Bonaventura da Bagnoregio
Teologo più che filosofo, uomo d’azione e di contemplazione, Bonaventura riunisce lo spirito indagatore di sant’Agostino con l’affettività avvincente e l’ardore serafico di san Francesco, il cui misticismo sperimentale egli traduce in prospettiva teoretica. Il suo sistema filosofico-teologico-mistico è geniale, attento alla complessità del reale e alla sua articolazione dinamica. La sua opera si sviluppò, come per Tommaso, nel 13° sec., epoca caratterizzata da un grande dibattito culturale e teoretico, al quale egli diede un rilevante contributo, incisivo anche a livello economico per aver teorizzato il valore legame, proprio del terreno etico, all’interno della teoria classica del valore d’uso e del valore scambio.
Nato a Civita di Bagnoregio, cittadina vicino a Viterbo, verso il 1217, Giovanni Fidanza, in seguito chiamato Bonaventura, trascorse i primi anni della sua vita nella città natia. Egli stesso ricorda nella Legenda maior che da bambino fu miracolosamente liberato da una grave malattia per mano di san Francesco. Da piccolo ricevette la formazione elementare e religiosa probabilmente all’interno del convento di Bagnoregio.
Verso la fine del 1235 si recò a Parigi e, dopo attenta riflessione, bussò alle porte del convento francescano di quella città per essere accolto nella grande famiglia francescana. Nel 1243 compì il periodo di noviziato, assumendo il nome di Bonaventura, e nel quinquennio successivo completò gli studi di teologia sotto la direzione del teologo francescano Alessandro di Hales (m. 1249), personaggio che, fin dal suo arrivo a Parigi, aveva avuto un forte impatto su di lui. Non senza ragione lo ricorda come «nostro maestro e padre di felice memoria».
Nel 1248 conseguì il titolo di baccelliere biblico, con la facoltà di spiegare pubblicamente la Bibbia, e nel 1250 quello di baccelliere sentenziario, che gli dava la facoltà di commentare i libri delle Sententiae (iniziati nel 1142 e terminati nel 1158) di Pietro Lombardo (fine 11° sec.-1160), il manuale di teologia di quel tempo; le sue lezioni furono raccolte nei Commentaria in quattuor libros Sententiarum magistri Petri Lombardi, Episcopus Parisiensis (1250-1254).
Ma, per contrasti con i maestri secolari, solo nel 1257 gli fu dato il titolo di magister cathedratus. Infatti, in quegli anni a Parigi divampava una violenta polemica tra i maestri secolari e i frati francescani e domenicani. Si contestava agli ordini mendicanti il diritto di insegnare all’università, partendo da denunce di scarsa ortodossia e di tendenze escatologiche. Nella polemica intervenne lo stesso Bonaventura con le sue Quaestiones de perfectione evangelica (scritte con ogni probabilità prima del 1255). In fondo, in quest’opera egli si mostra agostiniano e gioachimita senza essere pienamente né l’uno né l’altro, perché condivide di sant’Agostino il carattere definitivo dell’opera redentrice di Cristo, e delle visioni escatologiche di Gioacchino da Fiore la forza salvifica dello Spirito nella storia come compimento della redenzione cristiana. Ma se da un lato li accetta entrambi, dall’altro li critica: il primo perché Cristo non è la fine dei tempi ma il centro della storia, il secondo perché la redenzione si è sostanzialmente conclusa.
Nell’ambiente intellettuale parigino non era difficile percepire una sorta di emarginazione della prospettiva teologica tradizionale, di ispirazione agostiniana, in nome di una ragione autonoma, promotrice di un ideale sostanzialmente laico del sapere. Due fattori vi concorrevano: un progetto culturale di segno pagano, alternativo a quello cristiano; e l’insegnamento e gli scritti di Alberto Magno (1193 o 1200 o 1206-1280), fondatore della Scuola aristotelico-cristiana, di Tommaso d’Aquino e di Sigieri di Brabante (13° sec.), il maggiore rappresentante del cosiddetto averroismo latino. Ispirandosi al razionalismo aristotelico-averroista, costoro ponevano al primo posto il vero, nel senso che il reale è essenzialmente razionale. La tematica che sembrava ai margini era quella francescana della gratuità e dunque della bontà come anima espansiva dell’essere, e cioè: che Dio ha creato ciò che ha voluto, che volendolo ha partecipato la sua bontà fuori di sé e che è la bontà l’anima della verità, con l’obbligo di coglierne la logica e di contribuire alla sua espansione. L’atteggiamento critico di Bonaventura nei riguardi della prospettiva aristotelica nasce da qui, è, cioè, dovuto all’assunto del primato del bene, che trascende il vero: il bene al primo posto, non il vero, quale griglia di lettura del reale e anima di una convivenza pacifica.
La partecipazione intensa di Bonaventura a questi contrasti e a questa dialettica non gli impedì comunque l’attività magistrale, che compendiò nelle sue opere più significative, tra cui il Breviloquium de intelligentia scripturae et fidei christianae, scritto appunto intorno al 1257. Significativo è anche l’opuscolo De reductione artium ad theologiam.
Tuttavia, proprio mentre Bonaventura era impegnato nel suo compito di maestro, il capitolo generale dell’ordine lo elesse ministro generale della famiglia francescana il 2 febbraio 1257. Succeduto a Giovanni da Parma, che era stato chiamato a reggere l’ordine dieci anni prima, Bonaventura si trovò a gestire un momento critico e complesso del movimento francescano. Da un lato, occorreva salvaguardare l’unità della famiglia francescana, dall’altro, promuovere la fedeltà al carisma di Francesco, consolidando e regolando la prodigiosa espansione dell’ordine (30.000 frati in tutto il mondo); da un lato, chiarire e interpretare la problematica dell’usus pauper nella vita quotidiana dei frati, dall’altro, sorvegliare il mondo delle idee gioachimite, non del tutto riprovate neanche dal ministro generale Giovanni da Parma.
Nell’autunno del 1259 Bonaventura salì sul monte della Verna, sopra Bibbiena (Arezzo), dove nel settembre del 1244, due anni prima della sua morte, il fondatore dell’ordine, ‘serafico in ardore’, aveva ricevuto le stimmate. Qui, egli dimorò per qualche tempo, componendo il suo scritto più conosciuto, l’Itinerarium mentis in Deum, con cui indica le tappe dell’ascesa ideale a Dio.
Una delle prime espressioni della sua attività di suprema guida dell’ordine fu la Legenda maior, che è una riscrittura altamente teologica della vita di san Francesco, della quale fu incaricato dal capitolo generale di Narbona del 23 maggio 1260. Progettata in tale circostanza, la Legenda maior – da distinguere dalla Legenda minor, redatta in forma succinta – rappresenta l’opera classica delle biografie ufficiali di Francesco d’Assisi ed è considerata un capolavoro dell’agiografia medievale.
Seguirono anni di vigile e attivo governo dell’ordine. Viaggiò moltissimo per tutta Europa, e soprattutto in Francia, in Italia e in Spagna. Due anni, il 1266 e il 1267, li trascorse interamente in Francia, dedicandosi all’insegnamento e a dirimere i contrasti che di nuovo erano esplosi all’Università di Parigi tra maestri secolari e francescani a proposito della questione della povertà. Sono di questo periodo le Collationes de decem praeceptis (marzo-aprile 1267) e le Collationes de septem donis Spiritus sancti (marzo-aprile 1268). Nel 1269, sempre a Parigi, scrisse l’appassionata Apologia pauperum contra calumniatorem, la più bella esaltazione dell’ideale francescano. Nella primavera del 1273, sempre a Parigi, tenne una serie di conferenze intorno alla visione francescana della storia e contro l’aristotelismo averroista, raccolte nell’incompiuta Collationes in Hexaëmeron sive illuminationes Ecclesiae, dove ripresenta l’armonia dei saperi tra fides et ratio, tra filosofia e teologia, tra Dio e l’uomo, senza tuttavia attenuare le rispettive logiche, e interpretando l’una come sostegno dell’altra, o meglio, l’una nell’altra, e cioè, la filosofia nella teologia, la politica entro l’etica filosofica, questa entro l’etica teologica e su tale sfondo l’etica economica (cfr. Collatio XIX, nr. 14, in Opera omnia, 5° vol., 1891, p. 429).
Il 28 maggio 1273 Bonaventura fu nominato cardinale vescovo di Albano da Gregorio X, che gli chiese di preparare anche il II Concilio di Lione, centrato sul ristabilimento della comunione tra la Chiesa latina e quella greca. Egli però non riuscì a vedere la conclusione di quell’assise ecumenica, perché dopo la IV sessione (6 luglio 1274), nella quale i greci fecero atto di unione con Roma, nella mattina del 15 luglio morì. L’indomani, all’inizio della V sessione conciliare, lo stesso pontefice volle commemorare il grande teologo.
Fu sepolto nella chiesa dei francescani di Lione alla presenza dei padri conciliari, inclusa quella del papa. Fu canonizzato da Sisto IV il 14 aprile 1482, ed ebbe il riconoscimento di dottore della Chiesa (Doctor Seraphicus), affiancato a Tommaso, con la bolla di Sisto V Triumphantis Ecclesiae, nel 1588.
L’originalità del pensiero sociale di san Bonaventura non sta tanto nelle problematiche specifiche, come mercatura, scambio, interesse, prezzo ecc., quanto piuttosto nel nuovo contesto teologico entro il quale propone tali questioni. Ricollegandosi alle dottrine del De civitate Dei di Agostino, egli colloca gli eventi del suo tempo e i segni del destino spirituale delle generazioni e delle civiltà nel quadro di un universale processo, pensato e guidato ab aeterno dalla suprema sapienza divina.
L’Hexaëmeron è il De civitate Dei di Bonaventura, l’interpretazione francescana della storia. La prospettiva storica si carica di senso, facendo nascere uno stile sociale non conflittuale e distruttivo, ma conciliante e costruttivo. Non la filosofia contro la teologia, o l’economia fuori dalla filosofia e teologia, ma l’una nell’altra. È la circolarità bonaventuriana, dove sacro e profano, dall’abissale profondità del mistero trinitario, entro cui le cose sono state pensate, ricadono nel tutto dell’universo. Il pensiero bonaventuriano e quello successivo della Scuola francescana non si comprendono appieno senza quella dimensione utopica, legata a quel gioachimismo connaturale che porta a guardare lontano, fino alla ‘terza età’, ma restando nella ‘seconda’, che è quella in cui viviamo con il peso di mille problemi e le molteplici contraddizioni (Hexaëmeron, coll. XIII, nr. 2, p. 382).
Al di là delle tematiche speculative – teoria centrale della conoscenza o dell’illuminazione e quella delle idee divine come esemplari delle cose create (esemplarismo) – il messaggio bonaventuriano arriva direttamente all’anima dell’uomo anche negli aspetti riguardanti la vita sociale. Ed è qui il suo segreto di pensatore e di mistico, che ha qualcosa da dire all’uomo moderno, che non sa più riconoscere la presenza di Dio nel creato e nel cuore della storia.
Apri gli occhi, tendi l’orecchio del tuo spirito, disserra le tue labbra e incita il tuo cuore a vedere, intendere, lodare, amare, venerare, onorare e glorificare il tuo Dio in tutte le cose, se non vuoi che insorga contro di te tutto l’universo (Itinerarium mentis in Deum, cap. 1, nr. 14, in Opera omnia, 5° vol., 1891, p. 299).
Bonaventura, oltre alla Bibbia e ad Agostino, ha sostanzialmente due fonti: la Summa theologiae di Alessandro di Hales, scritta su incarico di papa Innocenzo IV, perché costituisse un modello di studio e di insegnamento per tutti all’Università di Parigi, e il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi. Da esse trae la convinzione che il mondo è il capolavoro che Dio ha immaginato e voluto. Dio poteva non volerlo. Il che significa che il mondo è l’espressione della libertà creativa divina e suo dono; autentica ‘visibilizzazione’ del suo amore gratuito.
Questo il grande merito di Bonaventura: quello di aver saputo unire la fede all’apertura verso la realtà del mondo. Ciò spiega perché, a distanza di oltre settecento anni dalla morte, il suo pensiero sia ancora operante nel contesto filosofico-teologico e culturale del nostro tempo.
Nei paragrafi successivi ci riferiremo, in particolare, alle seguenti opere di Bonaventura, tutte contenute nel 5° vol. (1891) dell’Opera omnia (1882-1902): Collationes in Hexaëmeron (da qui in poi sempre Hex.), Breviloquium (da qui in poi Brevil.), Itinerarium mentis in Deum (da qui in poi Itin.).
Bonaventura parla alla Chiesa e al popolo cristiano del suo tempo, affinché si consolidino nel passaggio dall’albero della scienza del bene e del male all’albero della vita. L’albero della scienza del bene e del male è il mondo delle scienze insegnate dai filosofi, quale salvezza per l’uomo; l’albero della vita è Cristo e la Bibbia da cui soltanto può derivare la vera sapienza.
Infatti, ha peccato la metafisica, perché alcuni filosofi (il principale di questi è Aristotele) hanno affermato l’eternità del mondo e hanno negato le idee esemplari in Dio, importando nell’orizzonte conoscitivo il materialismo che nega verità fondamentali, come l’immortalità dell’anima, la provvidenza, il peccato, il premio e il castigo eterno. Ha peccato la matematica, perché ha preteso, mediante la conoscenza dei numeri, di indagare i segreti dei cuori. Ha peccato la scienza della natura, perché, affermando di conoscerne i segreti, ha preteso di imitarla, promettendo di fare oro e argento. Ha peccato la grammatica, perché i grammatici, con le loro poesie e le loro favole, hanno illuso tutto il mondo. Ha peccato la logica, perché i sofismi dei logici e le loro false posizioni hanno fatto impazzire il mondo. Ha peccato la scienza del diritto, perché ha pensato al lucro.
Ma hanno peccato anche quei filosofi (Platone e Plotino) che, pur insegnando la contemplazione delle idee eterne ed esemplari, hanno ignorato l’amore.
Il passaggio dall’albero della scienza del bene e del male all’albero della vita viene proposto al cristiano mostrandogli l’universale centralità di Cristo, il Verbo fatto carne e storia, che unisce il divino e l’umano. In lui tutte le scienze vengono congiunte alla teologia (Hex., coll. I, nn. 10-38, pp. 332 e segg.). «Signore, uscii da te sommo, vengo a te sommo, per te sommo», esclama il teologo francescano (nr. 17, p. 332). Un’immersione nel divino, che fa vivere del divino, non però a discapito del terrestre.
Ma che cos’è che distoglie l’uomo da Dio? La «carnalità e la cupidigia». Difatti, «l’uomo è trascinato fuori dalla Chiesa dallo spirito di carnalità e di cupidigia» (nr. 6, p. 328).
Per intendere la prospettiva del discorso occorre ricordare che da sempre, per i teologi prima di Bonaventura, la superbia risultava la radix omnium malorum. Con il sorgere, nella società del 13° sec., di nuove forme di ricchezza personale e mobiliare, il primato in negativo fu attribuito alla cupiditas o avarizia, ritenuta appunto radice di tutti i mali. L’antico primato teologico della superbia, origine di «tutti i mali», cedette il passo al vizio dei tempi nuovi: l’avarizia. Bonaventura ritenne opportuno collocare accanto alla superbia, l’avarizia, ritenendo entrambi i vizi radix omnium malorum: l’una, la superbia, initium, e l’altra, la cupiditas, «radice di tutti i mali» (II Sent., II, d. 42, dub. 4, in Opera omnia, 2° vol., 1885, p. 979).
Rimanendo all’interno di tale sintesi teologica si riesce, per es., a cogliere il senso del termine avarizia, che non aveva solo un’estensione teologica, ma serviva anche a misurare gli atti economici secondo che fossero rivolti all’acquisizione dei beni «necessari» alla vita o a quelli «superflui». Il «necessario» si correlava al «valore» morale dell’uomo rigenerato dal battesimo, il «superfluo» al «non valore» dell’uomo naturale, schiavo del mondo e delle cose mondane. L’avarizia, perciò, diventa un concetto paradigmatico con il quale si misurava in concreto ogni atto mondano per giudicarne la legittimità morale.
Di qui l’importanza dell’analisi di questo concetto anche ai fini della storia del pensiero economico. Bonaventura lo collegò a quello dell’usura, del profitto e della mercatura. Nel De superfluo egli sostiene che vi è una relazione diretta e stretta, univoca e funzionale tra «avarizia» e «superfluo». Al quesito se «habere superfluum sit peccatum», Bonaventura risponde: «quod sic». Perché possedere le cose non necessarie secondo natura e secondo la persona e lo stato sociale, «est peccatum».
La teoria del «necessario», essenziale per la stabilità dell’ordine sociale, non poteva essere senza conseguenze sugli altri aspetti e istituti della vita economica: proprietà privata, commercio, credito.
Nello stato attuale l’uomo necessità per sé e per la sua famiglia di una certa quantità di beni, ma – e qui sta il punto centrale intorno al quale gravita la teologia sociale bonaventuriana – sempre nella misura proporzionata al «necessario», che esclude la dimensione individualistica ed esclusiva della soggettività a scapito del bene comune.
Secondo Bonaventura, nelle creature ci sono tre tipi di impronte: 1) una rappresentazione distante e confusa (ombra); 2) una rappresentazione distante ma distinta (vestigio); 3) una rappresentazione distinta e vicina (immagine). Tutte le creature sono ombre e vestigi; solo l’uomo è l’immagine, perché è stato creato da Dio a sua «immagine e somiglianza» e perché è la sola creatura immediatamente orientata a Lui (Hex., coll. XIX, nr. 4, p. 420; coll. XIII, nr. 12, pp. 389-90; coll. I, nr. 13, p. 331) che lo può raggiungere attraverso il supporto della fede. La ragione illuminata dalla fede può vincere i suoi limiti (coll. VI, nn. 2-6, pp. 360 e segg.; coll. XVII, nr. 7, p. 410; coll. II, nr. 2, p. 340).
Nonostante la società non sia il fine dell’uomo, anche se è il suo necessario ambiente storico dove vivere e perfezionarsi – l’uomo è «animal socialis naturae» (coll. VI, nr. 28, p. 364) –, essa deve organizzarsi secondo un piano divino rivolto al bene comune. L’uomo nella sua vita sociale ha bisogno di orientamenti, e questi, secondo Bonaventura, si trovano nella giustizia e nell’amore: la prima stabilisce le norme del vivere sociale, la seconda le perfeziona (coll. XVIII, nr. 18, p. 417; coll. V, nn. 14-17, pp. 356-57).
La società bonaventuriana è una società teocratica o monarchico-teocratica, gerarchizzata, con significativo spazio alla partecipazione del popolo soprattutto mediante le forme associative. È una società alla cui base c’è un concetto di «uomo virtuoso» che, prima di costruire le strutture sociali efficienti, si fa «rettore» di se stesso (Hex., coll. VI, nr. 29, p. 364).
Bonaventura intende, infatti, la vita sociale dell’uomo come un esercizio della perfezione cristiana. Insiste, quindi, sulla pratica delle virtù sia teologali sia cardinali, considerandole come virtù sociali perché perfezionano l’uomo anche nel sociale.
Richiamandosi all’ordine esistente nel mondo sensibile, egli parla di una società come di un organismo «ordinato» nel quale tutti i membri vivono e agiscono in armonia e perfetta intesa, e collaborano alla realizzazione di un disegno comune, dove convivono tre gerarchie diverse (tre classi sociali, si direbbe oggi): la gerarchia monastica, la gerarchia clericale e la gerarchia laicale (coll. XXII, nn. 16-17, p. 440).
Limitandoci alla terza classe, abbiamo: i sovrani, gli ufficiali, il popolo, che, a sua volta, si divide nel gruppo degli operai (il cui scopo è il lavoro per il bene materiale della società), degli amministratori (che promuovono l’armonia e l’ordine), degli orantes (che si dedicano al bene spirituale della società). Appartiene alla gerarchia laicale anche lo Stato che, nella sua struttura gerarchico-organizzativa, deve soddisfare le necessità dell’uomo. Lo scopo fondamentale dello Stato è il bene comune; ed è suo dovere promuovere ciò che è utile ai cittadini, assicurando armonia, benessere e pace (coll. V, nn. 14-20, pp. 356 e segg.; coll. XXIII, nr. 18, p. 440).
Il pensiero sociale bonaventuriano svela, dunque, un assunto fondamentale: il francescanesimo non è solo prassi ascetico-mistica, né solo una filosofia e una teologia, ma è anche una progressiva metodologia etico-economica che ha contribuito a dare una forte accelerazione al sistema sociale e allo sviluppo economico e civile, i cui fondamentali principi conservano ancora oggi, nell’epoca della globalizzazione, tutta la loro attualità.
La più completa e corretta edizione critica delle opere complete di Bonaventura è quella curata dai francescani del Collegio internazionale di Quaracchi diretti da padre Fedele da Fanna, in 10 voll. in folio, ad Claras Aquas (Firenze) 1882-1902, con il titolo Opera omnia, iussu et auctoritate r. P. Aloysii a Parma edita, studio et cura pp. Collegii a s. Bonaventura ad plurimos codices mss. emendata, anectodis aucta, prolegomenis, Scholis notisque illustrata. Sul testo di questa edizione è stata effettuata ed edita a Parigi a partire dal 1967, nella collezione Bibliothèque Bonaventurienne, série «textes», la traduzione in francese delle opere più significative di Bonaventura.
Per l’elenco dettagliato delle opere, per le traduzioni moderne e per le opere scoperte posteriormente all’edizione Quaracchi, si rimanda alla ricca bibliografia di Raoul Manselli nella voce da lui scritta per il Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 11° vol., Roma 1969, ad vocem.
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