Brexit: la storia di un lungo addio
Nei confronti dell’Europa, la Gran Bretagna ha sempre nutrito un sentimento ambivalente, diviso tra vantaggi del mercato unico e orgoglio insulare. Un dilemma che il referendum ha risolto solo in parte, aprendo una fase di grande incertezza.
La Gran Bretagna e l’Europa: un rapporto complesso fin dalle origini e un dilemma per ogni primo ministro. Tony Blair lo descriveva così: «La scelta è una sola: cooperare in Europa ed essere accusati di tradire la Gran Bretagna, oppure essere irragionevoli in Europa, essere lodati al ritorno a casa e non avere alcuna influenza in Europa. L’opzione di fatto è tra isolamento e tradimento».
L’altra faccia del ‘dilemma anglais’ è la percezione della diversità britannica sul continente. La denunciava De Gaulle e la ricordano oggi i politici continentali: l’insularità geografica e storica della Gran Bretagna, il suo mercantilismo, la percezione di sé ispirata all’«eccezionalismo anglosassone» e la resistenza alla cessione della sovranità nazionale pongono da sempre questo paese in linea di collisione, o quantomeno ai margini dell’integrazione europea.
Solo negli anni Sessanta inizia l’avvicinamento di Londra alla Comunità. Era stato necessario superare i complessi della sconfitta, che giocavano a favore dell’integrazione franco-tedesca, sul continente e quelli della vittoria, che remavano contro il progetto europeo in Gran Bretagna.
Rincorrendo il successo economico continentale, il governo conservatore di Harold Macmillan attivò la richiesta di membership, mentre l’opposizione laburista reagiva con forza prevedendo, nelle parole di Hugh Gaitskell, «la fine di mille anni di storia nazionale».
Fu De Gaulle, invece, a frenare la Gran Bretagna per un decennio con il veto ripetuto 2 volte. Solo dopo la sua uscita di scena il governo di Edward Heath conduceva la Gran Bretagna nella CEE accettando pienamente l’acquis communautaire.
Era un prezzo molto alto da pagare per un paese da sempre disinteressato, o in conflitto, con gli obiettivi e le politiche dell’Europa dei Sei. Ma il primo allargamento non fu solo una scelta di necessità. Si fondava su un nuovo progetto di rilancio dell’integrazione europea e fu condiviso da Francia, Gran Bretagna e Germania. L’attrazione di questo progetto per Londra era da ricercare nella crescita della componente intergovernativa del processo decisionale e nel rafforzamento delle relazioni esterne della Comunità, soprattutto nei rapporti transatlantici, con il Sud del mondo e con l’Europa orientale.
In politica interna, l’adesione del 1973 alimentò l’opposizione antieuropeista e la crescita del movimento degli ‘anti marketeers’ che accusavano il primo ministro Edward Heath di aver condannato il paese alla subalternità politica e legislativa nei confronti della CEE.
Le elezioni del 1974 punirono i conservatori, riportando al potere i laburisti pronti a rinegoziare l’adesione alla CEE e a indire il referendum popolare. Il primo ministro Harold Wilson – come Cameron nel 2016 – si trovò alla guida di un governo profondamente diviso sulla scelta europea e con ministri antieuropeisti, quali Michael Foot e Tony Benn, impegnati apertamente nella campagna referendaria. I conservatori si schierarono invece, prevalentemente, a favore della membership europea.
Il risultato del primo referendum europeo del 1975 – deciso con una maggioranza del 67% dei sì – vendicava Heath ma non poneva fine alle divisioni del mondo politico sui termini della presenza britannica nella Comunità.
Solo 4 anni prima di guidare il governo britannico, in occasione del referendum, Margaret Thatcher si schierò a favore della scelta europea con la maggioranza dei conservatori. Dopo 10 anni, nel 1986, coerente con il suo credo liberista, Thatcher si impegnò per l’Atto unico.
L’apparente inversione di rotta giunse con il discorso di Bruges del settembre 1988 che divenne il manifesto dell’euroscetticismo contemporaneo. Thatcher dichiarò: «L’Europa non è la creazione dei trattati di Roma», rifiutando l’identificazione tra identità europea e Comunità e guardando al superamento della Cortina di ferro.
Le sue parole ispirarono il Gruppo di Bruges, costituito nel febbraio 1989, e una nuova generazione di politici conservatori, dichiaratamente euroscettici.
Ma anche Thatcher e i suoi seguaci non miravano all’uscita della Gran Bretagna dall’Europa. L’obiettivo era contenere il potere delle istituzioni europee e i progetti di unione politica, economica e monetaria. L’aperto euroscetticismo pose Thatcher in linea di collisione con il proprio governo e fu determinante nel portare alla fine della sua carriera politica nel novembre del 1990. John Major, una scelta di mediazione e di conciliazione all’interno del sempre più diviso partito conservatore, fu protagonista del percorso negoziale in salita verso Maastricht. La conclusione del negoziato garantì a Londra l’opt-out – vale a dire l’esenzione – dal progetto di Unione economica e monetaria e dalla Carta sociale europea e, soprattutto, la convinzione del mondo politico britannico che membership dell’unione e opting-out fossero perfettamente compatibili.
La grande svolta nei ruoli dei 2 principali partiti britannici rispetto all’integrazione europea avvenne nella prima metà degli anni Novanta con la conversione proeuropea del partito laburista di Neil Kinnock, John Smith e infine Tony Blair. Il manifesto laburista del 1997 prevedeva un referendum sulla partecipazione di Londra alla moneta unica e l’assunzione di un ruolo attivo nel dibattito sulla riforma dell’Unione Europea. Per 3 anni, dopo il trionfo elettorale del 1997, Tony Blair fu un convincente ‘mister Europe’ pronto a firmare la Carta sociale europea e ad assumere un ruolo propositivo nella stesura dell’agenda di Lisbona.
Nei primi anni Novanta uno studioso della London school of economics (LSE), Alan Sked, lanciava il primo partito britannico euroscettico, l’Anti-federalist league, poi UK independence party, la cui popolarità sarebbe cresciuta esponenzialmente negli anni Duemila dopo l’elezione alla leadership di Nigel Farage. La complessità legislativa e politica del progetto costituzionale europeo e dei trattati di Amsterdam e Lisbona alimentarono il dissenso anche tra i conservatori euroscettici, così come anche l’ipotesi di lasciare la UE.
Nel 2014, quasi 10 anni dopo l’osservazione di Blair sul dilemma europeo, il conservatore David Cameron annunciava il suo progetto di rinegoziato e referendum popolare sul rapporto con l’Europa.
Si trattava di una svolta rispetto alla politica precedente di opting-out. Il governo di Cameron mirava alla fine del progetto di ever closer Union, alla revisione delle regole sull’immigrazione e al contenimento del potere legislativo e della Corte europea. Il dilemma di Blair tra «isolamento e tradimento» era diventato per Cameron – e presto lo sarebbe stato per tutti i cittadini britannici – una scelta tra repatriare le competenze già devolute all’Unione o avviare la secessione.
Il 23 giugno del 2016 il referendum sul dilemma ‘dentro o fuori dall’UE’ ha premiato il Leave con il 51,9% del voto rispetto al 48,1% in favore del Remain. All’interno del Regno Unito, in Inghilterra e in Galles la maggioranza ha favorito il Leave mentre in Scozia e Irlanda del Nord ha prevalso il Remain.
Ci possiamo domandare se il referendum popolare abbia sciolto una volta per tutte il ‘dilemma anglais’ sull’Europa. In realtà la percentuale del voto è stata decisiva ma relativamente bassa, e marcate le differenze regionali, culturali e sociali della base elettorale a favore o contro l’appartenenza europea.
Inoltre il voto per la Brexit si è intrecciato al dissenso dei left-behind, e cioè di coloro che si sentono lasciati indietro dalla globalizzazione e dalla crescita delle ineguaglianze sociali. Questo antieuropeismo ha forti affinità con altri movimenti contemporanei di dissenso di massa e ben poche con la visione degli ‘anti marketeers’ o degli euroscettici thatcheriani.
Il governo di Theresa May, che ha assunto la leadership del partito conservatore e del paese dopo le dimissioni di Cameron in seguito al referendum del giugno 2016, dovrà invocare l’articolo 50 del trattato di Lisbona che prevede l’ipotesi di uscita dall’Unione Europea nel corso di 2 anni di negoziato. May ha nominato 3 ‘Brexiteers’: David Davis, fautore dichiarato del Leave, che dirige un nuovo dipartimento governativo; Liam Fox, precedentemente segretario alla Difesa e adesso International trade secretary; Boris Johnson, già sindaco di Londra, dichiarato euroscettico e ora ministro degli Esteri. A ottobre, May ha annunciato che intende avviare le formali procedure negoziali per la Brexit entro marzo 2017, ponendo al centro del dibattitto politico britannico (e non solo) un nuovo dilemma: hard o soft Brexit? All’ipotesi di un’uscita hard del Regno Unito dall’UE – con posizioni cioè rigide su temi delicati quali i movimenti delle persone, l’immigrazione e il commercio – il presidente francese Hollande ha risposto dicendosi pronto a un negoziato duro. In realtà, come sa bene anche Michel Barnier – il nuovo negoziatore in capo della Commissione europea per l’uscita del Regno Unito – non è possibile al momento fare ipotesi dettagliate riguardo ai termini della Brexit perchè le gradazioni di soft e hard sono troppe e non tutte prevedibili.
Gli stessi partner europei hanno voluto evitare i sondaggi informali prima del negoziato mantenendo la posizione no negotiations without notification. Emerge così tutta la complessità di un negoziato annunciato nei tempi, dettato da un ulteriore dilemma ma fondamentalmente diretto a ‘smontare’ uno per uno i legami costruiti in 43 anni di membership di Londra in Europa. Alla demolizione seguirà la ricostruzione di nuovi accordi a molteplici livelli, compresi quelli sulla circolazione delle persone e commerciali, che passeranno al vaglio di una trentina di parlamenti europei e di numerosi referendum. Si apre dunque un periodo di incertezza su entrambe le sponde della Manica, durante il quale questo rapporto complesso, problematico ma anche costruttivo, continuerà – azzoppato – nell’attesa di essere interrotto e reinventato.
Theresa May non dovrà più tormentarsi per sciogliere il classico ‘dilemma anglais’, ma ha davanti a sé quello nuovo tra hard e soft Brexit, ed entrerà nei libri di storia come il PM protagonista della prima ‘de accession’ dall’UE di un paese membro.
51,9%
la percentuale dei voti per il Leave.
17.410.742
il numero dei voti per il Leave.
48,1%
la percentuale dei voti per il Remain.
16.141.241
il numero dei voti per il Remain.
Per saperne di più
- W. Kaiser, A never-ending story, 2002, in British journal of politics and international relations, 4, 2002, pp. 152-165.
- I. Poggiolini, Alle origini dell’Europa allargata. La Gran Bretagna e l’adesione alla CEE (1972-1973), 2004.
- Britain’s future in Europe. Reform, renegotiations, repatriation secession, a cura di M. Emerson, 2015.
Gli alfieri del ‘Leave’
Boris Johnson
Una decisione presa «non a cuor leggero»: con queste parole, il 21 febbraio del 2016, l’allora sindaco di Londra Boris Johnson – poi rimpiazzato dal laburista Sadiq Khan – rendeva nota la sua decisione di unirsi al fronte del Leave per l’uscita del Regno Unito dall’UE. «Un’occasione che capita una volta sola nella vita», scriveva Johnson in una lettera al Telegraph, ammonendo che una vittoria del Remain avrebbe rappresentato per Bruxelles «la luce verde per un maggiore federalismo e un’erosione della democrazia». In un partito diviso e con il primo ministro a favore del Remain, il sindaco di Londra è diventato rapidamente il volto più noto tra i sostenitori conservatori della Brexit, tanto che in molti lo vedevano come il naturale successore di Cameron a Downing Street dopo le sue dimissioni.
Johnson ha tuttavia preferito sfilarsi, entrando comunque a far parte del governo di Theresa May come ministro degli Esteri. A ottobre, è stato poi reso noto che Johnson aveva anche scritto un articolo – mai pubblicato – in cui sosteneva le ragioni del Remain: il ministro ha riconosciuto che, come molti elettori, ha avuto dei dubbi sul voto, ma ha precisato che quell’articolo fu redatto come ‘semi parodia’, volendo egli stesso provare ad argomentare una posizione alternativa a quella della Brexit.
Nigel Farage
Orgoglioso alfiere della battaglia anti UE è sempre stato Nigel Farage, il cui partito UKIP si è affermato come prima forza politica britannica nelle elezioni europee del 2014. Il suo grande obiettivo lo ha ricordato nel primo discorso al Parlamento UE dopo il voto sulla Brexit: «Non è divertente? 17 anni fa entrai qui e dissi che avrei voluto condurre una battaglia per portare fuori il Regno Unito dall’UE. Tutti voi rideste.
Adesso però non ridete più». Farage ha celebrato la vittoria come «la giornata dell’indipendenza del Regno Unito», il trionfo della gente comune che ha detto basta ai banchieri e alle multinazionali. Anche se – ha dovuto ammettere – la promessa del fronte del Leave di riservare per il sistema sanitario nazionale i 350 milioni di sterline settimanalmente destinati da Londra all’UE è stata un errore. Dunque, solo propaganda.
A obiettivo raggiunto, Farage ha annunciato di volersi «riprendere la propria vita» e rassegnato le sue dimissioni da leader dell’UKIP. Diane James – designata a succedergli nel mese di settembre – ha tuttavia rinunciato all’incarico dopo soli 18 giorni, a riprova di un partito comunque animato da tensioni. E allora, Farage è stato richiamato ad assumere temporaneamente la leadership.
Quelli del ‘Remain’. Un Regno molto meno Unito di Vincenzo Piglionica
Contrariamente alle previsioni della vigilia che davano l’opzione della permanenza in vantaggio – e con i mercati fiduciosi verso questa ipotesi –, alla fine il 51,9% degli elettori che si sono recati alle urne si è espresso per il Leave, restituendo ai britannici la tanto desiderata ‘piena sovranità’ e lasciando spazio ai molti interrogativi su un processo – quello dell’uscita di uno Stato dall’Unione – finora mai sperimentato.
Una nazione divisa
«A nation divided», hanno evidenziato gli analisti nei loro commenti. Dal punto di vista demografico, i giovani si sono espressi in modo nettamente favorevole al Remain, ma gli under 24 non sembrano aver riempito i seggi, a differenza delle fasce di età più alte che secondo le stime si sono espresse in modo più pronunciato
per la Brexit. La divisione pare marcata dal punto di vista sociale, con le classi medio-alte più propense a votare per la permanenza e la working class orientata a sostegno dell’uscita. Poi, c’è un’importante divisione geografica, perché a fronte di una chiara adesione dell’Inghilterra (53,4%) e del Galles (52,5%) all’opzione
dell’uscita, Scozia (62%), Irlanda del Nord (55,8%) e la capitale Londra (59,9%) hanno sostenuto la permanenza nell’UE.
Scozia e Irlanda del Nord
In un articolo pubblicato sull’Irish Times, il professor Peter Moloney ha cercato di spiegare le ragioni per cui, a nord del Vallo di Adriano e dall’altra parte del Canale di San Giorgio, gli elettori si sono pronunciati per il Remain, invertendo peraltro le tendenze del referendum del 1975 in cui proprio gli scozzesi e i nordirlandesi si erano dimostrati più tiepidi rispetto ai gallesi e agli inglesi sulla permanenza nella CEE. Secondo Moloney, le politiche regionali europee hanno apportato grandi benefici a Edimburgo e Belfast, pertanto Scozia e Irlanda del Nord hanno potuto ‘toccare con mano’ i vantaggi della partecipazione all’UE; in secondo luogo, nell’ambito di una comune cornice europea, il governo centrale di Londra sembra aver mostrato maggiore propensione a garantire alle 2 realtà una più accentuata autonomia nel quadro dei processi di devolution; in terzo luogo la questione dell’immigrazione – che tanto peso ha avuto nella campagna referendaria inglese – non poteva che avere una minore capacità di presa su scozzesi e nordirlandesi, che avvertono meno il problema e sono peraltro storicamente ‘migranti’; infine i temi della difesa dell’identità e del recupero della sovranità – a fronte di Scozia e Irlanda del Nord che hanno comunque dei Parlamenti locali a differenza dell’Inghilterra – erano soprattutto argomenti inglesi.
Londra
C’è poi la cosmopolita Londra, una realtà in cui il multiculturalismo è parte integrante della quotidianità. Qui, i temi più forti della campagna della Brexit non hanno dunque avuto troppo successo, e l’opzione del Leave ha prevalso solo in 5 boroughs su 33. Si confermano però i trend sociali visti nel resto del paese: in
alcune aree dell’est londinese, dove è forte la presenza della working class, la prospettiva di uscita dall’UE è parsa la soluzione migliore. Nella City è invece prevalso il pragmatismo: la prospettiva della stabilità, le incertezze per l’economia legate alla Brexit e i benefici del mercato unico per il sistema finanziario della capitale hanno fatto pendere la bilancia a favore del Remain.
Le conseguenze della divisione
La first minister scozzese Nicola Sturgeon ha dichiarato che un secondo referendum sull’indipendenza è ora probabile, perché sarebbe ‘democraticamente inaccettabile’ per i cittadini della Scozia uscire dall’UE contro la loro volontà. Sturgeon vorrebbe comunque esplorare l’ipotesi di una permanenza scozzese nel mercato unico anche a fronte della Brexit. In Irlanda del Nord, come prevedibile, sono riemersi echi repubblicani, con Sinn Féin che ha rilanciato l’idea di un referendum sull’unificazione con l’Eire. E addirittura c’è chi ha lanciato una petizione per l’indipendenza di Londra. All’indomani del voto, il Regno di Sua maestà è dunque parso molto meno ‘Unito’.