BUCCHERO
. Con questo nome (derivato dallo spagnuolo búcaro) si indicava una specie di terra odorosa e colorata, per lo più rossastra, ma anche nera e bianca, con la quale si formavano vasi nel Portogallo, importati e venuti in gran voga in Italia nel secolo XVII, anche per la proprietà che avevano, non essendo ricoperti esternamente di alcuna vernice a smalto, di rinfrescare l'acqua che vi si metteva.
Dalla terra il nome passò ai vasi che ne erano fatti: un medico fiorentino del sec. XVII, L. Bellini, cantò in un poema giocoso, la Bucchereide, questi vasi. Iniziatisi circa questo tempo i grandi rinvenimenti nelle necropoli dell'Etruria, col nome di bucchero si prese a indicare una specie particolare di terracotta data da queste necropoli, e precisamente una terracotta di color nero lucido che non si limita alla vernice, ma penetra tutta la pasta; vasi di bucchero si dicono i vasi foggiati con questa terracotta. Vasi e frammenti di bucchero si sono trovati in mezzo a popoli diversi e lontani fra loro, e per l'evo antico parecchi frammenti vennero in luce negli scavi di Naucrati nel Delta egiziano, dove sembra che tale industria fosse stata introdotta dall'isola di Lesbo; ma la regione nella quale il bucchero ebbe più larga applicazione, così da prendere le proporzioni e l'aspetto di una produzione nazionale, è l'Etruria. iSulla composizione tecnica di questa terracotta non vi è una teoria comunemente accettata. Secondo le ultime esperienze per ottenere il bucchero non occorre un'argilla speciale, ma basta che il vaso formato con l'argilla comune sia sottoposto, dopo la prima cottura, a un processo di fumigazione in ambiente chiuso. Allora fra i 110° e i 900° gradi di calore l'acqua evapora, e in quella vece l'argilla assorbe il carbonio che lentamente pervade tutta la composizione e le dà la colorazione nera. Ma se l'aria penetra nell'ambiente, si ottengono buccheri che passano per varî gradi di colorazione dal grigio al grigio-nero. Secondo altri invece i vasi di bucchero sarebbero stati impastati con argilla figulina comune mescolata con polvere di carbone, o sul vaso impastato con l'argilla comune sarebbero state applicate sostanze nere, le quali durante la cottura sono penetrate per tutto lo spessore delle pareti. Secondo le analisi fatte nelle officine di Sèvres (v. J. Martha, L'art étrusque, p. 462), il bucchero contiene generalmente il 2% di materia carboniosa che, portata alla temperatura ordinaria di uno dei nostri forni di terrecotte, si sarebbe consumata e avrebbe trasformato il nero in rosso, perdendo il 13% del suo peso. Quando i vasi erano bene asciutti, dopo la cottura, venivano lucidati accuratamente con un corpo duro e liscio (osso, corno o legno) e, se era il caso, decorati con graffiti mediante strumenti a punta. Sta di fatto che, per l'estensione di circa tre secoli, gli Etruschi coltivarono con cura speciale la fabbricazione di questi vasi, i quali dal principio del sec. VII alla fine del V a. C. formano la suppellettile più comune dei corredi funebri.
Per ciò che riguarda la forma i vasi di bucchero mostrano la più grande varietà; derivano dai prototipi della metallotecnica e della ceramica comune, dalle forme semplici degli scifi protocorinzî a quelle maggiori delle anfore e dei crateri corinzî e attici; ma svolgono fino all'esagerazione il tipo dei vasi figurati dell'arte corinzia, come il vaso portaprofumi di Cere nel Museo Vaticano, il rhyton a forma di sfinge nel museo dell'Opera di Orvieto, il satiro portalucerna del Museo Faina pure di Orvieto, la oinochoe a testa di toro di Chiusi nel Museo di Firenze, e teste umane applicate a corpi in forma di pesce o di gamba. La derivazione dalla metallotecnica è comprovata per alcuni tipi, specialmente scifi, dal fatto che su qualche esemplare furono trovati gli avanzi di una sottilissima lamina d'argento che, fissata con un mordente, doveva in origine coprire tutto il vaso. Qualche volta, come nelle tazze ad alto piede, poterono essere prototipo le tazze di avorio con corpo a tronco di cono, sorretto in giro da statuette che poggiano sull'orlo del piede, come sono quelle delle tombe di Palestrina nel museo di Villa Giulia.
Per ciò che riguarda la successione cronologica e l'ornamentazione, la fabbrica dei vasi di bucchero si suole dividere in tre stadî. Nel primo stadio, che si può riferire al sec. VII e alla prima metà del VI, in cui prevalgono vasi di minori proporzioni, manca ogni decorazione, oppure essa è ridotta a leggiere baccellature e a disegni geometrici, tracciati a graffito o con linee punteggiate mediante rotelle dentate o col bulino. Nel secondo stadio, che occupa il sec. VI e parte del V, si trovano vasi di proporzioni maggiori, con decorazioni di palmette e di sottili baccellature, ispirate prevalentemente a motivi orientali, con strane teorie nelle quali sono méscolate figure umane, fiere e animali fantastici. Siffatte decorazioni sono impresse con uno stampo cilindrico girevole sul proprio asse passato sull'argilla ancor molle, o con stampiglie quadrangolari o discoidali, oppure, qualche volta, sono ottenute mediante una matrice. I due stadî non sono così nettamente separati, che non possa trovarsi esempio di vasi che mostrino insieme i due tipi di decorazione, come in un piatto di Cere del museo Vaticano Etrusco, che è decorato di figure a rilievo nel diritto, e di figure geometriche punteggiate nel rovescio. Caratteristiche di questo periodo sono le tazze a corpo tronco con alto piede, le oinochoe e le anfore, nelle quali la zona impressa forma una specie di trina elegante, che gira intorno al collo del vaso. Nel terzo stadio, che si estende sino alla fine del sec. V, scompare la decorazione punteggiata o graffita per dar luogo ad alti rilievi, che venivano lavorati separatamente e applicati alla superficie ancor molle del vaso. Il centro maggiore di produzione per questo periodo sembra sia stato il territorio di Chiusi, dove comparisce una specie di vassoio rettangolare o circolare sorretto da quattro o sei piedi e con due anse ai lati, destinato a contenere piattelli e piccoli vasi del corredo funebre; ma permangono le forme tradizionali del vasellame. Soltanto, la fantasia dei fabbricanti si sbizzarrisce nel sovraccaricare i piedi, i manichi e gli orli di bottoncini, di teste umane o ferine e di rotelle; l'impugnatura dei coperchi si orna di figure intere di uccelli e le pareti si coprono di baccellature grossolane, di maschere e di rilievi, attinti dal repertorio dell'arte greca e riprodotti all'infinito. Non vi è collezione di monumenti etruschi che non possegga qualche campione di vasi di questo periodo; ma come uno degli esemplari migliori del genere si può citare l'oinochoe chiusina del museo nazionale di Palermo, sulle cui pareti è ripetuto il mito di Perseo e della Medusa.
Durante il sec. IV cessa completamente la fabbricazione del bucchero, per dar luogo a vasi di terracotta rossa molto fine con vernice nera, di lucentezza quasi vitrea, a cui si dà comunemente il nome di etrusco-campani. (V. tavv. V e VI).
Bibl.: J. Martha, L'art étrusque, Parigi 1889, p. 462; R. Mac Iver, On the Manifacture of Etruscan and other ancient Black Vases, in Man, giugno 1921; P. Ducati, Storia della ceramica greca, Firenze 1922, I, p. 101; II, p. 508 seg.; A. Del Vita, Osservazioni sulla tecnologia del bucchero, in Studi Etruschi, I (1927), p. 187 seg.; P. Benveduti, in Atti del Primo Congresso Internazionale Etrusco, Firenze 1929, p. 272 seg.