Bologna
«Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna» (Giosuè Carducci, Odi barbare, Nella piazza di San Petronio)
Bologna, città simbolo
di Edmondo Berselli
6-7 e 21-22 giugno
Nella tornata elettorale delle amministrative, che interessa 4281 Comuni e 62 Province, particolare attenzione richiama la scelta del sindaco di Bologna, dato il carattere fortemente simbolico che la città ha assunto nella vita politica italiana degli ultimi decenni. La tradizionale leadership della sinistra è confermata al ballottaggio dalla vittoria di Flavio Del Buono, del Partito Democratico, su Alfredo Cazzola, sostenuto da Popolo della Libertà e Lega Nord
Un laboratorio politico
Troppo esposta sul palcoscenico nazionale in quanto città simbolo, anche se – si teme – simbolo che richiama soprattutto un passato, Bologna non può ritrarsi dalla vista della società italiana, e nemmeno illudersi che l’opinione pubblica accondiscenda facilmente a trascurarla. Secondo un luogo comune ancora diffuso, è sempre stata rappresentata come il fiore all’occhiello del Partito comunista e comunque come l’emblema nazionalpopolare del buongoverno di ispirazione ‘socialista’, il salotto buono del pragmatismo progressista, la città grassa e rossa, dotta e riformista. Al di là della tradizione amministrativa, era la città della cultura, di infinite iniziative dall’alto e dal basso, da parte degli assessorati e delle libere associazioni, dei circoli femminili, delle circoscrizioni periferiche. È stata a lungo la città del DAMS (Discipline dell’Arte, della Musica e dello Spettacolo), una fortezza universitaria assalita da decine di migliaia di studenti, molti dei quali meridionali, carichi di aspettative. Negli anni della dissoluzione della Repubblica dei partiti, di fronte alla trasformazione imposta dalla crisi del sistema politico, e mentre l’Italia intera era percorsa da un vento di rivolta antipolitica, l’‘isola’ bolognese ha scommesso sul proprio passato, sul suo essere eccezione, anomalia splendida, esempio amministrativo e civile.
Nonostante il passare degli anni, e lo sfumare lento delle passioni politiche, il capoluogo emiliano conserva pur sempre la caratteristica di laboratorio politico che l’ha resa celebre. La patria del socialismo pragmatico. E anche, per molti aspetti, un bastione assediato: perché, come fu detto, da sinistra, nel 1999, all’epoca della prima sfida di Giorgio Guazzaloca alla fortezza e alla filiera del potere ex comunista: «Se perdiamo Bologna, finiamo sulle prime pagine anche dei giornali australiani». Bologna fu malamente perduta dalla sinistra e poi riconquistata. Ma attraverso quelle avventure politiche (o disavventure elettorali, a seconda dei punti di vista e delle definizioni), quella città che fu la capitale civica di ‘un’altra possibile Italia’, resa emblematica per decenni dalla lista Due Torri, si è profondamente secolarizzata. Ormai la stabilità pacifica ma rocciosa della politica in versione emiliana sembra un’immagine a ritroso. E forse ha cominciato davvero a sciogliersi il ‘compromesso socialdemocratico’, ossia quella formula che ha consentito a una città borghese di convivere a lungo, e senza conflitti troppo aspri, con il potere rosso: ispirando all’economia il rispetto dei centri politici e alla politica la volontà di assecondare la spinta allo sviluppo dell’iniziativa privata.
In apparenza, Bologna è sempre la stessa. Ma a uno sguardo anche di superficie ci si accorge che la sua dinamica è lenta: il comune capoluogo della Regione è una media città precocemente invecchiata (su 375.000 abitanti, sono oltre 100.000 coloro che superano i 65 anni di età). Probabilmente soffre di una minore cura nella gestione dei luoghi pubblici, che induce i visitatori a sentenziare con una certa impazienza che «la città è sporca»; ma il decoro delle sue strade e piazze, dei suoi edifici e cortili, dei portici e delle palladiane del centro storico dipende soprattutto dai suoi abitanti, e va da sé che anche la capitale dell’Emilia-Romagna ha subito i molteplici passaggi, le molteplici transizioni che l’hanno investita trasformandola in profondità. Era, e per certi versi è ancora, una piccola metropoli fatta di molteplici città, che si stendevano dai comuni di Borgo Panigale e Casalecchio fino a San Lazzaro di Savena. Ma la fisionomia più intima della città è sempre consistita nel suo essere prima di tutto città-paese e poi città terziaria, intessuta di commerci e di professioni, modellata dall’allure quasi millenaria della sua Alma Mater e dal fitto tessuto di rapporti intrinseco a una borghesia intellettuale, imprenditoriale, avvocatesca, commerciante, artigiana, che ha sempre saputo trovare una relazione di convivenza ottimale con chi deteneva il comando.
Si è sempre avvertito con nettezza l’imprimatur dell’intellighenzia di sinistra, l’egemonia culturale esercitata per lunghi periodi sotto l’influsso dei Fanti e degli Zangheri, ossia i sindaci che hanno interpretato in modo più esplicito una vocazione progettuale della comunità. Sotto questa luce, Bologna era la città del recupero del centro storico, della tutela naturalistica della collina, della fioritura culturale che sembrava nutrirsi del clima che regnava nell’intera collettività. Non ci si poteva stupire, allora, se in questo clima di partecipazione poteva capitare di incontrare nel crocicchio delle Torri, fra la libreria Feltrinelli, l’università e Strada Maggiore, la dirigenza politica, l’élite universitaria, la classe dirigente corporativa. La sapienza urbanistica di Pier Luigi Cervellati, con la sua idea di una ‘città di città’ poteva imbattersi nella filologia sentimentale e arguta di Ezio Raimondi, come pure nelle sbrigative asserzioni liberali di Nicola Matteucci, ovvero nelle invenzioni estetiche di Andrea Emiliani, l’ultimo soprintendente capace di trattare l’arte come intrattenimento culturale di massa, per esempio con le grandi e fortunate mostre dedicate a Guido Reni e ai Carracci. E va da sé che non era affatto escluso un incontro con il gruppetto di accompagnatori di Romano Prodi, fra il Mulino e il centro studi Nomisma.
In fondo è ancora un paese, Bologna, semmai nobilitato da un drink al Caffè dei Commercianti o da un pranzo vecchio stile al Diana, da qualche salotto un po’ notarile, da alcuni vertici di eccellenza industriale e tecnologica nei dintorni, da un decoro universitario e borghese che sembra rifuggire ogni cambiamento. All’epoca del guazzalochismo, sintesi di buonsenso locale e di conservatorismo scettico, qualche osservatore disincantato come l’ex prodiano Gianni Pecci aveva perfino identificato come tipica della sinistra la figura dello ‘speculatore democratico’, riassumendo in questa immagine di compagno di strada quegli imprenditori, o autentici affaristi, che contemperavano il profitto delle aziende con il buon vicinato rispetto ai maggiorenti della sinistra e alle articolazioni economiche ‘progressiste’, specialmente nel mondo cooperativo.
Un modello in crisi
Tutto questo, per la verità, ha cominciato ad andare in crisi molto prima che nel 1999 Giorgio Guazzaloca sconfiggesse al ballottaggio la candidata Silvia Bartolini. La crisi del modello, vale a dire la fine dell’isola felice con tutti quei comunisti pinker than red, più rosa che rossi, come avevano scritto a suo tempo i giornali anglosassoni, era già in primo piano da anni. Aggravata, forse, da una sostanziale incomprensione dei bolognesi stessi, poco propensi a riconoscere per la loro città uno stato di crisi, o perlomeno di stagnazione prolungata. Si potrebbe arrischiare una formulazione di questo tipo: Bologna cambiava in modo frenetico, in seguito all’immigrazione, al traffico automobilistico in continua crescita, alla trasformazione della città universitaria in un diffuso dormitorio per studenti, o in un luogo di happening permanenti, al ritmo di bongos e maracas, fra commerci informali di sostanze dubbie; e non andavano sottovalutate le conseguenze della trasformazione economica, che ha sempre più caratterizzato Bologna nel senso di una città di servizi; e in modo ancora più sottile, e insidioso, il mutamento demografico e sociale, un certo sradicamento favorito anche dal benessere, che fra l’altro – come ha spiegato il sociologo Marzio Barbagli – ha fatto salire gli indici più classici del disagio metropolitano, ossia il numero delle separazioni di coppia e dei suicidi.
Come si vede, per molti aspetti si è trattato di una transizione alla modernità: ma avvenuta in una certa indifferenza delle classi dirigenti. Mentre il mondo cambiava, la buona borghesia bolognese continuava a fare riferimento alle istituzioni tradizionali della città, le fondazioni bancarie, l’università, gli ospedali, qualche salotto pregiato, certi ristoranti tradizionali. Tanto che anche l’esperienza politico-amministrativa di Sergio Cofferati, dopo la sua irruzione a Bologna nel 2004, almeno agli inizi è stata percepita più che altro come un ritorno all’ordine, dopo l’eversione venuta da destra, o centro-destra, o qualsiasi altra cosa fosse, rappresentata dal candidato ‘a 360 gradi’ Guazzaloca, che aveva dichiarato di ispirarsi al sindaco della Liberazione, Giuseppe Dozza, con l’obiettivo di interpretare al meglio il suo coefficiente di bolognesità.
In effetti, Cofferati aveva capito benissimo che le elezioni del 1999 erano state perse per un errore a metà fra il tecnico e il politico. Un ampio pezzo di sinistra, deluso e insofferente, sfiancato dalla moria di candidati messi sul terreno, se n’era rimasto a casa, aveva disertato le urne, e Guazzaloca aveva inopinatamente vinto, anche fra saluti romani e grida di «duce duce» che fraintendevano largamente il profilo del primo sindaco non comunista di Bologna.
Sarebbe stato sufficiente allora ricostituire l’arco del consenso progressista, e riportare Bologna al formato di ‘città di sinistra’ che l’Istituto Carlo Cattaneo, specializzato in ricerche elettorali, continuava a riconoscerle dopo avere analizzato tutti i dati e i controdati elettorali possibili. E difatti Cofferati aveva condotto la sua lunga campagna elettorale proprio per ricucire il consenso a sinistra, visitando quartieri, circoscrizioni, polisportive, associazioni e circoli, donne e vecchi partigiani, immergendosi così nel territorio comunale, e riuscendo facilmente a venire a capo del rebus.
Il ritorno a sinistra
L’operazione reconquista riuscì in modo perfetto, a testimonianza della precisione della tesi dell’Istituto Cattaneo. Eppure il quinquennio di Guazzaloca non è stato oggetto di una riflessione significativa, sempre a sinistra. Lo si è considerato un incidente, e una parentesi. Invece occorreva identificare almeno un punto focale: come si è detto, l’elezione di Guazzaloca rappresentava la prima vera crisi nel compromesso socialdemocratico che aveva retto Bologna per mezzo secolo. Bologna non era semplicemente una città comunista: era stata la sede di un esperimento sociale e politico in cui i ceti borghesi (le professioni, l’imprenditoria, l’intellighenzia, la base urbana) erano venuti a patti con il PCI, trovando un modus vivendi mai messo in discussione nei decenni.
Era stato un merito del Partito comunista quello di presentarsi con una caratterizzazione civica, progressista, tutto sommato a debole intensità ideologica. Anzi, nei momenti migliori i comunisti bolognesi, nel loro essere colti e popolari, borghesi e pragmatici, erano stati capaci di ascoltare con attenzione la società bolognese, e anche l’opposizione. Lo svolgersi dell’esperienza bolognese, con la sua progettualità urbanistica e amministrativa (il recupero del centro storico, la creazione dei quartieri), non consente di individuare particolari discontinuità nel governo della città, se si esclude l’exploit semieversivo del 1977, l’anno dell’Antiedipo di Félix Guattari e del Convegno sulla repressione. Fino all’annus horribilis 1999, i cinque sindaci del dopoguerra, Giuseppe Dozza, Guido Fanti, Renato Zangheri, Renzo Imbeni e Walter Vitali, hanno rappresentato e interpretato varianti melodiche su uno spartito omogeneo, in cui si sapeva che la musica sarebbe rimasta la stessa (anche con rilevabili rischi di assopimento politico-amministrativo). Ma Cofferati no, Cofferati rappresentava un’inserzione del tutto diversa. Forse un’anomalia avvicinabile all’idea di «comprare tortellini in Svezia» (secondo l’espressione ironica di Luca Cordero di Montezemolo, che fra i vari incarichi annoverava anche la presidenza della Fiera di Bologna). Ma l’arrivo sotto le Torri dell’ex segretario della CGIL aveva due compiti strategici, uno politico e uno civico: restituire la città al centro-sinistra e produrre un’amministrazione capace di rilanciare la comunità, dopo un certo torpore guazzalochiano. E forse predisporre le condizioni per ridare a Bologna la statura di bacino di preparazione della politica nazionale.
I cinque anni del mandato di Cofferati sarebbero quindi ancora tutti da valutare, e con attenzione puntigliosa, se non fosse accaduto l’irreparabile. Vale a dire la rinuncia del sindaco a ricandidarsi a Palazzo d’Accursio, giustificata con ragioni di carattere familiare. Oltre a rappresentare un incidente di percorso piuttosto serio, questa decisione non ha consentito un bilancio ragionevole e puntuale dell’esperienza politica e amministrativa di Cofferati.
Si è trattato di un avvenimento traumatico. All’improvviso, dopo che aveva dato la disponibilità a ricandidarsi, il leader abbandonava il campo, rinunciando a Bologna: perché fra il pubblico e il privato Sergio Cofferati sembrava scegliere la nuova famiglia e il bambino di pochi mesi, l’amore per la compagna genovese, salvo poi candidarsi alle Europee. Lo stress, dal punto di vista politico, è stato intenso. Un lungo brivido di inquietudine ha attraversato la città. Il sindaco uscente era arrivato a Bologna per rimettere insieme i cocci del centro-sinistra. Ma in realtà Cofferati era stato qualcosa di più. Aveva rappresentato una specie di sismografo che da Palazzo d’Accursio accompagnava gli scossoni del centro-sinistra. Non si può dimenticare che mentre lui arrivava a Bologna, Romano Prodi rientrava in Italia con l’intenzione di formare la più grande alleanza mai vista nel centro-sinistra, quella che poi avrebbe preso il nome di Unione. La vittoria bolognese era stata semplice, tutto sommato, proprio perché aveva assunto i tratti della rivincita politica. Anche se Guazzaloca aveva fatto il possibile per tenere fede alla propria promessa, cioè di governare senza condizionamenti ideologici o di schieramento, Cofferati era riuscito a montare una macchina che intendeva assomigliare a un esercito di liberazione. Dopo il successo al primo turno, 56% dei voti di fronte a un Guazzaloca incredulo e deluso, si era insediato in Comune, con idee chiarissime in testa: «qui comando io». Bastava osservare la sua scrivania, un reliquiario che esibiva al visitatore l’albo di Tex Willer, uno spartito verdiano, il libro del maestro cinese Lao Tse L’arte della guerra, la celebre intervista a Giorgio Amendola sul riformismo e infine la foto dello stesso Cofferati in calzoncini e scarpette da calcio immortalato durante una ‘partita del cuore’ della CGIL contro il resto del mondo, per capire che ‘il cinese’ non avrebbe concesso alla città molti altri culti oltre il suo.
Il Cofferati sismografo del centro-sinistra cominciò a oscillare vistosamente non appena iniziò a mettere in pratica le sue idee a proposito della sicurezza: uno sgombero sbrigativo in via Roveretolo, là verso la tangenziale e l’autostrada, e poi soprattutto un brutale intervento per liquidare gli insediamenti sulla riva del Reno fecero esplodere la polemica. Anche nel suo schieramento si manifestarono proteste e critiche severe. Dall’opposizione, Giovanni Salizzoni, un cattolico che era stato vicino a Nino Andreatta, non lesinò le parole: «Il sindaco è una star cinica», che cerca il consenso mediatico prendendosela con i più deboli.
Forse è più probabile che Cofferati cercasse a tentoni una via d’uscita dal centro-sinistra largo, impastoiato dai veti della sinistra cosiddetta antagonista. A suo modo, era il percorso che avrebbe fatto Walter Veltroni, con la ‘separazione consensuale’ dalla Sinistra Arcobaleno. Il sindaco di Bologna lo faceva per vie interne, sui programmi, chiedendo l’approvazione di un’agenda sulla sicurezza e rischiando consapevolmente la rottura dell’alleanza. Ciò che a Roma nasceva come scelta strategica, giusta o sbagliata che fosse, a Bologna era già nato dalle convulsioni della coalizione. D’altronde, Cofferati doveva lasciare un segno: una svolta decisiva nel rapporto con le aziende partecipate dal Comune, finalmente riscattate dal loro ruolo di cimitero degli elefanti; il tentativo ambizioso di disegnare la città futura, a cominciare da un nuovo sistema di mobilità; la preparazione del contesto dell’alta velocità, attraverso un rapporto con la città simmetrica al di là dell’Appennino, Firenze, distante soltanto 27 minuti di treno non appena la TAV sarà in funzione sul valico; e ancora la messa in efficienza del Comune, con lo spostamento dell’amministrazione nella zona direzionale alle spalle della stazione ferroviaria.
Ma prima di tutto si vedeva sul campo il politico Cofferati, un leader naturale anche se chiuso in sé stesso. E non c’è da stupirsi allora che alla fine il cortocircuito scattasse fra privato e pubblico, personale e politico: nell’impossibilità strategica di essere un leader politico totale, Cofferati aveva scelto di essere un padre completo. Lontanissimi i tempi in cui il dirigente comunista Luigi Longo poteva salire infuriato a Milano e ordinare alla giovane Rossana Rossanda di lasciare perdere ogni perplessità, obbedire al partito e scendere a Roma senza fare storie. Forse sono eventi come la decisione di Cofferati che spiegano che anche a Bologna la severa legge del grande partito-chiesa è tramontata per sempre.
Bologna, città orfana
Per qualche momento, in ogni caso, era sembrato che il sindaco di Bologna intendesse qualificarsi come un leader politico di caratura nazionale, spendendosi esplicitamente sul fronte della legalità e della sicurezza. La scelta poteva apparire efficace, soprattutto in una città come Bologna, abituata all’ordine e all’efficienza pubblica, anche se si deve considerare che in Emilia è arduo impostare campagne elettorali e politiche su questo tema: i cittadini pretendono la legalità come una condizione ragionevole, oggettiva e irrinunciabile, non come una conquista lontana e difficile.
Ma è vero anche che le città sono diventate realtà complesse. L’immigrazione crescente ha mutato i criteri della convivenza collettiva. Talvolta l’atteggiamento di tolleranza cede il passo all’insofferenza. I sociologi attenti come Barbagli hanno gettato la spugna del pregiudizio ideologico, anche quello agitato in buona coscienza e a fin di bene, e alla lunga riconoscono il peso dei dati secondo cui la propensione a delinquere è più forte negli stranieri, e che quindi c’è una correlazione inevitabile fra immigrazione e sicurezza. Certo, ogni emergenza va trattata politicamente. E in alcuni momenti del suo mandato, Cofferati ha puntato su mosse altamente spettacolari, che gli hanno attirato le critiche dell’ultrasinistra senza probabilmente guadagnargli consenso aggiuntivo fra i suoi elettori.
I blitz del sindaco ‘sceriffo’ hanno aperto infatti una questione politica dentro la sinistra e in particolare fra la sinistra e i cattolici. Ma era evidente che l’azione di Cofferati andava valutata sull’arco dei cinque anni, e giudicata possibilmente con il voto dei cittadini. Invece, la decisione di non ricandidarsi ha privato la città di un giudizio serio e significativo e ha tolto di mezzo anche la possibilità di valutare con ragionevole efficacia una linea di condotta politica che poteva diventare interessante e utile per l’intero spettro politico del centro-sinistra.
L’esito tuttavia era chiaro: un leader politico della statura di Cofferati ha abbandonato una città importante, nella concezione pubblica e nei sentimenti collettivi, come Bologna. Ci vuole poco a concludere che anche questo evento rappresenta uno dei potenziali punti di rottura dentro la linea di credibilità della sinistra. Fin quasi a delineare un nuovo e ulteriore atto di autolesionismo da parte di una classe dirigente che continua ad avere una professionalità, ma forse non ha più una tenuta.
Dunque la Bologna attuale assomiglia molto a una città orfana. Nello spazio pubblico, l’arcivescovo Carlo Caffarra non ha saputo (o forse non ha voluto) prendersi il ruolo che era stato del cardinal Giacomo Biffi, con le sue polemiche fiammeggianti e i suoi umori controcorrente: qualcuno ricorderà le scomuniche contro l’Emilia «sazia e disperata». Sul fronte della cultura, è diventato un luogo comune che la città creativa del DAMS e di Umberto Eco, così come delle osterie e dei locali live, sia diventata più spenta: ma questo appartiene agli umori e al pensiero soggettivo più che alle attestazioni empiriche. Sotto il profilo della produzione culturale, del servizio pubblico, delle biblioteche, dell’associazionismo, e anche dell’università, Bologna resta una città di ineguagliato fervore nell’Italia contemporanea. Ma se è vero che certi avvenimenti rappresentano con una forza e un’evidenza istantanee la fine di un ciclo, accanto al ritiro di Cofferati va posto nell’autunno del 2008 un altro evento che testimonia un cortocircuito: l’improvvisa scomparsa di uno dei protagonisti che hanno animato la scena culturale bolognese e italiana per cinquant’anni, Giovanni Evangelisti.
Evangelisti è morto a 76 anni, nell’ottobre 2008. Fino a poche ore prima era ancora in piena attività, nel suo ruolo storico di direttore editoriale e amministratore del Mulino. Quando verrà l’occasione di un bilancio dell’ultimo mezzo secolo di editoria, sarà opportuno mettere a fuoco la figura di questa personalità poco avvezza al proscenio e alle interpretazioni da primattore, ma capace di svolgere dietro le quinte un lavoro di eccezionale qualità, con una dedizione accanita e la convinzione che ciò che conta nella cultura non è lo show system, ma il catalogo, i programmi, gli orientamenti culturali, le idee, il servizio al paese. Dopo la laurea in scienze politiche a Firenze, Evangelisti era arrivato nell’editrice bolognese quando era ancora qualcosa a metà fra il cenacolo di amici e il laboratorio di ricerca. Una singolare varietà di figure si incontrava nel centro di Bologna: sociologi come Francesco Alberoni, politologi come Giorgio Galli, più tardi analisti politici come Arturo Parisi; nello stesso tempo nel triangolo fra l’università e le due Torri si assisteva alla tessitura di reti e di amicizie da parte dei fondatori del Mulino, fra i quali Nicola Matteucci, Luigi Pedrazzi, Antonio Santucci, Ezio Raimondi, Federico Mancini, Fabio Luca Cavazza. Per tutta la vita, Evangelisti ha fatto il possibile per non apparire un intellettuale. Con il pragmatismo assiduo e il brio naturale che certi emiliani dissimulano sotto la bonomia padana, cominciò a trasformare un divertissement, qual era la piccola impresa messa in piedi dai padri fondatori, in un’azienda. Insieme con le edizioni di Comunità,
il Mulino aveva importato nel paese irrigidito dal crocianesimo e dal marxismo la duttilità delle scienze sociali anglosassoni: nel laboratorio di queste scienze nuove Evangelisti prese a tessere i fili che avrebbero tramutato una corrente innovativa di studi in un prodotto per il pubblico cresciuto nella modernizzazione degli anni 1960. Era in fondo un’azione anche politica. A fianco della pubblicazione dei classici, come Karl Mannheim, Robert Merton, Talcott Parsons e David Riesman, ecco dunque il sostegno di gruppo al centro-sinistra storico, il primo tentativo di modernizzazione dell’Italia uscita dagli anni del dopoguerra e del centrismo. A ciò si univa una polemica contro il Partito comunista che non di rado prendeva però la via della discussione e del confronto, sempre nel nome dell’empiria, senza nessuna concessione a fissità ideologiche. Non appena la liberalizzazione degli accessi, nel 1969, aprì la strada all’università di massa, Evangelisti accentuò l’identità plurale della casa editrice per farne lo strumento di una classe dirigente in fieri. In vista di questo scopo, ebbe due riferimenti: da un lato il rapporto con le intelligenze emergenti, a cui spalancò tutte le porte della casa editrice, e dall’altro l’idea che occorresse trasformare il sapere e la ricerca in programmi editoriali, cercando e perfino ‘formando’ un pubblico. Con Nino Andreatta, Romano Prodi e Michele Salvati, Evangelisti condivideva la vocazione per un’economia fatta di cose più che di astrazioni; con Giuliano Amato, Federico Mancini, Stefano Rodotà, Sabino Cassese, e con il suo antico maestro Giovanni Sartori, diede un contributo determinante a definire una nozione riformista della democrazia: «Il Mulino è un porto di mare», replicava quando qualcuno gli chiedeva il segreto della convivenza fra le personalità più diverse, in un’Italia dominata quasi ovunque da egemonie compulsive e faziosità corporative. Aveva assistito con il suo empirico disincanto alle traversie della seconda Repubblica, dove molti dei suoi amici, fra i primi Prodi e Parisi, si erano impegnati direttamente nel tentativo di trasformare intuizioni scientifiche in programmi politici. Anziché trasformare l’editrice nel brain trust di Prodi, l’aveva tenuta un passo indietro. Dopo avere messo insieme cattolici e laici, socialisti e liberali, Evangelisti apprezzava un metodo che gli aveva consentito di lavorare con Pietro Scoppola e Renzo De Felice, con Ernesto Galli della Loggia e Angelo Panebianco, con Tommaso Padoa-Schioppa, Amato, Rodotà, Gino Giugni, Matteucci: «Il bipolarismo funzionerà dappertutto, ma non nella cultura». Ciò nondimeno, a dispetto della distanza insistentemente rivendicata dalla politica, è difficile negare che il Mulino abbia rappresentato il vero laboratorio per un amplissimo settore della cultura e della politica italiane. È sufficiente pensare al ruolo esercitato da intellettuali come Andreatta e Prodi, ma soprattutto alla funzione della rivista il Mulino nei primi anni 1990, quando con le sue pagine, proprio sotto la guida di Evangelisti, diede un contributo intenso alla modernizzazione istituzionale e particolarmente alla spinta per il passaggio al sistema maggioritario e quindi alla democrazia dell’alternanza.
È lecito quindi accostare questi due eventi, l’uscita dalla scena urbana di Cofferati e la scomparsa di Evangelisti, come un doppio colpo che la città di Bologna ha subito e i cui effetti andranno valutati nel medio periodo, esaminando le conseguenze di uno spezzarsi dell’intreccio fra politica e cultura, come verrebbe da dire citando Norberto Bobbio.
Quale futuro?
Riesce difficile infatti discernere quale potrà essere l’avvenire politico-culturale della comunità bolognese. Di sicuro non sembra prevedibile che nel futuro prossimo la città possa ragionevolmente ambire a ritrovare un ruolo di primissimo piano sulla scena nazionale. I notevoli esperimenti dei decenni precedenti, dalla Fiera all’invenzione del DAMS, dalla fondazione della facoltà di Scienze politiche al ruolo assunto nel paese da due editori come Zanichelli, sul piano della strumentazione scolastica, e come il Mulino, sul versante di una coscienza politica moderna, sembrano sostanzialmente in condizione riflessiva.
Sul fronte della politica, dopo l’uscita di scena di Prodi, si è esaurito un progetto possibile di reinvenzione della sinistra. Restava quasi intatto, su un piano più ampio di quello strettamente bolognese, l’assetto socioeconomico regionale assunto come sistema, se non come modello. Un sistema caratterizzato da un equilibrio strutturale (dinamico sì, ma pur sempre un equilibrio, e di lunga durata) che ha segnato la presenza delle imprese in un contesto politicamente stabile; in cui il rapporto fra imprenditori, aziende e istituzioni si è sviluppato in forme di sostanziale collaborazione, in molti casi disegnando un modello di concertazione ante litteram. A cui si aggiunge naturalmente, tra i fattori di equilibrio, un livello generalmente ragionevole di conflitto nelle relazioni sindacali, che ha consentito una prestazione produttiva e una crescita pressoché costanti negli anni, perfino nelle fasi di scontro più acuto al livello nazionale. Va anche segnalata sotto questo profilo la funzione equilibratrice del PCI, che era in grado di assecondare le lotte sindacali, ma anche di moderarle e di condurle a mediazioni pragmatiche.
Il segreto principale di questa economia va comunque individuato in una grande flessibilità, nelle produzioni ma anche nei comportamenti. La sostanziale pace sociale a cui si è accennato e la bassa intensità del conflitto sindacale hanno creato un ambiente particolarmente favorevole allo sviluppo economico. Il pragmatismo delle istituzioni pubbliche ha contribuito a creare condizioni e opportunità di crescita. L’efficiente distribuzione del reddito ha consentito il crescere dei consumi, ossia la partecipazione di quote elevate di società, senza esclusioni, allo sviluppo del mercato, con un forte tratto neocapitalista. La flessibilità produttiva ha permesso inoltre di adeguarsi alle richieste dei mercati, di curare le nicchie, di lavorare non solo sul processo produttivo, ma anche sul prodotto finale. Via via che le condizioni competitive cambiavano, negli anni 1980 e 1990, l’economia emiliana ha continuato a differenziarsi, a crescere e a conquistare posizioni di leadership sui mercati. Ma oggi sappiamo che una fase si è conclusa. Anche in una realtà apparentemente così solida e compenetrata come quella emiliana, il futuro si presenta come rischio, incertezza, volatilità pronunciata; il mercato come un’arena instabile; il welfare come un aggravio pesante del costo del lavoro. Tutto questo nella psicologia collettiva assume la forma, o lo spettro, di aziende che chiudono, di posti di lavoro che scompaiono, di benessere che si assottiglia, di diritti ritenuti permanenti che vengono sottoposti alle regole della scarsità economica e tendono a dissolversi. Sono scenari segnati dall’inquietudine, che tuttavia hanno conseguenze significative sulle realtà coinvolte nel cambiamento e sulle mappe mentali delle persone. Fino a qualche tempo fa, Bologna poteva essere concepita come il centro ideologico dell’economia di distretto, o perlomeno come il fulcro di uno sviluppo armonioso, dove l’asincronia dell’andamento dei diversi comparti industriali moderava le crisi, e dove il processo redistributivo si dimostrava particolarmente efficiente. Con i suoi centri di ricerca come Prometeia e Nomisma, con il suo ceto imprenditoriale moderno, con la sua duttilità nelle relazioni industriali, Bologna si presentava come una piccola capitale in grado di irradiare il successo di un’intera vicenda sociale ed economica.
Di tutto questo oggi rimangono i vari spezzoni. Ma è venuto a mancare il simbolo, il centro unificante. Latitano le culture capaci di fare da mastice alle esperienze economiche, e probabilmente viene a mancare una politica in grado di rendere coerente il processo socioeconomico, di assecondarlo e correggerlo, fino a proporlo come caso esemplare e addirittura modello per un’esperienza politica nazionale, come era avvenuto nel 1996 con il progetto prodiano. Rimangono, certo, le singole esperienze e le traiettorie empiriche. Ma perché non si rivelino alla stregua di disiecta fragmenta di un’esperienza frantumata, Bologna avrebbe bisogno di rilanciarsi di nuovo, facendo coincidere ancora una volta politica e cultura. Un’impresa difficile quanto necessaria: altrimenti, se non si riuscirà a trovare una nuova coerenza, una nuova narrazione civile, resterà soltanto un destino tutt’altro che ignobile, ma in fondo limitato da confini provinciali.
La storia di Bologna
L’antichità
Le prime testimonianze di insediamenti umani nella zona della futura Bologna sono le vestigia di abitati della fine dell’Età del bronzo trovate nella città e nelle immediate adiacenze e importantissimi resti di capanne della civiltà villanoviana, datati all’Età del ferro (10°-9° secolo a.C.). Alla fine del 6° secolo si insediarono nella zona gli Etruschi, che attraverso l’emporio di Spina incrementarono gli scambi commerciali con l’area mediterranea, in particolare con la Grecia, e attribuirono alla città, sorta per processo sincretistico, il nome di Velzna (Felsina in latino). Conquistata dai Galli Boi verso la metà del 4° secolo, la città andò incontro a un lungo periodo di decadenza. Nel 189 a.C. i Romani vi dedussero una colonia di 3000 uomini, che denominarono Bononia (forse dal celtico bona «costruzione»). Già sotto i Villanoviani e poi sotto gli Etruschi la città era stata un centro di notevole importanza agricola, industriale e commerciale; i consoli romani Marco Emilio Lepido e Caio Flaminio decisero di farne anche un grande centro stradale con l’apertura della via Emilia, da Rimini a Piacenza, e della via Flaminia che, passando attraverso Arezzo, collegava la città direttamente con l’Italia centrale (187 a.C.). Il centro della Bononia romana era diviso in insulae (6 cardini e 7 decumani, 10 porte e foro nell’area dell’attuale Palazzo d’Accursio), mentre in alcuni luoghi della campagna circostante è tuttora riconoscibile il reticolato dell’ager centuriatus, la divisione a centurie realizzata per i coloni inviati da Roma. Trasformata in municipio forse dopo la guerra sociale (91-88 a.C.), e di nuovo in colonia da Marco Antonio, Bononia fu distrutta da un incendio nel 53 d.C. e subito ricostruita da Claudio. La decadenza della città iniziò nel 4° secolo d.C., anche se nel 410 sostenne ancora validamente l’assalto dei Visigoti di Alarico.
Il Medioevo
All’inizio del Medioevo Bologna si trovava nelle condizioni di disorganizzazione e di sfacelo comuni a tutte le città dell’Italia settentrionale sotto le incalzanti invasioni barbariche. Poco dopo il 400 fu nominato il suo primo vescovo, Zama, cui fece seguito Petronio, al quale si deve, secondo la tradizione, la prima fondazione di quell’importantissimo nucleo di chiese che costituirono poi la Nuova Gerusalemme (ora S. Stefano). Dalla venuta degli Ostrogoti fino al sorgere dei Comuni la storia cittadina è poco documentata. Durante il dominio di Teodorico e dei suoi successori, Bologna rimase più o meno nelle stesse condizioni in cui si trovava sotto l’Impero: orientata verso Ravenna, sede del governo, e non più verso Roma, ebbe un certo risveglio di attività dovuto alla maggiore vicinanza del potere centrale. Continuò a dipendere da Ravenna anche nel periodo della dominazione bizantina, fino al 7° secolo; fu poi devastata dai Longobardi di Liutprando (727-28) ma, calati in Italia i Franchi, i Longobardi furono ricacciati e Bologna fu ceduta al papa. Per quanto si può dedurre dalle scarse fonti documentarie dell’epoca, sembra comunque che la città abbia saputo svolgere una vita indipendente e avere perfino una milizia civica.
Quando, con il concilio di Guastalla (1106), la chiesa bolognese si rese autonoma da Ravenna, anche Bologna riuscì a costituirsi in Comune indipendente, lottando contro l’imperatore e abbattendo la rocca che era stata eretta e tenuta nel suo nome (1114). Successivamente i Bolognesi si accordarono, per la parte formale, con l’imperatore stesso, rimanendo teoricamente suo feudo. Tuttavia il Comune si considerò di fatto indipendente e agì per conto proprio, amministrandosi come credeva, muovendo guerra ai vicini, assoggettando i signori e gli avversari del contado e al più limitandosi a pagare ai rappresentanti dell’imperatore il tributo di onoranza. La costituzione del Comune bolognese era molto simile a quella dei Comuni limitrofi della regione. A capo del governo vi erano due o quattro o più consoli, a seconda degli anni, i quali avevano pieno potere esecutivo, giudiziario e militare. Il potere legislativo era tenuto dall’assemblea generale, o Parlamento, per le questioni più importanti, mentre i provvedimenti di secondaria importanza erano discussi nel Consiglio minore. Più tardi, quando a capo del comune ci fu il podestà, fu istituito anche un Consiglio di credenza, o Consiglio piccolo. Vi erano poi altri magistrati di rango inferiore: il tesoriere, i sovrastanti alle gabelle, gli ispettori dei mercati, i sovrastanti alle strade e alle acque, gli estimatori dei danni, le guardie notturne ecc. I cittadini erano divisi in quattro quartieri, corrispondenti alla divisione della città secondo il cardo e il decumano, che si incrociavano sotto il palazzo del podestà. Il territorio dipendente dal Comune andava inizialmente poco più in là delle mura e solo più tardi poté estendersi fino a quello dell’attuale provincia e talvolta superarne i confini. Fu allora che i nobili, i cavalieri feudali, che avevano contrastato in tutti i modi la costituzione del Comune, dovettero cedere le armi e assoggettarsi al Comune stesso, trasferendosi dal contado all’interno della città. Nello stesso tempo scoppiavano le lotte fra guelfi e ghibellini. A Bologna i due partiti presto assunsero i nomi dei Geremei e dei Lambertazzi, le due importanti famiglie che li capitanavano. Dopo un periodo di alterno prevalere del partito conservatore, i Lambertazzi, e di quello democratico, i Geremei, quest’ultimo andò sempre più acquistando potere, ottenendo nel 1228 il riconoscimento delle compagnie popolari delle armi e l’intromissione nei consigli amministrativi dei rappresentanti delle arti, nel 1245 gli statuti, nel 1256 la liberazione dei servi della gleba e infine nel 1274 la cacciata dei Lambertazzi. Dal momento in cui la parte guelfa ebbe il totale predominio, iniziò il decadimento del libero Comune, la cui stessa identità era dovuta proprio al concorso di tutti i cittadini e di tutte le correnti di pensiero e di azione.
Se la vicenda comunale ha notevole importanza nella storia di Bologna, la fondazione dello Studio, o università, ha una rilevanza che esce dall’ambito della città per interessare tutta la cultura europea. È difficile stabilire una data certa di fondazione dello Studio come istituto ufficiale, anche se è certo che sin dalla fine del 10° secolo esistesse a Bologna una scuola di grammatica e di retorica e che all’incirca in quel periodo si iniziassero a studiare anche i primi principi del diritto, come testimonia un documento del 1067 recante la prima menzione di un doctor legis. È probabile che ciò sia avvenuto nel tempo stesso in cui la Chiesa bolognese fu dichiarata indipendente da quella ravennate. Certamente alla metà del 12° secolo la scuola era pienamente attiva: si sa infatti che in quel periodo l’imperatore Federico Barbarossa riconobbe la costituzione corporativa degli scolari e i loro privilegi di fronte alla città. L’università venne così a configurarsi come una sorta di Comune dentro al Comune, con propri diritti, un’organizzazione a sé stante e magistrati indipendenti dall’autorità comunale. Il complesso degli scolari, o universitas scolarium, che arrivavano da tutte le parti d’Europa e che in certi momenti superavano i 10.000, costituiva un unico corpo, diviso a sua volta in due principali associazioni a seconda del luogo di origine: università dei citramontani, ossia degli Italiani, e università degli oltremontani, ossia degli stranieri. Le due università a loro volta si dividevano in tante corporazioni o nazioni in base alla provenienza: dei Francesi, degli Spagnoli, dei Catalani, dei Toscani, dei Lombardi, dei Romani ecc. In seguito, quando al diritto romano si aggiunse il diritto canonico e, più tardi, furono introdotte altre discipline scientifiche o arti, le denominazioni più usate furono quelle di università dei giuristi e università degli artisti. L’università di Bologna fu la prima d’Europa e si può dire che da questa, e poi da quella di Parigi, derivarono tutte le altre università europee, organizzate su uno stesso concetto di libero insegnamento; la città deve quindi anche allo Studio la sua fama e il suo sviluppo.
Soprattutto grazie allo Studio, nel 13° secolo Bologna divenne centro di diffusione delle idee di umanità e di cultura che tanto a lungo la hanno contraddistinta. L’assurgere della democrazia e dell’artigianato all’amministrazione dello Stato trovò qui uno dei primissimi esempi; inoltre Bologna, per prima fra le città d’Italia, procedette alla liberazione dei servi con la ‘riformagione’ Paradisus del 1256, per la quale quasi 6000 uomini furono messi in libertà, a spese del Comune. Intanto la città assumeva una posizione predominante sull’Emilia e sulla Romagna, svolgendo un ruolo politico di rilievo anche all’esterno. Con la fortunata battaglia di Fossalta del 1249 fece prigioniero lo stesso figlio di Federico II, Enzo re di Sardegna, e contro la volontà del padre e degli imperatori tedeschi lo tenne prigioniero per 22 anni, seppure trattandolo da sovrano in un sontuoso palazzo. Pochi anni dopo si scontrò con Venezia nella battaglia di Primaro. Il benessere, la ricchezza e la potenza si manifestarono nel rinnovamento edilizio, nelle grandi costruzioni, nella rapida espansione urbana, nei monumenti edificati in quel secolo. Si costruì un nuovo palazzo del podestà, proprio nel cuore della città, in sostituzione di quello esistente, piuttosto modesto; si innalzarono torri, si aprirono strade, si allargò la piazza maggiore, si elevò la chiesa di S. Francesco, si affidarono a Niccolò Pisano le sculture della tomba di S. Domenico. Solo verso la fine del secolo si ebbero evidenti segni di decadenza, non tanto economica, quanto politica, quando la rinuncia fatta da Rodolfo d’Asburgo nel 1274 al suo diritto sulle terre dell’esarcato in favore della Chiesa pose Bologna nelle mani del papa Benedetto XI, il quale ai primissimi anni del 1300 inviò come suo legato il cardinale Matteo Orsini. E se più tardi questi fu cacciato per le sue pretese esorbitanti e se altri legati poco prudenti seguirono la stessa sorte, tuttavia fin dal principio del 14° secolo Bologna si trovò di fatto sotto il governo della Chiesa, alla quale sarebbe rimasta, salvo brevissime interruzioni, fino al 1859.
Il Rinascimento
Il Comune, indebolito per i dissensi interni e per le pretese della Chiesa, era ormai in declino. A ben poco avevano giovato gli «ordinamenti sacrati e sacratissimi» del 1283 e tutte le altre disposizioni legislative democratiche della fine del sec. 13°, volte a difendere e conservare l’ordinamento repubblicano; ormai si stava preparando l’ambiente – politico e morale – per l’avvento del governo signorile. Non mancavano certo entro le mura cittadini ricchi e preminenti e di largo seguito che potevano aspirare al dominio cittadino: primi fra tutti i Pepoli, che infatti si misero alla prova. Intorno al 1320 Romeo Pepoli fece un tentativo non riuscito, preparando però la via al figlio Taddeo, che nel 1337 si fece proclamare signore. Il papa Benedetto XII, per riaffermare i suoi diritti sulla città, costrinse Pepoli ad accettare il potere da lui stesso, e non più dai cittadini, sotto forma di vicariato. Non fu dunque la signoria piena voluta da Pepoli e dai Bolognesi, che li avrebbe resi indipendenti da Roma, ma una preminenza e delegazione: caratteri che ebbero poi tutti i tentativi di signoria che seguirono più tardi.
Taddeo Pepoli morì nel 1347. I due figli, Giovanni e Giacomo, in difficoltà, tra un complesso di nemici e le pretese del papa, nel 1350 vendettero la città al potente arcivescovo di Milano Giovanni Visconti; quando questi morì nel 1354, la città cadde sotto Giovanni da Oleggio, venuto a rappresentare l’arcivescovo. Anche il suo dominio fu breve: nel 1360 Egidio Albornoz conquistò Bologna e vi insediò stabilmente il governo del papa. Tuttavia la soggezione della città alla Chiesa non fu assoluta né tranquilla. I Bolognesi rimasero ostili al reggimento pontificio e già nel 1376 si sollevarono, costituendo una repubblica indipendente, sia pure per poco; nel 1394 Giovanni I Bentivoglio tentò d’impadronirsi del potere; Carlo Zambeccari ripeté il tentativo nel 1398, e nel 1402 lo stesso Bentivoglio fu per breve tempo signore. Incontrò però insormontabili difficoltà nei rivali interni e nei potenti nemici esterni, così che fu facilmente sconfitto a Casalecchio e trucidato nel 1402. Bologna fu conquistata da Gian Galeazzo Visconti, ma dopo la sua morte improvvisa, i successori consentirono subito a riconsegnare la città al papa (1403).
Sembra intonarsi al non celato spirito bolognese d’indipendenza da Roma, e al restaurato ricco tenore di vita, la deliberazione presa dai cittadini bolognesi, sulla fine del sec. 14°, di assumere a principale patrono della città, in luogo di s. Pietro Apostolo, il vescovo cittadino, Petronio, e di dedicargli un duomo che nel progetto iniziale doveva superare in grandezza la stessa basilica vaticana. Le sollevazioni e proteste di Bologna continuarono anche nel sec. 15°: nel 1411 si rivoltò con Pietro Cossolini; nel 1420 con Anton Galeazzo Bentivoglio; nel 1438 si assoggettò nuovamente ai Visconti. Nel 1445 assunse il potere effettivo Annibale Bentivoglio, subito ucciso; ma l’anno seguente prese saldamente le redini di Bologna, sia pure come vicario del papa, il giovane Sante Bentivoglio, che tutelando gli interessi del piccolo Stato, contribuì a quel periodo di ricchezza, di dignità e di splendore, che fu detto il Rinascimento bolognese. Nel 1447 Sante stabilì con il papa Niccolò V i capitoli con cui terminò la lunga controversia tra la città e la Chiesa circa la sovranità apostolica e le franchigie municipali, con l’assegnazione a Bologna di alcuni diritti e prerogative per cui poteva considerarsi come semi-indipendente da Roma e avere suoi ambasciatori od oratori a Roma stessa e negli Stati non soggetti alla Chiesa.
Il lungo dominio (1462-1506) di Giovanni II Bentivoglio, figlio di Annibale e succeduto a Sante, segnò per la città un periodo di espansione culturale, civile ed economica. La vita pubblica assunse un nuovo tenore; lo Studio continuò ad attirare scolari e maestri; le arti e le scienze ebbero un’importante fioritura. Sorsero dappertutto nuovi palazzi, chiese, monumenti. Giostre e feste grandiose allietavano il popolo, distraendolo dalle congiure dei Malvezzi e dei Marescotti soffocate nel sangue. Furono, però, i reduci di queste famiglie a invocare l’aiuto di Giulio II contro i Bentivoglio. Nel 1506 Giovanni, che nell’ultimo periodo del suo governo si era attirato grande malcontento con atteggiamenti tirannici, fu costretto alla fuga e il papa, appoggiato dai francesi, entrò trionfalmente in città. I figli di Giovanni tentarono di riprendere il potere, ma i loro tentativi nel 1507 e nel 1511 fallirono.
Dal Cinquecento all’Ottocento
Con la fine della signoria dei Bentivoglio Bologna entrò in un lungo periodo di stasi politica, seguendo la storia dello Stato della Chiesa, e visse così, in certo modo, di luce riflessa. All’importanza delle vicende politiche subentrò l’interesse per i giochi, le feste, gli apparati, i carnevali, gli spettacoli vari che animavano spesso la vita cittadina, per la venuta dei papi e il passaggio di principi e sovrani. L’università attraversò una fase di estrema decadenza: pochi scolari, insegnanti poco valenti, salvo rare eccezioni. In due campi Bologna continuò tuttavia a essere parte cospicua della civiltà italiana: nell’arte, con l’affermarsi della scuola dei Carracci, e nelle scienze, con il contributo di personaggi come Luigi Ferdinando Marsili, Ulisse Aldrovandi, Marcello Malpighi e Luigi Galvani. A rimediare alle condizioni di declino in cui versava l’istruzione venne proprio l’Istituto fondato da Marsili nel 1711, che con scuole, musei, libri, materiali scientifici e con una mentalità tutta nuova, precorse gli altri istituti scientifici d’Europa. Per la rinascita dell’università molto si adoperò il cardinale Prospero Lambertini, poi papa Benedetto XIV (1740). Dopo aver accolto favorevolmente il dominio napoleonico, Bologna sperò inutilmente di riavere l’indipendenza dal congresso di Vienna. Infatti nel 1814-15 sembrò che la città dovesse diventare la capitale di un piccolo Stato autonomo che doveva comprendere le cosiddette Romagne, ma poi, per opera soprattutto del cardinale Consalvi, ritornò ancora una volta allo Stato pontificio. Durante il primo periodo della Restaurazione la città fu il centro di tutte le sette liberali che agivano in Romagna, finché nel 1831 insorse insieme a tutta la regione, costituendo il governo delle Province unite che emanò un decreto di affrancamento dal dominio papale. Ben presto però, invitata dal papa, intervenne l’Austria, che restituì le province alla Chiesa. La città insorse ancora nel 1848, respingendo gli Austriaci alla Montagnola. Nel 1859, con l’annessione al Regno del Piemonte, Bologna entrò a far parte del nuovo Stato italiano. Al centro di un’articolata rete ferroviaria, iniziò a svilupparsi come importante mercato commerciale, centro anche, negli ultimi decenni del secolo, di una fervida vita culturale (basti pensare a Carducci) e di accese passioni politiche fra anarchici, liberali e cattolici, che tornavano a prender parte alla vita pubblica.
Il Novecento
Nel 1914 Bologna ebbe il suo primo sindaco socialista, Francesco Zanardi, e fu a lui che toccò cercare di alleviare i disagi e gli stenti provocati nella popolazione dalla Grande guerra, durante la quale Bologna fu il primo Comune italiano che distribuì generi alimentari alle famiglie dei richiamati. Il numero di Bolognesi morti nel conflitto fu ingente: oltre 10.700 nell’intera provincia. La guerra si lasciò dietro inoltre la dolorosa scia del crollo delle attività economiche, facendo lievitare disoccupazione e povertà. Del malcontento della popolazione approfittò per fare proseliti il nascente movimento fascista. Fin dalla primavera 1921 a Bologna si costituì una Camera sindacale del lavoro e nel gennaio 1922 fu istituita la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali fasciste. Nella primavera 1922, inasprendosi i rapporti tra i fasci e il governo, Bologna fu occupata militarmente dalle Camicie nere, che vi convennero da ogni parte della regione. Il periodo sfociò poi nella marcia su Roma.
Altrettanto pesante fu il tributo pagato da Bologna alla Seconda guerra mondiale. Occupata dai Tedeschi il 10 settembre 1943, due giorni dopo l’armistizio, nel corso della campagna d’Italia fu uno degli obbiettivi dell’azione ‘Mitraglia’ svolta dalle armate alleate 5a e 8a, che con il contributo della resistenza partigiana, liberarono infine la città il 21 aprile 1945, dopo che 50 pesanti incursioni aeree avevano provocato vaste distruzioni soprattutto lungo la linea ferroviaria.
All’opera di ricostruzione intrapresa nel dopoguerra si accompagnò negli anni 1950 e 1960 un cospicuo incremento edilizio, che ha ingrandito l’abitato urbano, lungo le direttrici della pianura e anche a sud verso la collina. Un’inversione di tendenza si registrò a partire dagli anni 1980, nel quadro di un processo di contrazione demografica che si è progressivamente esteso dal Comune centrale a quelli situati nell’immediata periferia.
Fra gli episodi dolorosi della storia recente di Bologna, figura il grave attentato terroristico del 2 agosto 1980, quando una bomba esplose nell’affollata sala d’aspetto di seconda classe della stazione centrale, uccidendo 85 persone e causando oltre 200 feriti. Dopo un lungo processo, nel 1995 la Corte di Cassazione ha riconosciuto come responsabili dell’attentato e condannato con sentenza definitiva alcuni membri di un’organizzazione estremista di destra, i Nuclei armati rivoluzionari.
Lo sviluppo urbano
La pianta di Bologna mostra chiaramente l’originario nucleo romano, a insulae rettangolari, sul quale si è innestata la città medievale, con sviluppo invece a raggiera. L’originale cinta muraria trecentesca, in gran parte abbattuta agli inizi del 20° secolo, aveva un tracciato corrispondente a quello degli odierni viali di circonvallazione, oltre i quali, lungo le due direzioni della via Emilia, si estende la città moderna. Le arterie principali del centro sono state ricavate mediante la demolizione di intere isole di case, tuttavia in molte parti ancora si conserva l’aspetto caratteristico della città medievale, con le vie fiancheggiate ininterrottamente da portici, e le case e i palazzi antichi costruiti nel tipico materiale emiliano, il mattone rosso. Contraddistinguono il profilo della città le due celebri torri pendenti degli Asinelli (altezza m 97,2) e dei Garisendi, o Garisenda (m 48), risalenti al 12° secolo, superstiti fra quelle che si ergevano numerosissime nella Bologna medievale. Il cuore della città è la piazza Maggiore, dove sorge la basilica di S. Petronio, grandioso edificio gotico iniziato nel 1390 da Antonio di Vincenzo e terminato nel 17° secolo. Il portale centrale della facciata, incompiuta, è adorno di bassorilievi e sculture di Iacopo della Quercia (1425-38); nell’interno, a tre navate fiancheggiate da cappelle, si trovano numerose opere d’arte, fra cui affreschi di Giovanni da Modena, dipinti di Francesco Francia e di Lorenzo Costa. Sulla stessa piazza sono anche il Palazzo del podestà, del 13° secolo, ricostruito da Aristotile Fieravanti nel 1472; il Palazzo dei Banchi, costruito nel 1565-68 su progetto del Vignola; il Palazzo d’Accursio, o Palazzo comunale, costituito da edifici di epoca diversa (una parte è di Fieravante Fieravanti, 1425-28; sulla facciata, una grande Madonna col Bambino, terracotta di Niccolò dell’Arca, 1478). La famosa Fontana del Nettuno, del Giambologna (1566), sorge nella piazza adiacente, di fronte al Palazzo di re Enzo (1244, già residenza del Comune), dove fu tenuto prigioniero il figlio di Federico II. Uno dei più singolari monumenti medievali di Bologna è il complesso di S. Stefano, costituito da un gruppo di chiese che riproducono i luoghi santi di Gerusalemme. La fondazione, attribuita come già detto a s. Petronio, si data forse al 5° secolo; in realtà gli edifici sono in massima parte dei secoli 11°-12°. Nel 13° secolo furono erette le due grandi chiese monastiche: quella di S. Domenico (1221, modificata da Francesco Dotti nel 1728), al cui interno si trovano la celebre Arca di s. Domenico, con bassorilievi di Nicola Pisano e fra Guglielmo (1267), e statue di Niccolò dell’Arca e di Michelangelo, e quella di S. Francesco (1236-63), di forme goticheggianti, con abside con cappelle a raggiera e all’interno grande ancona marmorea dei Dalle Masegne (1388-92). Presso S. Francesco sorgono le pittoresche arche di alcuni glossatori dello Studio bolognese del 13° secolo. Al Duecento risale anche la struttura gotica di S. Giacomo Maggiore. Magnifici esempi di architettura civile del 14° secolo sono il Collegio di Spagna (Matteo Gattapone, 1365) e il Palazzo della mercanzia (1384). Fra le chiese dello stesso periodo, notevole soprattutto S. Maria dei Servi. L’architettura civile conobbe poi particolare splendore nel Quattrocento e nel Cinquecento; sorsero allora alcuni dei più bei palazzi signorili, di ispirazione dapprima toscana (palazzi Isolani, Bevilacqua ecc.) e poi romana (Fantuzzi, Dal Monte, Sanguinetti ecc.), e fu costruito l’Archiginnasio (A. Morandi detto il Terribilia, 1563), già sede dell’università. Nei secoli 16° e 17° i palazzi bolognesi si arricchirono, all’interno, di decorazioni pittoriche: Pellegrino Tibaldi decorò palazzo Fava, poi i Carracci operarono nei palazzi Fava, Sampieri, Magnani. Nei secoli 17° e 18°, ‘quadraturisti’ e ‘prospettici’ completarono l’insieme fastoso di queste dimore patrizie. L’attività degli artisti bolognesi si espresse anche nella ricostruzione di alcune chiese, come S. Maria della Vita, di Giovan Battista Bergonzoni con all’interno una celebre Pietà di Niccolò dell’Arca, la Madonna di Galliera, di Giuseppe Antonio Torri, S. Bartolomeo. Nel 1605 fu rifatta la chiesa Metropolitana (S. Pietro), su disegno di Floriano Ambrosini. Di Carlo Francesco Dotti è la slanciata mole del santuario della Madonna di S. Luca (1723), sul colle della Guardia. Nella seconda metà del 19° secolo, all’apertura della stazione ferroviaria (1858), connessa successivamente al centro della città dalla via Indipendenza, fece seguito lo sviluppo di nuove aree urbane create con la piazza Cavour (1861) e la piazza Minghetti (1893). Tuttavia lo sforzo di coordinare la viabilità fra la parte compresa nella vecchia cinta di mura e le aggiunte esterne, specie quelle adibite a zone industriali, e la volontà di conferire al centro cittadino un’adeguata sistemazione comportò in quel periodo e nei primi decenni del Novecento un gran numero di sventramenti, cui si sono aggiunte le distruzioni provocate dalla guerra. Anche per sanare questi danni si avvertì la necessità di varare un piano regolatore, che dopo accesi dibattiti fu finalmente adottato nel 1985, consulenti gli urbanisti Giuseppe Campos Venuti, Ferdinando Clemente e Paolo Portoghesi. Il piano escludeva nuove espansioni a spese delle aree agricole superstiti e proponeva che lo sviluppo terziario fosse localizzato, insieme alle residenze, negli interstizi inedificati periferici. Prevedeva interventi su aree della media periferia, con la collaborazione di strutture private e pubbliche, riservando particolare cura alla progettazione degli spazi scoperti (parchi, giardini, piste ciclabili).