BONA DEA (Damia)
In origine, questo non fu che un appellativo della dea romana Fauna, che formò, insieme con Faunus, una delle più antiche coppie degli dei indigeti del Lazio (v. fauna e fauno). Bona Dea Fauna era stata, come Fauno, una divinità della pastorizia e dei boschi, e anche, col nome di Fatua (Giustino XLIII, 1, 8; Macrob., Saturn., I, 12, 21; Servio, ad Aen., VII, 47, ecc.), una dea che predice l'avvenire. Sappiamo che dal suo culto erano esclusi gli uomini (Macrob., Sat., I, 12, 28; Prop., IV, 9), come a quello di Fauno non potevano partecipare le donne. Ma sull'epiteto di Bona Dea venne ben presto ad innestarsi il culto di una divinità greca introdotta in Roma dalla Magna Grecia; e la nuova figura divina fece dimenticare l'antica.
La dea greca che assunse a Roma il nome di Bona Dea fu Damia, divinità venerata specialmente nell'Argolide, e anche a Egina, a Sparta, a Tera e, in Italia, a Taranto. Anche al culto di Damia, regolato sul tipo dei "misteri", attendevano soltanto le donne (ἡ γυναικεία ϑεός la chiama Macrob., Sat., I, 12, 27; cfr. Plut., Quaest. rom., 20). Da Taranto la dea passò a Roma, come pare, nell'occasione stessa della caduta di quella città in mano dei Romani (272 a. C.); e allora la somiglianza del suo culto, riservato alle donne, con quello di Fauna fu causa dell'identificazione, prima, e poscia della sostituzione della nuova figura divina all'antica.
La festa di Bona Dea ricorreva una volta all'anno, a una data non fissa, ma sempre al principio di dicembre; si celebrava di notte, sul modello delle greche παννυχίδες, nella casa di un magistrato cum imperio; ivi convenivano le matrone romane, incaricate di compiere il rito per conto dello stato, pro populo (Cicer., De har. resp., 37; De leg., II, 21, ecc.), insieme con le Vestali e le matres familias dello stato: gli uomini erano rigorosamente esclusi (Cic., De har. resp., 8, 37 segg.; De domo, 105; Tibull., I, 6, v. 22; Plut., Quaest. rom., 20; ecc.). Al rito presiedeva la moglie del magistrato nella cui casa si allestiva la festa; ella assumeva in tale occasione, come sacerdotessa della dea, il nome di damiatrix (Paul., Festi ep., p. 68: dea quoque ipsa Damia et sacerdos eius damiatrix appellabatur). Il rituale e le formule del culto si mantenevano segreti: s'intende così come gli scrittori romani designino di solito tale festa col nome di mysteria (Cicer., ad Att., V, 21, 14; VI, 1, 26; XV, 25, ecc.). Come vittima, veniva offerta alla dea una scrofa; la sala della festa si ornava di tralci di vite, mentre non doveva comparirvi il mirto; nel rito, accompagnato da musica e da danze, aveva larga parte anche il vino, il quale però veniva sempre ricordato con falso nome (Macrob., Sat., I, 12, 25: vinum in templum eius non suo nomine soleat inferi, sed vas in quo inditum est mellarium nominetur et vinum lac nuncupetur). Queste particolarità del culto erano spiegate etiologicamente dal mito (lo ἱερὸς λόγος), penetrato in Roma insieme con la dea e variamente modificato dagli autori latini; in questa più tarda versione (Val. Max., VI, 3, 9; Plin., Nat. Hist., XIV, 89; Serv., ad Aen., I, 737; Tertull., Apolog., 6), la leggenda raccontava che Bona Dea, avendo bevuto di nascosto del marito Fauno un boccale di vino, ed essendone rimasta inebriata, era stata da lui bastonata a morte con rami di mirto.
Un tempio di Bona Dea, il cui ingresso era pure vietato agli uomini, sorse in Roma ai piedi dell'Aventino; restaurato da Livia, se ne celebrava l'anniversario della dedicazione il primo di maggio. In questo tempio, la dea assunse anche il nuovo aspetto, appartenente pur esso alla greca Damia, di divinità salutifera (tale la testimoniano parecchie iscrizioni: v. E. Caetani-Lovatelli, Scritti varî, p. 28 segg.). In tale significazione, il culto di Bona Dea andò sempre più diffondendosi, nel periodo dell'impero: una piccola farmacia era annessa al suo tempio, e le donne ricorrevano volentieri allo aiuto della divinità e al consiglio di speciali collegi di sacerdotesse addette ai templi stessi e alle loro farmacie (sacerdotes Bonae Deae, a Roma: Corp. Inscr. Lat., VI, 2236 segg., 2240, 32461; magistrae o ministrae Bonae Deae in altre parti d'Italia; per es., Corp. Inscr. Lat., XIV, 4057; IX, 805; V, 757-759, 762).
Il ricordo dell'antica Fauna Bona Dea non scomparve però del tutto; nelle campagne talvolta la si trova invocata come divinità tutoria di certi luoghi, in unione al Genius loci (p. es., Corpus Inscr. Lat., VI, 30854; V, 760; VI, 69; XIV, 3447).
Bibl.: G. Wissowa, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., III, col. 686 segg.; id., Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., Monaco 1912, p. 216 segg.; R. Peter, in Roscher, Lexicon der gr. und röm. Myth., I, col. 789 segg.; D. Vaglieri, in De Ruggiero, Dizionario epigrafico di antichità romane, I, 1012 segg.