LATINI, Brunetto
Nacque verosimilmente a Firenze tra il 1220 e il 1230 da ser Bonaccorso Latini della Lastra, iudexetnotarius. La casa di famiglia era nel sesto di Porta Duomo, parrocchia di S. Maria Maggiore.
Il nome è più spesso registrato nella forma idiomatica Burnetto, anche negli autografi; quanto al cognome, la forma genitivale si alterna con di Latino (Favolello, v. 158: "quel tuo di Latino"; Tesoretto, v. 1133: "Fi' di Latino") e con la riduzione a Latino ("io Burnetto Latino", in Tesoretto, v. 70).
La statura del personaggio ci è restituita dal necrologio iscritto da Giovanni Villani nella sua cronaca del 1294: "Nel detto anno […] morì in Firenze uno valente cittadino il quale ebbe nome ser Brunetto Latini, il quale fu gran filosafo, e fue sommo maestro in rettorica […] e fu dittatore del nostro Comune. Fu mondano uomo, ma di lui avemo fatta menzione però ch'egli fue cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini, e farli scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica" (Nuova cronica, IX, 10). L'appellativo di mondano, "dissoluto", echeggia la confessione in Tesoretto, 2561 ("sai che sèn tenuti / un poco mondanetti") e più sostanzialmente la condanna dantesca per sodomia; il che non ha impedito di attribuire al L. un ruolo decisivo nella storia di Firenze: le parole del cronista - modellate sull'idealizzazione ciceroniana e brunettiana dell'uomo "grande e savio" che, con i suoi "gravi ammonimenti", ritrae gli uomini primitivi dalla loro crudeltà ferina (Rettorica § 5) - non si spiegherebbero, infatti, se non come riconoscimento che il L. fu una delle menti direttive, certo la più attrezzata ideologicamente, del Comune fiorentino nella seconda metà del Duecento. In questa prospettiva la sua biografia s'intreccia con la storia della città più di quanto non appaia dalle stesse tracce documentarie - relativamente modeste. Assunto come "verosimile" (Alessio) un periodo di formazione presso lo Studio bolognese, la prima fase della vita pubblica del L. coincide con il decennio del "primo popolo", dal 1250 al 1260. Al servizio del Comune, il L. rogò atti datati 31 marzo 1254, 6 aprile ("Burnecto notario filio Bonaccorsi Latini"), 20 aprile (elezione di procuratori, fra cui Iacopo Rusticucci, per trattare la pace con Siena; l'atto, autografo, in Sundby - Del Lungo, pp. 204 s.), 25 agosto (patti fra i guelfi aretini e il Comune di Firenze), 10 ottobre (arbitrato fiorentino tra Genova e Pisa, sottoscritto da "Burnectus Latini notarius et nunc Ancianorum scriba et Comuni seu populi florentini cancellarius"), 20-22 giugno 1257 (nella parte non autografa dell'atto, il L. è qualificato iudex), ecc.
Alla fine di luglio del 1258 gli Uberti e le altre principali "case" ghibelline furono cacciati da Firenze; fra le diverse uccisioni, finì decapitato il pavese Tesauro de' Beccari, abate di Vallombrosa. Ne seguirono virulente polemiche (fu anche scagliato su Firenze l'interdetto papale), cui i Fiorentini reagirono con un'epistola ufficiale, che una parte della tradizione manoscritta attribuisce al L. (cfr. il volgarizzamento in Bibl. apost. Vaticana, Chigi, L.VII.267, c. 177v: "La risposta che fece il comune di Firenze a quello di Pavia, dectata per ser Brunecto Latini allora cancielliere del comune di Firenze"): si tratta di un testo retoricamente sostenuto e impreziosito da un calco lucaneo ("bella intestina plus quam civilia fierent", Maggini, 1912, p. 76). Nel 1259 il nome del L. è reperibile in documenti degli Anziani (14 e 26 ottobre). Più interessanti le tracce relative al 1260, ossia alla preparazione della guerra contro la coalizione ghibellina. Nel Libro di Montaperti il L. è presente (26 febbraio) come "sindaco" del Comune e uomini di Montevarchi (cui è comandato il servizio militare di un'insegna e un padiglione) e il 20, 22 e 23 luglio come fideiussore di vari concittadini (Ugo Bonaccolti, Megliorato Cambi e Gozzino Bonafede).
Nell'imminenza dello scontro, Firenze cercò alleanze internazionali contro Manfredi: Guglielmo Beroardi fu inviato in Baviera e il L. da Alfonso X di Castiglia per esortarlo a rivendicare la corona imperiale (Villani, VI, 73). Non si sa se e dove il L. abbia incontrato il re. Sulla via del ritorno (in Navarra, secondo il Tesoretto, v. 142) ebbe notizia della disfatta guelfa a Montaperti (4 settembre) e del bando impostogli dai vincitori (13 settembre: cfr. Villani, VI, 79; e anche un'epistola latina del padre Bonaccorso, che annuncia al figlio la sconfitta e il bando: il testo in Donati, pp. 230-232, dal ms. Breslavia, Biblioteca universitaria, Rehd., 342, ora irreperibile; ma vedi Bibl. apost. Vaticana, Vat. lat., 4957, c. 83). Il L. si fermò in Francia e, come racconta nella Rettorica, "là trovò uno suo amico della sua cittade e della sua parte, molto ricco d'avere, ben costumato e pieno de grande senno, che lli fece molto onore e grande utilitade, e perciò l'appellava suo porto", forse un membro della famiglia Tosinghi, se vale onorificamente la menzione in Rettorica § 17. Nel 1263 è attestata la sua presenza ad Arras (15 settembre) e Parigi (24 settembre) come notaio di un atto per alcuni mercanti fiorentini; il 17 apr. 1264, a Bar-sur-Aube (Batra super Albam), registrò una società tra mercanti fiorentini. In data non precisabile era a Montpellier (Tesoretto, v. 2541). Negli anni francesi si situa la composizione delle tre grandi opere brunettiane, Rettorica, Tresor e, probabilmente, Tesoretto. È plausibile che il L. sia rientrato in Italia nel maggio-giugno 1265, al seguito di Carlo d'Angiò (Davidsohn, II, 2, p. 12).
La seconda fase dell'impegno pubblico del L. ha inizio con la vittoria dei guelfi e del Popolo (Pasqua 1267: fuga definitiva dei ghibellini) e si sostanzia con incarichi di notevole rilievo. Nei primi tempi, egli appare ancora direttamente legato agli Angioini. Il 20 ag. 1267, come notaio, sottoscrisse un atto al campo angioino-guelfo sotto Poggibonsi ("in presenti exercitu obsidionis Podii Bonicçi"). Nel 1269-70 agì come protonotario del vicario angioino in Toscana, Jean Britaud de Nangis (documenti del 6 dicembre [autogr.], 12 dicembre ["Brunectus Latini de florentia prothonotaro curie domini vicari"], 20 dicembre, 25 febbraio), il "Johan Britaut" citato nel Tresor, I, 98. Il 22 marzo 1270 era presente a Pisa, con un gruppo di ambasciatori del vicario (Guido di Corvaria).
Affiorano in quest'epoca documenti di vita privata. Il 12 luglio 1270 a Bologna affittò per due anni, con i fratelli e con altri, un locale dal canonista Brandelisio Riccadonna (Frati, p. 209), verosimilmente come cointeressato in un commercio di spezie in quella città (8 dic. 1270: ricevuta di un investimento di 175 lire pisane, a nome "domini Bruneti Latini et sociorum dicti domini Bruniti", ibid.).
Nel 1272 il L. era di fatto il capo della Cancelleria, sì che il Davidsohn volle scorgere in lui l'"Amtsvorgänger des Niccolò Machiavelli" (II, 2, p. 85). In un atto del 13 luglio è ricordato come "scriba consiliorum et cancellarie communis Florentie". Tralasciando documenti minori (25 luglio 1274, 14 febbr. 1275, ecc.), troviamo il L. console dell'arte dei giudici e notai per il suo sesto (30 genn. 1275). Nel 1280 fu, per i guelfi di Porta Duomo, uno degli "expromissores" e dei garanti per la pace tra le parti promossa dal cardinale Latino Malabranca (Lori Sanfilippo, p. 245). Nei documenti relativi alla "pace", il nome del L. figura a breve distanza da quello di Guido Cavalcanti, ma non c'è prova di un personale rapporto fra i due. Negli anni Sessanta il L. appariva inserito in un gruppo di poeti: Rustico Filippi, Palamidesse (di Bellindote?), Bondie Dietaiuti. Agli anni Ottanta si potrebbe ricondurre il discepolato brunettiano di Dante, solennemente dichiarato in Inferno, XV: il suo asse era lo studio dell'etica, e il suo svolgimento non istituzionale ("ad ora ad ora / m'insegnavate come l'uom s'etterna"; dove però "ad ora ad ora" non deve tradursi "saltuariamente", ma, in positivo, "ogni volta che se ne desse l'occasione"). Secondo una ragionevole ipotesi del Gorni, il sonetto di Dante Messer Brunetto, questa pulzelletta è destinato al L. in accompagnamento del Detto d'amore.
Quando, nel 1282, si stabilì a Firenze il governo dei priori delle arti, insieme si aprirono l'età aurea dello Stato guelfo e la fase più matura dell'azione del Latini. Il 21 ott. 1282 (Sundby - Del Lungo, pp. 215 s.) intervenne nel Consiglio del capitano del Popolo, a favore di una petizione dei capitani di Parte guelfa. Nel 1284 fu membro del Consiglio del podestà, insieme con Guido Cavalcanti e Dino Compagni (in Del Lungo, 1879-87, I, 2, pp. VIII-XII). Il 13 ottobre dello stesso anno trattò e firmò, "in domo Abatie florentine", come sindaco del Comune (insieme con Manetto Benincasa), la costituzione di una lega con Genova e Lucca contro Pisa, la cui flotta era stata distrutta alla Meloria poche settimane prima (6 agosto); nei giorni successivi aderirono Pistoiesi, Samminiatesi, Sangimignanesi e Senesi. È questo, secondo il Del Lungo, "il più rilevante e segnalato atto della vita politica del Latini" (Sundby - Del Lungo, p. 207). Notevole è l'impegno retorico della dichiarazione introduttiva ("pro tali zizania de terra radicitus extirpanda, que etiam messem dominicam dudum sua contagione corrumpere inchoavit": immagini che piace riscontrare con quelle, vigorosamente polemiche, di Inferno, XV). Bisogna aggiungere, con il Villari, che in realtà la politica di Firenze verso Pisa non era, in quella fase, di scontro frontale, ma cercava di sfruttare il più possibile il passaggio al guelfismo di Ugolino Della Gherardesca.
Il 19 genn. 1285 il L. intervenne al Consiglio speciale del capitano del Popolo e delle capitudini delle arti maggiori (Sundby - Del Lungo, p. 217), in favore di una deroga agli statuti nell'elezione del capitano. Il 3 febbraio, in un Consiglio di savi sulla pace tra Genova e Pisa, mentre Corso Donati parlava contro ogni accordo con i Pisani, il L. propose una linea più cauta e l'invio di un'ambasceria a Genova per illustrarla (ibid., pp. 220-222). Tra i numerosi altri interventi o semplici presenze in Consigli, va segnalata la partecipazione al Consiglio generale del capitano, il 17 marzo, per dibattere sul mandato degli ambasciatori fiorentini al parlamento della Lega guelfa; il L. chiese che i Fiorentini mantenessero un'autonomia operativa rispetto alle forze lucchesi (al riguardo, Ottokar, p. 138, parla di una tattica volta a lasciare margini alle trattative con Ugolino). Dalla fine del 1285 a tutto il 1289 la documentazione delle Consulte manca; risulta da altre fonti (Marchionne di Coppo Stefani) che nel 1287 il L. fu priore, per il bimestre 15 agosto - 15 ottobre. Il 16 apr. 1289 intervenne al Consiglio del capitano convocato in preparazione della guerra con Arezzo e parlò a favore dei provvedimenti (Sundby - Del Lungo, pp. 234-239). L'11 giugno Firenze vinse la battaglia di Campaldino (cui fu presente anche Dante Alighieri). Al finanziamento e alla condotta della guerra sono riferibili altri discorsi del L.: 12 luglio (ibid., pp. 239-243); 12 genn. 1290 (a favore della trattativa con i Pazzi di Valdarno; ibid., p. 244); 22 febbraio, nel Consiglio dei cento (ibid., pp. 247 s.); 12 e 13 marzo, Consiglio dei cento (a favore della guerra contro i Pisani; ibid., pp. 248 s., 250); 21 marzo, Consiglio dei cento (a favore del rilascio delle prigioniere pisane, poi deliberato dal Consiglio; ibid., pp. 253-255); 20 aprile, in un Consiglio di savi (favorevole ad accogliere il conte Guelfo Della Gherardesca nella Lega guelfa; ibid. pp. 256-258).
Fra diversi altri interventi, spiccano quelli del 4 nov. 1290 (Consiglio di savi) e 14 ott. 1291 (Consiglio del capitano) su problemi di organizzazione del Comune (che i Priori scelgano e tengano presso di sé due savi per sesto; che le capitudini scelgano un notaio per sesto e il Consiglio ne elegga uno); del 17 giugno 1292, Consiglio dei savi e delle capitudini (favorevole a lasciare ai Priori ogni decisione "de exercitu" contro i Pisani). L'ultima traccia del L. è relativa a un Consiglio dei cento (22 luglio 1292), per un fatto minimo.
Come si è visto, il Villani dà il 1294 come data di morte del L., che risulta già defunto in un atto registrato il 26 dic. 1293 (Arch. di Stato di Bologna, Memoriale di Bianco Bellondini, c. 63r), in cui Cresta "quondam Bruniti Latini de populo Sanctae Mariae Maioris de Florentia" rilascia quietanza a Corrado di Ruggiero per il pagamento di un quantitativo di spezie. Fu sepolto in S. Maria Maggiore. Si conoscono i nomi di quattro figli: Biancia (testamento, 28 giugno 1348, in Marchesini, pp. 1616 s.; sposò Guido di Filippo da Castiglionchio), Perso (viveva post 1326: cfr. Becker), Bechus (Arch. di Stato di Bologna, Ufficio dei memoriali, n. 86, c. 492r: Memorialedi Matteo di Bonvicino di Francuccio, c. 4r, 9 genn. 1294) o Bonaccorso, Cresta. Altre notizie sulla famiglia si leggono in D'Addario e in Bolton Holloway (1993).
Le principali opere cui è raccomandata la fama letteraria del L. sono indicate già nel necrologio villaniano: "E fu quegli che spuose la Rettorica di Tulio, e fece il buono e utile libro detto Tesoro, e il Tesoretto, e la Chiave del Tesoro, e più altri libri in filosofia, e de' vizi e di virtù". Quest'ultimo accenno sembrerebbe presupporre una circolazione autonoma di Tresor, II, 50-121 (o un equivoco con il Libro de' vizî e delle virtudi di Bono Giamboni); mentre rimane senza riscontro il titolo Chiave del Tesoro, forse uno schema dell'opera maggiore. Il testo della Rettorica (Maggini, 1915) si basa sui mss. della Biblioteca nazionale di Firenze, II.IV.124, della metà del XIV secolo, e II.IV.127, della seconda metà del XIV. L'editio princeps è del 1546 (Valerio Dorico, Roma). "L'autore di questa opera è doppio" - si legge nell'importante prologo - "uno che […] fece suo libro di rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicero, il più sapientissimo dei romani. Il secondo è Brunetto Latino", volgarizzatore ed espositore. E tale duplicità si riflette anche nelle disposizioni sull'assetto librario: "lettera grossa" per il volgarizzamento, "lettera sottile" per l'esposizione. Il progetto originario prevedeva traduzione e commento "di tutte e cinque le parti" della retorica, vale a dire del ciceroniano De inventione e della Rhetorica ad Herennium, che il L. attribuisce allo stesso Tullio. Lo "sponitore" si assegna anche il compito di integrare la trattazione antica, relativa al "dire", con indicazioni sul "dittare", ossia sulla composizione epistolare (sulle orme del Candelabrum di Bene da Firenze, il L. scandisce la partizione dell'epistola, analoga ma non identica a quella della "diceria"); significativa, in questo senso, la menzione di Pietro Della Vigna come esempio moderno di orator, maestro di retorica "in dire e in dittare".
In effetti, l'opera si interrompe all'altezza del Deinventione, XVII, 24; né è chiaro il nesso temporale fra l'incompiuta Rettorica e la trattazione retorica nel Tresor (successiva, per il Maggini): di certo, entrambe le opere appartengono al soggiorno in Francia e hanno per dedicatario un ricco fiorentino lì operante (che nella Rettorica riceve spesso l'appellativo amicale di "porto"). Nella questione cronologica entra anche il Tesoretto, in cui si annuncia il Tresor come opera in fieri: "nel gran Tesoro / ch'io farò [var. fatt'ò] per coloro / c'hanno il core più alto; / lì farò grande salto / per dirle più distese / ne la lingua franzese" (vv. 1351-1356). La lezione fatt'ò è preferita dal Beltrami, che vede il Tesoretto composto poco dopo la battaglia di Tagliacozzo (23 ag. 1268).
Il commento del L. può avere forma di parafrasi esplicativa, o di glossario tendenzialmente enciclopedico ("che è cittade", "che è genere", "che è filosofia", ecc.), di ampliamento (anche grazie a esplicazioni di tipo storico e mitografico, a exempla storici o fittizi relativi alle situazioni giuridiche fissate da Cicerone), oppure di "questioni", che si sviluppano dal testo (per es., "come si potieno melliorare [gli uomini primitivi], da che non erano buoni?"). Il L. utilizza largamente altri commenti (soprattutto quello di Mario Vittorino) e auctoritates, convogliati, a quel che pare, da compilazioni mediolatine come l'Ars rethorice studiata da G.C. Alessio. In margine al discorso di Tullio (I-IV: considerazioni generali e storiche sull'eloquenza; V-VI: fine e materia della retorica, distinta in dimostrativa, deliberativa, giudiziale; VII: parti della retorica: inventio, dispositio, elocutio, memoria, pronuntiatio; VIII-XIV: il fondamento della causa; XV-XVII: le parti della "diceria"), il L. svolge un interessante lavoro di attualizzazione. Alla base, c'è l'adozione del repubblicanesimo ciceroniano (Tullio "si tenne con Pompeio, sì come tutti ' savi ch'amavano lo stato di Roma") come ideologia-guida del Comune fiorentino (Res publica è appunto volgarizzato con la parola "comune"). "Quello che è Virgilio per Dante, è per Brunetto Latini Cicerone" (Maggini, 1912, p. 70). Al centro sta l'assimilazione, già in Cicerone, fra questioni giuridiche e questioni politico-strategiche (per es. "è Cartagine da disfare o da renderla a' Cartaginesi?"), quindi l'approfondimento della costruzione logica e discorsiva di una posizione politica in confronto con altre. In una lunga digressione, il L. spiega appunto che il suo insegnamento non riguarda tanto le "piatora che sono in corte", di competenza dei "segnori legisti", quanto - specificamente - il "saper dire in ambasciarie e in consigli […] e in sapere componere una lettera bene dittata"; ciò che identifica il destinatario nel cittadino politicamente attivo, nel "savio" che i Signori sogliono consultare davanti a un problema, oltreché nel professionista incaricato della corrispondenza istituzionale (il "cancelliere" o "segretario").
Periferica, ma notevole, è l'esplicita integrazione della letteratura nel dominio della retorica - che può, scrive il L., prescindere dalla concretezza della "lite", per volgersi a "dare alla gente insegnamento e via di ben fare", come fanno i "poeti che ànno messo inn iscritta l'antiche storie, le grandi battaglie e l'altre vicende che muovono li animi a ben fare". Anche la poesia d'amore viene restituita a tale quadro, interpretata come "tencione tacita" - figura in cui possono rientrare "quasi tutte le lettere e canzoni d'amore".
Almeno idealmente collegabile alla Rettorica è il volgarizzamento di tre orazioni ciceroniane: Pro Ligario (per un Dedi Buonincontri, secondo il ms. della Biblioteca apostolica Vaticana, Chigi, L.VII.267, c. 96r), Pro Marcello, Pro rege Deiotaro; editio princeps 1568, a cura di Jacopo Corbinelli (de Tornes, Lione). "Più rispettoso dei diritti del volgare, […] Brunetto Latini accoglie, del latino, meno elementi di quanti ne avesse accolti Bono [Giamboni], ma è molto più fedele e costante e filologicamente lodevole" (Segre, 1953, p. 32).
Il Tesoretto è un poema didattico-allegorico, in distici di settenari (forma di derivazione francese, ripresa, dopo il L., nel Detto d'amore attribuito a Dante e forse destinato proprio al L.); il testo vulgato si interrompe a v. 2944. L'opera si denomina Tesoro, nell'incipit (v. 113: "Lo Tesoro conenza"), in confronto con il gran Tesoro (v. 1351) in prosa francese; il diminutivo Tesoretto (cfr. "questo libretto", v. 1347) è comunque accreditato fin dalla più antica tradizione manoscritta. Questa si sostanzia in due testimoni principali (addirittura esclusivi, secondo lo stemma in Bolton Holloway, 1981, p. XXX, accolto con forti perplessità dalla recensione di Marcello Ciccuto in Italianistica, XI [1982], pp. 340 s.), collocabili entrambi tra fine XIII e inizio XIV secolo: Firenze, Biblioteca Riccardiana, 2908 (alla base dell'ed. Pozzi - Contini) e Biblioteca Medicea Laurenziana, Strozziano, 146, corredato di un notevolissimo commento figurativo (alla base dell'ed. Bolton Holloway; l'asserzione che "it is possible that Dante may have been its scribe and illuminator", p. XXIX, non è "falsificabile"). L'editio princeps è del 1642 (Grignani, Roma).
Entro il complesso progetto di razionalizzazione e divulgazione dei valori, includente Rettorica e Tresor, il poemetto occupa il grado elementare; doveva in ogni modo essere accompagnato da sezioni in prosa, parallele al testo versificato (come sembrano suggerire i vv. 395-426, 909-914, 1121) o a esso inframezzate, come farebbe pensare l'interruzione a v. 2944 ("E ei con belle risa / rispuose in questa guisa", forse per lasciar posto a un discorso di Tolomeo in prosa: cfr. vv. 2900 ss.: "E qui lascio la rima / per dir più chiaramente / ciò ch'i' vidi presente: / ch'io vidi tutto 'l mondo"; per il contenuto, cfr. il mapamonde del Tresor). Come che sia di ciò, la tradizione manoscritta accoda al Tesoretto un Favolello (dal francese fablel, poemetto) epistolare sull'amicizia, nel medesimo metro, indirizzato al concittadino e poeta Rustico di Filippo (v. 137; è nominato anche "il buon Palamidesso", verosimilmente di Bellindote, altro verseggiatore fiorentino, registrato nel Libro di Montaperti). In buona sostanza, l'esule Brunetto si raccomanda (raccomanda i suoi familiari e i suoi beni?) all'amicizia leale di Rustico, che, come ghibellino, è ora salito "in cima".
Tornando al Tesoretto, si dirà della lunga dedica (vv. 1-112) a un "valente segnore", che non può identificarsi (come vorrebbe il Carmody) col ricco fiorentino cui sono destinati Rettorica e Tresor. Si tratta infatti di persona nata di "alto lignaggio", e tale che "non ha pare / né 'n pace né 'n guerra; / sì ch'a lui tutta terra […] san' faglia si convene". Quest'ultima espressione risulterebbe davvero appropriata solo ad Alfonso X di Castiglia, allora pretendente alla corona imperiale, ma al "re Nanfosse" si rende omaggio in seguito, ai vv. 125-134. Hanno maggiori probabilità pertanto le candidature di Luigi IX di Francia (Zannoni) o di Carlo d'Angiò (Contini, Beltrami); si noti che l'illustratore del ms. Strozziano, in mancanza di informazioni specifiche sul dedicatario, raffigura a c. 1r il lettore dell'opera, in abiti borghesi e in piedi, che riceve il libro dal maestro, onorevolmente seduto in cattedra. Completa la dedica una raccomandazione ad amministrare con parsimonia la tradizione del testo, perché non cada "in man d'i fanti" (v. 105), come caddero precedenti opere "in prosa ed in rimato" del medesimo autore (allusione molto interessante, ma non decifrata).
I vv. 113-190 narrano l'antefatto (viaggio in Spagna, battaglia di Montaperti e notizia del bando: v. sopra) e lo smarrimento del L. in una "selva diversa", ossia orribile, macroscopico antecedente per l'incipit della Commedia dantesca. Tornato presente a se stesso, il viaggiatore ha la visione di Natura in figura femminile (vv. 191-281; "nella tradizione di Bernardo Silvestre e di Alano da Lilla" [Contini]; secondo lo Jauss, il De planctu Naturae è anzi la "vera fonte" per l'allegorismo narrativo del Latini). Ascolta un primo discorso di Natura (vv. 283-502) su Dio, la creazione e il peccato originale. Un secondo discorso (vv. 503-926) tratta degli angeli (vv. 503-567), di Lucifero (vv. 569-616), delle creature (vv. 617-666), dell'anima umana (vv. 667-774), dei quattro umori (vv. 775-810), degli elementi (vv. 811-836), di segni e pianeti (vv. 837-876: con rinvio a una più estesa trattazione di "storlomìa" [astronomia] nel segmento di poema - non realizzato - dedicato alle sette arti). Il L. ha quindi una visione dell'orbe terracqueo (vv. 927-1098) e del regno animale, che promette di descrivere in prosa (vv. 1099-1124). In un ultimo intervento, Natura dà al L. un itinerario per il seguito del viaggio (vv. 1125-1182; non hanno riscontro, nel testo conservato, i preannunziati incontri con Ventura e con Baratteria). Il L. attraversa una "deserta" (vv. 1183-1218) e giunge nella pianura della Virtù (vv. 1219-1262). Visita le dimore delle Virtù cardinali (vv. 1263-1356). Assiste all'erudizione di un "bel cavalero", in casa di Giustizia, da parte delle sue "descendenti": Larghezza (vv. 1357-1570), Cortesia (vv. 1571-1856: notevole l'ammonimento a guardarsi da Amore), Lealtate (vv. 1857-1972), Prodezza (vv. 1973-2180). Quindi il L. se ne va "per lo camino a destro" e a "calen di maggio" giunge al "bel prato" dove ha sede il "Dio d'Amore" e cade in suo potere (vv. 2181-2356). Ovidio, evidentemente in qualità di autore dei Remedia amoris, gli insegna l'arte di fuggirsene via (vv. 2357-2395).
I vv. 2396-2426 fanno da transizione all'inserimento nel poema di una epistola su La penetenza (sul genere del già ricordato Favolello), indirizzata a un "fino amico caro" (Rustico, per il Sundby; ma sarà Bondie Dietaiuti, come ipotizza Avalle, p. 99): assimilata dagli editori al Tesoretto, ne occupa i vv. 2427-2892, ed è un'accusa dei sette vizi capitali che si vuole scaturita dalla confessione del protagonista ai frati di Montpellier. Per effetto della condanna dantesca (Inferno, XV), si resta colpiti dal fatto che il catalogo dei peccati culmini e si concluda con i sodomiti: "deh, come son periti / que' che contra natura / brigan cotal lusura!". "Penitenziato […] e prosciolto", il L. rinuncia alla visita a Ventura (preannunziata al v. 2180).
Con il v. 2893 torna il profilo narrativo del Tesoretto: il protagonista cavalca fino a ritrovarsi sulla vetta dell'Olimpo, dove incontra Tolomeo e gli chiede lumi su "come son formati / e insieme legati" gli elementi. Ma qui, come s'è detto, il testo finisce.
Il Tresor, o Livres dou tresor, venne composto in Francia e in francese: "et se aucuns demandoit pour quoi cis livres est escris en roumanç selonc le raison de France, puis ke nous somes italien, je diroie que c'est pour .ii. raisons, l'une ke nous somes en France, l'autre por çou que la parleure est plus delitable et plus commune a tous langages" (I, 1,7). È notato da tutti il riconoscimento al francese del rango di lingua internazionale; ma è anche rilevante che, dinanzi alla lingua d'Oltralpe, il L. sia portato a identificare se stesso, e indirettamente il proprio volgare (v. anche III, 1, 3), come italiano, con un anticipo di mezzo secolo sul De vulgari eloquentia. Secondo il Carmody, da una prima redazione anteriore al ritorno del L. in patria dipendono una trentina di manoscritti (fra i quali Parigi, Bibl. nationale, Fonds fr., 12581, datato 1284, base per l'edizione curata da P. Chabaille); la seconda redazione include i paragrafi su Manfredi e Corradino (I, 98, 5-9): ai suoi circa venti codici mancano, per lacuna accidentale, due brani di storia naturale: I, 155-166 e 198-200; l'edizione curata da Carmody è basata, appunto, sul ms. Parigi, Bibl. nationale, Fonds fr., 1110 (inizio sec. XIV, di origine piccarda). Ultimamente Beltrami (1988) ha individuato una serie di errori d'archetipo e negato che la seconda stesura sia d'autore ("l'edizione Carmody è un passo indietro rispetto a quella di Chabaille"). La versione toscana (cosiddetta Giamboni, ma l'attribuzione è esclusa da Segre, Prosa del Duecento) sembra dipendere da un testo della prima redazione rimaneggiato per migliorarne l'ortodossia cattolica; se la traduzione fosse d'autore, come suggerisce cautamente Ciccuto (1992, p. 46), configurerebbe quindi una redazione intermedia tra le due francesi. L'opera ebbe fortuna larga: fu tradotta in castigliano, forse alla fine del sec. XIII, in catalano (sec. XV), in latino, in francese dal testo toscano, in lombardo-veneto (Raimondo da Bergamo, inizio sec. XV), in siciliano (sec. XV), versificata in italiano all'inizio del sec. XIV (mss. Palatino, 679 e Panciatichiano, 29 della Biblioteca nazionale di Firenze). L'editio princeps è del 1474 (Girardo Flandrino, Treviso; testo toscano). L'edizione oggi disponibile (Gaiter) del testo toscano è insoddisfacente (Segre, Volgarizzamenti e Prosa del Duecento, con indicazione dei principali codici).
Il Tresor è una compilazione enciclopedica, secondo la chiara professione del L.: "cist livres est compilés seulement des mervilleus dis des autours ki devant nostre tans ont traitié de philosophie". Il piano dell'opera è esposto nel primo capitolo. Primo libro, "theorique, qui est la premiere science dou cors de phylosofie": "comencement du siecle" [I-V: capp. introduttivi; VI-XVI: la creazione = teologia]; "ancieneté des vielles istores" [XVII-XCVIII: storia universale dal peccato originale alla morte di Corradino]; "nature de toutes coses" [XCIX-CXX: elementi e cieli; CXXI-CXXIV: "mapamonde"; CXXV-CXXIX: regole varie tratte dall'Agricultura di Rutilio Palladio (= yconomique? cfr. 1.4.4); CXXX-CXCIX: "nature des animaus"]; conclusione [CC]. Secondo libro, "des vices et des viertus […] apiertient a la seconde et a la tierce partie de philosophie, c'est a pratike et a logike": i [introduttivo], "Etique, li livres d'Aristotle" [II-XLIX], "livres de moralités" [L-CXXI + un cap. conclusivo]. Terzo libro, "retorike et coment li sires doit governer ses gens […] selonc les us as ytaliens", "apertient a pratike": "de retorike" [II-LXXII], "dou governement de cités" [LXXIII-CV].
Lo schema, risalente a Eustrazio e già delineato nella Rettorica, è profondamente ripensato in funzione, appunto, della "sience de bien parler et de governer gens", che diventa il culmine della piramide disciplinare, "plus noble de nul art du monde" ("de fin or", rispetto al "deniers contans" e alle "precieuses pieres" antecedenti). In effetti, mancano al Tresor trattazioni di mineralogia, botanica, aritmetica, geometria, musica; mancano grammatica e logica, nonostante l'accenno contenuto nel piano (e non tutte le assenze paiono giustificate dal fine pratico dell'opera e dal suo indirizzo al mondo "laico").
Le fonti distintamente riconoscibili sono numerose: Solino, il Physiologus, Isidoro di Siviglia, il Debestiis, lo Speculum di Vincenzo di Beauvais, ecc. La prima metà del l. II è una traduzione del CompendiumAlexandrinum dell'EticaNicomachea, già voltato in fiorentino da Taddeo Alderotti (il L. si vanta di aver tradotto "de latin en romanç", e ciò può voler dire che egli ha tenuto conto del testo latino; cfr. Marchesi, p. 23). La seconda metà è basata sulla Summadevirtutibus di Guillaume Perrault e attinge fra l'altro al Moralium dogma di Guglielmo de Conches, all'Ars loquendi et tacendi di Albertano da Brescia e a Martino di Braga Dequatuorvirtutibus. La prima sezione del l. III è basata sul Deinventione (come la Rettorica, sovrapponibile fino al cap. 29); i capp. 35 e 37 sono discorsi tratti dai FetdesRomains, commentati nei capp. 36 e 38; la seconda parte dipende dal Deregiminecivitatum di Giovanni da Viterbo e in minor misura dall'Oculuspastoralis (secondo Salvemini, p. 293, sono insomma originali solo pochi capitoli: 73, 76 - non tutto -, 77, 79; vedi poi Artifoni, p. 712).
Il L. manifesta chiara coscienza del taglio "repubblicano" (Davis) del proprio discorso, caratteristico dell'Italia: i governanti "sont en .ii. manieres: uns ki sont en France et es autres pais, ki sont sozmis a la signorie des rois et des autres princes perpetueus; […] l'autre est en Ytalie, que li citain et li borgois et li communité des viles eslisent lor poesté et lor signour tel comme il quident qu'il soit plus proufitables au commun preu de la vile" (III, 73). Nel corso del trattato politico, dà prima regole molto generali sulle qualità per cui deve scegliersi un signore (in particolare, un podestà); poi prescrizioni sulle forme della proposta, quindi dell'accettazione della carica (con esempi di lettere e discorsi). I valori richiamati sono i soliti: pace e bene comune. Il L. raccomanda al podestà, dinanzi a ogni necessità, di riunire il Consiglio cittadino, proporgli un quesito chiaro e seguire le indicazioni della maggioranza. Non mancano regole per il ricevimento e l'invio di ambasciatori e regole per trattare i malfattori; consigli di comportamento (onesto, equo, ecc.) e circa le provvisioni in tempo di guerra (non militari, ma politiche: riunire i Savi della città, arringare fieramente i cittadini); procedure da seguire alla fine del mandato.
Sperimentatore a largo raggio del "sistema dei generi" (anche in questo, forse, maestro di Dante), il L. ebbe una produzione lirica abbastanza consistente per figurare nel De vulgari eloquentia come esempio della poesia municipale fiorentina (I, XIII, 1), ma per noi ridotta alla sola canzonetta S'eo son distretto inamoratamente, conservata nel ms. Vat. lat., 3793. Avalle ha mostrato come il destinatario della canzone, l'amato e lontano "bianco fioreauliso", sia in effetti un uomo: il Bondie Dietaiuti che risponde con la canzone Amor, quando mi membra ("Kanzonetta, va' inmantinente / a quelli che 'n dispartte / dimora in altra partte", siamo dunque verosimilmente negli anni dell'esilio). Al di là di ogni riscontro materiale e biografico, questo scambio, "unico esempio del genere nella poesia del Duecento", va considerato la fonte della condanna del L. quale sodomita nell'Inferno dantesco (Avalle, p. 104). Vari altri testi sono stati attribuiti al L., con scarso o nessun fondamento: un volgarizzamento della prima Catilinaria (Manuzzi), il Mare amoroso (Trucchi, Grion); i Detti di Secondo e, nel complesso, i FioridiFilosafi (Nannucci); la cronaca fiorentina del ms. Firenze, Bibl. naz., II.IV.323; il Fiore (Fasani); addirittura il tardissimo Pataffio. H. Wieruszowski (1959) gli assegna, senza specifici argomenti, un'appendice al Tresor toscanizzato, nel ms. Firenze, Bibl. naz., II.VIII. 36, cc. 64v-78, contenente appunti di astronomia e una Sommetta epistolografica; l'attribuzione è respinta da Hijmans Tromp.
Opere. Edizioni: La Rettorica, a cura di F. Maggini, Firenze 1915 (ristampa con prefazione di C. Segre, Firenze 1968); Le tre orazioni di M.T. Cicerone… volgarizzate da B. L., a cura di L.M. Rezzi, Milano 1832; Il tesoretto e il favoletto, a cura di G.B. Zannoni, Firenze 1824; B. Wiese, Der Tesoretto und Favolello B. Latinos. Kritischer Text mit einleitender Untersuchung über Handschriften und Sprache der Gedichte, in Zeitschrift für romanische Philologie, VII (1883), 2-3, pp. 236-389; Tesoretto e Favolello, a cura di G. Pozzi, in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, II, Milano-Napoli 1960, pp. 168-284; Tesoretto, a cura di J. Bolton Holloway, New York 1981; a cura di M. Ciccuto, Milano 1985; Tresor, a cura di P. Chabaille, Paris 1863; a cura di F.J. Carmody, Berkeley-Los Angeles 1948; nuova edizione a cura di P.G. Beltrami, P. Squillacioti, P. Torri, S. Vatteroni (in corso di stampa); Il Tesoro volgarizzato da B. Giamboni, a cura di L. Gaiter, Bologna 1877-83; versione catalana: Guillem de Copons, Llibre del tresor, a cura di C.W. Wittlin, Barcelona 1971-76; versione castigliana: The Medieval Castillan bestiary, a cura di S. Baldwin, Exeter 1982; La versione di alcuni capitoli del Tresor di B. L. in un manoscritto siciliano, a cura di P. Palumbo, Palermo 1989; canzone S'eo son distretto, in D.S. Avalle, Ai luoghi di delizia pieni. Saggio sulla lirica italiana del XIII secolo, Milano-Napoli 1977, pp. 191-193; edizioni parziali in Volgarizzamenti del Due e Trecento, a cura di C. Segre, Torino 1953, pp. 59-84, 351-398; La prosa del Duecento, a cura di C. Segre - M. Marti, Milano-Napoli 1959, pp. 131-184, 311-344, 1056, 1071-1078.
Fonti e Bibl.: I documenti per la biografia del L. si trovano, pressoché tutti, in appendice a J. Bolton Holloway, Twice-told tales. B. L. and Dante Alighieri, New York 1993, pp. 315-427; resta tuttavia imprescindibile, per la correttezza testuale e la puntualità del commento, il lavoro di I. Del Lungo in Th. Sundby, Della vita e delle opere di B. L., trad. dall'originale danese [1869] a cura di R. Renier, con appendici di I. Del Lungo [pp. 214-275] e A. Mussafia, Firenze 1884. Per la bibliografia, si dispone di J. Bolton Holloway, B. L. An analytic bibliography, London 1986; si veda anche Il Tesoretto, a cura di Ciccuto, cit., pp. 43-54. Arch. di Stato di Bologna, Ufficio dei memoriali, n. 85, c. 541r: Memorialedi Bianco Bellondini, c. 63r; Guido di Corvaria, HistoriaePisanaefragmenta, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXIV, Mediolani 1738, coll. 673 s.; Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XXX, 1, p. 62; Il Libro di Montaperti, a cura di C. Paoli, Firenze 1889, pp. 34, 123, 148, 172; G. Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, Milano 1990-91, ad ind.; I. Del Lungo, Dino Compagni e la sua "Cronica", Firenze 1879-87, ad ind.; U. Marchesini, Due studi biografici su B. L. Quando nacque il L.?, in Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, s. 6, V (1887), pp. 1595-1617; A. D'Ancona, Il Tesoro di B. L. versificato, in Atti della R. Accademia dei Lincei. Memorie, cl. di scienze morali, storiche e filologiche, s. 4, IV (1888), pp. 111-274; F. Donati, Lettere politiche del secolo XIII, in Bullettino senese di storia patria, III (1896), pp. 228 s.; G. Salvemini, Il "Liber de regimine civitatum" di Giovanni da Viterbo, in Giornale storico della letteratura italiana, XLI (1903), pp. 284-303; C. Marchesi, Il Compendio volgare dell'Etica aristotelica e le fonti del VI libro del Tresor, ibid., XLII (1903), pp. 1-74; P. 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Gorni, "Vita nova", libro delle "amistadi" e della "prima etade" di Dante, in Sotto il segno di Dante. Scritti in onore di F. Mazzoni, a cura di L. Coglievina - D. De Robertis, Firenze 1998, pp. 113-127; G.E. Sansone, Il nome disseminato: Brunetto, Bondie, Dante, in La parola del testo, II (1998), pp. 9-20; P. Supino Martini, Un Tresor dei Ventimiglia. Il Vat. Reg. lat. 1320, in Critica del testo, I (1998), pp. 775-782; I. Hijmans Tromp, La Sommetta falsamente attribuita a B. L., in Cultura neolatina, LIX (1999), pp. 177-243 [con nuova ed. del testo]; G. Cura Curà, A proposito di B. L. volgarizzatore: osservazioni sulla Pro Marcello, in La parola del testo, VI (2002), pp. 27-52; S. Sarteschi, Dal Tesoretto alla Commedia: considerazioni, in Rivista europea di letteratura italiana, XIX (2002), pp. 19-44. Per questa voce si è tenuta presente anche la biografia del L. di H. Wieruszowski scritta nel 1969 per il Diz. biogr. degli Italiani e non pubblicata.