo.Se non esistono tracce dell'aspetto primitivo della chiesa principale di B., un altro centro religioso bolognese ne ha conservate numerose, soprattutto nella sua articolata organizzazione architettonica. Si tratta del complesso che, già nel sec. 9°, era noto come S. Stefano. Alla fine del sec. 4°, a S-E, fuori della città romana, si era formata un'area cimiteriale nei pressi di un iseo a pianta circolare. Fu in quel luogo che verso la fine del 392, dopo l'invenzione delle reliquie dei martiri locali Vitale e Agricola, avvenuta alla presenza del clero locale e di Ambrogio, vescovo di Milano, le spoglie dei due martiri bolognesi vennero traslate e sepolte. Con ogni evidenza è questa l'origine della costruzione di due edifici, una cella tricora e un recinto funerario; quest'ultimo era orientato in direzione N-S, con un portico aperto e quattro nicchie sul lato lungo orientale, al centro del quale era situata una cappella cruciforme con una piccola abside.La presenza del vescovo di Milano all'invenzione delle reliquie è significativa per l'origine e lo sviluppo del complesso. È ben noto che tutte le fondazioni ambrosiane di Milano, dedicate a vari martiri, furono realizzate in aree cimiteriali preesistenti e anche il complesso bolognese sorse in un'area cimiteriale. Quanto alla cappella cruciforme, si tratta di una tipologia architettonica a cui Ambrogio dava un significato preciso: egli stesso aveva scelto una pianta a croce per la sua basilica Apostolorum di Milano, che simbolicamente si richiamava al mausoleo imperiale di Costantinopoli dedicato ai ss. Apostoli. L'area cimiteriale bolognese ebbe successivamente ulteriori sviluppi; vi fu edificata, nel sec. 5°, una basilica dedicata ai martiri Vitale e Agricola, le cui reliquie, secondo una fonte del sec. 6°, giacevano in due distinti sepolcri.I due edifici del sec. 4° (cella tricora e recinto funerario) e la basilica dei Ss. Vitale e Agricola, a cui si affiancavano i resti dell'antico iseo trasformato in tempio cristiano, costituirono il nucleo del complesso che nell'887 fu chiamato Sanctus Stephanus qui vocatur Hierusalem. Già nel sec. 8° esso si era inoltre arricchito - la sua importanza è testimoniata dal crescere delle sue strutture - di un'altra chiesa, una basilica dedicata a s. Giovanni Battista, eretta probabilmente per iniziativa dei re longobardi Liutprando e Ildeprando (736-744). A questi ultimi, insieme al vescovo Barbato, si deve in ogni caso la donazione alla chiesa di un vaso di pietra (diametro cm. 111, altezza cm. 53,5) decorato con costole verticali e recante sul bordo un'iscrizione che lo attesta destinato alla raccolta delle offerte dei fedeli per la messa. La collocazione originaria del vaso - ora chiamato 'catino di Pilato' - doveva essere presso l'ingresso della chiesa.Dopo la fine del sec. 10° l'insieme delle architetture componenti il complesso stefaniano subì ulteriori mutamenti: alla chiesa del Battista fu aggiunta la cripta e si iniziò la costruzione del chiostro. Il cambiamento più significativo fu peraltro la trasformazione del recinto funerario in una chiesa che, pur conservando nel lato orientale la disposizione architettonica precedente, si presenta più larga che lunga. Dedicata alla Croce, essa fu denominata anche Golgota, poiché si inseriva nel progetto di imitazione delle forme del Santo Sepolcro, sviluppato nel 12° secolo.Fu in questo secolo che il complesso stefaniano raggiunse l'apogeo della sua fama. L'antico iseo fu trasformato in un edificio ad alzato ottagonale, con un colonnato interno a pianta dodecagonale, costituito dalle sette colonne romane originarie rinforzate da altre in laterizio, a cui ne furono aggiunte cinque di mattoni per chiudere la pianta. La parte superiore dell'ottagono fu completata con una galleria sovrastante l'ambulacro. Il muro della galleria, aperto verso l'interno da dodici bifore, e il colonnato sottostante reggono la cupola del santuario dedicato al Santo Sepolcro. L'ottagono fu congiunto alla chiesa della Croce per mezzo di due portici laterali, ricreando una disposizione architettonica simile a quella del Santo Sepolcro di Gerusalemme, di cui nel Medioevo il complesso stefaniano venne ritenuto una copia assai fedele dai Bolognesi che, avendo partecipato alla prima crociata, ne avevano senz'altro diretta conoscenza.Le chiese, tipologicamente diverse, che compongono l'attuale complesso benedettino di S. Stefano non furono le uniche a essere oggetto nel sec. 12° di un rinnovamento delle strutture e a essere ornate da sculture architettoniche; anche la cattedrale di S. Pietro, riedificata nella stessa epoca, doveva presentare in origine una decorazione scolpita oggi perduta. Oltre al protiro della parte meridionale della cattedrale, la c.d. porta dei Leoni, del sec. 13°, un protiro doveva trovarsi anche sul lato occidentale, come si deduce dal fatto che negli anni 1260-1267 il battistero - situato troppo vicino alla chiesa e quindi di intralcio all'accesso da quel lato - fu fatto demolire dall'autorità pubblica e riedificare in altro luogo.Dell'aspetto architettonico dell'antico battistero bolognese non si sa nulla, ma è tuttavia significativo che dal sec. 12° esso si trovasse di fronte alla facciata della cattedrale, proprio come quello costruito nella stessa epoca a Firenze.L'ottagono del Santo Sepolcro nel complesso stefaniano risponde alle esigenze di un'icnografia architettonica precisa. Due altre chiese bolognesi del sec. 12° mostrano lo stesso tipo architettonico in una forma ancora più definita. Si tratta di due rotonde, una delle quali, situata nella parte centrale della città (S. Maria dei Galuzzi), non è stata ancora studiata perché adibita a uso privato. L'altra, dedicata alla Madonna del Monte, è costruita su una collina a S della città ed è attualmente inglobata nella ottocentesca villa Aldini. Conservata assai bene, la chiesa della Madonna del Monte è stata studiata per la prima volta in occasione del restauro della villa, nel 1939, e quindi nuovamente nel 1973 (Nikolajevic, Bergonzoni, Bocchi, 1973). È costruita in mattoni e ha un diametro di m. 10 e una copertura a cupola, ora rifatta e rialzata; presenta due accessi e le finestre sono collocate a diversi livelli. All'interno vi sono sedici nicchie in spessore di muro (cm. 110), alcune affrescate con figure di apostoli; in una di esse si conserva invece solo il volto di una figurazione della Vergine.Di tipo basilicale a tre navate erano in origine varie chiese (la cattedrale, Ss. Naborre e Felice, Ss. Vitale e Agricola in Arena) che ora hanno forma diversa; nel sec. 12° furono dotate di cripte, che costituiscono l'unico resto dell'edificio medievale.Nel corso del sec. 13° si inserisce nel tessuto cittadino un nuovo tipo di architettura, connessa alle necessità delle nuove comunità dei frati mendicanti: Domenicani, Francescani e Agostiniani.I Domenicani furono i primi a iniziare la costruzione della loro chiesa, che sembra sia stata completata nel 1267, quando vi fu traslato il corpo del fondatore dell'Ordine, ed ebbe nel corso del sec. 13° almeno due diverse fasi costruttive. Fu da prima una basilica a tre navate con transetto, coperta con volte a crociera su pilastri a sezione quadrata; le navate terminavano con cappelle a pianta quadrangolare. In un momento successivo fu rinnovata la cappella maggiore, trasformata in un'abside rinforzata all'esterno da forti pilastri, come le tre cappelle absidate costruite sul fianco settentrionale dell'abside centrale. È probabile che in quell'occasione sia stata raddoppiata anche la lunghezza dell'edificio.S. Francesco, diversamente da S. Domenico, fu costruita nel suo complesso secondo un unico progetto unitario. La chiesa (o più probabilmente il luogo dove doveva essere costruita, fuori dalle mura dei Torresotti) venne consacrata nel 1251, ma i lasciti per i lavori continuarono per alcuni decenni ancora, cosa che permette di supporre che l'edificio sia stato completato solo dopo il 1280. Le dilatate dimensioni (oltre m. 90) e il tipo di pianta lo inseriscono nella tipica edilizia francescana degli ultimi decenni del Duecento. A tre navate con volte a crociera costolonate, la chiesa è conclusa da un coro poligonale, con deambulatorio e nove cappelle radiali a pianta quadrata, eccetto quella mediana che è poligonale; i pilastri sono polistili in pietra da taglio; le chiavi di volta e i capitelli sono decorati in forme di tipico accento gotico.Anche la costruzione della terza chiesa conventuale di B., S. Giacomo Maggiore, sede degli Agostiniani, ebbe inizio negli ultimi anni del sec. 13°, ma i lavori si protrassero fino alla metà del Trecento. È un edificio a navata unica che originariamente aveva un'abside poligonale affiancata da due cappelle a pianta quadrata. Proprio questa parte dell'edificio subì ulteriori modifiche che rispecchiano contemporanee soluzioni architettoniche locali richiamando la disposizione del presbiterio in S. Francesco: il coro prolungato concluso da deambulatorio e cappelle radiali. Fu questo il modello che con qualche variazione venne ripetuto anche nella chiesa di S. Maria dei Servi, iniziata nel 14° secolo.
Bibl.: A. Rubbiani, La chiesa di S. Francesco in Bologna, Bologna 1886; I.B. Supino, L'arte nelle chiese di Bologna. Secoli VIII-XIV, Bologna 1932; id., L'arte nelle chiese di Bologna. Secoli XV-XVI, Bologna 1938; G. Piconi Aprato, L'architettura della chiesa di San Giacomo, in Il Tempio di San Giacomo Maggiore in Bologna, a cura di C. Volpe, Bologna 1967, pp. 37-72; E. Russo, Ricerche sulla Bologna paleocristiana e medievale: la chiesa di S. Maria Maggiore, BISI 84, 1972-1973, pp. 21-123; I. Nikolajevic, F. Bergonzoni, F. Bocchi, La Madonna del Monte. Arte Romanica a Bologna, Bologna 1973; S. Pasi, Una torre campanaria di tipo ravennate nella Metropolitana di San Pietro a Bologna, Musei ferraresi 5-6, 1975-1976, pp. 215-221; E. Cecchi Gattolin, Il santuario di Santo Stefano in Bologna, Modena [1976]; I Francescani in Emilia, "Atti del Convegno, Piacenza 1983", Storia della città 26-27, 1983; R. Krautheimer, Three Christian Capitals. Topography and Politics, Berkeley-Los Angeles-London 1983 (trad.it. Tre capitali cristiane. Topografia e politica, Torino 1987); Stefaniana. Contributi per la storia del complesso di S. Stefano in Bologna, a cura di G. Fasoli (Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna, Documenti e studi, 17), Bologna 1985; Nel segno del S. Sepolcro. S. Stefano di Bologna. Restauri, ripristini, manutenzioni, a cura di L. Serchia, Vigevano 1987; 7 Colonne e 7 Chiese. La vicenda ultramillenaria del complesso di Santo Stefano in Bologna, a cura di F. Bocchi, cat., Bologna 1987.I. Nikolajevic
Numerose imprese, grandiosamente progettate nel sec. 13°, vedono la loro completa realizzazione nel corso del Trecento. Questo sia per quanto riguarda il campo urbanistico sia per quanto attiene il settore propriamente architettonico. Infatti è solo nella seconda metà del sec. 14° che viene concluso l'amplissimo anello dell'ultima cerchia di mura, cui si dedicò, per il tratto che va da porta S. Mamolo a porta Pratello, Antonio di Vincenzo ancora nel 1384. Ma anche chiese già fondate nel Duecento - per es. quelle degli Ordini mendicanti - trovarono allora una veste più grandiosa e più ricca: all'inizio del secolo la basilica di S. Giacomo Maggiore degli Agostiniani - che si erano stabiliti entro le mura nel 1267 -, che sostanzialmente ricordava quella degli Eremitani di Padova, assunse, nella sua parte terminale, forma più grandiosa e complessa. Documenti dal 1311 al 1343 riportano i numerosi nuovi interventi; si tratta dell'erezione di una più alta tribuna, dell'inizio del campanile e della costruzione di un deambulatorio con cappelle radiali, secondo uno schema che, seppure semplificato, rinvia ancora all'autorevole modello della chiesa bolognese di S. Francesco.L'incidenza di quest'ultimo edificio è comprovata dall'analoga soluzione (anche qui è ridotto il numero delle cappelle e non sono presenti gli archi rampanti) conferita dai Serviti alla loro chiesa addirittura a metà Quattrocento, quando l'edificio venne terminato con l'aggiunta del deambulatorio e delle cappelle radiali, con ogni probabilità in maniera fedele al progetto messo a punto nel 1386 da Andrea Manfredi, generale dell'Ordine, intendente d'architettura o addirittura architetto in prima persona. Con queste addizioni poteva essere assolta ancor meglio la richiesta, assai presente nel Trecento, di cappelle gentilizie che solitamente crescevano presso gli edifici ecclesiastici di maggior prestigio e devozione senza un coerente piano organico.Non solo al riguardo di questo specifico tema architettonico, si deve ricordare la munifica committenza di Taddeo Pepoli, illuminato signore di B. dal 1337 al 1347, che lungo il fianco nord della chiesa di S. Domenico fece costruire ben sei cappelle (quattro furono poi soppresse) promuovendo inoltre la fondazione di una settima, che venne ultimata in seguito dalla famiglia Guidotti. La coscienza dell'importanza di questo intervento è testimoniata dai bassorilievi della tomba di Taddeo dove egli è raffigurato in veste di committente delle cappelle di S. Michele e di S. Tommaso, dedicazioni assai pertinenti alla sua personalità di difensore della libertà bolognese e di uomo di legge, addottorato in diritto civile e diritto canonico presso lo Studio bolognese.L'impegno di Taddeo nel rinnovare il volto architettonico della sua città emerge da molti documenti che indicano facilitazioni e donazioni concesse agli Ordini religiosi (Serviti, Carmelitani) per loro significative imprese; si evidenzia altresì nella costruzione del suo palazzo, il cui assetto, sebbene compromesso da vari interventi posteriori, anche di carattere restaurativo, appare ancora di monumentale e severa grandiosità.L'esterno delle cappelle Pepoli presso S. Domenico (l'interno è stato alterato dai rifacimenti settecenteschi) è fortemente ritmato da alti contrafforti e aperto da un doppio ordine di finestre. Nonostante la decurtazione delle cuspidi, è ancora possibile leggere l'arco ribassato di scarico che le sosteneva, elemento maggiormente evidenziato nell'abside della cappella di S. Clemente del collegio di Spagna, nella tribuna della chiesa dei Servi e nelle cappelle del deambulatorio di S. Giacomo, tanto da poter essere considerato caratteristica locale, sebbene di origine oltralpina (per es. la chiesa dei Giacobini di Tolosa; Marchini, 1979).Di notevole importanza anche come precedente della grandiosa basilica di S. Petronio - nelle sue forme da un lato sopravvivono aspetti peculiari della tradizione locale, dall'altro si affermano felicemente attualissime idee desunte da altri centri, come Milano, Venezia, Firenze - sono la chiesa di S. Martino dei Carmelitani (già in costruzione nel 1308), a tre navate, con campate centrali a pianta quadrata e campate laterali oblunghe e con pilastri a fascio, e la basilica dei Servi, nell'ampliamento voluto da Andrea da Faenza, che si era avvalso, con ogni probabilità, della collaborazione di Antonio di Vincenzo. Nel sistema costruttivo, nella dialettica fra elementi di sostegno e muri di tamponamento, nell'organizzazione di una teoria omogenea di cappelle laterali (ricavate nello spazio assai poco profondo compreso tra i pilastri perimetrali posti all'interno della chiesa) si può parlare di precedente per il S. Petronio. Dai pilastri si dipartono poi, al di sopra delle navate minori, setti di sostegno della navata centrale, giusto come si realizzò in S. Petronio.La produzione architettonica bolognese nella seconda metà del secolo denuncia un notevole salto di qualità. Ciò anche per l'originalità dei temi affrontati e per la messa a fuoco di tipologie sia distributive sia ornamentali che perdurarono nel tempo. È questo il caso della costruzione del collegio di Spagna, promossa dal cardinale Egidio Albornoz, nel cui testamento, datato 29 settembre 1364, sono le direttive circa l'organizzazione e le forme dell'erigenda istituzione, originale precedente per tanti futuri collegi universitari certamente non solo italiani. Architetto ne fu Matteo Gattaponi da Gubbio, già al servizio di Albornoz nella costruzione di diverse fortezze dell'Italia centrale fra cui la rocca-palazzo di Spoleto.Nell'impianto distributivo del collegio di B. elemento determinante è l'orientamento liturgico dell'alta cappella fortemente emergente. A differenza dei complessi conventuali, questa non è tangente al chiostro, ma, punto di riferimento per l'intera comunità, si eleva al centro del lato del quadriportico che fronteggia quello d'ingresso dove sono gli spazi riservati alla vita sociale della comunità. Nelle due maniche ortogonali, al piano terreno come al primo, si trovavano invece le ventiquattro celle degli studenti. Nella precisa simmetria e nella rigorosa chiarezza distributiva che presiede l'organizzazione dell'intera fabbrica si coglie un implicito riferimento alla domus romana (Serra Desfilis, in corso di stampa).Nel cantiere del collegio di Spagna fu presente Lorenzo da Bagnomarino, poi ingegnere del comune e compagno di Antonio di Vincenzo in diversi lavori. Sotto la loro direzione crescono, negli anni ottanta, importanti fabbriche; viene dato un nuovo assetto al palazzo dei Notai (Antonio di Vincenzo vi disegna le finestre), viene costruita la grandiosa sede dei mercanti, edifici di grande valenza architettonica situati, come del resto tutte le fabbriche di Antonio di Vincenzo, in nodi urbani di particolare importanza. Vero palazzo-sala, la Mercanzia dichiara l'originalità del linguaggio del suo architetto, sintesi tra aspirazioni classiche e raffinate preziosità tardogotiche. Se all'interno del portico i potenti pilastri sono in forma di vibrante fascio di nervature, all'esterno essi tendono a farsi semplici paraste in una monumentalità protoclassica.Nel 1386 spetta poi al solo Antonio di Vincenzo la costruzione della vasta Camera degli Atti, nel palazzo di re Enzo, tutta voltata con una sequenza di archi ribassati. Nel 1392 si inizia l'aereo e prezioso portico che fiancheggia la chiesa dei Servi, in marmi policromi e laterizio sagramato, pure impostato nella successione di ampi archi ribassati. A questa data l'architetto, che aveva ricoperto anche importanti cariche nell'amministrazione pubblica e che aveva effettuato diversi viaggi in città come Firenze e Milano, si era già da tempo applicato, assieme ad Andrea da Faenza, alla progettazione della basilica di S. Petronio, edificio non dipendente dalla gerarchia ecclesiastica ma voluto dal popolo bolognese in ricordo della sua conquistata libertà: il 7 giugno 1390 venne posta la prima pietra, mentre l'8 agosto 1392 si ebbe il collaudo del grandioso modello, praticabile all'interno. È solo il 14 gennaio 1393 che venne affidata l'intera responsabilità della fabbrica ad Antonio, nominato caput et magister totius laborerii.Data la mancanza di polemiche, merito anche della presenza protettiva di Andrea da Faenza, i lavori procedettero speditamente: nel 1401 erano già costruite le due prime campate verso piazza, corrispondenti a quattro cappelle per parte. Distrutti e perduti i vari modelli e disegni, molto si è discusso sull'altezza della navata centrale e sulla forma della parte terminale dell'edificio, transetto compreso. Quanto è giunto, nella sua coerente organizzazione planimetrica (modulo di base è la superficie di una cappella laterale che, raddoppiata, diviene la pianta della campata rettangolare della navata minore e, quadruplicata, quella della campata centrale), è ben valido a sottolineare la grande originalità di Antonio, che qui conduce una sintesi tra tradizione italiana, o se si preferisce mediterranea, e tradizione settentrionale. Per l'uso rado e pausato dei pilastri, lo spazio di S. Petronio è percepibile nella sua interezza come in S. Maria del Fiore. Pertanto non si è invitati a una sua fruizione dinamica, come avviene, per influenza nordica, nel duomo milanese. Tuttavia, proprio da quest'ultima fabbrica deriva la necessità tutta gotica di smaterializzare la parete forandola con le grandi vetrate. Ne consegue una chiarezza d'impostazione che è indice della mentalità sintetica, della volontà razionalizzante del maestro, di un habitus mentale che pare trovare il primo impulso in quella svolta della cultura bolognese che porta il nome di neogiottismo.
Bibl.: I.B. Supino, L'architettura sacra in Bologna nei secoli XII e XIV, Bologna 1909; G. Zucchini, Edifici di Bologna. Repertorio bibliografico e iconografico, 2 voll., Roma 1931-1954 (Bologna 19762); R. Niccoli, Nuove osservazioni sulle vicende costruttive della chiesa di S. Maria dei Servi in Bologna, AAM 13-16, 1961, pp. 79-96; G. Piconi Aprato, L'architettura della chiesa di San Giacomo, in Il Tempio di San Giacomo Maggiore in Bologna, a cura di C. Volpe, Bologna 1967, pp. 37-72; G. Marchini, Il Collegio di Spagna, edificio monumentale, in El cardinal Albornoz y el Colegio de España, V (Studia Albornotiana, 36), Bologna 1979, pp. 9-28; G. Lorenzoni, L'architettura, in La Basilica di San Petronio in Bologna, I, Cinisello Balsamo 1983, pp. 53-124; A.M. Matteucci, Antonio di Vincenzo e la cultura tardogotica a Bologna, in Storia illustrata di Bologna, Bologna 1987, p. 12; id., Il gotico cittadino di Antonio di Vincenzo, in Il tramonto del Medioevo a Bologna. Il cantiere di San Petronio, a cura di R. D'Amico, R. Grandi, cat., Bologna 1987, pp. 27-54; A. Serra Desfilis, Matteo Gattapone, arquitecto del Colegio de España (in corso di stampa).A.M. Matteucci
B. condivide con un più vasto ambito territoriale una grande esiguità di testimonianze scultoree di età altomedievale. Le emergenze maggiori hanno carattere inevitabilmente episodico, in un contesto urbanistico molto depauperato e soggetto, del resto, a successive, radicali trasformazioni. I lavori di maggior pregio sono tuttavia riconducibili a un lasso di tempo che spazia tra i secc. 8° e 9° e configurano una situazione per varie vie debitoria di Ravenna, anche se con accenti che ne rimarcano la peculiarità: ciò è particolarmente rilevabile nel sarcofago di s. Vitale nella basilica dei Ss. Vitale e Agricola del complesso stefaniano, riconducibile all'8° secolo. Ulteriore, ma non con diversi referenti stilistici, è il frammento di ciborio poi riutilizzato nel mausoleo di Egidio de' Foscherari.Delle numerose croci installate su colonne, che segnarono fino al sec. 13° l'ambito urbano, in posizioni strategiche dal punto di vista urbanistico o cultuale, la più antica è quella di S. Giovanni in Monte, rifatta per volere del vescovo Vitale, menzionato in un documento dell'801.La svolta tra il sec. 11° e il 12° non ha dirette testimonianze nella cattedrale di S. Pietro, ricostruita e ampliata dopo il terremoto del 1131 o del 1141. Né soccorrono testimonianze scritte, a differenza di quanto accade con il complesso stefaniano, la cui produttività artistica è segnalata da fonti dell'avanzato 12° secolo. Qui l'arca di s. Agricola, che accompagna quella più antica di s. Vitale, già menzionata, sembra richiamare remoti modelli ravennati in un linguaggio di più energica caratterizzazione plastica ed espressiva, che denuncia già l'incipiente stagione romanica. In ambito cronologico simile si collocano i capitelli corinzieggianti della galleria del Sepolcro e alcuni altri erratici nella cripta del Crocifisso, bene inquadrabili nella forte ripresa della scultura lombarda, che si riverbera lungo la via Emilia fino a Modena e oltre. Strette contiguità segnalabili in B. stessa (capitelli del monastero dei Ss. Naborre e Felice), a Nonantola, nella montagna modenese (abbazia di Frassinoro), sembrano orientare per una koinè diffusa nell'ultimo quarto del sec. 11°, benché non possa escludersi una priorità anche cronologica del gruppo stefaniano, più degli altri organico e compatto.In S. Pietro, in assenza di adeguate testimonianze su decori lapidei, emerge il solenne gruppo ligneo della Crocifissione, la cui intensità non ha riscontro nella situazione locale. Le sue relazioni con il mondo germanico, di recente confermate, come la rivendicazione di una cronologia molto precoce, ben entro la prima metà del sec. 12°, ne confermano il sostanziale sradicamento dal contesto. A B. il linguaggio medio sembra ben testimoniato dalla croce di piazza di porta Ravegnana, ora in S. Petronio, sottoscritta nel 1159 dal lapicida Pietro, che dichiara di operare in compagnia del padre Alberico. È esplicito il richiamo al linguaggio di Niccolò, qui come nei due grifi che accompagnavano in origine la croce (Cleveland, Mus. of Art), sempre in una versione che sembrerebbe dichiarare notevoli attardamenti. Anche i capitelli figurati del chiostro superiore di S. Stefano, per vie esterne riconducibili al primo Duecento, sembrano afferire ancora alla stessa tradizione, pur con vistosi aggiornamenti sui modelli della plastica campionese di Modena.Per avere un segnale molto esplicito di ripresa occorre attendere gli anni tra il 1220 e il 1233, quando un maestro Ventura, già nominato nel 1217 come dominus laborerii Sancti Petri, lavora alla porta dei Leoni sul fianco meridionale della cattedrale. I frammenti sopravvissuti alle demolizioni del 1607-1608 legittimano l'accoglienza entusiastica che l'opera ebbe nella cronachistica locale, poi riecheggiata nelle parole ammirative di Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 50). Particolarmente grave è la perdita del ciclo dei Mesi, in origine scalato nell'imbotte dell'arco. Nei frammenti superstiti il linguaggio di Ventura si caratterizza per alcuni memorabili apici classicistici, che sembrano tenerlo ugualmente lontano dalla tradizione antelamica come da quella campionese. In B. costituì un referente autorevole per due generazioni, se è vero che venne richiamato stilisticamente ancora nel 1285 da Alberto di Guidobono e Albertino di Enrico nei leoni del mausoleo di Rolandino de' Romanzi e che dieci anni dopo la porta dei Leoni venne ancora additata a modello per i lapicidi attivi alla facciata della chiesa agostiniana di S. Giacomo.Più o meno coevo al capolavoro di Ventura è il rilievo con i Ss. Pietro e Paolo, ora in S. Giuseppe dei Cappuccini, che Francovich (1952) associò giustamente a un altro rilievo con figura di offerente nel Mus. di S. Stefano. Nel gruppo, di qualità molto elevata, è più esplicito il richiamo alla tradizione campionese, declinato però in una variante fortemente classicista, improntata ai modelli della statuaria antica. Si tratta di un episodio isolato, ma non per questo meno significativo. La stessa complessità di carattere si deve del resto attribuire alla successiva base di acquasantiera o di cero pasquale, forse proveniente da S. Pietro (ora al Mus. Civ. Medievale). Nel graduato proporzionarsi dei corpi parzialmente ignudi, nell'intelligenza della perlustrazione anatomica, quest'opera sembra riflettere già il classicismo di Nicola Pisano. Ma l'esibizione quasi spavalda della propria fisicità, nelle quattro figure allacciate e costrette, si spiega con la profonda immedesimazione nella recente tradizione padana di Antelami e dei Campionesi, ben più che in diretto rapporto con la cultura federiciana. È un caso di intelligenza e indipendenza mentale, che non pare avere paragoni possibili nel territorio, né fattori immediatamente incentivanti, se si esclude il più remoto Maestro dei Mesi di Ferrara.È possibile che quando questo testo capitale venne licenziato, a B. fosse già stata esposta l'arca di s. Domenico, inaugurata solennemente nel 1267. Nelle storie pulcherrime lavorate da Nicola Pisano e dalla sua bottega la tradizione domenicana addita l'esemplare attuazione di un programma volto a magnificare le virtù del santo non meno che a promuovere l'edificazione dei fedeli. Un progetto dunque di arte didascalica, che non ebbe seguito diretto a B., ma contribuì verosimilmente a far crescere negli anni successivi la volontà comunicativa, la chiarezza narrativa, che distingue i monumenti dei maestri dello Studio.Il tessuto della scultura bolognese appare del resto assai povero e diradato nell'ultimo trentennio del Duecento. Ad apertura di secolo la statua in rame di Bonifacio VIII (1301), destinata al palazzo della Biada, nell'esplicita intellettualizzazione della forma si configura come una sorta di statuareliquiario, in tutto debitrice alla tradizione tecnica e stilistica dell'oreficeria, dai cui ranghi usciva l'autore, il senese Manno di Bandino. La scelta di un medium tanto inconsueto per una statua monumentale maturò dopo aver constatato l'insufficienza in città di lapicidi davvero preparati a un tale compito. Resta comunque rilevante l'instaurarsi di un rapporto più disinibito con la scultura toscana. Il pisano Giovanni di Balduccio è attivo in S. Domenico per un altare marmoreo ora disperso e in larga misura distrutto, destinato alla cappella maggiore. Dei senesi Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura, la cui presenza in città è testimoniata da Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 125ss.), pare trovarsi un riflesso in due dei sepolcri bolognesi, quelli di Matteo Gandoni (1330) e di Bonandrea de' Bonandrei (1333). Comune a questi monumenti è il programma iconografico, che ripete coerentemente il motivo del professore assiso in cattedra tra i suoi studenti. Non pare del tutto certo che l'invenzione debba attribuirsi a B.; ed è un fatto che si trova altrove con qualche frequenza, anche in esiti di grande dignità monumentale, ma non con altrettanta precocità e assiduità.Nella prima metà del Trecento la scultura bolognese appare quasi esclusivamente al servizio di questo complesso e sfumato programma apologetico, perseguito con l'aggressiva disposizione colloquiale che è altresì comune alla miniatura e pittura contemporanea. La scultura sembra persino prendersi qualche significativo vantaggio sulla pittura, se è vero che l'arca del mausoleo di Rolandino de' Passaggeri registra intorno al 1300 precocissime stilizzazioni gotiche, nell'acuta immagine degli studenti allineati e ricurvi sui banchi. Gli esempi successivi denunciano già una fierezza di stile e inclinazioni espressive in nulla difformi dal clima poi instauratosi con la più piena affermazione della pittura locale: qui si fa cenno alle opere riferite a Roso da Parma, di cui sono memorabili le impuntature espressive nella caratterizzazione degli studenti. Con i lavori di Bettino da B., che firma nel 1341 la tomba terragna del cavaliere Colaccio Beccadelli in S. Domenico a Imola, il confronto tra pittori e lapicidi bolognesi si risolve in esplicita convergenza con i maestri più problematici della coeva pittura bolognese, come lo pseudo-Jacopino e il Maestro del 1333. Lo stesso rapporto intercorre tra la pittura di Vitale e l'arca di Giovanni di Andrea, eretta in S. Domenico dopo la morte del grande canonista (1348), per volontà del figlio adottivo Giovanni Calderini. La complessità strutturale e la forte caratterizzazione ne fanno uno dei testi importanti della scultura italiana di metà secolo e giustificano la laboriosa ricostruzione critica di Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 131), che assegnava il sepolcro a uno scultorearchitetto veneziano, Jacopo Lanfrani, di educazione toscana ma radicato a Bologna. Non è dubbio che l'arca di Giovanni di Andrea si rapporti alla tradizione di icastica espressività della scultura locale; ma la sua ricchezza strutturale e linguistica segna anche una cesura netta rispetto al passato e prepara gli esiti tanto più variati e sfumati dei Dalle Masegne.È singolare come subito dopo si debba registrare un prolungato silenzio della scultura in pietra fino alla venuta dei Dalle Masegne, nell'inoltrato nono decennio del Trecento. Fu semmai, tra settimo e ottavo decennio, la scultura lignea a produrre un esito memorabile con il gruppo policromo dei Magi in S. Stefano, cui si associa una croce lignea della Coll. Com. d'Arte con i laterali dipinti da Simone dei Crocifissi, dove è davvero notevole la mentale eleganza con cui le profilature e falcature gotiche si innestano su un sedimento monumentale e volumetrico quasi neoromanico.Tanto più netto appare, anche per questo, lo strappo provocato dalla venuta di Pier Paolo e Jacobello Dalle Masegne. Il monumento di Giovanni da Legnano (Mus. Civ. Medievale) e la pala marmorea di S. Francesco segnano una svolta che risultò irreversibile rispetto alle più consolidate attitudini formali della scultura locale: le conseguenze furono amplificate dall'esplicita adesione a tale rinnovamento manifestata dall'amico architetto Antonio di Vincenzo.Nella loggia della Mercanzia, terminata da Antonio nel 1391, è attiva una maestranza ben affiatata, che deferisce molto esplicitamente ai Dalle Masegne, anche se con diverse accentuazioni e declinazioni formali, ma sempre con raffinata eleganza (il gruppo è ora conservato al Mus. Civ. Medievale).Anche il basamento di S. Petronio, cui si pose concretamente mano tra il 1393 e il 1394, vede attivo uno scultore come il veneziano Paolo di Bonaiuto, che ai modelli masegneschi esplicitamente si richiama, sia pure con intelligente, personale cautela. Più tardi, quando si pose mano alla decorazione dei finestroni dei fianchi della basilica - verosimilmente tra il 1398 e il 1400 - in una congiuntura stilistica sensibilmente mutata, i Dalle Masegne sono ancora un insostituibile punto di riferimento. Semmai l'attenzione sembra spostarsi dalle calibrate investigazioni di Pier Paolo alla più aspra e drammatica visione di Jacobello, con quanto questa aveva di arcaicistico, ma anche di sperimentale. Per tale via essa poteva sembrare apparentabile, o almeno non incompatibile, con i sommi esempi della scultura di Claus Sluter.Sono queste le coordinate della maestranza che con intrepida stilizzazione lavorò i primi finestroni dei fianchi: uno di tali maestri è riconoscibile a Como, in un paliotto conservato in duomo, e in B. stessa, nel monumento Canetoli che adorna un'altra delle fabbriche di Antonio di Vincenzo, il secondo campanile di S. Francesco. In queste opere risulta anticipata la svolta che un decennio più tardi Giovanni da Modena impresse alla pittura bolognese, indirizzandola a un più dichiarato goticismo.Ai Dalle Masegne fa ancora esplicito riferimento il monumento di Lorenzo Dal Pino (Mus. Civ. Medievale), che nel 1398 svolge con inconsueta analitica eleganza i più raffinati pensieri di Pier Paolo, indirizzandoli a una pregnanza caratteriale che sembra adombrare ascendenze borgognone. Anche la successiva arca di Carlo, Roberto e Riccardo da Saliceto (Mus. Civ. Medievale) riprende nel 1403 il linguaggio di Pier Paolo Dalle Masegne in una versione più controllata e di nitida stesura.La stessa scultura lignea risente del resto di questa fondamentale impronta, sia nella grande statua di S. Petronio nella navata sinistra della basilica sia nelle statue del polittico della cappella Bolognini, dipinte da Iacopo di Paolo entro il primo decennio del Quattrocento: le figure intagliate riflettono però già sinuosità e tortuosità gotiche, che sono probabilmente una conseguenza della più giovanile e ancora sfuggente attività di Jacopo della Quercia. La sua presenza, documentata per tempo in Emilia, divenne assidua e più concreta a partire dal 1425, quando presero il via con alacrità i lavori per la porta Magna di S. Petronio. Anche negli anni precedenti, accanto alla più massiccia presenza di lapicidi veneti, non mancarono del resto maestri di estrazione toscana. Al più illustre di essi, Andrea da Fiesole, si deve la complessa arca di Bartolomeo da Saliceto, sottoscritta nel 1412 (Mus. Civ. Medievale), dove è notevole la ritmica già ricettiva degli esempi ghibertiani.
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La frammentarietà delle conoscenze a proposito della pittura medievale a B., cagionata in larga misura dalla pressoché totale ristrutturazione degli edifici di culto all'epoca della Controriforma, è particolarmente avvertibile per la fase più antica, della quale restano solo rarissime testimonianze. Intorno alla metà del sec. 12° gli apostoli effigiati nelle nicchie della Madonna del Monte, un edificio a pianta circolare ora inglobato nella ottocentesca villa Aldini, mostrano accenti di nobile e sostenuto classicismo entro un linguaggio romanico. L'adesione agli stilemi bizantini diffusi in area padana è testimoniata più tardi dall'immagine della Beata Vergine di s. Luca, venerata tuttora nel santuario sorto sul colle della Guardia, per la quale sono stati sottolineati i collegamenti con gli affreschi del battistero di Parma (Ragghianti, 1970), da leggere entro una vasta koinè bizantineggiante che intorno alla metà del Duecento si esprime con accenti affini anche in Savoia (Aime, Saint-Martin) e in Piemonte (S. Antonio a Ranverso), tanto da farne supporre l'appartenenza a una stessa bottega (Bertelli, 1973; Romano, 1985). A un livello qualitativo inferiore si collocano gli affreschi, ora staccati, nella chiesa superiore di S. Vittore. Se questi frammenti stentano a palesare caratteri autonomi, il ricorso a maestranze forestiere ovvero l'importazione di opere dal di fuori sono confermati da un lato dalla decorazione ad affresco, di chiara matrice lucchese, della cupola della chiesa del Calvario entro il complesso di S. Stefano, di cui resta ora solo un lacerto con la Strage degli innocenti e per la quale risulta convincente il riferimento a Marco di Berlinghiero, da identificare anche nel Marcho de Lucha che nel 1255 è pagato per gli affreschi nella cappella del Podestà (Garrison, 1946); dall'altro lato, da alcuni importanti crocifissi su tavola di cultura umbro-toscana: oltre a quello firmato da Giunta Pisano in S. Domenico, si ricordino quelli in S. Francesco, nella Coll. Com. d'Arte e nella Pinacoteca Naz., proveniente quest'ultimo da S. Maria del Borgo e riconducibile alla bottega del Maestro di S. Francesco. Alcuni affreschi assai deperiti e di accento veneteggiante (Volpe, 1967), entro le arche sepolcrali all'esterno di S. Giacomo, e una lunga tavola con santi domenicani in S. Maria della Mascarella completano l'esiguo numero delle sopravvivenze duecentesche.È piuttosto sul finire del sec. 12° che, in concomitanza con la rinascenza paleologa, si afferma a B. una cultura figurativa di grande elezione formale, i cui esempi più significativi si hanno nella miniatura; in pittura gli esiti più alti sono offerti da una Crocifissione, purtroppo assai guasta, conservata in una delle arche sepolcrali lungo il fianco di S. Giacomo (Volpe, 1967) e da una frammentaria Odighítria con s. Pietro nella chiesa della Trinità entro il complesso stefaniano (Conti, 1981, p. 50). Al primo dei due dipinti Volpe (1967) ha convincentemente avvicinato una tavoletta di analogo soggetto in coll. privata, da datare agli ultimi anni del secolo (Angiolini Martinelli, 1986b), per la quale Zeri (1985) ha invece sostenuto una matrice veneta, peraltro già prospettata da Toesca (1951, p. 706); tuttavia anche la seconda valva del dittico cui il dipinto apparteneva (Merion, Barnes Found. Coll.), resa nota da Zeri (1985), può essere ricondotta a questa stessa fase di colta riviviscenza a B. di aulici stilemi orientali e si collega assai strettamente al citato affresco della Trinità. Più problematico, ma non improbabile, appare il riferimento a questo stesso nodo culturale dell'altra Crocifissione su tavola, resa nota da Longhi (1966) con un dubitativo riferimento al miniatore bolognese di una Bibbia conservata a Parigi (BN, lat. 18). Entro questo clima non dovette creare trasalimenti, ma anzi suonare consentaneo, l'arrivo da Firenze della Maestà di Cimabue per S. Maria dei Servi (ca. 1285-1290).Se questa, per sommi capi, doveva essere la situazione figurativa bolognese sul finire del Duecento, basata su un'eccellenza qualitativa che ricercava i suoi modelli nella tramontante cultura orientale, venandoli tuttavia di un più accentuato empito patetico, si comprende la sua relativa impermeabilità alle novità giottesche, che premevano sia dall'Italia centrale sia dall'area veneto-romagnola; tale impermeabilità è stata rimarcata dalla storiografia in senso negativo fino alla rivalutazione operata da Longhi (1973a). La cultura locale, tuttavia, si dimostra piuttosto propensa ad accogliere gli influssi che provenivano dal Gotico d'Oltralpe e soprattutto dalla Francia, verso la quale B. era indirizzata dalla particolare posizione geografica e dall'eccellenza del suo Studio, in rapporto con quello di Parigi e ragione di importazioni di oggetti (codici miniati e avori soprattutto) che dovettero garantire un continuo, proficuo aggiornamento in questa direzione.Quanto alla via di ricezione delle novità giottesche, la storiografia appare propensa ad accreditare importanza alla mediazione della vicina Rimini, dove Giotto era stato attivo forse già tra la fine del Duecento e l'inizio del Trecento; questo anche se lo stesso caposcuola dovette essere presente a B., sia attraverso l'invio di opere - come indica il polittico dipinto per Gera Pepoli già in S. Maria degli Angeli e ora nella Pinacoteca Naz. (ca. 1330-1333) - sia attraverso la supervisione di lavori affidati alla sua bottega (in questo senso va intesa la notizia di suoi affreschi nella rocca di Galliera, abbattuta dalla sommossa antiguelfa del 1334) e anche se vi furono presenti forse alcuni suoi importanti seguaci; è di Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 119) una problematica notizia circa una tavola di Puccio Capanna con Storie della Passione e di s. Francesco sul tramezzo di una chiesa non specificata. Il rapporto tra B. e Rimini andrà però rivisto sulla base di una ricchezza di scambi assai meno a senso unico di quanto finora si è potuto ipotizzare. Mancano i punti fermi per giungere a una convincente datazione degli affreschi con Storie di s. Francesco e della Passione nel refettorio vecchio di S. Francesco (documentati come opera di Francesco da Rimini dalla firma, leggibile ancora sul finire del sec. 18°), la più rimarchevole testimonianza riminese a B., che rappresentava inoltre, fino allo sciagurato strappo avvenuto alla fine dell'Ottocento e alla conseguente dispersione di numerosi frammenti, il più vasto complesso murale superstite in città (Brach, 1902, fig. 10). La loro esecuzione è da ritenere in ogni caso precoce, forse entro il secondo decennio del Trecento, sulla base delle osservazioni di Corbara (1984). Le accentuazioni espressive lettevi dalla critica, propensa pertanto ad accreditarne una datazione alquanto più tarda (Volpe, 1965), si giustificano con la tendenza a un racconto immediato e ricco di sapide aggettivazioni che B. poté suggerire allo svolgimento della stessa pittura riminese, in quei tempi ancorata a un'arcana e misteriosa solennità di eloquio, di fonte più direttamente giottesca.La consentaneità con taluni tra i fatti riminesi più antichi, non tale peraltro da compromettere l'autonomia del risultato, si legge in alcune opere alle quali spetta quindi una data anche assai alta: è il caso del grande affresco con S. Giacomo alla battaglia di Clavijo proveniente da S. Giacomo e ora alla Pinacoteca Naz., da datare forse entro il primo decennio del sec. 14°, dell'affresco con Madonna e santi in S. Maria dei Poveri, della tavola raffigurante la Madonna con il Bambino in S. Nicolò degli Albari, di recente individuazione, e delle due tavole con Storie di Cristo (Pinacoteca Naz.). Precisi indizi mostrano del resto attivo fin dagli anni venti l'ignoto pittore, i cui legami con gli artisti di Rimini sono stati rimarcati dagli studi al punto da indurne una prima provvisoria denominazione di Cugino dei riminesi (Coletti, 1947), che Longhi (1973a) tentò di identificare con Jacopino di Francesco de' Papazzoni, un artista documentato invece in anni assai più tardi, e che pertanto, negli studi recenti (Bellosi, 1974), viene indicato come pseudo-Jacopino di Francesco. A lui sono state avvicinate talora alcune delle opere sopra richiamate, per le quali appare viceversa necessario il riferimento a un clima in rapida crescita entro il quale agiscono numerose personalità. Per quanto riguarda la datazione della sua produzione meglio riconoscibile, alcune miniature contenute nella Matricola della Compagnia dei Poveri del 1329 (Conti, 1981, fig. 225; Medica, 1990, che ne identifica l'autore nel documentato Lando di Antonio) sembrano sottintendere la conoscenza dell'aspetto ispido e rabbuffato da lui mostrato nei dossali provenienti da S. Maria Nuova e dalla Badia (Pinacoteca Naz.), da giudicare pertanto ben anteriori a tale data. Il naturalismo greve e aspro delle raffigurazioni in essi contenute si lega strettamente con quello esibito, a date del tutto prossime, dalla scultura bolognese. Parimenti precoci sono altre opere riferite generalmente allo stesso pseudo-Jacopino come le Storie di Cristo già Gozzadini (Raleigh, North Carolina Mus. of Art), che formavano un unico complesso con l'Incoronazione della Vergine (Pinacoteca Naz.) e le Esequie di s. Francesco (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca), alle quali si collega strettamente la Madonna con il Bambino già in Coll. Algranti. In esse si assiste a un'accelerazione gotica che dimostra come fosse già attivo a B. il Maestro del 1333, autore del grande trittico già in S. Vitale (Parigi, Louvre), che reca appunto, nel retro, questa importante data (Laclotte, 1978). La risentita volumetria delle figure si riassume nella definizione netta e acuta dei profili, denotando una precisa connessione con le astrazioni lineari del Gotico francese, cui rinvia anche il modo di stipare e concentrare il racconto entro le superfici a disposizione, come in un avorio. La gamma cromatica è quella livida dello pseudo-Jacopino, ma accordata secondo un'eleganza acidula che è estranea a quest'ultimo, cui pure il trittico è stato talora riferito (Longhi, 1973b).Per questa anonima personalità, che si accampa nel panorama contemporaneo con la massima autorevolezza (Volpe, 1980), si è pure fatto il nome di Dalmasio (documentato dal 1342 al 1370), un artista che di fatto mostra di riferirsi a questo precedente lungo tutta la sua attività e di svolgerne coerentemente le premesse. La diretta conoscenza di Giotto, avvenuta dapprima a B. - spetta a Laclotte (1978) l'ipotesi, non del tutto convincente ma significativa, di una sua collaborazione alla predella del polittico Pepoli, eseguito come si è detto intorno al 1330 - e poi maturata in Toscana con esiti che lo assimilano dapprima a Pietro Lorenzetti (nella cappella Bardi in S. Maria Novella a Firenze, post 1335) e risentono poi di Maso di Banco (in S. Francesco a Pistoia, 1343), determina la peculiarità della sintesi da lui operata su fatti di matrice contrastante, sì da farne un protagonista della cultura bolognese fuori di B. negli anni che immediatamente precedono la piena affermazione di Vitale.Quest'ultimo (documentato dal 1330; m. ante 1361) è la personalità alla quale sono state fino a poco tempo fa ricondotte le migliori propensioni della pittura bolognese: appare ora chiaro che egli, pur già documentato nel 1330, allorché è attivo nella cappella Odofredi in S. Francesco e in grado quindi di attingere direttamente alle sperimentazioni dello pseudo-Jacopino e del Maestro del 1333 (Crocifissione a Filadelfia, Mus. of Art, Coll. Johnson; S. Giorgio e il drago, oggi nella Pinacoteca Naz.), si pone piuttosto al termine di una già lunga stagione creativa e ne riassume le inclinazioni in una sintesi di personale e avvincente maturità: ciò è quanto si rileva a partire dalla Madonna dei denti, datata 1345, già in S. Apollonia di Mezzaratta e ora nel Mus. Civ. d'Arte industriale Davia Bargellini, e dal grande affresco con la Natività e l'Annunciazione con cui si avvia la decorazione dell'oratorio di Mezzaratta, alla quale attesero vari artisti nel corso del Trecento. L'atteggiamento stilistico che Vitale vi propone appare determinante per tutta una vasta area di cultura figurativa che da lui dipende e si caratterizza per il ritaglio immaginoso con cui egli si accosta alla cultura gotica, calandola tuttavia in una tenerezza naturalistica di impasti del tutto inedita, i cui riflessi si colgono in Tommaso da Modena.Con Vitale si è peraltro in grado di avvistare per la prima volta i termini di una vera e propria bottega che viene impiegata in imprese talora di vasto respiro: oltre alla prosecuzione dei lavori di Mezzaratta, all'interno dei quali si distinguono, sulla base delle firme apposte, indicanti una ormai raggiunta autonomia, le mani di Simone di Filippo, di uno Jacobus e di un finora anonimo Maestro dell'Adultera, si ricordano le maestranze attive nel Friuli, germinate dall'attività di Vitale nel duomo di Udine (quasi interamente solo negli affreschi della cappella maggiore, pagatigli nel 1349, e con larga partecipazione di aiuti nella cappella di S. Nicola), e quelle all'opera nella grandiosa decorazione della basilica di Pomposa, dove lo stesso Vitale eseguì le pitture nell'abside (Déesis, Padri della Chiesa ed evangelisti, Storie di s. Eustachio) apponendovi la data 1351 e diresse il lavoro degli allievi, tra i quali Longhi (1973b) ha riconosciuto una parte preminente ad Andrea (il probabile Andrea di Deolao de' Bruni). Le personalità uscite dalla bottega di Vitale mostrano di attenersi al repertorio formale del maestro, ma ne calano il colto linguaggio in un dettato dialettale, talora di sapore aspro e arcaizzante, secondo le disposizione dei singoli. Lo stesso deve dirsi per la produzione di Vitale su tavola, giacché se il polittico per S. Salvatore pagatogli nel 1353 sembra del tutto autografo, il dittico ora diviso tra la Fond. Longhi di Firenze e la Nat. Gall. of Scotland di Edimburgo palesa per contro un fare meno immaginoso, più trito e appoggiato al dato reale, così da denunciare l'ampio contributo della bottega. Il diverso grado di autografia delle opere licenziate da Vitale è evidentemente determinato dal maggiore o minor impegno economico profuso dalla committenza, così come la diversa ricchezza delle finiture; quasi assenti nella cappella di S. Nicola a Udine e nella navata di Pomposa, esse conferiscono invece agli affreschi nella cappella della Maddalena in S. Maria dei Servi a B. - che fu forse l'estrema opera condotta da Vitale prima della morte (Per la Pinacoteca, 1986, pp. 58-59) - l'aspetto sontuoso e decadente di una cappella palatina. Va altresì sottolineato il debito che Vitale contrae a quest'altezza del suo percorso nei confronti del Gotico sontuoso e profano dei pittori della corte di Avignone, evidente nella ricchezza degli ornati, nella sottile dialettica tra le figure e il fondo dorato e nell'eleganza contenuta dei gesti.Se Vitale con la sua numerosa bottega è in grado di esaudire le richieste di una committenza molto vasta, operando simultaneamente in numerosi cantieri anche fuori B., in città non manca lo spazio per commissioni forestiere. Ne sono prova i due polittici veneziani tuttora in S. Giacomo: quello di Paolo (ca. 1340), sul quale dovette riflettere Tomaso da Modena ancor prima di trasferirsi nel Veneto, e quello più tardo di Lorenzo (1368); si aggiunga che anche l'unica opera in patria di Giovanni da B., il polittico già in S. Marco e ora nella Pinacoteca Naz. (ca. 1370), vi fu probabilmente inviata da fuori, poiché riflette una cultura ormai del tutto veneta e sganciata da ogni premessa locale.Nell'esame della pittura bolognese del secondo Trecento, la forza poetica delle idee professate da Vitale ha rischiato talora di deprimere la valutazione di altre esperienze che, proseguite per tutta la prima parte del secolo, risultano determinanti per quella svolta antigotica e antivitalesca che si afferma nella pittura bolognese entro il terzo quarto del secolo, in accordo con quanto avviene in altri centri dell'Italia padana. Tali ricerche non mancano di riflettersi, al di sotto dell'apparente ossequio ai modi di Vitale, già negli artisti che attendono, dal 1360 ca., al completamento della parete destra dell'oratorio di Mezzaratta: si vedano per es. le Storie di Giuseppe, firmate da uno Jacopo (forse lo Jacopo Biondi, padre di Cristoforo, rammentato dai documenti; Gibbs, 1989), e le sottostanti Storie di Mosè, avviate da Cristoforo. Ma è poi un artista come Andrea de' Bartoli, debitore nella prima parte della sua carriera dei modi dello pseudo-Jacopino ovvero della versione meno sottilmente ritmica e anzi più diretta e violenta della pittura bolognese di inizio secolo (Crocifissione; Mantova, Gall. e Mus. di Palazzo Ducale), a farsi interprete del sensibile mutamento di rotta che investe la cultura figurativa padana quando, passata la metà del secolo, vi si avvertono, con una simultaneità di intendimenti che rende tanto più significativa la difformità dei risultati, i sintomi di una svolta antigotica: nel senso, appunto, di un approccio al reale non più mediato dagli stilemi preordinati che costituivano la cifra elegante e sapidamente 'internazionale' di Dalmasio e di Vitale, ma pianamente svolto entro pausate e ben controllate cadenze narrative (Volpe, 1980). Ciò è quanto mostra Andrea de' Bartoli negli affreschi della basilica inferiore di Assisi, pagatigli nel 1368, e soprattutto in quelli, purtroppo assai malconci, in S. Clemente nel collegio di Spagna a Bologna. Entrambe queste imprese vennero condotte sotto la determinante influenza del cardinale Egidio Albornoz, il maggiore responsabile della rinascita dello Studio bolognese dopo gli anni luttuosi dell'opposizione viscontea, e mostrano la presenza a B. di un'efficace alternativa ai modi dei seguaci di Vitale, nel tempo stesso in cui questi ultimi giungevano alla loro maturazione.Non si comprenderebbero del resto, senza questo retroterra, i moventi che guidano l'esperienza di Jacopo Avanzi, ben altrimenti supportata peraltro da un conscio recupero giottesco grazie alla frequentazione dell'ambiente padovano. Gli studi recenti assumono la sua figura come chiave delle estreme vicende del Trecento a B., grazie alle esperienze da lui maturate tra la città natale (Mezzaratta, Strage degli ebrei idolatri) e il fervido protoumanesimo di cui si facevano promotrici le corti dell'Italia padana, dalla Rimini dei Malatesta (affreschi cavallereschi di Montefiore Conca; Crocifissione su tavola ora nella Gall. Colonna a Roma) alla Verona degli Scaligeri (la perduta decorazione della sala Grande) e alla Padova dei Carraresi (la perduta sala degli Uomini illustri; cappella di Bonifacio Lupi di Soragna nella Basilica del Santo, con Storie di s. Giacomo ultimate da Altichiero entro il 1379).Sul suo esempio si modella di fatto a B. l'attività di Iacopo di Paolo, che, già attivo nel 1378, diviene il più consequenziale esponente del neogiottismo bolognese, di Lippo di Dalmasio e di Giovanni di Ottonello. Costoro si affiancano per qualche tempo senza apparenti interferenze ad artisti di ormai superato sentire e legati di fatto a una committenza di tipo conservatore, come Simone di Filippo e, con qualche maggiore compromesso, Cristoforo di Jacopo Biondi.In Iacopo di Paolo il neogiottismo, che aveva condotto Avanzi al recupero classicista e arcaizzante palesato negli affreschi padovani, flette in compunto e involontario grottesco, ma garantisce l'evidenza di un eloquio che consuona con il nuovo assetto politico, fieramente comunale e popolare, della B. di fine secolo. Di tale temperie è espressione la fondazione della basilica di S. Petronio (1390), alla quale Iacopo partecipò con molteplici funzioni: è questa l'impresa che, tra Trecento e Quattrocento, sembra coagulare intorno a sé le forze migliori della cultura bolognese, volgendole a un significato profondamente unitario (Matteucci, 1985). E tuttavia è al suo interno che si registrano i mutamenti più determinanti, se ivi debutta, forte delle novità recate dagli scultori forse francesi attivi per i finestroni, un artista inquieto e sperimentale come Giovanni da Modena, la cui esperienza, profondamente innovativa per tutto il Tardo Gotico padano, risulta per tanti versi legata a quella del neogiottismo locale.
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Determinare con esattezza l'origine di una scuola bolognese di miniatura che risalga oltre la metà del sec. 13° risulta assai problematico. Mancano infatti a tutt'oggi indagini sistematiche e studi specifici che contribuiscano a gettare luce sulla produzione libraria afferente tutto il periodo che precede la metà del Duecento nella città felsinea, sede dell'importante Studio, già in attività sullo scorcio dell'11° secolo. L'affermarsi, nel corso del Duecento, di un'attività nel settore della miniatura, riferibile con certezza agli scriptoria dello Studio bolognese, avviene secondo modalità e forme solo in parte collegabili alla decorazione testuale dei secc. 11° e 12° che era maturata in territorio emiliano, legata precipuamente alle fiorenti scuole episcopali e ai centri monastici, straordinario coagulo di esperienze culturali di matrice diversa: occidentale, soprattutto francese, e orientale, nell'accezione bizantina; le stesse componenti che costituirono la base del tessuto figurativo dell'illustrazione libraria bolognese del periodo duecentesco.Rapporti assai stretti dovettero intercorrere tra il cenobio di S. Silvestro a Nonantola e il capoluogo emiliano, come attestano due codici risalenti al sec. 11°, marcati da strette analogie stilistiche nell'apparato decorativo (antifonario-graduale, Roma, Bibl. Angelica, 123; leggendario e passionario o Vitae Sanctorum, Bologna, Bibl. Univ., 1576), tradizionalmente assegnati allo scriptorium di quel monastero, ma recentemente ricondotti, per le particolarità di carattere liturgico e ornamentale, ad ambiente monastico bolognese. È stata più volte sottolineata l'importanza del linguaggio stilistico espresso nell'antifonario-graduale - osservandone soprattutto la solenne gravità delle forme e l'andamento dei panneggi - per la formazione di Wiligelmo (Salmi, 1932).Una notevole vivacità di espressione costituisce il tratto comune che caratterizza nel suo complesso la miniatura emiliana e che divenne in seguito una peculiarità del linguaggio figurativo bolognese. Nei mini che illustrano la Relatio translationis corporis sancti Geminiani (Modena, Arch. Capitolare, O.II.11) - la cui datazione oscilla tra la fine del sec. 12° (Salmi, 1932, p. 274) e la metà ca. del seguente (Conti, 1984) - l'assenza quasi assoluta di plasticità e le pungenti espressioni delle figure conferiscono al racconto un tono di intensa vivacità narrativa che si ritrova nelle immagini dipinte sulle matricole e sugli statuti bolognesi duecenteschi.Nel solco di questa cultura libraria sorta in area modenese si inserisce un'altra opera, elaborata in uno scriptorium localizzabile in quel centro emiliano. Si tratta delle Decretali di Gregorio IX, con apparato di Bernardo da Parma (Oxford, Bodl. Lib., lat. th. b. 4), il cui testo, sottoscritto nel 1241 da Leonardus de Gropis di Modena, illustrato da miniature ben inserite nella tradizione pittorica emiliana duecentesca, è arricchito da un particolare tipo di decorazioni filigranate tracciate a penna con inchiostro rosso e blu - denominate jeux de plume - che si dispongono lungo i margini delle colonne di scrittura, distendendosi in ampi fasci di linee guizzanti, talora desinenti in un motivo a spiga. Il codice è strettamente collegabile per il tipo di decorazione offerta - tracce similari si rinvengono peraltro in coevi esemplari inglesi o della Francia del Nord - a un gruppo pressoché omogeneo di manoscritti universitari, una ventina, di contenuto prevalentemente giuridico, conservati nella Bibliothèque Nationale di Parigi, per i quali è stato convincentemente proposto il riferimento agli scriptoria universitari di area bolognese (Avril, Gousset, 1984).Sede di uno Studio in continua espansione, il capoluogo emiliano si trova, in effetti, nel corso del sec. 13°, per il settore dell'editoria, a dover far fronte a un pubblico variamente costituito. Gli scriptoria legati all'Università si specializzano oltremodo nella produzione e illustrazione di testi giuridici - contemporaneamente si va definendo il tipo di scrittura, in gotica rotunda o littera Bononiensis - e di testi sacri, nonché di libri legati alla vita civile (statuti, matricole di corporazioni), vincolati a norme di tipo iconografico-strutturale ben determinate.I numerosi documenti due-trecenteschi editi, riguardanti scrittori, miniatori e cartolai (Miniatori e pittori, 1947), nonché alcuni studi specifici (Orlandelli, 1959; D'Arcais, 1979; Conti, 1981) mettono a fuoco l'organizzazione assai peculiare che sovrintendeva alla produzione e decorazione dei manoscritti. Il sistema della divisione in fascicoli (o pecie) di un testo universitario (exemplar), a opera dello stationarius, presupponeva, all'interno di una bottega, l'alternanza di più mani sia per la copiatura sia per la decorazione; quest'ultima veniva ulteriormente suddivisa tra gli specialisti dell'ornamentazione libraria: in non rare occasioni si ricorreva anche alla collaborazione di più botteghe, ponendo in essere un sistema di lavorazione assai complesso, che però consentiva di accelerare considerevolmente i tempi di confezione di un testo.L'intera vicenda critica che ha tracciato le linee di evoluzione della miniatura bolognese a partire dalla metà del sec. 13° è stata segnata dall'individuazione - il merito è da ascriversi principalmente a Toesca (1927) - di due filoni culturali: l'uno di marca gotica transalpina, l'altro profondamente legato alla tradizione bizantina. L'avvicendarsi o il fondersi delle due componenti - gli apporti diretti della cultura bizantina sono evidenti nei codici a partire dall'ottavo decennio del secolo - determinano la struttura linguistica di base dell'illustrazione libraria in territorio emiliano nella seconda metà del Duecento.Centro di studi di richiamo europeo, B. divenne, intorno alla metà del sec. 13°, un polo assai vivo di scambi di ordine culturale e di incrocio di tendenze artistiche di diversa origine, come provano le non infrequenti collaborazioni tra maestri locali e miniatori francesi: è il caso di un codice delle Decretali (Roma, BAV, lat. 1390), ove per la decorazione delle tavole di affinità e di consanguineità intervenne un artista francese, evidentemente più esperto nell'impostazione grafica delle due immagini.Toesca individua nella produzione miniata ascrivibile a B. nell'arco di oltre un cinquantennio, a partire dalla seconda metà del Duecento, diverse fasi, distinte non necessariamente in senso diacronico, bensì contrassegnate da una differente - secondo il maggiore o minore livello d'intensità - "comprensione dei modelli bizantini" (Toesca, 1927, p. 1064). Un esempio precoce di assimilazione di modelli specifici dell'Oriente bizantino è la miniatura che decora gli Statuti della Compagnia dei Battuti di S. Maria della Vita, datati 1260 (Bologna, Bibl. dell'Archiginnasio, Fondo ospedali 1, c. 2r), da considerarsi non tanto un episodio isolato nel contesto della produzione libraria bolognese, per il suo richiamarsi direttamente a esemplari della pittura monumentale ad affresco o su tavola, quanto piuttosto un basilare punto di riferimento per il successivo svolgersi di quella corrente miniatoria di intonazione bizantineggiante che caratterizzò buona parte dell'illustrazione di ambito bolognese del periodo seguente.Un altro episodio figurativo sovente richiamato per chiarire le origini dello stile aulico nella produzione libraria bolognese è l'Epistolario di Giovanni da Gaibana, del 1259 (Padova, Bibl. Capitolare), il cui raffinato linguaggio, ispirato a modelli orientali, ma strutturato su un impianto decisamente di carattere occidentale, in linea con il classicismo bizantino-occidentale dei miniatori di Acri, fa propendere per un'elaborazione in uno scrittorio legato alla cattedrale, in rapporti assai stretti con la temperie culturale di area veneziana.Più strettamente legato a officine librarie di ambito emiliano è un codice delle Decretali del 1258 (Firenze, Laur., Plut. 5. sin. 2), sottoscritto da Lanfrancus de Pancis (o de Paucis) de Cremona e caratterizzato da una struttura decorativa di andamento corsivo, che non si discosta molto dalla figurazione di saldo impianto romanico che decora lo Statuto dei Falegnami (Bologna, Arch. di Stato, cod. min. 1), risalente non al 1248 - come finora ritenuto - ma al 1264 (Gardin, 1989).I caratteri salienti della 'prima fase' o 'primo stile' della decorazione libraria bolognese si possono riassumere in pochi tratti essenziali: stesura rapida, forme semplificate, profilate da un forte segno, impiego di una ristretta gamma di tinte (minio, arancio, blu, verde e bianco, specialmente per filettature di capigliature e vesti). Inseribile in questa fase è un gruppo di codici - bibbie soprattutto - scalabili nell'arco di un ventennio tra il 1260 e il 1280 ca., accomunati da spiccate analogie nella scelta del partito decorativo e da forti somiglianze sul piano sia iconografico sia stilistico; vi si avvertono gli apporti della cultura bizantina, che si fondono con gli accenti gotici desunti dal repertorio librario degli ateliers parigini, nelle vivacissime drôleries che occupano gli spazi bianchi della pagina lasciati liberi dalla scrittura.Una delle prime bibbie datate è quella sottoscritta da Lanfranco de' Panci (Oxford, Bodl. Lib., Canon bibl. lat. 56). La Bibbia, di destinazione domenicana (già Londra, Coll. Abbey, S.A. 7345) - la cui annotazione più antica, risalente al 1262, pone intorno a quella data la sua esecuzione -, offre il caratteristico motivo nel bas de page di medaglioni includenti scene, formati da racemi vegetali che si distaccano dal corpo dell'iniziale.Collocabili in questa prima fase sono inoltre: la Bibbia, databile intorno al 1267, copiata a B. da "Cardinalis et Rugerinus fratres et filii q(uondam) Paganelli de Furlivio" (Parigi, BN, lat. 22), un'altra assai affine stilisticamente (Parigi, Arch. de la Compagnie de Saint-Sulpice, A.S.S. 1972-1973), quella di Stoccarda (Württembegische Landesbibl., Bibl. fol. 16), la Bibbia Bentivoglio (Baltimora, Walters Art Gall., Walters 151) e inoltre quelle conservate a Cesena (Bibl. Com. Malatestiana, D.XXI.2), a New York (Public Lib., 19) e a Roma (BAV, Ross. 255).Accenti del linguaggio franco-svevo, su cui la produzione miniatoria bolognese si aggiorna, specialmente nei manoscritti di argomento giuridico, sono chiaramente avvertibili nelle illustrazioni dell'Infortiatum di Torino (Bibl. Naz., E. I. 8), codice ben noto per essere stato avvicinato all'attività di Oderisi da Gubbio (v.) - documentato a B. nel 1268 e nel 1271 - citato nel celebre passo dantesco (Purg. XI, vv. 79-81).Agli inizi dell'ottavo decennio del sec. 13° si affianca alla 'prima fase' della miniatura bolognese una corrente stilistica che convive con la precedente, ma di segno diverso, connotata da una marcata assunzione della sintassi formale del linguaggio bizantino, prontamente ricettiva nei confronti delle soluzioni auliche dell'arte metropolitana di età protopaleologa e disponibile altresì alle infiltrazioni della cultura orientale periferica espressa in ambito monumentale nel corso del sec. 13° dai cicli pittorici delle province balcaniche. La gamma cromatica si accende di tonalità più calde, ricche di sfumature e lumeggiature, che caricano volumetricamente le figure.Fulcro della produzione libraria agli inizi di questa 'seconda fase' è l'illustrazione della Bibbia vaticana (Roma, BAV, lat. 20), ove un più caldo cromatismo, che rinforza l'evidenza più pittorica delle figure e il loro solenne stagliarsi sul fondo, rivela un'esperienza attenta al mondo antico di Bisanzio, fortemente impregnato di ellenismo. Nell'impaginazione ornativa del codice le caratteristiche terminazioni dei racemi in 'aquiloni' e patere - elementi peculiari della tradizione libraria siciliana duecentesca - fanno supporre, come già avvertito da Erbach von Fürstenau (1911), tangenze con la cultura sveva meridionale.Le euritmie di ascendenza bizantina del momento paleologo si riscontrano nella Bibbia appartenuta a Carlo V (Gerona, Mus. de la Catedral, Arch. y Bibl.), sottoscritta da Bernardino da Modena. Al maestro della Bibbia catalana, in collaborazione con uno o più aiuti, è accostabile un salterio (Bologna, Bibl. Univ., 346), scritto e miniato nella città felsinea per un convento benedettino di Padova, probabilmente intorno alla metà degli anni settanta. Vi si avverte, oltre a una pronta ricezione di elementi innovativi sul versante iconografico - specialmente nelle scene evangeliche - desunti dal patrimonio librario di età paleologa, anche il recupero della tradizione bizantina più antica, uno studio accurato di colti modelli della rinascenza macedone (Pippal, 1981).Ricollegabili alla mano del maestro di Gerona, ma appena più avanzati della Bibbia catalana, sono i tre graduali del ciclo corale da S. Francesco a B. (Mus. Civ. Medievale, 525 o 16, 526 o 17, 527 o 18), eseguiti in collaborazione con più miniatori, uno dei quali è presente nella Bibbia conservata a Modena (Bibl. Estense, lat. 430). Per essi sono stati sottolineati, in favore di una loro pertinenza all'area culturale fiorentina, i legami con il linguaggio cimabuesco, legami che con insistenza sono stati ribaditi anche per i due graduali, F e G, stilisticamente assai prossimi, provenienti dal monastero di Ripoli (Firenze, Mus. di S. Marco, 561 e 562). Frutto di una collaborazione assai stretta risulta la decorazione della Bibbia conservata all'Escorial (Bibl., a.I.5), ove il recupero del linguaggio bizantino si avverte nelle pose solenni 'all'antica' delle figure e nell'andamento della decorazione vegetale, che si snoda lungo i margini, secondo aulici e cadenzati ritmi.Un cruciale punto di passaggio in direzione del pieno svolgimento del linguaggio miniatorio di epoca trecentesca è rappresentato da un gruppo ben caratterizzato di codici, due bibbie (Torino, Bibl. Naz., D.II.3; Londra, BL, Add. Ms 18720), un salterio (Parigi, BN, Smith-Lesouëff 21) e la Bibbia di Clemente VII (Parigi, BN, lat. 18), che è l'esemplare più significativo. Le colte cadenze espressive e la palese aderenza ai modelli bizantini protopaleologhi - riferimento indispensabile per la ricerca di effetti volumetrici nelle forme, ottenuti mediante un uso abilmente dosato delle lumeggiature - care al maestro di Gerona assumono nella Bibbia parigina un'evidenza affatto nuova, in virtù di una manifesta apertura su ritmi di stampo ormai gotico; lo scarto qualitativo di quei mini aveva condotto alla nota proposta longhiana di identificarne l'autore con il celebre Franco bolognese (v.) di dantesca memoria (Longhi, 1966a; 1966b). Il linguaggio più maturo del maestro della Bibbia parigina, sensibile ai nuovi fermenti derivati dai portati giotteschi assisiati, è riconoscibile in alcuni mini, prossimi ormai allo scadere del secolo, del Decretum Gratiani (Roma, BAV, lat. 1375), sottoscritto da Jacopino da Reggio (v.). La proposta di identificare quel miniatore con Jacopino stesso (ricordato in documenti degli anni 1269-1286) lascia qualche margine di dubbio, dal momento che proprio l'illustrazione del frontespizio, solitamente affidata al capo atelier, risulta frutto della collaborazione tra il maestro principale e uno dei quattro aiuti che si alternano nella decorazione del codice.Con l'aprirsi del sec. 14° si avvia un lento processo di trasformazione nel settore dell'illustrazione, che conduce, a partire dal secondo decennio, a un assorbimento sempre più marcato di schemi compositivi e moduli espressivi propri della pittura di grande formato; ne deriva, di conseguenza, una diversa organizzazione della decorazione, con la tendenza a isolare la scena figurata entro riquadri o tabelle nel contesto della pagina. Il confronto diretto con i modelli della pittura monumentale diviene un elemento fondamentale per la miniatura trecentesca bolognese: i nuovi portati giotteschi dell'esperienza padovana, soprattutto, costituiscono il referente primario per la ricerca volta ad apportare più consistente volume e senso spaziale alle composizioni.Il foglio della Fond. Cini a Venezia, firmato da Neri da Rimini (v.) e datato 1300, offre al riguardo una significativa testimonianza della fase di transizione verso il maturo stile trecentesco della decorazione libraria.Il complesso dei corali per la cattedrale di Padova (Bibl. Capitolare, A 14-16, B 14-16) - ricondotto più opportunamente entro il secondo decennio del Trecento e decorato dal Maestro di Gherarduccio, bolognese di formazione - nel citare puntualmente alcune scene affrescate nella cappella degli Scrovegni testimonia l'autorevolezza esercitata dall'exemplum giottesco nel campo dell'illustrazione libraria, sia pure tradotto in maniera corsiva, senza che ne sia stato colto a pieno il potenziale di novità insito nella salda sintassi spaziale del costrutto visivo. Su questa linea interpretativa del dettato giottesco si pongono le miniature del Corale di Modena (Bibl. Estense, lat. 1021), del quarto lustro del Trecento, riferite da Salmi (1932) allo stile del celebre Franco bolognese, la cui attività non dovrebbe invero spingersi, se si tiene fede al referto dantesco, oltre i primi anni del 14° secolo.Dal gruppo di miniatori, almeno sette, che si individuano nell'importante ciclo di corali eseguiti per il convento bolognese di S. Domenico entro i limiti cronologici del 1318-1320 e 1324-1326 (Alce, D'Amato, 1961), emerge il Quarto maestro di S. Domenico, che interviene nella illustrazione degli antifonari 11 e 14 del convento di S. Domenico - da integrarsi con alcuni fogli asportati, ora a Venezia (Fond. Cini, 2035, 2158, 2165, 2166) -, sensibilmente aggiornato sui contenuti innovativi del messaggio espressivo e formale di Giotto padovano.La personalità di questo maestro - autore della Matricola dell'Arte dei Merciai, del 1328 (Bologna, Mus. Civ. Medievale, 633), attivo fino agli inizi del quinto decennio e identificabile forse con un maestro Piero - ha assunto un ruolo di primo piano grazie all'ampliamento del suo catalogo, che potrebbe dilatarsi ulteriormente se, come è stato supposto (Gibbs, 1990, pp. 75-78), l'artista si fosse cimentato anche nella pittura di grande formato. Il riferimento a modelli pittorici monumentali appare evidente, per es., nelle due grandiose scene di soggetto evangelico inserite in testi giuridici, la Crocifissione del Decretum Gratiani (Madrid, Bibl. Nac., Vit. 21-2) e la Disputa con i dottori in un foglio staccato da un codice del sesto libro delle Decretali (New York, Pierp. Morgan Lib., M. 821), impaginate come riquadri ad affresco.Nel corso del quarto-quinto decennio del Trecento la miniatura bolognese si caratterizza per un indirizzo di linguaggio saldamente ancorato alla cultura giottesca, sia pure eludendone in larga parte la rigorosa lezione spaziale, mentre più diffusamente si colgono accenti di marcata espressività e di evidenza materica, accostati a un'acuta osservazione del dato naturale e a una notazione vivace del particolare di vita quotidiana.Lungo queste direttrici stilistico-formali si articola la produzione di quel grande ignoto miniatore - forse da identificarsi con Tommaso di Galvano - felicemente denominato da Longhi (1973a, pp. 24-25) l'Illustratore (v.), altrimenti noto come pseudo-Niccolò, per distinguerlo dal celebre Niccolò di Giacomo (v.) della seconda metà del secolo (Ciaccio, 1907).Attivo fin dalla metà degli anni trenta e formatosi presumibilmente presso l'officina libraria del Maestro del 1328 - con il quale collabora alla decorazione del Decretum Gratiani (Roma, BAV, lat. 1366) - l'Illustratore recupera a pieno il rapporto testo-illustrazione, soprattutto nei libri di contenuto giuridico, componendo in un delicato equilibrio il complesso, ma sapientemente ordinato, affollarsi sulla pagina delle figurazioni, inserite entro cartelle e riquadri fra testo e glossa, che danno spazio sia a scene di ampie dimensioni per temi solenni sia a descrizioni puntuali di minuziose regolamentazioni giurisprudenziali.Nelle quattro scene che illustrano le Storie di s. Caterina delle Costituzioni di Clemente V (Padova, Bibl. Capitolare, A 25) sottoscritte nel 1343 - l'unica data riferibile all'opera del miniatore bolognese - e, in particolar modo, nel sesto libro delle Decretali dell'abbazia di St. Florian (Stiftsbibl., III. 7), di poco precedente, le figure, dalla sintassi corporea plasticamente abbreviata, disposte su fondi campiti a ramages dorati, rivelano atteggiamenti ed espressioni mimiche fortemente espressive, accentuate quasi al limite del caricaturale, non esenti, per taluni aspetti, da apporti della cultura figurativa centroeuropea, in parallelo o forse in stretta dipendenza dagli esiti espressi dalla corrente miniatoria bolognese-ungherese nelle figurazioni della Bibbia di Nekcsei Lipócz (Washington, Lib. of Congress, Pre-Accession 1) e del Leggendario angioino (Roma, BAV, lat. 8541; San Pietroburgo, Ermitage, Gab. dei disegni, nrr. 16930-16934; New York, Pierp. Morgan Lib., M. 360, M. 360 a-c). Il linguaggio 'moderno' di quei mini pone l'Illustratore al livello di protagonista, a fianco di personalità come Vitale e il Maestro del 1333, dello svolgersi del Gotico in area padana.Su questa linea di stretta vicinanza ai modi dell'Illustratore si inserisce il Maestro del 1346, autore degli Statuti dei Drappieri del 1346 (Bologna, Arch. di Stato, cod. min. 12), cui si deve ricondurre il Messale di Roma (BAV, Arch. S. Pietro, 63 B), databile alla metà degli anni quaranta. In rapporto con l'entourage di questo maestro si pongono, allo scadere del quinto decennio del sec. 14°, gli esordi del fecondissimo Niccolò di Giacomo, ben riconoscibili nella maggior parte delle illustrazioni dell'Uffiziolo di Kremsmünster (Stiftsbibl., 4), sottoscritto nel 1349 dal calligrafo Bartolomeo de' Bartoli. Attivo fino alla fine del secolo, nelle prime opere firmate e datate (Roma, BAV, lat. 1456 e 2534, del 1353; Decretali, Salisburgo, Stift St. Peter, Cod. a. XII 10, del 1354) il maestro risulta ben distinguibile dall'Illustratore, per un più sottile ed elegante ritmo decorativo delle figurazioni.La successiva produzione di Niccolò nel corso degli anni settanta si accorda su accenti di "quasi grottesca animazione espressiva" (Gnudi, 1972, p. 580), in stretta risonanza con gli echi derivati dalla cultura boema, e si caratterizza per il vivissimo senso naturalistico e la singolare capacità di fissare icasticamente l'episodio narrato, corroborata da una sapiente fusione di timbri coloristici dalle tonalità ora accese, ora chiare.Con l'attività ultima di Niccolò di Giacomo - la cui scomparsa è situabile intorno al 1403 - e della sua bottega, insieme all'intensa produzione della bottega condotta da Stefano degli Azzi - ricordato dal 1353 al 1400 -, si conclude l'ultima grande stagione dell'illustrazione libraria trecentesca di ambito emiliano.
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Tra le arti suntuarie, a B. solo la produzione di oreficerie sembra aver conosciuto - allo stato attuale degli studi - una continuità e organicità tali da permettere di tracciarne una linea di sviluppo, sia pure ancora fortemente lacunosa. È solo negli ultimi anni, infatti, che si è cominciata a investigare con maggiore sistematicità la produzione orafa bolognese, di cui peraltro si hanno ampie notizie documentarie (Samaja, 1934), ma ben poche opere conservate. A partire dal 1298 gli orafi bolognesi figurano iscritti in una loro matricola autonoma, essendo, in quell'anno, registrati in numero di duecentoquarantadue. La Società degli orafi divenne ben presto assai potente nell'ambito della municipalità bolognese, tanto da essere cooptata, nel 1337, nella gestione della zecca cittadina.Il panorama trecentesco si apre con un'opera celeberrima, a metà strada tra scultura monumentale e tecnica orafa, cioè la grande statua raffigurante papa Bonifacio VIII, eseguita in lamine di rame sbalzato su anima lignea e con la mano benedicente realizzata in bronzo (Bologna, Mus. Civ. Medievale). L'effigie, alta m. 2,65, fu lavorata da Manno di Bandino - orafo di Siena, ma residente nella città felsinea - e collocata nel 1301 sulla facciata verso piazza Maggiore del palazzo Pubblico, a celebrazione dell'avvenuta composizione di dispute tra fazioni cittadine, favorita dall'intervento pacificatore del pontefice (Castelnuovo, 1975). Lavorata in rame sbalzato è pure una statuetta, alta cm. 25 ca. e raffigurante forse s. Orsola, che presenta un'accentuata stilizzazione della figura e un andamento marcatamente linearistico che ne rendono probabile una datazione ai primi decenni del Trecento (Mazza, 1985).Pochi altri nomi, tra i molti menzionati dai documenti, sono sicuramente accostabili a opere conservatesi. Tra questi va comunque ricordato almeno quello di Andrea di Bartolomeo, cui è stata riferita, in via del tutto ipotetica (Faranda, 1990, pp. 150-151), una croce conservata a Ravenna (Mus. Arcivescovile), datata 1366 e firmata da un non meglio specificato Andrea. Da segnalare, ancora, un reliquiario contenente un osso del braccio di s. Silvestro papa, conservato nell'abbazia di Nonantola, eseguito nel 1372 da Giuliano da Bologna.Ruolo di grande prestigio nell'oreficeria bolognese del secondo Trecento ebbe senz'altro Jacopo da B., detto Jacopo Roseto, cui vennero commissionati i due più importanti reliquiari cittadini, quello per il capo di s. Petronio, firmato e datato 1380, e quello per il capo di s. Domenico, anch'esso firmato e datato 1383, destinati rispettivamente alle basiliche di S. Stefano e S. Domenico (Alce, 1971; Trento, 1987). Ambedue eseguiti in argento dorato e di dimensioni monumentali, presentano una tipologia assai simile, derivata da quella degli ostensori, evidentemente giudicata più opportuna per l'esibizione processionale delle reliquie. Nei due reliquiari - ma in particolare nel secondo - predomina una complicata concezione architettonica del manufatto, di marca schiettamente tardogotica, pur essendo assai ricco il partito decorativo: su ciascuno compare infatti un'affollata popolazione di figure mostruose, con ornati fitomorfi, unitamente a eleganti statuette e a una serie di placchette a smalto, con scene della vita del santo cui è dedicato il reliquiario. Alla bottega dello stesso Jacopo Roseto va inoltre riferito il reliquiario del dito di s. Domenico, nella chiesa omonima, caratterizzato, secondo Toesca (1951, pp. 918-919), da un'esuberante ornamentazione che non compensa le incertezze della struttura architettonica. Ancora Toesca (1951, p. 863, fig. 716) riferisce alla scuola del miniatore Niccolò da B. (o Niccolò di Giacomo) un vetro con oro a graffito, raffigurante la Crocifissione incorniciata da figure di santi entro edicolette trilobate (Londra, Vict. and Alb. Mus.).
Bibl.: W. Samaja, L'Arte degli Orefici a Bologna nei sec. XIII e XIV. Statuti e materiale, L'Archiginnasio 29, 1934, pp. 214-240, 398-416; Toesca, Trecento, 1951; V. Alce, Il reliquiario del capo di San Domenico, Culta Bononia 3, 1971, pp. 3-45; C.G. Bulgari, Argentieri gemmari e orafi d'Italia. Notizie storiche e raccolta dei loro contrassegni con la riproduzione grafica dei bolli individuali e dei bolli di garanzia, IV, Emilia, Roma 1974; E. Castelnuovo, 1301/ Bonifacio VIII, cat., Milano 1975; A. Mazza, S. Orsola (?), in Introduzione al Museo Civico Medioevale. Palazzo Ghisilardi Fava, Bologna 1985, nr. 18, p. 45; D. Trento, Tracciato per l'oreficeria a Bologna: reliquiari e paramenti liturgici dal 1372 al 1451, in Il tramonto del Medioevo a Bologna. Il cantiere di San Petronio, a cura di R. D'Amico, R. Grandi, cat., Bologna 1987, pp. 231-253; F. Faranda, Argentieri e argenteria sacra in Romagna dal Medioevo al XVIII secolo, Regesto documentario e indici a cura di M. Adamo (I mestieri dell'Arte, 2), Rimini 1990.A. Ghidoli
L'attuale organizzazione museografica bolognese consente di riconoscere nuclei e spunti medievalistici presso la Pinacoteca Naz. (dal 1802), nel Mus. Civ. d'Arte industriale Davia Bargellini (dal 1924), nella Coll. Com. d'Arte (dal 1936) e più estesamente nel Mus. Civ. Medievale (dal 1985), che riorganizza le precedenti raccolte del Mus. Civ. (dal 1881), privilegiando l'ingente corpus medievalistico da cui assume il nome.La storia, che ha consegnato alla città una struttura museale molto articolata e composita, decorre dai più antichi nuclei collezionistici di Ulisse Aldrovandi e di Ferdinando Cospi, entrambi esposti in palazzo Pubblico per volontà dei promotori (rispettivamente dal 1617 e dal 1675). Ma solo con la costituzione (1714) e il progressivo ampliarsi dell'Ist. delle Scienze nella sede di palazzo Poggi - con la larghezza culturale e materiale che caratterizzò l'opera del suo fondatore, Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730) - si delineano i più remoti nuclei di ispirazione medievalistica, poi confluiti nelle strutture museali ottocentesche. Parte degli avori gotici ora in dotazione al Mus. Civ. Medievale proviene dalla collezione di Ludovico Savioli (1729-1804), poeta, storico, uomo politico di rilievo, presidente perpetuo dell'Accad. Clementina. All'azione conservativa di quest'ultima si deve, fra il 1797 e il 1799, mentre si susseguivano le soppressioni di chiese e conventi, l'entrata nell'Ist. delle Scienze delle prime tavole gotiche, a cominciare dal polittico di Giotto per S. Maria degli Angeli, e dei fondi oro riferiti a Vitale. Nello stesso giro d'anni l'Ist. acquisì, significativamente, la grande statua in rame di Bonifacio VIII (1301), opera del senese Manno di Bandino, in precedenza collocata sulla facciata di palazzo Pubblico. Sono così delineate le direttrici che avrebbero consentito l'aggregazione e il successivo ampliarsi di raccolte medievalistiche in ambito universitario, a seguito della soppressione dell'Ist. delle Scienze, e presso la Pinacoteca Naz., che dal 1803 è collocata nell'ex convento di S. Ignazio, a sussidio della nuova Accad. di Belle Arti.Ai 'primitivi' un ruolo davvero rilevante venne riconosciuto soltanto in tempi recenti, con l'ultimo e più radicale rinnovamento della galleria, autonoma dal 1882. Il nuovo ordinamento della Pinacoteca Naz., voluto da Cesare Gnudi nel 1959, grazie ad acquisti e rilevanti incameramenti - in particolare il ciclo di affreschi provenienti da Mezzaratta - consente di seguire organicamente il percorso della pittura gotica bolognese, secondo il profilo delineato da Longhi (1973). Vitale vi risulta rappresentato con alcuni dei suoi capolavori, dal S. Giorgio alle Storie di s. Antonio Abate sino al Presepe di Mezzaratta; non meno notevole è la presenza dello pseudo-Jacopino di Francesco, di cui si vedono le opere maggiori. Ma l'intero arco della pittura bolognese vi è esemplificato con abbondanza, dal supposto Dalmasio a Simone dei Crocifissi a Cristoforo, sino ai più tardi Iacopo di Paolo e Giovanni da Modena (questi con il memorabile Crocifisso proveniente da S. Francesco). Ne risulta un profilo ricco e articolato, che restituisce dignità e concretezza museografica alla rivendicazione di un Gotico bolognese autonomo ed espressivamente connotato.Di rilievo è pure la raccolta di primitivi della Coll. Com. d'Arte (precedentemente al Mus. Civ.), dove spiccano il grande Crocifisso ligneo con i laterali dipinti da Simone dei Crocifissi e l'Annunciazione di Iacopo di Paolo per Iacopo Bianchetti, conservatore della Camera degli atti, l'archivio del comune. Nel Mus. Civ. d'Arte industriale Davia Bargellini, il piccolo nucleo di tavole trecentesche, verosimilmente riunite dall'erudito locale Virgilio Davia, annovera la celebre Madonna dei denti di Vitale da Bologna.Più complesso è il profilo del Mus. Civ. Medievale; rilievo primario vi assume la serie di monumenti dei dottori, di cui è possibile seguire l'evoluzione iconografica, tipologica e strutturale, dagli esempi più remoti fino alle tardive rielaborazioni rinascimentali. Il percorso museale consente finalmente di coglierne la complementarità con la pittura e la miniatura coeve e di sottolineare quei valori di individualità psicologica e di enfasi espressiva che paiono connotare il Gotico bolognese. Il retroterra romanico è rappresentato da croci viarie, mentre la transizione al Gotico è esemplificata da un nucleo di opere di provenienza locale, ma di estrazione internazionale, che tocca il suo apice con il celebrato piviale inglese pervenuto da S. Domenico. Tra i materiali di collezione spiccano le raccolte di avori bizantini, romanici, gotici: la metallistica annovera l'acquamanile duecentesco (già nella Coll. Palagi), riferito alternativamente alla Bassa Sassonia e alla valle della Mosa, e la più tardiva statua di Bonifacio VIII del senese Manno, già menzionata. Di grande rilievo è la raccolta di codici miniati di varia estrazione locale, che vanta alcuni dei capolavori della miniatura bolognese, dai più antichi esemplari duecenteschi sino a quelli tardogotici e oltre. Bibl.: La Pinacoteca Nazionale di Bologna, a cura di A. Emiliani, Bologna 1967; Le collezioni d'arte della Cassa di Risparmio in Bologna. I dipinti, a cura di A. Emiliani, Bologna 1972; R. Longhi, Momenti della pittura bolognese (1934), in id., Opere complete, VI, Lavori in Valpadana, Firenze 1973, pp. 189-205; I materiali dell'Istituto delle Scienze, cat., Bologna 1979; Introduzione al Museo Civico Medievale. Palazzo Ghisilardi-Fava, Bologna 1985 (19872); Museo Civico d'Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini, Bologna 1987; Collezioni Comunali d'Arte. L'Appartamento del Legato in Palazzo d'Accursio, Bologna 1989.R. Grandi