Bonifacio IX
Perrino (Pietro) Tomacelli, di nobile famiglia napoletana, nacque verso l'anno 1350 a Napoli da Giacomo (ma il nome del padre è incerto) e da Gatrimola Filimarini. Sui suoi inizi non si conosce nulla di preciso: aveva frequentato, secondo le sue stesse parole, lo "Studium" di Napoli; che fosse canonico della cattedrale di Napoli è notizia dubbia. In ogni caso, fu dal suo predecessore e compatriota Urbano VI ben presto chiamato in Curia e creato nel 1381 cardinale diacono di S. Giorgio in Velabro, nel 1385 cardinale prete di S. Anastasia. Dopo un lungo conclave in Roma, il 2 novembre 1389 il cardinale napoletano, che si presentava ancora come personalità totalmente indefinita, venne eletto quale candidato di compromesso da tredici cardinali di obbedienza romana, e il 9 novembre fu incoronato.
B. era sotto ogni rispetto l'opposto del suo predecessore, il cui carattere collerico e teso tanto aveva nuociuto all'interesse della Chiesa come a quello particolare dei cardinali. Alieno da un governo troppo personale, egli non si comportò tuttavia mai da creatura del Collegio cardinalizio, che lasciò diminuire fino al numero eccezionalmente basso di dieci nomi. Affabile e accorto nelle relazioni sociali, disinvolto anche nei confronti del protocollo e dotato di naturale eloquenza, il papa - irreprensibile nella sua vita privata, solo mediocremente colto a quanto si diceva - era sempre infaticabilmente dedito ai suoi uffici.
La situazione, all'inizio del nuovo pontificato, appariva senza uscita. A partire dalla doppia elezione del 1378 il grande scisma occidentale spaccava la cristianità in due obbedienze: al pontefice avignonese Clemente VII aderivano Francia, Scozia, Aragona e Castiglia; a B. l'Impero insieme con Polonia, Ungheria, Scandinavia, Inghilterra, Portogallo e Italia. Le obbedienze non costituivano però blocchi territoriali compatti con confini definiti: nelle regioni occidentali dell'Impero poste sotto l'influenza francese vi erano vescovi che, in parte in contrasto con la loro città o con il loro Capitolo, si dichiaravano apertamente per Avignone, e proprio qui i due papi rivaleggiavano mediante profusione di favori. Il debole re tedesco Venceslao, che secondo la tradizione della casa di Lussemburgo era incline ai Valois e avversato quindi dai principi urbanisti, in quanto antifrancesi, pur rimanendo sottomesso a Roma, intratteneva contemporaneamente rapporti con Parigi ed Avignone. L'Inghilterra, essendo in quel momento in forte polemica contro il fiscalismo romano, era molto corteggiata da Clemente VII. Nell'Italia meridionale, nel perdurare della lotta per il trono di Napoli, una scelta fra le due obbedienze non era prevedibile: qui, come nella contesa Italia centrale, l'obbedienza variava talvolta da luogo a luogo, di anno in anno. La generale incertezza su chi fosse il vero papa tormentava le coscienze e giustificava, a volte in buona fede, a volte pretestuosamente, il cambio di obbedienza, che poteva divenire manovra politica, a meno che non sembrasse ancor più vantaggiosa la neutralità fra le due obbedienze (così ad esempio per l'Aragona, fino al 1387). Dove veniva a porsi una possibilità di opzione fra le obbedienze, l'arma dell'interdetto perdeva di efficacia. L'antipapa di Avignone per giunta aveva ancora il vantaggio dell'iniziativa, poiché il possesso dello Stato della Chiesa e della sede presso le tombe degli apostoli (che costituiva la più alta legittimazione dell'obbedienza romana) doveva da B. essere prima acquistato e poi difeso; in breve, Avignone poteva essere sempre all'offensiva, Roma doveva stare sempre sulla difensiva. Inoltre la spaccatura in due obbedienze costringeva i due papi a spartirsi non solo le coscienze, ma anche i tributi in denaro dei fedeli. Col suo comportamento incoerente Urbano VI aveva inoltre sciupato anche ogni credito politico; e per giunta egli non aveva lasciato al suo successore neppure strumenti intatti: la Cancelleria decimata, l'archivio disperso, le finanze esauste. Lo Stato della Chiesa, devastato dalla peste e dalle accanite lotte di fazione, era per larga parte sottratto alla diretta influenza del papa: il Lazio con i suoi porti era in mano all'obbedienza avignonese; a nord di Roma, i cosiddetti Bretoni, mercenari sotto il comando del guascone Bernardon de la Salle; a sud, Onorato Caetani, colui che aveva protetto l'elezione dell'antipapa Clemente VII; con Marino, l'obbedienza avignonese arrivava vicinissimo alla capitale, la quale, per di più, a causa delle continue agitazioni del Comune romano non offriva alla Curia alcuna sicurezza.
La situazione di B. nello Stato della Chiesa era tanto più precaria in quanto, proprio all'inizio del suo pontificato, il corso degli avvenimenti nell'Italia settentrionale come in quella meridionale portava nuovamente ad estesi conflitti. L'espandersi di Gian Galeazzo Visconti in Lombardia lo aveva già da tempo posto in contrasto con Firenze, e nell'aprile 1390 cominciò la guerra aperta. B. tentò subito una mediazione, tanto più che la crescente pressione del Visconti su Bologna e i suoi stretti legami con Perugia e Antonio da Montefeltro minacciavano di coinvolgere anche lo Stato della Chiesa, e i disordini in Alta Italia invogliavano all'intervento la scismatica Francia. Gian Galeazzo - che si prefiggeva la neutralità tra le due obbedienze e proibiva anche ai suoi sudditi ogni ufficiale presa di posizione per Roma o Avignone, ed era pertanto corteggiato da ambedue i papi - si avvicinò di necessità ad Avignone quando Clemente VII, il 10 febbraio 1391, annunciò l'imminente spedizione contro Roma - e con ciò la "via facti" del suo protettore Carlo VI di Francia. B. invitava pressantemente Venceslao a compiere la spedizione a Roma già promessa nel novembre 1390, dalla quale egli si riprometteva adesso aiuto diretto. Ma, analogamente a quella del re di Francia, la spedizione romana di Venceslao non ebbe luogo. Dopo la sconfitta il 25 luglio 1391, presso Alessandria, delle truppe francesi al comando del conte Giovanni d'Armagnac, assoldate da Firenze, anche nella guerra fra Firenze e il Visconti non si prevedeva più soluzione alcuna. B. approfittò di questa impasse per fare nuovamente opera di mediazione fra le parti - scongiurando in nome dell'"una et eadem mater Italia" - in modo da rendere superflui loro contatti con la Francia. Sotto la presidenza del legato pontificio Riccardo Caracciolo, Firenze e Pavia si accordarono infine nel gennaio 1392 a Genova sullo "status quo ante".
Se nell'Italia settentrionale si rendeva necessaria la mediazione fra le parti, altrettanto necessaria era (ma Urbano VI non lo aveva avvertito) una chiara decisione in favore di uno dei pretendenti nel conflitto per il trono di Napoli: e B. riconobbe subito Ladislao, il figlio minorenne di Carlo di Durazzo, e lo fece incoronare re di Napoli già il 29 maggio 1390, in Gaeta, dal cardinale Angelo Acciaiuoli. B. lasciò il cardinale nel consiglio di tutela, lo investì insieme con il proprio fratello Giovannello Tomacelli di pieni poteri, e appoggiò Ladislao anche direttamente, con truppe, sussidi e decreti di embargo, quando il pretendente avignonese, Luigi II d'Angiò, il 13 agosto 1390 sbarcò a Napoli e con rapido successo si impadronì di quasi tutto il Regno. Nello Stato della Chiesa B. si curò anzitutto di circondarsi di un apparato di sua fiducia: i Genovesi installati da Urbano VI furono subito, e se necessario con misure ultimative, sostituiti con Napoletani. Il vuoto di potere creatosi in Umbria con l'assassinio - nell'aprile 1390 - del clementista Rinaldo Orsini, fece per la prima volta guadagnare terreno al pontefice verso nord, e la capitolazione di Spoleto nell'aprile 1391 fu il suo primo successo duraturo. Ma l'anello stretto intorno alla capitale rimaneva. Mentre si assicurava le spalle nella Campagna Marittima mediante tregue annualmente rinnovate con Onorato Caetani, B. attendeva con energia, tanto più dopo la perdita di Viterbo (ottobre 1390), alla guerra contro i Bretoni e Giovanni Sciarra di Vico nel Patrimonio, unico interesse comune al papa e al Campidoglio. I sussidi che il pontefice accordò al Campidoglio col patto di reciproco aiuto del 5 marzo 1392 furono, un anno dopo l'altro, accollati al clero romano, e ciò costrinse i monasteri di Roma, già impoveriti, a impegnare e vendere beni fondiari in misura allarmante. Le regolari offensive primaverili fallivano intanto contro la resistenza di Bernardon de la Salle, a cui Avignone regolarmente trasmetteva sussidi, e contro l'abilità del legato avignonese Pileo da Prata. Pileo, che, come altri tre cardinali, era stato spinto ad abbandonare l'obbedienza romana dal cattivo carattere di Urbano VI, già nel febbraio 1391 ritornava però, per ultimo, a B.; ma il tentativo di riguadagnare con ciò anche Viterbo fallì. Solo nel maggio 1393 si riuscì a costringere alla pace almeno Giovanni di Vico. Pure nelle province più lontane B. non riuscì nel primo momento a imporre la sua autorità. L'inettitudine del fratello Andrea, al quale aveva affidato la Marca Anconetana, finì con l'indurre Comuni e signori, sotto la guida di Ancona e di Gentile da Varano, alla resistenza (il conflitto scoppiò nel corso del parlamento di Macerata, settembre 1392), che il papa riuscì a placare, nel maggio 1393, soltanto con ampie concessioni, e segnatamente con la generosa concessione di vicariati apostolici. La Romagna si controllava ormai a stento, lo stesso rettore pontificio Carlo Malatesta era un signore interessato; i signori della regione, tutti con il titolo di vicario apostolico, presero le loro decisioni, nello schierarsi con le varie potenze dell'Alta Italia, senza consultare il loro sovrano; su Bologna, che aveva avuto temporanei contatti con Clemente VII, B. poté guadagnare una modesta influenza solo a partire dalla normalizzazione dei rapporti nell'ottobre 1392. Lo stato d'inattività che aveva colpito dopo la pace di Genova le compagnie di ventura le spingeva a correre lo Stato della Chiesa e a molestare l'Umbria; in una di esse era Biordo Michelotti, capo dei popolari o "raspanti" sbanditi da Perugia. La tribolata Perugia richiese perciò a B. la sua presenza. Pur staccandosi malvolentieri dalla sua capitale (solo nell'estate 1390, a causa della pestilenza, B. l'aveva lasciata per recarsi a Rieti), il papa acconsentì ad andare, poiché le insopportabili ingerenze del Campidoglio - che lo avevano già indotto a minacciare un cambiamento di residenza - andavano sempre più riducendo la sua libertà di azione. Il 17 ottobre 1392 entrava in Perugia. Sebbene si avvalesse subito dei diritti riconosciutigli dal patto del 6 agosto 1392, egli ben presto perse visibilmente in autorità, non riuscendo, in occasione di nuovi disordini, a imporsi contro i nobili dominanti. Il pattuito rientro dei popolari banditi riuscì perciò soltanto grazie alla mediazione di Firenze nel maggio 1393. I popolari rientrati compivano già il 30 luglio con successo un colpo di mano; B. fuggì nello stesso giorno ad Assisi, lasciando il cardinale Pileo da Prata come vicario generale in Perugia, e dopo concessioni accordate dal Campidoglio il 14 settembre rientrava in Roma, che in seguito non avrebbe più lasciata.
La sua posizione non era certo migliorata. La situazione nello Stato della Chiesa viene ben caratterizzata in un "memorandum" redatto per Clemente VII da Niccolò Spinelli - "bestia nera" di Roma in quanto eminente diplomatico al servizio di un'alleanza fra Parigi, Avignone e Pavia - nell'estate 1392. Che la "via facti" avesse una certa prospettiva di successo, e, d'altra parte, la diffidenza di B. riguardo ai suoi sudditi non fosse isterica sospettosità di un papa scismatico, lo dimostrano fra l'altro i pagamenti di corriere registrati nell'Introitus et exitus avignonese: numerosi sudditi di B. erano in segreta corrispondenza con Avignone. L'alleanza progettata minacciava di realizzarsi, quando la crescente forza di attrazione della Lega di Bologna, promossa da Firenze nell'aprile 1392 contro Gian Galeazzo Visconti, indusse il Visconti a ricercare un accostamento alla Francia. I partecipanti alle trattative sondavano le possibilità per un progetto inconsueto: una spedizione francese doveva condurre a Roma Clemente VII, a prezzo di una secolarizzazione dello Stato della Chiesa, che un secondo "memorandum" di Niccolò giustificava rilevando l'incapacità del governo pontificio; Luigi duca d'Orléans, fratello di Carlo VI e genero di Gian Galeazzo Visconti, avrebbe ricevuto in feudo dal papa, col nome di "Regnum Adriae", la Romagna, la Marca Anconetana ed eventualmente il Ducato di Spoleto, così come una volta Carlo I d'Angiò aveva ricevuto il Regno di Sicilia. Clemente VII indugiò fino all'agosto 1394 per dare il suo assenso al "Regnum Adriae", già una volta progettato nel 1379; ma il 16 settembre successivo moriva.
Contro la speranza generale, la morte di Clemente VII non servì alla composizione dello scisma. Il successore Pedro de Luna, eletto - malgrado l'intervento francese in favore di un rinvio - già il 28 settembre 1394, col nome di Benedetto XIII, non riprese più il progetto di un "Regnum Adriae": questo progetto della "via facti" fu del tutto accantonato quando il primo sinodo nazionale francese nel febbraio 1395 si dichiarò per la "via cessionis". Era questo il primo passo su quella via verso l'unione che il "memorandum" dell'Università di Parigi del giugno 1394 aveva raccomandato al re di Francia: "via cessionis" (rinuncia dei due papi), "via compromissi" (arbitrato circa la loro legittimità), "via concilii generalis" (concilio generale). B., che a differenza di Benedetto XIII non era legato da alcun patto di elezione, condannò costantemente le tre "viae". Le sue offerte a Parigi nel 1391, 1392 e 1393 non produssero, malgrado ogni atteggiamento conciliante, concessioni di sorta e rimasero in definitiva, anche a causa della malattia di Carlo VI, senza risposta.
B., tenendo fermo senza compromessi alla propria esclusiva legittimità, proseguì pertanto la lotta inesorabilmente, sebbene la Camera apostolica riuscisse solo a fatica, e con misure straordinarie (imposte speciali, mutui, pegni, revoche di mandati di pagamento), a raccogliere i mezzi occorrenti. Una nuova offensiva contro i Bretoni fallì, e inoltre B. perdeva visibilmente terreno anche in Umbria, per la crescente influenza di Biordo Michelotti, il quale nel maggio 1394 prese Assisi, nell'agosto 1395 Todi, nel settembre Orvieto. Poiché Biordo si rifiutava di sgombrare Orvieto, anche la pace del 24 marzo 1396 fra B. da un lato e Biordo e Perugia dall'altro non portò ad un'intesa duratura. Nel giugno del 1396 B. costringeva finalmente Giovanni di Vico a sgombrare Viterbo. Giovanni intratteneva nel frattempo collegamenti con Onorato Caetani e Benedetto XIII, il quale, conformemente alla promessa fatta in occasione della sua elezione, nel 1396 prendeva contatti con B.: a differenza di quanto era accaduto in marzo al vescovo di Elne, nel luglio 1396 il vescovo di Tarascona, Fernando Perez de Calvillo - la cui legazione si incrociava con quella di Filippo Brancacci ad Avignone -, fu ricevuto da B. in Roma; ma non gli riuscì di convincere il papa romano a un incontro con quello avignonese. Come presumibilmente aveva fatto il vescovo di Elne con l'opposizione romana, così sicuramente il vescovo di Tarascona prese contatti con Giovanni di Vico: questi gli offrì in vendita il porto di Civitavecchia, ma ritirò ben presto la sua offerta, sebbene Avignone avesse già trasferito la somma, poiché l'offensiva autunnale contro i Bretoni portò finalmente al successo: la capitolazione di Montefiascone del novembre 1396 segna il tramonto della causa avignonese nello Stato della Chiesa; il 18 ottobre si addivenne alle prime trattative fra la Curia e i Bretoni circa una vendita delle loro ultime piazzeforti. I contatti furono mediati da Firenze, che in questo modo si assicurava Bernardon de la Selle (con licenza di Benedetto XIII) quale capitano generale per gli scontri nuovamente prevedibili con il Visconti.
Queste nuove tensioni avevano già indotto Firenze a ricercare contatti con Parigi: si addivenne, il 29 settembre 1396, a un'alleanza fra Firenze e la Francia. B. - spaventato per giunta dalla consegna di Genova al re di Francia (25 ottobre 1396) - fece proibire in duri termini ai suoi sudditi dal nunzio Baldassarre Cossa di aderirvi; e prese da allora a diffidare di Firenze - alla cui opera di mediazione nello Stato della Chiesa egli tuttavia non rinunziò mai - e si avvicinò decisamente al Visconti. Nell'estate 1397 B. iniziò la sua offensiva contro Biordo Michelotti, che dopo la sua rottura con il Visconti (aprile 1397, nella guerra di Mantova) era appoggiato da Firenze, la quale urtò con ciò ancora una volta involontariamente il papa. Ormai duramente incalzato dalle truppe pontificie condotte da Pandolfo Malatesta, Biordo fu assassinato il 10 marzo 1398, a Perugia, dal suo partigiano Francesco Guidalotti abate di S. Pietro. La connivenza del papa, asserita da Teodorico da Nyem e dalla cronachistica fiorentina (in questa circostanza partigiana), è molto inverosimile, sebbene l'attentato gli giungesse a proposito e sebbene egli si astenesse dallo sconfessare gli assassini. Le operazioni contro Perugia furono tanto più spedite, in quanto i Bretoni sotto Gastone de la Salle, fratello di Bernardon, in maggio sgombravano finalmente le ultime postazioni nel Patrimonio, a eccezione di Soriano. Il 28 giugno 1398 Perugia fu costretta alla pace. Proprio in quegli stessi giorni B. riuscì anche nel suo colpo più rischioso, che per i contemporanei costituì anche il maggior successo del suo pontificato: l'abbattimento del libero Comune di Roma.
Il Comune romano - dal tempo di Cola di Rienzo libero dall'ingerenza diretta della nobiltà e tentato, dal tempo dell'esilio avignonese dei papi, a usurpare nuovi diritti - anche nei confronti di B. tenne fermo, gelosamente e decisamente, alla propria autonomia comunale. Questa pretesa si incarnò nel modo più dichiarato nei due banderesi, capi della milizia ("felix societas balistariorum et pavesatorum Urbis"), che a partire dalla riforma promossa nel 1358 dall'Albornoz si erano affiancati ai tre conservatori ed erano andati progressivamente usurpando il potere esecutivo del Comune. Le continue vessazioni del Campidoglio nei riguardi di curiali, persino più volte nello spazio di una settimana, ponevano la città leonina quasi in stato di assedio permanente. Con la minaccia di cambiare residenza, B. impose infine, l'11 settembre 1391, una definizione delle competenze (amministrazione della giustizia, tasse) e fece inserire questo accordo, per così dire, come novella negli Statuti del 1363 (i quali non contemplavano i rapporti con la Curia che era allora ad Avignone). L'accordo dell'8 agosto 1393, il quale otteneva il ritorno di B. a Roma, concedeva inoltre al papa il diritto di nomina del senatore: ciò nondimeno, a differenza di Urbano VI ancora nel 1389, B. non fu in grado di far valere questo diritto. Le insopportabili tensioni perdurarono, tanto più che il Campidoglio cercava anche di estendere i suoi diritti di sovranità nel "districtus urbis" (per es. sale e focatico, grascia, nomina del podestà): Campidoglio e pontefice continuavano a rivaleggiare, così, anche per la Campagna (per es. Velletri e Rieti). La pericolosa vicinanza di Onorato Caetani e i continui disordini (inizio 1395, colpo di mano dei Colonna, tumulto in Trastevere) minacciavano giorno per giorno la residenza papale. A ciò si aggiungeva il pericolo proveniente dalle accese divisioni, poiché il Comune romano era scisso in due fazioni: i cosiddetti "popolari", sotto Pietro Mattuzzi, seguivano gli Orsini, i cosiddetti "nobili", sotto Pietro Sabba Giuliani, Pietro Cenci e Natolo di Buccio Natoli, nonché i Sanguigni e Buccabelli, seguivano i Colonna. I partiti, entrambi avversi al governo papale, si alternavano al potere con ritmo precipitoso. Pietro Mattuzzi riuscì finalmente a reggersi quale conservatore (ma in realtà "quasi signore di Roma", come dice il cronista Montemarte) per un intero anno: abbattuto nella tarda estate 1395 dai nobili, per abile intervento del papa fu solamente sbandito da Roma. Nel giugno 1398 avanzava con il condottiero Paolo Orsini da Firenze contro Roma; all'insorgere di agitazioni, alla fine di giugno, i partiti rassegnarono il "plenum dominium" nelle mani di Bonifacio IX. I nobili furono assolti il 4 luglio, i popolari il 1° agosto; fino all'arrivo del senatore Malatesta di Galeotto Malatesta, nominato l'11 luglio, resse il Campidoglio quale vicario generale "in temporalibus" il cardinale Pileo da Prata. I capi dei nobili tentarono subito di restaurare con la forza il reggimento dei banderesi, con l'aiuto di Onorato Caetani (blocco della foce del Tevere, assalto di Roma). Il colpo di mano fallì nello stesso mese di agosto, i capi della congiura furono giustiziati, un'amnistia generale fu concessa il 3 settembre, Pietro Mattuzzi fu esiliato a Rimini. B. riorganizzò subito il governo comunale: l'ufficio dei banderesi fu abolito, l'ufficio di senatore al contrario fu liberato, un tratto dopo l'altro, dalle limitazioni imposte dagli Statuti, tutti gli ufficiali del Comune furono nominati dal papa in lista unitaria, le spese straordinarie della "camera Urbis" necessitarono da allora della controfirma del camerario apostolico. B. iniziò solamente allora (e non già nel 1395) la ricostruzione di Castel S. Angelo e insieme la fortificazione del palazzo senatorio sul Campidoglio e la fortificazione del Palazzo Apostolico dopo la demolizione della "via francisca" per creare uno spalto. Egli dispose da allora anche dei diritti sovrani del Campidoglio nel distretto; per la migliore protezione di Roma, tolse subito Ostia al suo vescovo, Frascati al Capitolo Lateranense, Civita Castellana al Campidoglio. Il successo era definitivo: il colpo di mano di Niccolò Colonna e di Pietro Mattuzzi, il 14 gennaio 1400, si infranse contro il disinteresse della popolazione, e fino alla morte di B. scompaiono totalmente dalla lista delle cariche i nomi così spesso ricorrenti prima del 1398. Ciò che B. era riuscito a guadagnare nei confronti del Comune romano fu rilevato dai suoi successori: le sollevazioni rimarranno ormai allo stadio di episodi; con B. ebbe fine per sempre il libero Comune romano.
Il trionfo sul Campidoglio, l'allontanamento dei Bretoni dal Patrimonio e la fine di Biordo Michelotti: questi tre avvenimenti - in casuale contemporaneità, senza connessioni di causa - segnano la svolta decisiva del pontificato di B., a metà del 1398; la sua fortuna - divenuta proverbiale fra i contemporanei - ne aggiunse, nello stesso giro di giorni, un quarto: nel maggio 1398 si radunava il terzo sinodo nazionale francese che prese la decisione - pubblicata da Carlo VI il 27 luglio 1398 - di sottrarre l'obbedienza a Benedetto XIII. Questa sottrazione di obbedienza non era stata certo concepita in favore dell'obbedienza romana, e B. doveva ora tanto più aspettarsi di essere sospinto anch'egli sulla "via cessionis". Ma l'iniziativa della Francia rimase quasi totalmente priva di influenza nell'ambito dell'obbedienza romana, dove una sottrazione di obbedienza nei confronti di B. non era mai stata seriamente presa in considerazione: l'influsso francese sull'Inghilterra, per quanto riguardava la questione dello scisma, fu inoltre interrotto dalla caduta di Riccardo II nel settembre 1399, così come la crescente opposizione contro Venceslao (il quale, pur non staccandosi da Roma, aveva però perduto la fiducia del papa, a partire dal suo incontro con Carlo VI nel marzo 1398 a Reims) compromise l'influenza francese sulla Germania.
Insperati avvenimenti resero ancor più utile a B. l'unilaterale sottrazione di obbedienza, dato che, fuori del gioco della grande diplomazia, anche le attese dei credenti si accentravano totalmente su Roma: così per i Bianchi nel 1399, e così particolarmente per l'anno giubilare del 1400. Il movimento dei Bianchi (così chiamati dai bianchi mantelli a cappuccio), originato forse nella regione delle Alpi occidentali, si estese rapidamente nell'atmosfera scossa da sofferenze per la guerra, attese escatologiche e tormenti di coscienza per il perdurare dello scisma. Pacificando inimicizie, al grido di "pace e misericordia", innumerevoli processioni e pellegrinaggi propagavano il moto di città in città: attestata all'inizio di luglio in Genova, l'eccitazione religiosa serpeggiò giù per l'Italia, verso la meta di Roma, che fu raggiunta il 7 settembre 1399 (miracolo del sangue di Sutri, 6 settembre). B., che aveva perduto ogni controllo sull'ammassarsi della folla in Roma, e temeva di giorno in giorno un colpo di mano dell'opposizione, dopo un'iniziale partecipazione imposta dall'autorità morale dei Bianchi, fu ben contento di trovare il pretesto per reprimere il movimento, quando fu smascherato quale trucco un miracolo del sangue nei pressi di Orvieto. Mentre il moto dei Bianchi si limitò quasi esclusivamente all'Italia, l'anno giubilare 1400 interessò naturalmente tutta la cristianità, compresa l'obbedienza avignonese, tanto più che essa ignorava ovviamente lo spostamento al 1390 che era stato decretato da Urbano VI (con riduzione della periodicità da cinquanta a trentatré anni): l'inquieta coscienza determinata dalla situazione di scisma scorse appunto in un anno giubilare l'occasione di salvare quella salute dell'anima di cui nessun papa si prendeva cura; il divieto di Carlo VI perciò fu solo parzialmente osservato, e innumerevoli pellegrini affluirono a Roma da tutta l'Europa (e al loro seguito la peste, scoppiata già nell'anno precedente, raggiunse le sue punte più spaventose). Sebbene ancora il 15 marzo 1400 B. dichiarasse espressamente che non avrebbe promulgato il giubileo, tuttavia finì col concedere nuove indulgenze giubilari, ma solo in numero limitato e con clausole piene di cautele: e mentre veniva incontro, con misericordia, all'aspettativa generale, cedeva nel contempo alla tentazione di sfruttare l'anno 1400, non tanto (a differenza del 1390) dal punto di vista finanziario, ma soprattutto per rafforzare la propria autorità e le proprie rivendicazioni di contro ad Avignone: insomma, per "ingrassarsi col giubileo" sotto ogni riguardo, come lamentava l'ambasciatore di Aragona a Parigi.
Mentre la sua propaganda presso le regioni di recente neutralità e di obbedienza avignonese restava senza risultati (così per esempio l'ambasciata all'Aragona del giugno 1399), B. cercava ora tanto più decisamente di rafforzare il suo possesso dello Stato della Chiesa contro ogni pretesa: finalmente signore in Roma e nel Lazio settentrionale, il papa fece subito procedere contro l'ultimo e completamente isolato rappresentante della causa avignonese in Italia, Onorato Caetani, il quale, invece di compiere il cambiamento di obbedienza come aveva segretamente promesso il 27 febbraio 1397, aveva ancora una volta mostrato il suo vero volto in occasione del sollevamento di Roma. Truppe papali raggiungevano già nel giugno 1399 i confini del Regno di Napoli, dove Ladislao si era finalmente imposto contro Luigi II d'Angiò (l'entrata in Napoli avvenne il 10 luglio), per cui si poteva ora effettuare l'operazione a tenaglia da lungo tempo progettata. Onorato Caetani morì il 20 aprile 1400, e sua figlia Iacobella capitolò il 25 maggio a Fondi davanti a Ladislao; le province riconquistate furono pacificate con un trattamento clemente. Una campagna immediatamente successiva portò, il 17 gennaio 1401, alla sottomissione anche dei Colonna. Con ciò, per la prima volta dal 1378, l'intero Lazio era nuovamente in mano al papa romano. Cionondimeno, la giustificata speranza di potersi ora infine tanto più liberamente estendere a nord andò delusa: il governo di parte di Perugia, duramente premuto dagli banditi (fra cui Braccio da Montone) in intesa con B., dopo febbrili tentativi di dissuasione da parte della diplomazia fiorentina - che non era però in grado di garantire quell'aiuto contro il papa che costituiva l'unica richiesta di Perugia -, offrì, il 21 gennaio 1400, la signoria a Gian Galeazzo Visconti; Assisi fece lo stesso il 20 marzo. B., che respinse persino l'alleanza a tre con Napoli progettata in fretta da Firenze, non osò, nonostante tutta l'indignazione, riconquistare Perugia, e la discrezione del Visconti lo aiutò a salvare le apparenze. A Firenze non restava quale ultima speranza che Roberto del Palatinato, il quale il 20 agosto 1400 succedeva a Venceslao, deposto dagli elettori. Poiché l'opposizione aveva rimproverato a Venceslao soprattutto l'inerzia e la concessione del titolo ducale a Gian Galeazzo Visconti (che dal 1395 era dunque principe imperiale invece che vicario imperiale), il suo candidato Roberto doveva necessariamente dare prova di attività intervenendo immediatamente in Italia. Che B., ora come in seguito, tirasse per le lunghe la sua decisione sulla questione del re (il primo abbozzo di una bolla di approvazione non rivendicava ancora anche il diritto di approvazione sulla deposizione di Venceslao; finzione questa dell'ultima redazione del 1403: i principi elettori avrebbero compiuto la deposizione solo dopo aver richiesto l'assenso del papa) era comprensibile, poiché uno sbaglio avrebbe potuto risultare fatale per l'obbedienza romana: inoltre egli poteva puntare alto, dato che, molto meno di Venceslao, Roberto era incline ad intendersi con la Francia o addirittura con Avignone. Già l'insignificante sconfitta davanti a Brescia, il 21 ottobre 1401, interruppe l'avanzata di Roberto in Italia. L'insuccesso del re rese B. ancor più riservato: calcolando freddamente in puri termini di numero delle truppe, egli mise l'aiuto militare di Venezia e, possibilmente, di Napoli come condizione di una sua aperta presa di posizione contro il Visconti, che intendeva affrontare solo a Perugia con truppe papali, mentre Roberto non avrebbe potuto trattare con il Visconti senza l'autorizzazione della Curia: pretesa eccessiva, su cui fallirono le trattative, dato che B. fece discutere le sue richieste non una per una, ma esclusivamente in blocco. Roberto se ne tornò il 14 aprile 1402, deluso, in Germania: Gian Galeazzo Visconti aveva mano libera per avanzare verso sud.
Lo Stato della Chiesa venne ora coinvolto sempre più decisamente nella generale contesa, e B. dovette partecipare con pesanti imposizioni di tasse (che faceva riscuotere, ora, direttamente dai condottieri) alla gara di armamenti. La sanguinosa battaglia di Casalecchio, il 26 giugno 1402, cui parteciparono quasi tutte le potenze dell'Italia settentrionale, portò Firenze sull'orlo dell'abisso, diede Bologna papale in mano al Visconti e pose B. dinanzi alla necessità di una decisione. E tuttavia, malgrado il disperato premere di Firenze ("tua res agitur"), il papa non osò dichiararsi apertamente contro il Visconti; e continuò persino a corrispondere con lui, malgrado che questi nei giorni della battaglia di Casalecchio avesse tentato di far compiere in Roma un colpo di mano (probabilmente da parte di Giovanni Colonna) per distogliere l'attenzione del papa. Allora i Tomacelli riunitisi in Todi (sono documentati almeno cinque presenti) decisero dichiaratamente di esercitare immediate e ferme pressioni sulla politica pontificia che si trascinava impotente, e di mettere da parte il Collegio cardinalizio, simpatizzante in parte con Pavia (luglio 1402): da allora Andrea e soprattutto Giovannello Tomacelli presero un atteggiamento sempre più imperioso nelle loro province, sia nei riguardi dei loro sudditi sia nei confronti dello stesso papa. Gli indugi di B. non erano frutto di astuzia, ma di irrisolutezza; e non fu il suo merito a salvarlo, ma la sua fortuna: improvvisamente il 3 settembre 1402 moriva Gian Galeazzo Visconti. Il 19 ottobre 1402 B. concludeva con Firenze l'alleanza così a lungo richiestagli, sempre tuttavia a condizioni esose. Il 19 gennaio 1403 nominò il cardinale Baldassarre Cossa legato "a latere" con ampi poteri, al fine dichiarato di riconquistare Bologna. Dopo dispendiosi armamenti, il cui peso principale fu però riversato, con abile modifica del patto di alleanza, su Firenze, il Cossa diede inizio solo al principio di giugno alla spedizione. Questa condusse, in Romagna come in Umbria, a rapidi successi perché forti contrasti interni impedivano ai Visconti un intervento efficace. Contro ogni aspettativa e con grossolana violazione dell'obbligo di reciproca consultazione, B. stipulò nel frattempo - il 25 agosto 1403, con la duchessa vedova Caterina Visconti - una pace separata che ristabiliva sì l'integrità dello Stato della Chiesa, ma tradiva completamente l'alleata Firenze. Con questo atto sleale, fortemente biasimato dai contemporanei e a stento mascherato dalla Curia, B. cercava al tempo stesso di impedire il totale disfacimento dello Stato visconteo: evitare il crearsi di una situazione di caos in Lombardia gli stava tanto più a cuore, in quanto la Francia aveva, proprio il 28 maggio 1403, restituito l'obbedienza a Benedetto XIII, e inclinava perciò a un nuovo intervento nell'Italia settentrionale. Proprio la restituzione dell'obbedienza indusse finalmente B. ad approvare l'elezione di Roberto (il 10 luglio, in Concistoro, e poi con la bolla del 1° ottobre 1403), dato che ulteriori indugi avrebbero potuto spingere il re a fianco della Francia nella questione dello scisma. Baldassarre Cossa entrava il 3 settembre 1403 in Bologna (Perugia capitolò solo il 25 ottobre su istruzione di Milano); sotto l'agguerrita sorveglianza del Cossa il governo papale si consolidò anche nella Romagna: lo Stato della Chiesa era infine totalmente nelle mani di Bonifacio IX.
Nuove iniziative dell'antipapa creavano certo crescenti inquietudini in Italia: nel settembre 1404 Savona e il cardinale legato romano in Liguria, Lodovico Fieschi, passavano a Benedetto XIII. E per giunta dopo la morte di Filippo di Borgogna (27 aprile 1404) si temeva un prossimo intervento del duca di Orléans, a cui poteva servire da approdo Pisa, che il 15 aprile 1404, contro Firenze, si era affidata alla protezione del re di Francia. Così si sospettava anche del viaggio, di durata insolitamente lunga, di un'ambasceria di quattro membri capeggiata da Pierre Ravat, vescovo di St-Pons, che su incarico di Benedetto XIII entrava a Roma il 19 settembre 1404. B. respinse con irritazione le sue proposte (incontro dei papi, o almeno di loro plenipotenziari, in luogo neutrale, e assicurazione di non procedere a nuova elezione in caso di morte).
B. morì il 1° ottobre 1404 (la tomba, nella navata laterale nord di S. Pietro, fu demolita nel 1507: non proviene da essa la figura in trono marmorea nel chiostro di S. Paolo fuori le Mura). Il Comune romano si sollevò immediatamente, per rifarsi dell'umiliazione del 1398. Colonna e Orsini si scontrarono per le vie di Roma come non era più accaduto dai giorni di Cola di Rienzo. Solo l'intervento di Ladislao, comprato a caro prezzo dal nuovo papa Innocenzo VII, poté ristabilire a fatica la pace, il 27 ottobre. Contemporanei e posteri hanno ammirato in B., sempre ed esclusivamente, il principe secolare. Suo fine principale rimase riacquistare lo Stato della Chiesa: uomo, del resto, di indole pratica, egli comprendeva - a ragione, ma troppo unilateralmente - che il problema della Chiesa era insieme anche problema di rapporti di forze. Nella grande politica pertanto diresse sempre coerentemente i suoi sforzi al fine di impedire ad ogni costo un intervento della potenza scismatica predominante, la Francia, per proteggere così l'Italia e lo Stato della Chiesa. Quest'ultimo, entità sempre in preda a forze centrifughe, riunito ultimamente di nuovo insieme con la forza, a fatica, dall'Albornoz, presentava certamente grosse difficoltà nel suo governo. Lo scisma, inoltre, restringeva ancora di molto al sovrano, con i problemi ad esso propri, il margine d'azione fra un'opportuna cautela e la necessaria forza: poiché, dovunque la situazione lo permetteva, l'interdetto - certamente troppo spesso adoperato nel corso dello scisma - poteva spingere i sudditi dalla parte di Avignone (anche al di fuori del Lazio, dove Avignone interveniva direttamente, alcuni signori intrattenevano rapporti con Avignone: così per esempio Obizzo da Polenta a Ravenna, Sighinolfo Michelotti a Perugia, Gentile da Varano a Camerino) o di una potenza straniera in grado di stringere alleanza con la scismatica Francia. Così le fazioni opposte all'interno dei Comuni si orientavano verso le potenze dominanti, Firenze e Gian Galeazzo Visconti, che a loro volta s'orientavano, di tratto in tratto, verso la Francia. Ad un papa in situazione di scisma era necessario usare cautela, dare più che prendere: B. doveva fare larghe concessioni politiche persino ai Comuni sconfitti, poiché un'assoluzione non valeva nulla se non riconosceva per giunta l'avvenuta usurpazione di diritti; al tempo stesso B. sconfessava quasi sempre il partito degli sbanditi (che era perciò, il più delle volte, quello favorevole al papa). Solo in seguito ai tardi successi (specialmente a partire dal 1398) e per effetto di un indirizzo più deciso impresso dai suoi più stretti consiglieri - particolarmente dai suoi fratelli e da Baldassarre Cossa -, il governo di B. risultò almeno in parte più fermo. B. trattò abilmente, secondo le loro singole esigenze, le varie province dello Stato della Chiesa, totalmente diverse fra loro per struttura: così nella Campagna Marittima manovrò i contrasti interni della nobiltà baronale e rafforzò i Comuni appena sviluppati nella lotta contro la nobiltà, ad esempio mediante la conferma della prediletta costituzione Romana Mater di Bonifacio VIII. Nelle altre province la trasformazione in Signorie dei liberi Comuni costrinse la Chiesa a rivaleggiare, per il predominio nei Comuni stessi, con la nobiltà e con le fazioni; i fratelli del papa subentrarono direttamente nei diritti di signori decaduti o formarono nuove Signorie secondo il modello tradizionale, soprattutto nel Patrimonio e nel Ducato di Spoleto. Nella Marca di Ancona e in Romagna, ossia nelle province dove le Signorie erano saldamente affermate, B. cercò, mediante il conferimento del vicariato apostolico, di togliere ai vari signori la pericolosa inquietudine del "defectus tituli", che costituiva quasi la cattiva coscienza di ogni Signoria; ma, a differenza dell'Albornoz, abbondò molto nell'uso del titolo, conferendo o confermando almeno sessantatré vicariati apostolici, di cui ventotto nella sola Marca di Ancona. Gli innumerevoli vicariati apostolici, che significavano in fondo una sovranità solo nominale del papa sui "tiranni", tendevano a dissolvere alla lunga, in una accentuata debolezza di governo, lo Stato della Chiesa. L'abolizione, o la limitazione, richiesta perciò dal concilio di Costanza e iniziata da Martino V, sotto B. riuscì solo in un caso, grazie all'energica azione di Baldassarre Cossa (per Faenza, nel 1404). Un'amministrazione delle province secondo l'ideale delle costituzioni egidiane fu per lungo tempo del resto irrealizzabile: dato che non si riusciva neppure più a stipendiare gli ufficiali della "curia provincialis", nella Romagna e nella Campagna Marittima attività amministrative e giudiziarie restarono in pratica per periodi interi totalmente sospese. A maggior ragione B. dovette servirsi di uomini di sua fiducia: e questo significava servirsi di suoi parenti. I fratelli Giovannello e Andrea, muniti di poteri straordinari e appoggiati da numerosi napoletani, esercitarono specialmente fra il 1398 e il 1402 nelle loro province (rispettivamente Patrimonio e Ducato di Spoleto, e Marca di Ancona) un odioso governo personale: controllavano gli appelli alla Santa Sede, ignoravano i diritti comunali, soprattutto quello della elettività degli uffici, che il papa tentò finalmente di cassare del tutto. Marino Tomacelli per un certo periodo a Spoleto assommò nella sua persona la carica di vicerettore della provincia, podestà del Comune e comandante della cittadella.
Il senso politico suggerì più volte a B. anche misure che alcuni attribuiscono alla sua provvidenza per i poveri, per la scienza e per il commercio. Per quanto ben intonati alla sua natura cordiale e aperta, i casi in questione furono tuttavia dettati da necessità politiche: le generose forniture di grano avvennero in situazioni estremamente critiche (Roma, 1398; Bologna, 1404), le fondazioni di Università furono, almeno in Italia, concessioni politiche (Ferrara, 1391; Fermo, 1398), così come la dispensa dall'embargo di Levante per le città marinare (in particolare Ancona e Genova): misure, certo, abili e perciò poco ovvie, così come le agevolazioni fiscali e i decreti di amnistia, quali mezzi per arginare lo spaventoso calo di popolazione nello Stato della Chiesa.
Se i contemporanei ammiravano e temevano B. come principe temporale, altrettanto lo condannavano e disprezzavano come capo spirituale della Chiesa. Totalmente concentrato nel gioco politico e nel rigido consolidamento della sua obbedienza, poca disponibilità gli rimaneva per i suoi compiti spirituali: né certamente quello dello scisma era tempo propizio per rinunziare tranquillamente a diritti contestati e lavorare generosamente alla riforma della Chiesa. Così fu anche tralasciata, dopo i primi timidi avviamenti (per esempio la convocazione a questo scopo in Roma, nel 1390, di un Capitolo generale dei Cisterciensi), la riforma degli Ordini religiosi, sebbene B. promovesse moderatamente le iniziative di riforma provenienti dagli Ordini stessi (così per i Domenicani quella di Raimondo da Capua, per i Canonici Regolari di S. Agostino quella della Congregazione di Windes-heim, per i Minori osservanti quella di Paolo Trinci). Fu effetto esclusivamente dello scisma se B. distaccò i conventi dei Cisterciensi e Premostratensi che si trovavano nell'ambito della sua obbedienza dalla giurisdizione delle rispettive case madri, e inversamente favorì i Minoriti che, per la loro origine italiana, divenivano un importante strumento dell'obbedienza romana. Quanto al fatto, infine, che egli provvedesse per i monasteri di Roma con restauri (specialmente quelli per S. Paolo fuori le Mura, iniziati in occasione dell'afflusso di pellegrinaggi del 1400) e incorporazioni, questo era soltanto il minimo che si potesse fare, e ancora insufficiente rispetto ai rovinosi contributi che erano stati loro richiesti per la guerra contro i Bretoni. Le generali aspre critiche del tempo contro il suo pontificato si concentravano particolarmente sul centralismo e sul fiscalismo. Centralismo e fiscalismo si condizionavano e si promuovevano a vicenda in quell'aggrovigliato e sconcertante sistema di provvisioni e riserve, di revoche e clausole in concorrenza fra loro. B. rivendicava inesorabilmente, di contro al diritto di collazione degli ordinari locali, il diritto di provvisione papale. Ripetutamente egli rifiutò di riconoscere elezioni di vescovi e abati, per conferire poi tuttavia la provvisione all'eletto: una finzione che serviva a dimostrare la sua pretesa di principio, ed era insieme finanziariamente più lucrosa. Egli non alterò di per sé la riscossione dei "servizi comuni" (un terzo dell'entrata annua era la tassa per le prelature conferite in Concistoro, ossia vescovati e abbazie) e delle "annate" (la metà delle entrate del primo anno era la tassa per i benefici riservati non conferiti in Concistoro, cioè i minori, con più di ventiquattro fiorini di reddito annuo), ma la applicò con rigore molto maggiore: così, il 24 dicembre 1390, egli fece scomunicare trenta vescovi e sessantacinque abati a causa di servizi arretrati; e così non impose più le annate di caso in caso, ma in data della sua incoronazione le richiese da tutti i benefici. Sebbene servizi e annate si escludessero per definizione a vicenda, solo B. (come Teodorico da Nyem gli rimproverò a ragione) arrivò a riscuotere in alcuni casi ambedue le tasse. Il numero delle riserve crebbe notevolmente durante lo scisma, tanto più che ogni beneficio conferito dall'antipapa veniva considerato senz'altro come vacante e riservato: anche i proventi delle dipendenze dell'ospedale di S. Antonio di Vienne (con casa madre, dunque, nella scismatica Francia), per esempio, rimasero per principio riservati alla Camera apostolica.
Ma era l'abuso nel conferimento di prebende che, toccando i più, suscitava l'eco più violenta e più amara: così per l'inusitato cumulo di benefici, per l'eccesso delle aspettative (Venezia ne proibì perciò nel 1401 le domande), e specialmente per il numero e l'abuso delle clausole. Fra queste, le più ambite erano le clausole di preferenza ("clausula anteferri") e la retrodatazione ("data anterior": la prima possibile era la "data coronationis"); emesse con straordinaria frequenza e, dove fosse possibile, combinate vicendevolmente, esse venivano a creare un sistema di diritti fra di loro in concorrenza, generando con ciò una totale insicurezza giuridica, tanto più che alcune clausole erano conosciute solo nell'uso interno della Cancelleria: prima che un beneficio entrasse in vigore, il suo conferimento poteva - talvolta persino malgrado l'apposita clausola contro possibili revoche - già essere revocato mediante la clausola migliore di un altro concorrente o mediante il diritto preferenziale di un familiare pontificio. I processi che derivavano da questa prassi giungevano anch'essi, a loro volta, a proposito, sia al bisogno di autorità della Curia che al bisogno di denaro della Camera apostolica. Il fatto che le clausole costassero denaro alimentava l'accusa che in Curia tutto fosse venale, anzi che tutto fosse ottenibile solo con denaro, tanto più che, accanto all'introduzione di nuove tasse, si faceva usuale l'applicazione del tutto arbitraria delle tasse tradizionali: così la Curia, per il rilascio di una bolla che a Colonia costò infine nel 1394 solo 1.100 ducati, ne aveva richiesti originariamente 30.000. In queste condizioni naturalmente anche il personale della Curia non godeva fama di integrità, tanto più che il cumulo delle cariche si affermava sempre più, e B. introdusse infine la venalità degli uffici (per l'ufficio di scrittore in Cancelleria e Penitenzieria, circa dal 1400): e questo, pur mantenendo il giuramento antisimoniaco.
Accanto a queste entrate indirette, indubbiamente alte, in un sistema di tassazione che si moltiplicava in infinite direzioni, stavano le imposte levate direttamente: come imposizioni straordinarie, soprattutto le decime per la crociata (ora contro gli scismatici, per esempio i Bretoni) e gli innumerevoli "subsidia caritativa" imposti al clero che, contro l'antica consuetudine, non eccettuavano più neppure, talvolta, i Cavalieri di S. Giovanni e i Cavalieri teutonici. Per il fiscalismo di questo pontificato, era già evidentissimo ai contemporanei come B. intendesse utilizzare finanziariamente le indulgenze, e soprattutto l'indulgenza del giubileo. Quest'ultima, originariamente fissata per i pellegrini che visitassero le basiliche romane nel 1390, fu da B. in misura inconsueta concessa anche ad altre regioni (spesso certamente su iniziativa dei principi, tanto più che una metà dei proventi era lasciata al paese in questione per opere pie, mentre l'altra metà doveva essere trasferita a Roma a beneficio delle basiliche romane). Questa indulgenza, concessa alle condizioni di fare penitenza con animo contrito e di dare un'offerta in denaro corrispondente alle spese di viaggio risparmiate, doveva giovare (come già, in misura minore, nel giubileo del 1350) a tutti i fedeli che erano nell'impossibilità di intraprendere il viaggio a Roma. Nuovo era il fatto che un apposito collettore di indulgenze fissava l'importo da pagare, in misura delle possibilità: una prassi che, naturalmente, degenerava facilmente in indegni mercanteggiamenti. Nuova era anche l'enorme estensione dell'indulgenza: concessa nel 1390 come facoltà del nunzio nella Marca d'Ancona per singole persone, nel 1391 fu data a Milano e alla Sardegna, nel 1392 alla Baviera, e così via, fino almeno al 1398; poi, dopo il non promulgato giubileo del 1400, fu di nuovo concessa, ma in ambito molto più ristretto. La consegna delle somme ricavate fu poi in effetti in molti casi contrastata e impedita. Dai numerosi falsi predicatori di indulgenze, il papa pretendeva innanzitutto la resa dei conti. Le cifre date da Teodorico di Nyem sono indubbiamente esagerate, tanto più che i costi di trasferimento in Germania (dove mancavano le piazze di cambio dei banchieri italiani) erano molto alti. Accanto allo sfruttamento fiscale, suscitava anche scandalo particolarmente il fatto che quella concessa passasse come indulgenza "a pena et a culpa": dogmaticamente corretta, ma soggetta a malintesi, questa formula appare in suppliche e cronache, non però nelle bolle conservateci; B. appare nondimeno averla adoperata (almeno nell'approvazione di suppliche), poiché nel 1402 ritratta tutte le bolle di indulgenza "in quibus continetur 'a pena et a culpa' vel 'plena indulgentia' vel 'remissio omnium peccatorum'".
Questa grande costituzione del 22 dicembre 1402 sembrava introdurre infine, con la sua ritrattazione di tutte le pratiche incriminate del pontificato, un totale cambiamento di indirizzo. Oltre alle indulgenze plenarie essa revocava, sempre nonostante il carattere di "motu proprio" e clausole preventive contro eventuali revoche pontificie, anche, ad esempio, tutte le incorporazioni, le esenzioni dalla giurisdizione degli ordinari (per esempio, mediante i troppo numerosi cappellanati onorari), tutte le aspettative comprese le clausole di preferenza, il cumulo di benefici incompatibili e così via: tutti dovevano presentare domanda per il rinnovo delle concessioni papali, che in caso contrario sarebbero scadute nel termine dell'anno. Quest'obbligo generale di rinnovo e il fatto che le pratiche ritrattate venivano poi in parte ancora ammesse mostrano che la costituzione del 1402 è non tanto un atto di riforma quanto piuttosto una manovra di politica finanziaria di straordinaria portata.
Il fiscalismo di B., a ragione così fortemente avversato, può essere compreso solo se collocato sullo sfondo dello scisma. Lo sdoppiarsi delle obbedienze dimezzava le entrate, mentre moltiplicava contemporaneamente le spese di ciascuna delle due parti in lotta per lo Stato della Chiesa. Questa situazione costringeva ambedue i papi a escogitare inusitate compensazioni. Ciò valeva innanzitutto per la Camera apostolica romana, poiché allo scoppiare dello scisma al papa romano era toccata, sotto l'aspetto fiscale, la parte peggiore: questo perché, in primo luogo, nel 1378 tutto il personale altamente qualificato della Camera di Gregorio XI era passato ad Avignone (una perdita che la Camera apostolica romana sotto B. non era riuscita ancora a superare); e, in secondo luogo, perché l'obbedienza romana, a differenza di quella avignonese, era costituita da numerose regioni sparse in tutta Europa e in parte non ancora effettivamente penetrate dal fiscalismo papale. Questo ebbe per conseguenza che l'obbedienza romana, sebbene fosse la più estesa, raccoglieva meno della metà delle entrate fino ad allora percepite. Persino le entrate provenienti dallo Stato della Chiesa rimanevano quasi sempre al di sotto del preventivo: dai "census" dei vicariati apostolici, per esempio, non provenne mai più della metà, finché B. non li fece infine riscuotere direttamente dai condottieri, come avveniva anche per la "tallia": in caso di necessità, con l'impiego di brutali rappresaglie. Sempre sull'orlo della rovina finanziaria, la tensione di questa situazione lo costrinse anche a una continua ricerca di crediti: in alcuni periodi furono impegnati gli stessi gioielli pontifici, la mitra papale, persino la rendita delle vigne poste sotto le finestre dei suoi appartamenti, e soprattutto Comuni dello Stato della Chiesa, come Castrocaro, Bertinoro, Terni, Terracina, Civita Castellana. Questo bisogno di credito e la necessità di trasferire a Roma, attraverso grandi distanze, somme di denaro da regioni sparse e molto lontane, costringevano il papa a richiedere i buoni servigi delle compagnie bancarie italiane. Era pur sempre un vantaggio dell'obbedienza romana l'avere a disposizione i fidati banchieri italiani, con la loro rete di corrispondenti esteri. B. si serviva soprattutto dei Fiorentini (specialmente di Giovanni di Bicci dei Medici, di Doffo degli Spini, degli Alberti) e dei Lucchesi (specialmente di Lando Moriconi, che quale depositario generale riuscì ad eliminare i suoi avversari politici, i Guinigi, i quali avevano avuto la preminenza sotto Urbano VI). Caratteristica per la totale dipendenza di B. dai suoi banchieri è la funzione (nuova in questa forma) del "depositarius": la Camera apostolica incaricava un banchiere del trasferimento di tutte le somme da riscuotere dai collettori, e si faceva in cambio anticipare da questo banchiere la somma che attendeva; in breve, la Camera apostolica dava un monopolio di trasferimento e riceveva in cambio un credito permanente, quasi inesauribile.
Sebbene la Camera apostolica di obbedienza romana si trovasse spesso costretta ad allontanarsi dalle sperimentate pratiche del fiscalismo papale perfezionate nel corso del sec. XIV (così nei riguardi dei banchieri, così nei riguardi dei collettori), essa tuttavia riuscì a procurare i mezzi finanziari necessari per le imprese di Bonifacio IX. Tale dato di fatto è di importanza decisiva per la retta interpretazione delle fonti archivistiche di questo pontificato: la corrispondenza del camerario (tranne i Diversa cameralia, 1389-91) e tutto l'Introitus et exitus sono andati perduti (e con ciò le normali disposizioni della Camera apostolica, la serie quotidiana di entrate e uscite), mentre sono conservati, nei Registra Vaticana, i mandati (di carattere piuttosto straordinario) del papa. In breve, la tradizione frammentaria delle fonti ci informa più su singole iniziative che sulla routine, e sposta dunque le proporzioni nel senso che viene a drammatizzare ulteriormente la situazione finanziaria - certamente cattiva - di questo pontificato. Il fatto che alcuni centri del mercato internazionale di capitali si trovassero nell'ambito di influenza dell'obbedienza avignonese (Bruges, Barcellona, infine Genova) non impediva il trasferimento di denaro romano (e inversamente, il trasferimento di denaro avignonese nel Lazio, attraverso Firenze). Era perciò nell'interesse di entrambi i papi che i mercanti di ambedue le obbedienze continuassero a collaborare (se necessario, con dispensa papale: così per i mercanti inglesi e tedeschi nell'avignonese Bruges). Lo scisma non aveva diviso l'economia europea: dal punto di vista dello scisma le lettere circolanti fra le piazze di cambio erano neutrali, i fiorini non professavano obbedienza alcuna.
Accanto al fiscalismo era soprattutto il nepotismo di B. che provocava le critiche dei suoi contemporanei. Egli stesso prima della sua elezione fu indubbiamente appoggiato in Curia da congiunti influenti (oltre al papa Urbano VI, con cui B. era imparentato attraverso la famiglia Brancaccio, almeno due cardinali - Rinaldo Brancaccio e Francesco Carbone - erano suoi parenti); quale pontefice poi, il Tomacelli provvide in maniera molto scandalosa a favorire il suo innumerevole parentado. Lui vivente, sono documentati nominativamente circa cinquanta Tomacelli, senza contare i Brancaccio, Filimarini, Capece, Carbone, tutti imparentati ai Tomacelli e ora parimenti avviati a Roma o comunque nello Stato della Chiesa per rendersi presenti al senso familiare del papa. Fra loro, i laici ricevevano alti posti amministrativi, i chierici i migliori benefici. Dispense concesse senza scrupoli sbarazzavano la strada alla generosità di B., qualora vi si frapponessero ostacoli: Aloisio, figlio illegittimo di suo fratello Giovannello, all'età di sei anni divenne preposito a Magonza, priore di S. Sisto a Viterbo e priore di S. Firmo de Leonico presso Vicenza; Giacomo, figlio illegittimo del fratello Andrea, a sette anni riceveva prebende dell'Ordine dei Cavalieri di S. Giovanni; un altro Giacomo Tomacelli a quattordici anni divenne canonico di Ravenna e Osnabrück, e arcidiacono di Friesland, e a sedici anni, sebbene in possesso dei soli ordini minori, persino canonico di S. Pietro a Roma; nell'agosto 1397 nello spazio di una sola settimana tre Tomacelli in minore età ottenevano non meno di dieci diverse prebende. Più di tutti però il papa innalzò i suoi fratelli Giovannello e Andrea: sebbene a mala pena giungessero all'altezza del loro compito, essi governarono in qualità di potenti rettori le province chiave dello Stato della Chiesa (come si è già detto sopra), sostenuti da altri Tomacelli, specialmente i fratelli Marino, Roberto detto Tartaro, Enrico e Figliolo, forse cugini di Bonifacio IX. Mentre innumerevoli Napoletani affluivano nello Stato della Chiesa, i Tomacelli tendevano a formare quasi dei centri di gravità: essi si insediarono dapprima a Narni, dove ricoprirono cariche cinque Tomacelli uno dopo l'altro, poi in Todi e Spoleto, e, naturalmente, sempre in Roma. Quivi risiedeva, nell'ospedale di S. Spirito in Sassia, anche la madre del papa, Gatrimola Filimarini (il padre, a quanto sembra un certo Giacomo Tomacelli, era evidentemente morto da tempo); estremamente influente e perciò costantemente corteggiata da diplomatici stranieri, ella riceveva, come tutti i parenti, alte provvisioni di denaro, come si può in più casi documentare, malgrado la perdita dei registri di conti; tali assegnazioni di denaro ai parenti provenivano però presumibilmente soprattutto dalla cassa personale del papa (alimentata per esempio da spoglie, rendite di benefici scismatici, e persino censi di vicariati, servizi comuni e annate), che sfugge a ogni conoscenza più precisa. Preoccupato di assicurare la durata della fortuna della sua famiglia, B. cominciò persino a edificare sistematicamente intorno a Montecassino una salda Signoria dei Tomacelli: nel 1396 nominò abate di Montecassino Enrico Tomacelli, il quale da allora favorì con investiture, pegni e vendite dei beni dell'abbazia esclusivamente i Tomacelli. Tale nucleo si venne in seguito ampliando, conseguentemente, pezzo su pezzo, soprattutto dopo la sconfitta di Onorato Caetani: non più tardi del 1398 B. fece investire da parte di Ladislao Giovannello (al tempo stesso cancelliere del Regno) e Andrea di Arce, e nel 1399 Giovannello della Contea di Sora; B. aggiunse poi nello stesso anno Pontecorvo e Ceprano. La sua morte pose fine alla fortuna della sua famiglia: la maggior parte dei Tomacelli furono, ove necessario con la forza, allontanati da uffici e possedimenti. Andrea difese lungamente Narni contro le truppe di Innocenzo VII, finché fu ricattato mediante l'arresto dei suoi figli. Come la madre, così, Giovannello ed Enrico Tomacelli furono nel 1409 prigionieri di Ladislao. A Spoleto i Tomacelli si ressero fino a Martino V, mentre da Montecassino (ove divenne abate Pirro Tomacelli, nipote di Enrico) furono allontanati con la forza solo da Eugenio IV. Il giudizio sul pontificato di B. rimane, come già per i contemporanei, discorde. La sua natura lo portava ad essere sovrano temporale, ed egli non ha sostenuto il duplice ruolo che era affidato ai papi. Ma chi loda i suoi successi come sovrano e condanna le sue pratiche in quanto papa non dovrebbe dimenticare che gli uni condizionavano necessariamente le altre. Rigido solo sulla questione dello scisma, egli seppe molto bene distinguere in politica il possibile dall'impossibile, poiché tutta la sua azione aveva solo una misura: il successo. Era un uomo senza concezioni ardite, ma con una sua interna coerenza. Gli innumerevoli contraccolpi non lo scoraggiavano mai, perché non si rassegnava a riconoscere le sue sconfitte. Privo di scrupoli ma senza perfidia, sempre conciliante là dove fosse riuscito ad imporsi, era instancabilmente dedito al suo ufficio - così come egli lo concepiva. Calcolando senza sentimentalismi le esigenze del momento sempre in termini di numero delle truppe, B. era tenace fino all'ostinazione quando si credeva immediatamente davanti al successo, ma temporeggiatore all'estremo dove vedesse ancora un rischio. Il suo temporeggiare non era sempre effetto di saggia riflessione, ma anche di angosciosa indecisione, e spesso lo salvava solo la sua proverbiale fortuna: i nemici più pericolosi (Rinaldo Orsini, Biordo Michelotti, Gian Galeazzo Visconti) morivano al momento dello scontro decisivo. Suo merito rimane l'aver retto lo Stato della Chiesa attraverso le vicende dello scisma: certo, con mezzi pericolosi, e in ultima analisi senza curarsi dell'indomani - ma in quello stato di cose non avrebbe potuto agire altrimenti. Morì quando era al culmine del suo successo. Peggiore finisce col risultare la sua immagine quale capo della Chiesa. Nella questione dell'unione egli fu del tutto incapace: non poteva neppure capire perché le menti migliori del suo tempo avessero ideato le tre "vie", là dove la via non poteva essere che una, che ne escludeva qualsiasi altra: l'unità della Chiesa sotto il suo nome. Se anche la sua obbedienza poté ancora seguirlo su questa via, le pratiche indegne di un troppo rigido fiscalismo discreditavano la Curia romana, specialmente in Germania, e fecero del pontificato di B. il simbolo stesso della Chiesa bisognosa di riforma.
fonti e bibliografia
Per l'elenco delle fonti archivistiche del pontificato, cfr. Repertorium germanicum, II, a cura di G. Tellenbach, Berlin 1933, pp. 5-22.
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