Vedi Bulgaria dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Dopo le manifestazioni di piazza nel novembre 1989 e le prime elezioni libere nel 1990, la Bulgaria ha avviato un processo di apertura democratica e di transizione dall’economia di stampo socialista a quella di libero mercato. La profonda crisi economica e le misure di austerità adottate hanno però evidenziato anche i limiti del processo di sviluppo.
Sul piano internazionale, il paese ha perseguito una politica moderatamente filo-occidentale che, pur nella salvaguardia dei rapporti tradizionalmente amichevoli con la Russia, l’ha portato ad aderire all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) nel 1996, alla Nato nel 2004 e all’Unione Europea (Eu) nel 2007. Dopo il 1989 anche i rapporti con gli Usa si sono evoluti positivamente, a partire dal trattato bilaterale sugli investimenti del 1994 e da alcuni più recenti accordi di cooperazione in materia di difesa e di sicurezza. La Bulgaria è dipendente per circa il 90% dalle importazioni di gas dalla Russia; tuttavia, per effetto della crisi in Ucraina e sotto le pressioni dell’Eu, le autorità bulgare hanno deciso di interrompere la costruzione del gasdotto South Stream, deputato al trasporto del gas russo verso l’Europa centrale, attraverso il Mar Nero e il paese balcanico. Al contempo, Sofia sta perseguendo una propria strategia di diversificazione energetica per alleviare i suoi problemi di dipendenza. Il processo di democratizzazione e quello di liberalizzazione economica sono andati di pari passo e sono stati sostenuti dal cammino bulgaro verso l’integrazione nell’Eu. A seguito della domanda di adesione, presentata nel 1995, Bruxelles ha svolto un ruolo determinante nel promuovere e nell’accelerare le riforme economiche. Anche dopo l’adesione all’Eu nel 2007, la Commissione europea ha continuato a monitorare alcuni settori critici, come la giustizia e la sicurezza, ritenendo inadeguate le misure adottate dai governi bulgari per combattere la corruzione e il crimine organizzato. Inoltre il paese, pur soddisfacendo i criteri tecnici per aderire alla Convenzione di Schengen, non ne fa ancora parte.
Con l’inizio del nuovo secolo la Bulgaria ha concentrato la propria attività diplomatica sullo sviluppo di buoni rapporti di vicinato. Dopo i dissidi della prima parte del Novecento, la Grecia è diventata ferma sostenitrice del processo di adesione di Sofia nell’Eu, mentre le relazioni con la Macedonia restano controverse. Pur avendo riconosciuto nel 1992 il governo di Skopje e pur avendo stretto col vicino importanti accordi commerciali, permangono tensioni legate alla tutela delle minoranze bulgare nel territorio macedone e alla presunta politica di appropriazione da parte della Macedonia di eventi e personaggi storici allo scopo di ridimensionare l’immagine della Bulgaria. È sulla base di queste motivazioni che Sofia ha posto il veto all’ingresso di Skopje nell’Eu. Egualmente complessi permangono i rapporti con la Turchia: dopo il raffreddamento delle relazioni durante il secondo dopoguerra a causa delle discriminazioni nei confronti delle popolazioni turco-musulmane di Bulgaria e culminato negli anni Ottanta con la fuga verso la Turchia di più di 300.000 turchi e pomaki (musulmani di lingua bulgara), oggi i due paesi hanno intrapreso un percorso di moderata distensione, tanto da concludere un accordo di libero scambio.
La Bulgaria è parte dell’Organizzazione per la cooperazione economica del Mar Nero (Bsec), assieme agli altri paesi rivieraschi, alle repubbliche caucasiche di Armenia e Azerbaigian, alla Moldavia, alla Serbia e all’Albania.
Il paese è una repubblica parlamentare con un’assemblea unicamerale eletta ogni quattro anni. Il primo ministro acquisisce formalmente l’incarico dal presidente della Repubblica ma deve ottenere la fiducia dell’assemblea per governare. L’attuale premier è il conservatore Boyko Borisov del partito Cittadini per lo sviluppo europeo della Bulgaria (Gerb), salito al potere nelle elezioni anticipate del 5 ottobre 2014 dopo l’ennesima crisi di governo che ha coinvolto il socialista Plamen Oresharski. Alle dimissioni di Oresharski ha contribuito non solo il deludente risultato elettorale del Partito socialista bulgaro (Bsp) nelle consultazioni europee del maggio 2014, ma anche la crisi economico-finanziaria del luglio dello stesso anno che ha visti coinvolti i maggiori istituti di credito nazionali. La vittoria di Borisov tuttavia non ha risolto l’impasse politica che si è registrata in Bulgaria. Come già avvenuto nel 2013, l’affermazione risicata di Gerb non ha permesso di conquistare la maggioranza assoluta in un parlamento sempre più frammentato: il partito conservatore è stato costretto a creare nuove e ampie alleanze per formare un esecutivo stabile.
Ai problemi politici interni si sono aggiunti altrettanto gravi problemi sociali rappresentati dal costante afflusso di rifugiati e profughi, in particolare dalla Siria. Nel tentativo di contenere la già importante mole di migranti giunti nel paese attraverso la cosiddetta ‘rotta balcanica’ durante l’estate del 2015, il governo ha annunciato un nuovo ampliamento del muro che divide il paese dalla Turchia.
La popolazione bulgara ha registrato un calo demografico rispetto agli anni Ottanta, quando il paese contava quasi nove milioni di cittadini. Oggi sono scesi a poco più di sette milioni e si è stimato che, entro il 2020, i bulgari potrebbero scendere a sette milioni. Il fenomeno è collegato direttamente all’emigrazione: tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta molti turchi sono stati costretti a lasciare il paese e dall’inizio della transizione post-comunista la migrazione netta è sempre stata negativa (dal picco di 70.000 emigrati tra il 1990 e il 1995 ai 10.000 tra il 2005 e il 2010).
In Bulgaria vi sono tre principali gruppi etnici: i bulgari (85% della popolazione), i turchi (circa il 9%) e i rom (5%).
È presente, inoltre, una minoranza macedone che non è conteggiata a livello ufficiale. Ai gruppi etnici corrispondono lingue e religioni differenti. Gli ortodossi rappresentano l’84% della popolazione, i musulmani sono il 13% e i cattolici il 2%. Esistono anche minoranze protestanti ed ebraiche. Il legame tra etnie e religioni non è lineare poiché i rom sono sia cristiani sia musulmani; anche una minoranza di bulgari è musulmana.
Nonostante la libertà di religione sia tutelata dalla Costituzione, le minoranze etniche e religiose sono comunque discriminate. Tra queste le più colpite sono le comunità rom, poco rappresentate politicamente e ripetutamente oggetto di manifestazioni xenofobe e tra le maggiori vittime del traffico illegale di persone. Il settore dell’istruzione ha risentito della riduzione dei fondi disponibili nell’epoca post-sovietica, con un conseguente lieve peggioramento della sua qualità (la spesa per l’istruzione supera di poco il 4% del pil). Tuttavia l’accesso all’istruzione è in crescita: il numero di laureati sta aumentando (oggi rappresentano più di un quarto della forza lavoro). Le donne rimangono sottorappresentate in politica; alle elezioni del 2009 hanno guadagnato il 21% dei seggi in parlamento. In quelle del 2014 rappresentavano il 24% dei candidati. Pur essendo la libertà di espressione un diritto sancito dalla Costituzione e generalmente rispettato, un aspetto critico concerne l’indipendenza dei media bulgari, parzialmente compromessa da pressioni politiche ed economiche. La maggior parte dei giornali appartiene a banche o imprese private, mentre la pubblicità del governo e delle imprese pubbliche rappresenta una delle maggiori fonti di introiti, il che spinge i giornalisti verso l’autocensura.
Corruzione e crimine organizzato sono ancora molto diffusi. Nella classifica di Transparency International sulla corruzione percepita, la Bulgaria è il penultimo paese Eu dopo la Grecia. Importante, in tal senso, sono gli emendamenti costituzionali introdotti nel corso del 2015 dall’esecutivo su pressioni di Bruxelles per riformare il sistema giudiziario e renderlo maggiormente indipendente dalla politica, in modo da favorire la sua azione nella lotta alla corruzione e al crimine organizzato.
A otto anni di distanza dal suo ingresso nell’Unione Europea, la Bulgaria rimane il paese più povero dell’Eu. Con una media salariale di circa 400 euro al mese, un reddito pro capite di 18.327 dollari l’anno, una moderata crescita del pil (solo 1,2% nel 2014) e un terzo della popolazione che vive sotto la soglia di povertà, Sofia non è riuscita a migliorare le condizioni generali di vita della popolazione. Negli anni Novanta, nella fase di riconversione economica, il paese è stato attraversato da ricorrenti crisi. Tuttavia, tra il 2003 e il 2008 l’economia bulgara ha conosciuto una forte ripresa, crescendo a un tasso medio superiore al 5,5% annuo, salvo poi conoscere una battuta d’arresto nel 2009, durante la crisi economica mondiale. Anche le finanze pubbliche sono state riassestate nell’ultimo decennio e una serie di surplus fiscali ha ridotto il debito del paese dal 70% del pil nel 2000 al 14,1% nel 2008, per poi subire un incremento nel corso degli ultimi cinque anni, assestandosi al 29%, complice anche la crisi economica.
La composizione dell’economia è lentamente mutata, passando da una netta preminenza dell’industria sovietica nel 1989 all’attuale prevalenza del settore dei servizi (che pesa per circa il 66% sul pil nazionale). La riconversione ha generato un elevato tasso di disoccupazione (12,9%), che ha afflitto il paese per un quindicennio e che, con la crisi economica internazionale, ha ormai superato la doppia cifra.
La Bulgaria ha fatto segnare deficit costanti di bilancia commerciale, soprattutto in ragione del fatto che il suo sistema economico dipende in buona misura dall’importazione di energia. Non è un caso che le esportazioni bulgare siano dirette principalmente verso i paesi dell’Eu e siano costituite da prodotti finiti o semilavorati, mentre le importazioni provengano soprattutto dalla Russia e si compongano di idrocarburi (la quasi totalità del gas consumato dal paese è russo). Nonostante la necessità di importare energia, la Bulgaria resta comunque dipendente dall’estero solo per il 36% dei suoi consumi energetici interni. Ciò accade perché il paese, oltre a produrre circa il 40% del carbone consumato dispone, inoltre, di una centrale nucleare che soddisfa il 22,5% dei suoi consumi energetici.
D’altra parte, tra le condizioni poste dall’Unione Europea all’ingresso della Bulgaria vi era la richiesta di chiusura, per ragioni di sicurezza, di due dei quattro reattori della centrale di Kozloduy, sul Danubio. La generazione di elettricità della centrale è così diminuita, dal 2006, dal 45% a circa il 35% del totale della produzione elettrica nazionale. Il progetto di costruire una nuova centrale nucleare a Belene è tramontato a causa della crisi finanziaria e al suo posto sarà realizzata una centrale a gas, aumentando la dipendenza nazionale dalle importazioni energetiche.
La spesa militare bulgara dell’ultimo decennio è stata tra le più alte rispetto a quelle dei propri vicini europei (intorno all’1,6% del pil annuo), sebbene negli ultimi anni sia andata riducendosi. Le forze militari sono sovradimensionate e soffrono di una cronica mancanza di fondi. I bassi stipendi e le cattive condizioni delle strutture costituiscono limiti alla capacità di reclutamento dell’esercito, dopo che nel 2007 è stata eliminata la leva obbligatoria. Per questa ragione le forze armate, che nel 2007 consistevano di circa 40.000 soldati attivi, si sono ridotte rapidamente fino a contare oggi poco più di 31.000 effettivi.
Il bilancio del ministero della difesa è stato sottoposto a forti pressioni anche a causa della scelta di Sofia di dimostrare la sua fedeltà politica agli Usa con il dispiegamento militare in diverse missioni all’estero. Lo schieramento di un contingente di oltre 400 uomini in Afghanistan (nel 2015 ridotto a 110) ha avuto luogo già nel 2003 (prima dell’ingresso ufficiale del paese nell’Alleanza atlantica, verificatosi nel 2004). La decisione, impopolare, di partecipare anche alla missione in Iraq fu rivista già nel dicembre 2005, quando il governo scelse di ritirare le proprie truppe. A fare da contraltare a questa decisione, Washington e Sofia avevano appena siglato un accordo di cooperazione in materia di difesa, che concede all’esercito Usa l’accesso e l’utilizzo congiunto di gran parte delle basi militari nel paese.
In ragione della sua appartenenza alla Nato e delle tensioni derivanti dalla crisi ucraina, la Bulgaria offre supporto logistico e partecipa alle operazioni di addestramento militare che hanno luogo nel Mar Nero nel corso del 2015.
Nel novembre del 2013, ancora prima che si manifestasse in tutta la sua emergenza la questione migranti nei Balcani, la Bulgaria aveva approvato la costruzione di una barriera lungo tutto il confine con la Turchia. La prima frazione (32 chilometri) era stata terminata nel 2014 e secondo il ministero degli interni bulgaro aveva impedito un afflusso importante di clandestini nel paese (solo 4000 persone nell’anno di riferimento rispetto alle 11.000 del 2013). Nell’agosto 2015, di fronte ad un aumento esponenziale del numero di migranti lungo le frontiere orientali europee – in particolare di siriani, iracheni e afghani – e per effetto della controversa decisione assunta dal governo ungherese di isolare il confine con la Serbia innalzando una propria barriera difensiva, la Bulgaria ha reagito alla situazione disponendo dapprima solo l’invio di alcuni blindati ai valichi di frontiera con la Macedonia, con l’intento di controllare i flussi e gli ingressi illegali. In secondo luogo ha però deciso di ampliare i lavori di costruzione del proprio muro al confine con la Turchia. L’intera barriera dovrà essere lunga 160 chilometri, alta quattro metri e sarà costruita con reti metalliche, filo spinato e telecamere lungo tutto il percorso. A garanzia di una ferma vigilanza lungo la frontiera turca, saranno disposti almeno un soldato di guardia ogni 100 metri.
Il Movimento per i diritti e le libertà (Dps) è il partito di riferimento della minoranza turca in Bulgaria (750.000 residenti). Il Dps, che ha conosciuto un’ascesa costante tra il 2001 (quando aveva raccolto il 7,5% dei suffragi) e il 2009 (14,5%), è, sin dalla sua fondazione (1990), sotto la guida di Ahmed Dogan, ex dissidente durante il periodo sovietico. Fautore del successo del partito, è molto criticato per il controllo pressoché totale che esercita su di esso. Nel gennaio 2013 è sfuggito a un tentativo di assassinio durante un comizio a Sofia da parte di un cittadino bulgaro di origine turca: i moventi andrebbero ricercati nelle lotte intestine in seno al Dps. Il programma del partito, rimasto sempre nell’alveo della moderazione, ha ignorato le richieste del fronte separatista e ha portato avanti le istanze dei bulgari-turcofoni di più ampi diritti culturali, religiosi ed economici per la minoranza turca. Ciononostante, il sistema di discriminazioni nei confronti dei cittadini bulgari di origine turca non è stato del tutto abbattuto.