Bonaventura da Bagnoregio
Ministro generale dell’ordine dei frati minori, Bonaventura è noto, oltre che per la sua statura intellettuale di teologo e mistico, anche come una sorta di secondo fondatore dell’ordine, poiché a lui si devono le Constitutiones Narbonenses e soprattutto la stesura della biografia ufficiale di san Francesco, la Legenda Sancti Francisci. Per Bonaventura la fede è principio primo e fine ultimo della ricerca filosofica perché solo l’illuminazione divina può portare la scienza razionale al rango della sapienza. La premessa cristologica lo induce a inquadrare il discorso politico in un ambito teologico rivelatore della sua lontananza dal dibattito che aveva invece coinvolto Tommaso d’Aquino.
Bonaventura nacque a Civita di Bagnoregio nel 1217 da Giovanni Fidanza (il nome che lui stesso portò fino al suo ingresso nell’ordine francescano), medico, e Maria di Ritello. Il nome di Bonaventura, come ricorda sia nella Legenda Sancti Francisci che nella Legenda minor (Opera omnia, 1882-1902, Prologus, 8° vol., p. 506; 8° vol., lectio VIII, p. 579), sarebbe dovuto all’intervento miracoloso di san Francesco al quale la madre lo votò da piccolo durante una gravissima malattia e che gli avrebbe appunto augurato: «bona ventura». Dopo aver frequentato le scuole primarie in ambito locale, Bonaventura si recò a Parigi nel 1235, presso la facoltà delle Arti, dove si laureò nel 1243; in quell’anno entrò nell’ordine dei frati minori e seguì le lezioni di teologia di Alessandro di Hales, il primo francescano professore ufficiale della facoltà teologica parigina. Qui percorse i regolari gradi accademici, da baccelliere biblico (1248) a baccelliere sentenziario (1250) sino a baccelliere formato (1252) e, quindi, alla laurea di maestro in teologia che conseguì nel 1253.
Ciò avvenne in un periodo di gravi difficoltà all’interno dell’università, dal momento che i maestri secolari di teologia erano fieramente contrari all’ingresso di religiosi appartenenti agli ordini mendicanti. Nel 1255 Guglielmo di Saint-Amour, capofila dei secolari, scrisse un opuscolo contro di loro, dal titolo De periculis novissimorum temporum, cui Bonaventura rispose con un testo che sarebbe divenuto la seconda questione De perfectione evangelica. Il contrasto tra i due schieramenti ebbe termine nel 1257 con l’intervento di papa Alessandro IV che impose al collegio dei teologi parigini di accogliere, come maestri reggenti (gli ‘ordinari’ di allora), sia Bonaventura che Tommaso d’Aquino. Per Bonaventura si trattò comunque di una vittoria morale, con scarso effetto pratico, poiché nello stesso anno, su indicazione del suo predecessore, Giovanni da Parma, fu eletto ministro generale dell’ordine francescano nel capitolo generale tenutosi a Roma e abbandonò l’insegnamento.
Per quanto breve, il periodo ufficiale di insegnamento fu assai ricco di scritti; risalgono a quegli anni alcune delle opere più note di Bonaventura: il monumentale commento alle Sententiae (iniziate nel 1142 e terminate nel 1158) di Pietro Lombardo (Commentaria in quatuor libros Sententiarum), alcune Questiones disputatae (De scientia Christi e De mysterio Trinitatis), una breve sintesi teologica (Breviloquium), il De reductione artium ad theologiam. Nel 1259, durante un breve soggiorno alla Verna dove san Francesco aveva ricevuto le stimmate, compose la sua opera forse più nota, l’Itinerarium mentis in Deum. Essa si inserisce tra le sue numerose prese di posizione nei confronti delle fibrillazioni che turbavano la vita del giovane ordine, ancora incerto sulla sua vera identità, per le oscillazioni tra un rigido richiamo alla prima Regula voluta da san Francesco e al suo Testamentum e le esigenze dettate dalla necessità di far fronte alla crescita esplosiva di adesioni e di credito popolare, oltre che alle richieste della Chiesa ufficiale che premeva per una sua organica integrazione nelle strutture esistenti. Egli aveva già chiarito le sue intenzioni con l’Epistola de tribus quaestionibus al tempo dell’elezione, ma operò poi una rigida revisione degli statuti dell’ordine con le Constitutiones Narbonenses (1260) del capitolo generale di Narbona, allorché si fece affidare il compito di redigere la biografia ufficiale del santo fondatore. La Legenda Sancti Francisci, e la sua epitome la Legenda minor, furono completate nel 1263 e comportarono la distruzione fisica di tutte le precedenti biografie e raccolte di ricordi e aneddoti sull’Assisiate, in modo che non vi fossero più dubbi o incertezze sulle caratteristiche che l’ordine doveva avere (capitolo generale di Parigi, 1266).
In ogni caso, Bonaventura non perse il suo contatto con l’ambiente parigino dei docenti e degli studenti universitari, anzi partecipò attivamente alla seconda fase della ‘battaglia’ dei maestri secolari contro quelli degli ordini mendicanti e scrisse l’Apologia pauperum contra calumniatorem (1269) in risposta all’attacco del successore di Guglielmo di Saint-Amour, Gerardo di Abbeville, e al suo Contra adversarios perfectionis christianae. Agli universitari parigini dedicò, accanto a una serie di sermoni indirizzati a un pubblico più generico, delle specifiche conferenze: le Collationes de decem preceptis (1267), de septem donis Spiritus sancti (1268), in Hexaëmeron (1273).
Eletto cardinale vescovo di Albano nel 1273, morì il 15 luglio 1274, poco prima della conclusione del Concilio di Lione, cui aveva partecipato in veste di legato a latere pontificio e nel corso del quale aveva difeso con grande passione la novità degli ordini mendicanti che alcuni volevano omologare ai vecchi ordini monastici. Ministro generale dell’ordine francescano per diciassette anni, il 20 maggio 1274 aveva rassegnato le sue dimissioni dalla carica e indicato come successore Girolamo d’Ascoli. Canonizzato da papa Sisto IV nel 1482, fu proclamato dottore della Chiesa da papa Sisto V nel 1588.
Per Bonaventura, la luce della fede, l’illuminazione che Dio concede agli enti dotati di ragione, è lo strumento fondamentale per una vera e compiuta conoscenza; soltanto attraverso di essa l’uomo è in grado di oltrepassare i confini della sua finitezza e, anche quando in spiriti superiori giunge a percepire qualcosa dell’essere supremo, solo la fede lo pone al riparo da ogni possibilità di errore:
l’anima è sostenuta dalla luce delle scienze che la perfezionano, la istruiscono e rappresentano in triplice modo la beatissima Trinità. La filosofia infatti si divide in naturale, razionale e morale. La prima tratta della causa dell’esistenza, e riporta alla potenza del Padre; la seconda tratta del fondamento della conoscenza, e riporta alla sapienza del Verbo; la terza tratta delle regole della vita, e riporta alla bontà dello Spirito Santo. E ancora, la filosofia naturale si divide in metafisica, matematica e fisica. La prima considera l’essenza delle cose, la seconda i numeri e le figure, la terza le nature, le loro attività e la loro forza di espansione. Perciò la prima riporta al primo principio, il Padre, la seconda alla sua immagine, il Figlio, la terza al dono dello Spirito Santo. La filosofia razionale si divide in grammatica, che rende efficace l’espressione; logica, che rende acute le argomentazioni; retorica, che rende abili a persuadere e commuovere. In modo simile a prima ciò richiama il mistero della beatissima Trinità. La filosofia morale si divide in monastica, economica e politica. La prima richiama la natura increata del primo principio, la seconda l’intimità del Figlio, la terza la generosità dello Spirito Santo. Tutte queste scienze hanno regole certe e infallibili che discendono nella nostra mente come raggi luminosi provenienti dalla legge eterna. Perciò la nostra mente, illuminata e inondata da tanto splendore, se non è cieca, può incamminarsi da sola verso la contemplazione della luce eterna. Il diffondersi di tale splendore e la sua conoscenza elevano i sapienti verso l’ammirazione, mentre invece generano inquietudine negli stolti che non credono, affinché capiscano (Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario della mente verso Dio, a cura di M. Parodi, M. Rossini, 1994, III, 6-7, pp. 129-31).
La certezza della ragione, cui questa perviene attraverso il rigore dell’argomentazione logica, si conclude nella certezza della fede fondata sul riflesso della luce eterna della fede che promana dal cuore e che supera le immagini sensibili delle cose, individuandone la partecipazione e la similitudine con quell’Essere unico da cui traggono la loro esistenza. Nel dibattito tra l’aristotelismo (della cui crescente influenza era stato testimone diretto nei suoi anni di studio a Parigi) e l’agostinismo permeato di platonismo (che costituiva il sostrato della conoscenza filosofica dell’intellettualità cristiana sino all’ingresso del corpus aristotelico), Bonaventura sceglie il secondo. Egli non accetta la pretesa di una filosofia che proclama l’autosufficienza della ragione e che pensa, con i suoi mezzi, di essere in grado di risolvere tutti i problemi della conoscenza umana. Come dice all’inizio della sesta delle Collationes in Hexaëmeron:
Dio vide che la luce era cosa buona, e separò la luce dalle tenebre, ecc. Per la prima visione dell’intelligenza naturale, è stata assunta quell’espressione Dio vide la luce; cioè fece vedere. Di questo si è parlato nelle due collationes precedenti; si è parlato in modo scientifico riguardo a ciò che la luce irradia, come verità delle cose, come verità delle parole, come verità dei costumi. E furono distinte nove parti dottrinali, le cui tre parti principali sono raggi che, secondo Agostino, scaturiscono dalla luce eterna. Inoltre, fu considerato ciò che Dio vide, cioè fece vedere, mediante la contemplazione sapienziale, illuminando l’anima in se stessa, come nello specchio; nell’intelligenza angelica, come nel medio apportatore; nella luce increata, come nell’oggetto lontano; la illumina secondo quelle sei condizioni che imprime nella mente. E, secondo queste, l’anima si eleva in quella luce, ragionando, esperimentando, intuendo; come abbiamo detto. E a questo pervennero i filosofi più nobili e antichi; che sia cioè il principio, il fine, e la ragione esemplare. Tuttavia, Dio separò la luce dalle tenebre; come è stato detto riguardo agli angeli, così va detto riguardo ai filosofi. Ma, donde alcuni di questi hanno seguito le tenebre? Da questo: per quanto tutti abbiano riconosciuto la causa prima, come principio e come fine di tutte le cose, dissentirono però riguardo al medio. Infatti alcuni negarono che nella causa prima siano gli esemplari delle cose; e sembra Aristotele il principe di costoro; infatti, e all’inizio della Metafisica, e alla fine, e in molti altri luoghi, riprova le idee di Platone (Bonaventura da Bagnoregio, La sapienza cristiana. Collationes in Hexaëmeron, a cura di V.C. Bigi, 1985, VI, 1-2, pp. 112-13).
Nella concezione di Aristotele, Bonaventura vede un Dio che, come primo motore immobile, governa il creato sotto il segno della necessità, a differenza di Platone che tende a scorgere nelle cose l’impronta delle idee che hanno guidato la sua operosità creatrice. Se tra i filosofi bisogna riconoscere ad Aristotele il primato della scienza, è a Platone che va conferita la palma della sapienza e, tra i cristiani, ad Agostino il merito di aver saputo unire l’una con l’altra. Nelle sue opere il francescano sottolinea sempre che, mentre la filosofia è un punto di partenza importante, essa è pur sempre un incipit, una scienza che apre ad altre scienze e, soprattutto, alla sapienza, e chi si arresta al primo grado è condannato a restare nelle tenebre. Il Cristo, la fede nel Cristo che unisce l’umanità alla divinità, è il principio e la fine del percorso. Quando Bonaventura parla di una reductio delle arti alla teologia vuole appunto indicare non l’inutilità delle arti quanto piuttosto la loro riunificazione in un complessivo quadro d’insieme che dà luce a tutti i particolari in un progressivo innalzamento verso il principio primo.
La triplice graduazione del sistema delle arti in arti «naturali» (metafisica, matematica, fisica), «razionali» (grammatica, logica, retorica) e «morali» (monastica, economica, politica) riflette la distinzione di «cose», «segni» e «azioni», e il ritmo triadico si ripete nella capacità di Adamo che, prima del peccato, era in grado di leggere direttamente nel libro della natura; poi, dopo la sua estromissione dal paradiso terrestre, l’umanità ha avuto bisogno della Scrittura per ritrovare quella traccia di Dio che soggiace alla realtà sensibile. Ed è la scoperta di questa traccia che avvia l’uomo, durante il suo viaggio terreno, all’accesso alla sua vera patria e al libro della vera vita, quella eterna. Il mondo, infatti, altro non è che un libro dal quale traspare la Trinità divina che l’ha creato donandogli l’essere e che possiamo ritrovare fuori di noi, come un’orma che si manifesta in quanto è e deriva il suo essere dall’Essere in sé; in noi, come immagine di un ente dotato di ragione (memoria, intelligenza e volontà); al di sopra di noi, come somiglianza di Dio nella grazia delle virtù di fede, speranza e carità:
Vi è un triplice modo di esistenza delle cose: nella materia, nella conoscenza e nella scienza divina, secondo il quale fu detto: “sia fatto, fece e fu fatto” [Genesi 1, 3]; riflette anche la triplice sostanza in Cristo, che è la nostra scala, cioè la corporea, la spirituale e la divina. Secondo questo triplice sviluppo la nostra mente ha tre modi fondamentali di considerare. Il primo si riferisce alle cose corporee esteriori, per cui è chiamata animalità o sensibilità. Il secondo si riferisce all’interiorità, per cui è chiamata spirito. Il terzo si riferisce a ciò che sta al di sopra, per cui è chiamata mente. Attraverso tutto ciò essa deve disporsi all’ascesa verso Dio, per amarlo “con tutta la mente, con tutto il cuore e con tutta l’anima” [Marco 2, 30; cfr. Matteo 22, 37 e Luca 10, 27]. In ciò consistono il perfetto rispetto della legge e, nello stesso tempo, la sapienza cristiana. Ognuno dei modi ricordati si duplica, in quanto si considera Dio come “alpha e omega” [Apocalisse 1, 8], oppure in quanto in ciascuno di essi si vede Dio come per mezzo di uno specchio e come in uno specchio, oppure in quanto ciascuna di queste considerazioni è congiunta con quella a lei corrispondente ed è trattata nella sua purezza: perciò è necessario che le tre tappe principali diventino sei. In tal modo, come Dio portò a termine il macrocosmo in sei giorni e nel settimo si riposò, allo stesso modo il microcosmo è condotto ordinatamente alla quiete della contemplazione attraverso i sei successivi gradi dell’illuminazione. […] Ai sei gradi dell’ascesa a Dio corrispondono i sei gradi delle facoltà dell’anima che permettono di passare dalle cose inferiori alle più alte, da quelle esteriori alle più intime, da quelle temporali alle eterne: sensazione, immaginazione, ragione, intelletto, intelligenza e il culmine della mente o scintilla della sinderesi. Questi gradi sono in noi per natura, deformati per colpa, ristabiliti per grazia; devono essere purificati dalla giustizia, utilizzati dalla scienza, portati a perfezione dalla sapienza (Itinerario della mente verso Dio, cit., I, 3-6, pp. 91-93).
Una riflessione di Bonaventura relativa alla questione del ‘potere’, ovvero se, a chi e perché spetti occupare una posizione di dominio e soprattutto se l’esistenza di una tale posizione abbia una qualche legittimità, la troviamo nel suo commento alle Sententiae di Pietro Lombardo (II, d. 44, aa. 2 e 3), allo stesso punto in cui Tommaso d’Aquino aveva precisato la sua posizione circa il rapporto tra potere spirituale e potere temporale.
Il primo quesito riguarda l’origine del potere. Ci si chiede se esso provenga sempre da Dio (q. 1) e se esso riguardi l’umanità in quanto tale o se non sia piuttosto la conseguenza del peccato (q. 2). Quanto al primo punto, la risposta di Bonaventura è molto interessante perché non riguarda minimamente problemi di legittimità o di convivenza civile ma, seguendo la traccia delle lettere canoniche di san Pietro e di san Paolo, si preoccupa di chiarire perché il potere viene in essere: o per virtù, e allora è evidente l’ordinazione divina sia per la sua origine che per il suo mantenimento, o per astuzia o violenza. In questi ultimi due casi, con riferimento diretto ai testi biblici di Giobbe 34, 30 («Fa regnare un ipocrita per i peccati del popolo»), di Osea 13, 11 («Ti ho dato un re nella mia ira») e 8, 4: («Hanno creato dei re che io non ho designato e hanno scelto capi a mia insaputa»), la questione delle conseguenze, vale a dire il malgoverno e le ingiustizie patite dai soggetti, non pone in dubbio che comunque quel potere proviene sempre da Dio o per punire il popolo dei suoi peccati o per esaltarlo per la sopportazione dell’ingiustizia a cui è sottoposto: «Poiché in realtà non vi è mai qualcosa di così ingiusto da una parte cui non corrisponda un qualcosa di giusto dall’altra, quindi di nessun potere si può dire che non derivi da Dio» (II, d. 44, a. 2, q. 1, resp.); o come afferma Gregorio Magno nei Moralia in Iob, l, 26, c. 26: «il male consiste nella ribellione, non nell’ordine del potere; Dio ha dato il potere, la malvagità della nostra mente ha partorito la rivolta» (ad 3um). Quel che è certo è che se anche talora sembra esservi contraddizione tra l’ordinazione divina del potere e la giustizia con cui esso viene concretamente esercitato, ciò dipende dall’incapacità umana di comprendere i disegni di Dio. Riguardo al secondo quesito, su quale sia l’origine del potere di dominio, se conseguenza di uno stato di natura incorrotta o il contrario, Bonaventura, aderendo alle tesi agostiniane, sostiene che il dominio dell’uomo sull’uomo è conseguenza del peccato originale:
In una prima accezione [potere sulle ‘cose’ da utilizzare a piacimento], il potere di dominio è comune a ogni status, cioè a quello della natura originaria, della natura corrotta e della natura glorificata; e in maniera maggiore nella prima che nella seconda. In una seconda accezione [potere di comando sugli altri uomini], esso concerne sia lo stato originario che quello post-caduta […] e non permarrà nello stato glorificato. Infine, in terzo luogo [potere di coercizione della libertà e di imposizione della servitù], esso appartiene soltanto allo stato della vita terrena, è conseguenza della colpa del peccato e corrisponde alla giusta pena (II, d. 44, a. 2, q. 1, resp.).
Nel terzo articolo, il primo quesito riguarda un tema che, almeno in parte, tocca un argomento più generalmente politico rispetto ai precedenti, anche se l’impianto complessivo resta saldamente teologico, e cioè se un cristiano sia tenuto per qualche aspetto a ubbidire a un tiranno o, comunque, a un potere secolare. In realtà, proprio nel confronto con il commento di Tommaso d’Aquino a questo passo delle Sententiae si può misurare la distanza che separa i due maestri. Bonaventura fino adesso rivela quella simpatia verso l’agostinismo che non solo non verrà mai meno ma addirittura si accentuerà con il passare del tempo, e sarà sottolineata dalla sua assoluta indifferenza nei confronti delle conseguenze dell’antropologia aristotelica che potevano essere ricavate da una riflessione sulla scienza della politica.
Essendovi dunque tre tipi di servitù, l’una nasce e consegue all’altra. Infatti non ci sarebbe la servitù della pena se non vi fosse stata prima la servitù della colpa, e non ne conseguirebbe la servitù di condizione se le altre due non avessero avuto luogo. Quando qualcuno è rigenerato in Cristo ed è divenuto cristiano, è liberato dalla servitù del peccato, ma non in modo così radicale e definitivo che la possibilità, la facilità e la disposizione a peccare gli impediscano di ricadervi. Ed è per questo che Dio lo ha lasciato in una condizione che ha come conseguenza la servitù e la morte, ed è sempre per questo che anche i cristiani muoiono come tutti gli altri; per la disponibilità al male e alle tentazioni materiali, da cui nascono guerre e contrasti, anche i cristiani hanno bisogno di essere governati da un re come i pagani; e per questo non solo secondo un’istituzione umana, ma anche per dispensa divina tra i cristiani vi sono re e principi, signori e servi, soggetti al governo altrui. Per questo il Signore dice in Matteo 22, 21: “rendete a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio”, e l’Apostolo, nella prima lettera a Timoteo, all’ultimo capitolo, paragrafo 3, insegna la stessa cosa e condanna chi predica il contrario. Dice infatti: “Quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù, trattino con ogni rispetto i loro padroni, perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina. Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo, costui è accecato dall’orgoglio, non comprende nulla” ecc., e la stessa cosa prova in Rom 13, 1 e in molti altri luoghi. Si deve dunque concedere che i cristiani sono obbligati a obbedire ai signori temporali, tuttavia non in ogni cosa ma solo in ciò che non va contro Dio; e anche in questi ultimi casi, soltanto in quelle che secondo una retta consuetudine sono ragionevolmente consolidate, come tributi ecc. (II, d. 44, a. 3, q. 1 resp.).
Come si è visto, non è facile parlare della ‘politica’, o meglio di una sensibilità ‘civile’ in Bonaventura, stante la sua personalità, di uomo e di studioso, costantemente rivolta e alla risoluzione dei problemi del suo ordine e all’istituzione ecclesiastica intesa come un’organizzazione tendente a inglobare in sé la società tout court. Come è stato notato di recente:
Nella sua trattazione delle nove scienze filosofiche all’interno delle Collationes in Hexaëmeron del 1273, Bonaventura in un passaggio breve ma significativo introduceva la ‘politica’ con una serie di affermazioni abbastanza sorprendenti: tale scienza (che è la terza diramazione della filosofia morale, che a sua volta è la terza diramazione della luce della verità naturale) sarebbe infatti finalizzata alla realizzazione delle ‘giustizie morali’ (al plurale) e consisterebbe nella comprensione del retto dettame delle leggi politiche dal punto di vista non teologico o canonistico, ma filosofico; tuttavia tale scienza non sarebbe stata esaurientemente trattata da alcuno dei filosofi precedenti, e pertanto solo sintetizzando in maniera nuova gli apporti dell’eredità del passato si sarebbe potuto fondare filosoficamente la vita politica su quattro ‘funzioni’ progressivamente implicantisi, ossia il culto monoteistico, la derivazione delle leggi politiche (positive) dalla legge naturale, la delimitazione dell’esercizio del potere di governare e la misura dell’attuazione di quello di giudicare (Di Maio 2007, p. 307).
In effetti, è vero che le affermazioni di Bonaventura sono quanto meno sorprendenti, soprattutto per il periodo in cui sono formulate: la sua proposta ‘politica’ non tiene minimamente conto dell’introduzione della Politica aristotelica nel dibattito intellettuale, e la sua opposizione all’aristotelismo più radicale della facoltà delle Arti, sempre più decisa a partire dagli anni Sessanta, lo induce a riproporre una visione cristocentrica della società umana, sostanzialmente imperniata su Agostino. Non è un caso che la sua breve presentazione della politica come parte culminante della scienza morale inizi con il rito del culto senza una parola sulla costituzione della società, per procedere poi con brevi notazioni, quasi degli appunti privi di approfondimento, su elementi specifici, quali la distinzione tra legge eterna e legge naturale, la giustizia e la pena di morte o il problema della formazione del governo e degli organi giudicanti:
La seconda comprensione riguarda la forma del convivere, su cui risplende il principio: “Ciò che non vuoi sia fatto a te, tu non farlo agli altri”. Ciò è scritto nel cuore per mezzo della legge eterna. Da questa legge naturale emanano le leggi e i canoni, come bei germogli. Ma che? Tu non vuoi essere impiccato, e impicchi il ladro? Si deve rispondere che il ladro va impiccato, prima che la repubblica sia lesa. Giona contro se stesso sentenziò che fosse gettato in mare [Giona 1, 12].
La terza comprensione riguarda la norma del presiedere, cioè come il principe si debba comportare verso il popolo, e viceversa. E questo risulta dalla verità prima: il popolo deve essere presente a colui che punisce e che vendica; il principe non deve cercare la sua utilità, ma il bene della repubblica. Il Filosofo distingue il tiranno dal principe [Ethica, VIII, 10]: il tiranno cerca la propria utilità, come Erode che, temendo di esser privato del proprio regno, fece uccidere i bambini. […] finché i Romani elessero coloro che dovevano presiedere, elessero i più sapienti, e la repubblica fu allora governata bene. Ma dopo che passarono alla successione, tutto andò distrutto.
L’ultima comprensione riguarda il rigore del giudicare, in guisa che l’uomo sappia che cosa di qualunque cosa sia da giudicare; sia riguardo alle persone, alle cose, ai modi di agire. Ora, tutto questo emana dalla prima verità.
Ma in tutte queste attività la ragione ha peccato (Bonaventura da Bagnoregio, La sapienza cristiana, cit., pp. 104-105).
In definitiva, la scienza dei filosofi, che mira al «compimento dell’intelletto», è solo un momento di passaggio, con l’esercizio delle virtù, verso la vera sapienza: lo stesso Socrate si dedicò al loro insegnamento perché comprese che esso non si può raggiungere «se l’anima non è purificata» (Agostino, De civitate Dei, VIII, 3). In Cristo, alfa e omega di tutto il creato, è compreso, per Bonaventura, anche il mondo civile e politico dell’uomo.
Opera omnia edita studio et cura PP. Collegii a S. Bonaventura, 10 voll., Ad Claras Aquas (Firenze) 1882-1902.
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