CACCIA
Nell'Antico Testamento la c. assume diversi significati a seconda dei contesti in cui viene menzionata. Il primo riferimento indiretto alla c. si trova nella Genesi (1, 26): "E Dio disse: Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra"; la superiorità accordata da Dio all'uomo su tutto il mondo animale giustificherebbe la c. in quanto mezzo di sussistenza e di difesa (Gn. 9, 2-4; Es. 23, 29). Tuttavia nella diffusa interpretazione della c. in chiave allegorica, ove l'analogia con la guerra svolge un ruolo considerevole, i cacciatori sono per lo più figura del nemico, pericoloso e malvagio (Mic. 7, 2; Ger. 5, 26), da cui solo Dio può salvare (Sal. 31 (30), 5; 91 (90), 3; 119 (118), 61). Più numerose sono le metafore ispirate agli strumenti di c. e al loro utilizzo (Sal. 9, 16; 124 (123), 7; Ez. 17, 20; Is. 51, 20).La c. con l'arco, raffigurata spesso nei manoscritti fra le illustrazioni a margine del salmo 90 (89), simboleggia, secondo Van Marle (1931), la brevità e la debolezza della vita umana di cui parla il salmo, mentre per Shapiro (1963) la figura dell'arciere è emblema della forza e vitalità proprie della vita terrena; in quanto tale appare infatti raffigurata su vari portali romanici (per es. quello della chiesa di Andlau, in Alsazia) come anche, insieme al cavaliere con falcone simboleggiante la vitalità della giovinezza, nelle miniature del Salterio di Canterbury (Parigi, BN, lat. 8846).Nell'Antico Testamento gli animali associati alla c. tendono ad assumere un significato allegorico, a cominciare in particolare dal cervo, la cui immagine è soprattutto legata, nell'Occidente cristiano, all'importanza di Sal. 42 (41), 2 ("Come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio"), cantato dai catecumeni che si apprestavano al battesimo, che si offriva facilmente a interpretazioni allegoriche, al pari di Gb. 39, 1. Nei commentari patristici, infatti, il cervo è allegoria dell'anima che cerca Dio. Agostino (Ann. in Job; PL, XXXIV, col. 880) paragona la corsa del cervo verso l'acqua al pellegrino e il cervo a Cristo, che combatte la serpe e cioè il male (si veda anche Rabano Mauro, Allegoriae in universam sacram Scripturam; PL, CXII, col. 893). Il cervo è dunque simbolo sia dell'umanità assetata, che cerca l'acqua senza averla ancora trovata, sia del Cristo crocifisso. Tale visione trova una buona esemplificazione nelle miniature del Salterio di Utrecht (Bibl. der Rijksuniv., 32, c. 24v), dove il cervo che va all'acqua è inseguito da due cani (Helsinger, 1971). Analogamente, anche la lotta che Davide deve combattere contro un leone e un orso per difendere le sue greggi (1 Sam. 17, 34-37) è una metafora della lotta del cristiano contro il demonio e l'anticristo: secondo Rabano Mauro il leone simboleggia l'anticristo e l'orso il diavolo (Comm. in libros IV Regum, I, 17; PL, CIX, col. 52).Dall'inizio dell'Alto Medioevo i documenti che forniscono informazioni sulla c. sono numerosi. La c. si evolve nei suoi metodi e strumenti e nelle sue regole; non è più un mezzo come un altro per procurarsi il cibo e per difendersi, diventa anche un'occasione di divertimento e un modo di ostentare il proprio status sociale. A sostegno di questo nuovo e importante ruolo, anche politico, dell'attività venatoria, essa viene corredata da un'interessante produzione letteraria di trattati che, ricchissimi di dettagli sui diversi modi di catturare le prede, contribuiscono a definirne la specifica iconografia. Essi riflettono l'evoluzione subìta nel corso del Medioevo dall'attività venatoria, che diviene espressione di un nuovo interesse dell'uomo medievale verso la natura e infine simbolo di un gioioso costume cortese a cui vengono associati significati liturgici e cavallereschi: in questo spirito Luigi IX di Francia creò la carica di capocaccia del re e istituì le prime regole dell'arte venatoria. Il trattato Trésor de vénerie, scritto da Hardouin de Fontaine-Guérin prima del 1394, descrive le varie fasi della c. al cervo, seguendo in buona parte il testo del poema La chace dou cerf, della seconda metà del 13° secolo. Il Trésor de vénerie inoltre, definendo i toni del corno nei diversi momenti della c., influì sulle successive composizioni musicali dette, appunto, c. (Tilander, 1969, p. 230). Fra il 1200 e il 1250 il trovatore Daude de Pradas scrisse Lo romans dels auzels cassadors, il più completo poema-trattato di falconeria; a esso l'imperatore Federico II di Svevia (1194-1250) attinse per il suo trattato De avibus rapacibus (Ghidini, 1929, p. 40). Dello stesso Federico II è, nel quinto decennio del Duecento, il De arte venandi cum avibus, il più celebre e importante trattato di falconeria, la c. ai volatili per mezzo di un falco appositamente addestrato. Si tratta di un vero e proprio testo di ornitologia, basato soprattutto sull'osservazione diretta della natura, diviso in due parti: nella prima sono descritti minuziosamente (anatomia, comportamento, ecc.) uccelli d'ogni specie, nella seconda è analizzato nei dettagli l'addestramento dei falconi.Nel periodo successivo a Federico II la c. assume sempre più chiaramente valore espressivo di un ceto sociale e di una cultura elitaria di stampo cortese e cavalleresco, acquistando nuova importanza nella vita sociale, mentre la figura del cacciatore viene investita di tutta una serie di significati ulteriori. Il cacciatore diventa una sorta di eroe, di celebrante e, come scrive Gaston Phébus nel suo celebre Livre de la chasse (1387-1389), "nel gioco della caccia bisogna dimostrare Fede e Cavalleria". Al libro di Gaston, Edoardo duca di York aggiunse cinque capitoli intitolati The Master of Game, che costituiscono la più antica opera inglese sulla c., mentre un altro importante trattato è il Livre du roi Modus et de la reine Racio, che illustra la pratica e la teoria della scienza della c. e della falconeria.Iconografia.- L'arte cristiana dei primi secoli non sembra avere particolare interesse per la c., descritta in casi di scarsa importanza per la storia della cinegetica. Fra questi si annoverano alcuni sarcofagi della Gallia ove appare la figura del cacciatore in atto di scagliarsi con la lancia contro bestie feroci, in chiara ripresa di modelli classici (Le Blant, 1886, tavv. 19, 38). Come motivo soprattutto decorativo, la c. appare presa in prestito in particolare dall'arte orientale, si diffonde anche nelle chiese fino all'età merovingia (Schlosser, 1896, p. 389), mentre il tema classico della c. di Meleagro fornisce modelli per iconografie come quella che figura sulla lunetta del portale di facciata della chiesa di Saint-Ursin a Bourges.In età medievale l'iconografia della c. moltiplica i propri temi attorno a due modelli principali: la c. a piedi e la c. a cavallo. La prima sembra essere più antica e derivare dal modello della c. al cinghiale di epoca romana. Se ne trovano esempi nell'arte carolingia (Boinet, 1913, tav. 66; Goldschmidt, 1914-1926, II, tav. 69) e soprattutto romanica: avori, stoffe, pitture e, prevalentemente, sculture architettoniche. La c. a cavallo, presente anch'essa nell'arte romana, nel Medioevo discende probabilmente da modelli copti. Figure di cavalieri e animali fra racemi si trovano nei rilievi a fasce verticali fiancheggianti il portale della chiesa di S. Marcello Maggiore a Capua, del sec. 12° (Venturi, 1904, p. 536, fig. 497).Un altro filone iconografico è rappresentato dalla c. 'a corsa', presente in un rilievo longobardo del sec. 8°, nel portico della cattedrale di Civita Castellana. Solo verso la fine del Romanico le scene di c. 'a corsa' si presentano in forme più realistiche e vivaci (rilievo con le Storie di Teodolinda sulla facciata della chiesa di S. Zeno a Verona; cofanetto ligneo scolpito del Civ. Mus. Cristiano di Brescia; Kohlhaussen, 1928, tav. 1). Nel sec. 14° il soggetto appare sviluppato dagli intagliatori d'avorio francesi, con la moltiplicazione del numero delle figure. In Germania e nei paesi nordici, il motivo della c. 'a corsa' è impiegato nel sec. 14° per le decorazioni di dimore signorili, come quella del castello di Runkelstein (Schlosser, 1896).Vari documenti, come gli inventari dei guardaroba, testimoniano che la c. era un soggetto molto frequente in opere che, per la loro appartenenza alla trascurata categoria delle 'arti minori', sono andate in grandissima parte perdute. Tra i numerosi inventari di principi francesi della fine del sec. 14°, quello di Filippo l'Ardito registra nel 1381 l'acquisto di un arazzo raffigurante la storia di un re tramutato in cervo nel corso di una partita di caccia.Di particolare interesse è la falconeria, di origine orientale, giunta in Occidente attraverso l'Europa centrale e largamente diffusa nel Basso Medioevo, come testimoniano i trattati sull'argomento, a cominciare dal già ricordato De arte venandi cum avibus di Federico II, e una numerosa serie di opere d'arte che la prendono a soggetto. La sua fortuna è dovuta in gran parte al significato che le venne attribuito: era ritenuta, infatti, il più nobile e prestigioso fra i modi di cacciare e il simbolo dell'appartenenza alla classe sociale più elevata.Quanto alla c. con l'arco, molto in voga nell'Alto Medioevo e in età romanica, essa si trova raffigurata in epoca carolingia in oggetti d'avorio e in miniature (Goldschmidt, 1914-1926, I, tav. 26), come nell'Evangeliario di Ebbone (Epernay, Bibl. mun., 1; Boinet, 1913, tavv. 67, 112). In età romanica è diffusa, in uno con il motivo del centauro, soprattutto in miniature e rilievi scultorei (portale della chiesa di S. Nicola a Bari, fregio su uno dei campanili del duomo di Fidenza, portale della chiesa abbaziale di Andlau). Il tema del centauroarciere è presente anche nelle decorazioni all'interno di dimore principesche, come per es. nel mosaico della sala di Ruggero II a Palermo. La c. con l'arco figura anche nelle illustrazioni della biblica c. di Esaù (Gn. 22, 3): fra le raffigurazioni più aderenti al testo è quella del ciclo tardoduecentesco di S. Maria in Vescovìo presso Torri in Sabina (prov. Rieti). Una rappresentazione di epoca posteriore (seconda metà del sec. 14°) si trova in un affresco che decora l'esterno di casa Tonini a Pistoia, dove in un angolo di una lunetta è raffigurato Esaù che tira con l'arco. Non solamente gli animali-selvaggina ma anche quelli impiegati per cacciare divennero soggetti dell'iconografia cinegetica. Il falcone, simbolo del principe, oltre che sui segni del potere di quest'ultimo - lo scettro, il sigillo, ecc. - compare naturalmente fra le decorazioni degli strumenti specificamente adoperati per la falconeria: il cappuccio con cui si copriva il capo del volatile, fondamentale durante l'addestramento, e il guantone che proteggeva il braccio del falconiere (Koechlin, 1924, I, p. 460). Fra gli altri animali utilizzati per la c. il ghepardo è tra i più rappresentati: lo si trova nelle decorazioni a margine di manoscritti bizantini e carolingi (per es. nell'Evangeliario di Lotario, Parigi, BN, lat. 266, del sec. 9°; Boinet, 1913, tav. 35; Martin, 1928, p. 5) e ancora sia in oggetti d'uso sia in opere a carattere monumentale: cofanetti, acquamanili, tappezzerie, ma anche rilievi scultorei, come quello del campanile di Fidenza (Martin, 1910-1914, I, tav. 40). Come per la lepre, il taccuino di Giovannino de' Grassi (Bergamo, Bibl. Civ. A. Mai, Cassaf. 1.21, già Delta 7-14) rivela l'utilizzo della figura del ghepardo anche come motivo ornamentale nella decorazione muraria (Van Marle, 1926). Il cane compare regolarmente nelle scene di c.; se ne trovano importanti esempi soprattutto in età gotica, come le statue di cacciatori con cani all'esterno della cattedrale di Magdeburgo (Hasak, 1899, p. 36), la celebre decorazione a fresco della c.d. camera del Cervo nel palazzo dei Papi ad Avignone o quella relativa al mese di Giugno nel castello del Buonconsiglio a Trento.Un motivo a sé stante, che si evolve nei secoli, è costituito dai cani che inseguono la selvaggina. La sua forte carica comunicativa ha fatto sì che venisse rappresentato quasi in ogni epoca, ma soprattutto nel Basso Medioevo: un esempio si trova nella decorazione della sala di Dante nel palazzo del Popolo a San Gimignano (sec. 13°).La partenza del signore per la c., con tutto il suo sfarzoso seguito di dame, cacciatori, paggi, animali, si diffuse largamente a partire dagli ultimi secoli del Medioevo, per raggiungere la massima fioritura nel 15° secolo. L'origine del motivo sembra debba ricercarsi in Oriente, dove se ne ha un esempio nell'affresco staccato di Turfan (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Völkerkunde) e nelle illustrazioni dei Cynegetica dello pseudo-Oppiano (Diehl, 1926; Van Marle, 1931, p. 222), mentre nell'Alto Medioevo occidentale è raffigurata soprattutto la partenza del cacciatore con il falcone, come si può vedere nel c.d. ricamo di Bayeux (Bayeux, Tapisserie de Bayeux). Nel sec. 13° il motivo si trova nella formella del mese di Maggio nella fontana Maggiore di Perugia, oltre che nelle illustrazioni di calendari. La partenza per la c. è anche uno dei soggetti più rappresentati nel sec. 14°; occupa un posto importante sia negli avori francesi sia all'interno di cicli ad affresco italiani di carattere pubblico, raffiguranti lo stato di tranquillità e spensieratezza assicurato da un governo politicamente stabile ed energico. In questa chiave si deve leggere la rappresentazione della partenza per la c. accanto a figure di danzatori affrescate da Giotto sotto l'immagine della Giustizia nella cappella degli Scrovegni a Padova e così quella eseguita da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena, sulla parete dedicata agli effetti del Buon Governo. Un diverso significato assume la partenza per la c. nel celebre affresco del Trionfo della morte nel Camposanto di Pisa: qui la presenza di cacciatori, con tutto l'animato seguito di dame, paggi e animali, è posta crudamente di fronte a quella di tre cadaveri per esprimere, in modo diretto e inquietante, il contrasto tra la vita e la morte. Il motivo del corteo di cacciatori compare anche in contesti religiosi; fra questi i principali sono rappresentati dalle scene della Fuga in Egitto e dell'Adorazione dei Magi.Nell'iconografia dell'arte cristiana due santi, oltre a Esaù, fanno direttamente riferimento alla c.: s. Eustachio e s. Uberto. La leggenda di s. Eustachio, che narra la conversione del santo in seguito all'apparizione di un crocifisso luminoso fra le corna di un cervo durante una battuta di c., ebbe enorme fortuna soprattutto nel Basso Medioevo e divenne presto celebre l'iconografia del santo inginocchiato di fronte al cervo, dalle cui corna si propaga la luce della croce. La stessa iconografia appartiene anche a s. Uberto, il cui culto si diffuse largamente soprattutto nel mondo germanico a partire dall'8° secolo. La figura di s. Eustachio compare fra le miniature di molti manoscritti, tra cui le Ore di Giovanna di Savoia (Parigi, Mus. Jacquemart-André, c. 146r, metà del sec. 14°). L'iconografia di s. Uberto, i cui primissimi esempi non sono datati prima del sec. 15° (Réau, 1959, p. 661), si sostituì a quella di s. Eustachio solo nel 16° secolo.
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Fin dal sec. 11° la c., in tutte le sue possibili forme, è stata materia di trattati destinati a creare in chi ne fruiva una solida formazione in un campo che per la sua complessità non poteva assolutamente essere abbandonato alle approssimazioni della pura e semplice tradizione orale. Il carattere essenzialmente pedagogico di tutte queste opere si spiega facilmente: nella cultura medievale l'eccellenza nella pratica della falconeria e dell'arte venatoria, la capacità di padroneggiarne i termini, la conoscenza delle abitudini della selvaggina, le nozioni di veterinaria che consentono di mantenere in buona salute i preziosi ausiliari del cacciatore, i cani e i falconi, rappresentano altrettante prove di una buona educazione. In ciò il Medioevo si ricollega, indirettamente, al pensiero di Senofonte, che nel Cynegeticus già vedeva nella c. il miglior mezzo per temprare i giovani alle virtù militari; quando, nel sec. 12°, Robert Wace nel Roman de Rou (vv. 2275-2277) si congratula con il giovane duca di Normandia, Riccardo I, per aver saputo riservare una gran parte del suo tempo all'addestramento dei cani e degli uccelli da preda, non fa che esprimere un'opinione largamente diffusa.Fino al sec. 13°, le opere dedicate all'arte cinegetica sono relativamente modeste sia nello spessore sia nella veste formale. È però significativo che in seguito siano state ritenute abbastanza importanti da essere infaticabilmente ricopiate di secolo in secolo, tradotte dal latino originale nella maggior parte delle grandi lingue volgari dell'Europa occidentale, compreso lo svedese, e incessantemente riutilizzate da autori più recenti che spesso si limitavano a rivestire di una forma più letteraria i dati puramente tecnici forniti dai loro predecessori, in genere anonimi o d'incerta identità. Fra i trattati più antichi e più diffusi si possono citare a titolo di esempio i tre dedicati alla falconeria e attribuiti uno a un mitico Dancus Rex e gli altri a due falconieri chiamati Guillelmus e Gerardus, sicuramente vissuti nella cerchia del re normanno di Sicilia Ruggero II (1095-1154). Va però precisato che questi primi esempi di opere sulla c. sono stati trasmessi in manoscritti molto modesti per quanto riguarda la veste formale. Essi non presentano alcun interesse per la storia dell'arte perché privi, salvo rarissime eccezioni, di ogni illustrazione; infatti, come è noto, solo dalla metà del sec. 13° la miniatura fu praticata da artisti laici e fintanto che la produzione dei manoscritti fu riservata agli scriptoria ecclesiastici questi non si interessarono di un soggetto profano come la caccia.È lecito chiedersi perché le prime opere pervenute su questo argomento riguardassero esclusivamente la falconeria, anticipando di circa un secolo i primi due trattati sulla c. con cani di cui si hanno notizie, l'uno composto in latino da un cavaliere tedesco (miles Teutonicus) chiamato Guicennas, l'altro intitolato La chace dou cerf, redatto in ottonari da un autore anonimo. C. con falcone e c. con cani erano in realtà due attività praticate da molto tempo in Europa e il titolo di falconiere (falconarius) figurava già in alcuni diplomi imperiali dell'epoca carolingia. Data l'origine orientale della falconeria e il suo grande sviluppo nei paesi soggetti alla dominazione araba, è probabile che la sua enorme diffusione in Europa, a partire dalla fine del sec. 11°, sia stata favorita dai contatti - sia pure conflittuali - stabilitisi tra la feudalità occidentale e il mondo islamico in occasione delle crociate, dell'insediamento di regni franchi in Terra Santa e delle lotte di riconquista condotte in Spagna e in Italia meridionale contro l'invasore arabo.Non è certamente per caso che i primi trattati sulla c. siano stati redatti durante la prima metà del sec. 12°, nell'ambito della corte reale della Sicilia appena strappata ai musulmani e che la versione latina di altri due, tradotti dall'arabo o forse dal persiano, sia attribuita a due falconieri orientali chiamati Moamin e Ghatrif (Tjerneld, 1945). E non è meno significativo che gli uni e gli altri raccomandino per certe cure da prestare ai falconi l'uso della bambagia (carta bombacis), prodotto allora molto diffuso nell'impero bizantino e nei paesi arabi, ma ancora quasi sconosciuto in Europa occidentale. Spettò a Federico II di Svevia il merito di imprimere alla falconeria carattere di nobiltà e darle un posto nella storia del libro illustrato. La sua celebre opera De arte venandi cum avibus è infatti il primo testo di questo genere pervenuto in manoscritti riccamente miniati e in bella scrittura (Die Zeit der Staufer, 1977). È da rilevare che il sovrano, la cui inestinguibile curiosità abbracciava tutti i campi del sapere, non era estraneo alla cultura musulmana e quando visse in Sicilia ebbe al suo servizio falconieri arabi. Potrebbe anche darsi che uno di questi fosse lo stesso Moamin, alla cui opera fece ampio ricorso. Federico II, dietro richiesta di Manfredi, il figlio naturale legittimato, occupò il tempo che gli lasciava il lungo assedio con cui tentava di spezzare la rivolta di Parma con la stesura delle sei parti, o libri, del suo trattato, scritto fra il 1248 e il 1250, anno della morte. Poco dopo il compimento dell'opera, e forse mentre il suo autore era ancora in vita, ne fu eseguita, sicuramente in Italia, una copia di lusso, riccamente illustrata. Purtroppo oggi essa è scomparsa, ma la testimonianza del milanese Guilielmus Bottatius, che nel 1264-1265 prese visione del volume, assicura che era di una meravigliosa bellezza; il testo, impreziosito da lettere d'oro e d'argento, includeva un frontespizio raffigurante l'imperatore in maestà e una decorazione marginale di cani, uccelli, falconieri e cacciatori, eseguita con arte mirabile. Queste precisazioni fanno pensare che un altro esemplare dello stesso testo, eseguito su richiesta di Manfredi, che l'aveva arricchito di due libri supplementari di suo pugno, e attualmente conservato a Roma (BAV, Pal. lat. 1071), riproducesse fedelmente il modello perduto di cui parla Bottatius (Volbach, 1939; Die Zeit der Staufer, 1977, I, nr. 824; II, tavv. 616-617). I ritratti di Federico e di Manfredi che fungono da frontespizio al manoscritto sono stati eseguiti in uno stile bizantineggiante che deriva direttamente da un prototipo ufficiale creato alla corte imperiale di Palermo. Le frequenti raffigurazioni marginali di uccelli sono di straordinaria qualità e di grande precisione nel dettaglio; si ispirano ampiamente a modelli orientali (tessuti sasanidi allora imitati in Sicilia, manoscritti od oggetti musulmani importati dal Medio Oriente). È lecito quindi attribuire al manoscritto commissionato da Manfredi (e sicuramente anche al suo modello andato perduto) un'origine siciliana o quanto meno circoscritta all'Italia meridionale (Daneu Lattanzi, 1966, p. 49ss.). Il trattato di Federico II fu tradotto e diffuso in Francia in seguito a drammatiche circostanze. Quando, nel 1266, Manfredi cadde sotto i bastioni di Benevento combattendo contro Carlo d'Angiò, il suo manoscritto rientrò nel bottino di guerra che si divisero i vincitori e fu assegnato al cavaliere lorenese Jean de Dampierre, che militava nell'esercito angioino; questi, rientrato in Francia nei primi anni del sec. 14°, fece certamente tradurre in dialetto lorenese il trattato di Federico II con le aggiunte di Manfredi. Il bellissimo esemplare di questa traduzione, oggi conservato a Parigi (BN, fr. 12400), è stato arricchito, probabilmente nella Champagne, da notevoli miniature, dovute a Simon d'Orléans, che s'ispirano direttamente al manoscritto di Manfredi.Nel sec. 14° si assiste al moltiplicarsi delle opere di carattere cinegetico che - pur utilizzando largamente i testi anteriori, le cui copie diventavano sempre più numerose in Europa mentre ne venivano eseguite traduzioni in volgare - testimoniano da parte degli autori una volontà del tutto nuova di fare opera letteraria. Certamente nessuna di esse supera ancora il modesto livello dei più antichi manuali e di questa copiosa produzione è sufficiente segnalare, per es., il più antico trattato di c. composto in Inghilterra, generalmente designato con il titolo Vénerie de Twiti, opera di William Twich (o Twety o Twyti; i documenti non concordano sull'ortografia del nome), cacciatore del re d'Inghilterra Edoardo II (1307-1327). Altri autori, come Gace de la Buigne, cappellano del re di Francia Filippo VI di Valois (nato nel 1293; re dal 1328 al 1350) e autore del Roman des deduis in ottonari che, nonostante il titolo un po' ingannevole, è da annoverarsi fra i trattati di c., si adoperarono a dare ai loro precetti una forma più attraente. Né il Roman des deduis né altre opere più o meno contemporanee hanno dato luogo, nel sec. 14°, all'esecuzione di manoscritti miniati, fatta eccezione per uno dei più famosi trattati di c. del Medioevo, intitolato Livre du roi Modus et de la reine Racio, composto tra il 1354 e il 1377, e oggi universalmente attribuito a Henri de Ferrières, un cavaliere normanno che dal 1369 fu 'capitano e castellano' del castello di Pont-de-l'Arche, vicino Rouen (Le livre de chasse, 1931; Les manuscrits des livres, 1932). Gli intenti moralistici dell'autore sono già ravvisabili nel titolo dell'opera: porre il proprio insegnamento cinegetico nella bocca di un immaginario re di Francia il cui nome (Modus) evoca immediatamente la misura, la moderazione, e dargli come sposa una regina Racio (la ragione) indicano fin dall'inizio che agli occhi dell'autore l'insegnamento della c. può e deve essere visto come un'iniziazione all'esercizio delle più alte virtù. D'altronde egli non si astiene dall'intercalare nelle sue esposizioni tecniche considerazioni morali e, valendosi di esempi tratti dal comportamento delle varie specie di selvaggina, indica al lettore quali principi debbano guidare la sua vita. Questa sorta di enciclopedia, per metà tecnica, per metà letteraria, che per estensione e interesse superava di gran lunga le opere anteriori attinenti al medesimo soggetto, conobbe un successo notevole, attestato dall'elevato numero di manoscritti che se ne sono conservati: trentadue, di cui ventidue miniati, eseguiti tra la fine del sec. 14° e l'inizio del 16° (Les manuscrits des livres, 1932). Il più antico (Parigi, BN, fr. 12399), datato 1379, è il migliore riguardo al testo e uno dei più belli per le illustrazioni (Le livre de chasse, 1931). Queste, molto pregevoli, vennero eseguite in una bottega parigina che il re di Francia Carlo V (nato nel 1338; re dal 1364 al 1380), di cui è noto l'interesse per l'opera, onorò di numerose ordinazioni. Questo importante volume, che in seguito fece parte della biblioteca del duca di Borgogna Filippo il Buono (1419-1467), introduceva per la prima volta nella storia della miniatura temi e modelli affatto nuovi, destinati a una larga diffusione in virtù del successo di un testo il cui programma illustrativo sarebbe stato codificato in modo più o meno invariabile (Thoss, in Le livre de chasse, 1989). Meno di venti anni dopo la composizione del Livre du roi Modus et de la reine Racio, la parte del trattato dedicata all'arte venatoria sarebbe stata ampiamente riutilizzata da un nobile guascone: Gaston Phébus, conte di Foix (1331-1391), così soprannominato a causa della sua copiosa capigliatura di un biondo fulvo, redasse a sua volta il Livre de la chasse, che divenne per molto tempo - e lo è ancora oggi - la bibbia dei cacciatori e un riferimento essenziale per tutti gli autori di opere sulla c. (Thomas, in Gaston Phébus, Le livre de la chasse, 1986). Prima di dedicarsi, a partire dal 1° maggio 1387, alla redazione del trattato, ultimato nel 1389, Gaston Phébus aveva braccato, nelle sue peregrinazioni da un capo all'altro dell'Europa settentrionale e centrale, alcune specie di selvaggina, come la renna, sconosciute nel suo paese natale. L'esperienza che si proponeva di trasmettere ai cacciatori principianti del suo tempo era perciò particolarmente ricca e originale. Egli intendeva trattare il tema non da moralista, come Henri de Ferrières, ma da tecnico, quasi da naturalista. Nonostante abbia preso qualcosa da Gace de la Buigne e largamente plagiato Henri de Ferrières, il suo contributo personale resta notevole, soprattutto per quanto riguarda la natura delle specie di selvaggina di cui tratta, i loro costumi e il loro habitat. Sotto questo profilo la precisione delle descrizioni appare ancora sufficiente perché, nel sec. 18°, Buffon non esitasse in qualche passo della sua Histoire naturelle a citarlo come un'autorità. Sono pervenuti quarantaquattro manoscritti del Livre de la chasse, eseguiti tra la fine del sec. 14° e l'inizio del 16°, oltre alle numerose edizioni successive. Molti manoscritti sono abbondantemente illustrati, spesso secondo un identico programma, il che permette di seguire da molto vicino l'evoluzione stilistica nel tempo e nello spazio di miniature dedicate a un medesimo soggetto. Il manoscritto più antico, conservato a Parigi (BN, fr. 619), molto probabilmente è stato eseguito in una bottega avignonese già attiva al tempo di Gaston Phébus (Nordenfalk, 1977) e può quindi essere datato agli ultimi anni del 14° secolo. L'inizio di ogni capitolo è decorato da illustrazioni a penna il cui stile ancora relativamente arcaico vieta di pensare, come si è fatto talvolta (Tilander, in Gaston Phébus, Livre de chasse, 1971), che possano risalire al 1440. Per molto tempo si è ritenuto che un altro manoscritto dell'opera di Gaston Phébus, che include ottantatré miniature di bella qualità, proveniente dalla Coll. Dubrowski, conservato a San Pietroburgo (Ermitage, Fr. F.v.X.1) fino al 1930 ca. e in seguito venduto all'asta presso Sotheby's il 28 febbraio e il 1° marzo 1987, dovesse essere anch'esso attribuito agli ultimi anni del sec. 14° (Laborde, 1936; Nordenfalk, 1977; Thomas, Avril, in Gaston Phébus, Le livre de la chasse, 1976); un esame più attento delle sue miniature ha consentito di datare il manoscritto intorno al 1430 e di individuare con attendibilità il luogo di esecuzione in Bretagna (Bibliothèque Marcel Jeanson, 1987; Duret-Robert, 1987).Va infine ricordato il famoso e lussuoso esemplare del Livre de la chasse, forse commissionato verso il 1407 a una bottega parigina da Giovanni Senza Paura, duca di Borgogna (1371-1419) e attualmente conservato a Parigi (BN, fr. 616). L'eccezionale qualità delle sue miniature - il cui stile si richiama a quello che Meiss (1974) ha denominato Bedford trend, corrente stilistica da cui qualche anno più tardi sarebbe emersa la maniera molto personale del Maestro delle Ore del duca di Bedford - ne ha fatto a buon diritto uno dei più ragguardevoli monumenti della miniatura francese del primo 15° secolo. Alcune miniature si distinguono per una certa discordanza complessiva dalla produzione parigina dell'epoca e si sarebbe tentati di scorgervi un'influenza germanica o boema, probabilmente dovuta all'origine del più antico esemplare illustrato dell'opera pervenuto, dato che ad Avignone avevano lavorato artisti boemi. Il programma iconografico del più antico manoscritto parigino (BN, fr. 619) e anche molti elementi specifici delle illustrazioni sono stati fedelmente seguiti (Meiss, 1974; Thomas, Avril, in Gaston Phébus, Le livre de la chasse, 1976), tuttavia le miniature sono decisamente superiori, soprattutto per il realismo e la fedeltà al modello vivente che caratterizzano tutte le raffigurazioni di animali. Per uno studio approfondito del modo in cui fu concepita l'arte animalistica nel Medioevo non ci si deve limitare ai manoscritti illustrati che trattano della c.; benché appartengano a tutt'altra categoria letteraria, i bestiari (v.) illustrati dei secc. 12° e 13° contengono sempre capitoli (e miniature) dedicati ad alcune specie animali assimilabili alla comune selvaggina, inseriti fra quelli, molto più numerosi, che descrivono creature esotiche e favolose.È il caso ancora di ricordare che scene raffiguranti la c. e i diversi tipi di selvaggina hanno spesso vivacizzato, alla fine del sec. 13° e durante buona parte del 14°, i margini di manoscritti privi, sia nel testo sia nelle principali illustrazioni, del minimo carattere cinegetico. Talvolta semplici disegni a inchiostro, talvolta minuscole miniature, queste grotesques o drôleries testimoniano spesso una tale sicurezza nel tratto, una tale precisione nell'esecuzione da essere considerate un'ottima fonte documentaria per lo studio dei costumi e della vita quotidiana del tempo (Randall, 1966).
Bibl.:
Fonti. - Les livres du Roy Modus et de la Royne Ratio, a cura di G. Tilander (Société des anciens textes français), 2 voll., Paris 1932; Daude de Pradas, Poésies, a cura di A.H. Schutz (Bibliothèque méridionale, s. I, 22), ToulouseParis 1933; H. Tjerneld, Moamin et Ghatrif. Traités de fauconnerie et des chiens de chasse (Studia Romanica Holmiensia, 1), Stockholm-Paris 1945; A. Blomqvist, Le roman des deduis de Gace de la Buigne, édition critique d' après tous les manuscrits (Studia Romanica Holmiensia, 3), Karlshamn 1951; G. Tilander, La vénerie de Twiti (Cynegetica, 2), Uppsala 1956; Guicennas, De arte bersandi, le plus ancien traité de chasse de l'Occident, a cura di G. Tilander (Cynegetica, 3), Uppsala 1956; La chace dou cerf, a cura di G. Tilander (Cynegetica, 7), Stockholm 1960; G. Holmer, Traduction en vieux français du ''De arte venandi cum avibus'' de l'empereur Frédéric II de Hohenstaufen (Studia Romanica Holmiensia, 4), Lund 1960; G. Tilander, Dancus Rex, Guillelmus falconarius, Gerardus falconarius (Cynegetica, 9), Lund 1963; Federico II, Über die Kunst mit Vögeln zu jagen, a cura di C.A. Willemsen, 3 voll., Frankfurt a. M. 1964-1970; Robert Wace, Le roman de Rou, a cura di A.J. Holden (Société des anciens textes français), 3 voll., Paris 1970-1973; Gaston Phébus, Livre de chasse, a cura di G. Tilander (Cynegetica, 18), Karlshamn 1971.
Edd. in facsimile. - Federico II, De arte venandi cum avibus. Ms. Pal. lat. 1071 Biblioteca Apostolica Vaticana. Fak-simile, a cura di C. A. Willemsen (Codices e Vaticanis selecti, 31; Codices selecti phototypice impressi, 16), 2 voll., Graz 1969; Gaston Phébus, Le livre de la chasse. Das Buch von der Jagd. Vollständige faksimile Ausgabe in Originalformat des ms. français 616 der Bibliothèque nationale Paris, a cura di M. Thomas, F. Avril, P.H. von Brissac, 2 voll., Graz 1976 (ed. franc. Paris 1976); id., Le livre de la chasse. Reproduction en fac-similé des miniatures du ms. fr. 616 de la Bibliothèque Nationale de Paris, a cura M. Thomas, Paris 1986; Le Bestiaire. Reproduction en fac-similé des miniatures du manuscrit du Bestiaire Ashmole 1511 de la Bodleian Library d'Oxford, a cura di X. Muratova, D. Poirion, Paris 1988; Le livre de chasse du roi Modus Ms. 10218-19 de la Bibliothèque Royale de Bruxelles, 2 voll., Paris 1989.
Letteratura critica. - H. Werth, Altfranzösische Jagdlehrbücher, Halle a.S. 1889; Le livre de chasse du roi Modus illustré de 51 figures d'après les miniatures du ms. 12399 de la Bibliothèque Nationale, a cura di G. Tilander (Les maîtres de la vénerie, 3), Paris 1931; Les manuscrits des livres du roi Modus et de la reine Ratio avec six figures, a cura di G. Tilander (Lunds Universitets Årsskrift, n.s., 1, 28, 5), Lund 1932; J. Thiébaud, Bibliographie des ouvrages français sur la chasse, Paris 1934; A. de Laborde, Les principaux manuscrits à peintures conservés dans l'ancienne Bibliothèque Impériale Publique de Saint-Petersbourg (Société française de reproductions de manuscrits à peintures), I, Paris 1936, p. 48, nr. 50, tav. XXIII; W.F. Volbach, Le miniature del codice Vatic. Pal. Lat. 1071 ''De arte venandi cum avibus'', RendPARA 15, 1939, pp. 145-175; O. Pächt, Early Italian Nature Studies and the Early Calendar Landscape, JWCI 13, 1950, pp. 13-47; Supplément à la Bibliographie des ouvrages français sur la chasse, a cura P. Monchon, Paris 1953; C. A. Wood, F.M. Fyfe, The Art of Falconry Being the ''De arte venandi cum avibus'' of Frederick II of Hohenstaufen, Boston-London 1955; A. Daneu Lattanzi, Lineamenti di storia della miniatura in Sicilia (Storia della miniatura. Studi e documenti, 2), Firenze 1966; L.M.C. Randall, Images in the Margins of Gothic Manuscripts (California Studies in the History of Art, 4), Berkeley-Los Angeles 1966; M. Meiss, French Painting in the Time of Jean de Berry, III, The Limbourgs and their Contemporaries, London 1974, I, p. 60; II, figg. 253-260; M. Thomas, Das höfische Jagdbuch des Gaston Phébus. Die vierzig schönsten Bildseiten aus ms. fr. 616 der Bibliothèque Nationale Paris, Graz 1976; C. Nordenfalk, Hatred, Hunting and Love: Three Themes Relative to Some Manuscripts of Jean sans Peur, in Studies in Late Medieval and Renaissance Painting in Honor of Millard Meiss, a cura di I. Lavin, J. Plummer, New York 1977, I, pp. 324-341; Die Zeit der Staufer. Geschichte-Kunst-Kultur, cat., I, a cura di R. Haussherr, nrr. 824-825, pp. 658-660; II, a cura di C. Väterlein, U. Schneider, H. Klaiber, tavv. 616-618, Stuttgart 1977; Bibliothèque Marcel Jeanson, I, Chasse (Sotheby's, 459), Montecarlo 1987; F. Duret-Robert, Les premiers escripts sur la vénerie, Connaissance des arts, 1987, 419, pp. 52-59.M. Thomas
In ambito orientale, così come in Grecia e a Roma, il tema della c. appare in primo luogo assimilato a quello della guerra; ne è simbolo il padiglione di c. del monarca persiano che Ammiano Marcellino (Rerum gestarum libri, XXIV, 6, 1-3) descrive decorato con scene vuoi di combattimenti vuoi di caccia.Trattati illustrati sulla c. dovettero essere piuttosto diffusi in età tardoromana e bizantina e godere di particolare interesse a giudicare dall'accoglienza - in tutta l'area mediterranea - di scene venatorie eseguite in diversi media, dai tessellati alle oreficerie, ai rilievi marmorei, che nell'immaginazione popolare riflettevano non solo un aspetto della vita agiata e avventurosa, ma anche il benessere fisico e l'integrità morale. A Bizanzio, dove la c. viene praticata con continuità, un vasto e straordinario tessellato che decorava un peristilio del Grande Palazzo conserva brani esemplari di combattimento con e tra animali (sec. 6°-7°). Gli imperatori iconoclasti rilanciano la tematica della c. al leone (frequenti gli esempi su stoffa) quale affermazione di vittoria perpetua, di trionfo imperiale, come ribadiscono le raffigurazioni sul cofanetto eburneo di Troyes (Trésor de la Cathédrale, sec. 9°).Benché la grande c. fosse ritenuta prerogativa imperiale e aristocratica, quasi tutte le classi sociali praticavano questa attività (spesso finalizzandola al consumo alimentare unitamente alla pesca e all'uccellagione), come risulta da trattati e poemi didattici (Cynegeticus di Senofonte, Halieutica di Oppiano di Còrico, Cynegetica dello pseudo-Oppiano di Apamea, De aucupio di Dionigi, ecc.). Opere di ogni media, dal Tardo Antico a tutta l'era bizantina, esemplificano nelle province dell'impero i vari aspetti delle attività venatorie. Usi correnti e fonti letterarie, oggetti e testi figurali informano sulla pratica della c. nelle sue diverse articolazioni: inseguimento, cattura o uccisione dell'animale da parte del cacciatore, a piedi o a cavallo, con o senza reti, trappole, richiami, ecc., con l'aiuto di cani e rapaci ausiliari, nell'ambiente naturale o in tenute cintate, riserve, anfiteatri. Le operazioni di c. più diffusamente raffigurate in ambito bizantino, dalla Tarda Antichità in poi, riguardano in particolare la cattura o l'uccisione della lepre, del cinghiale, dell'orso, del cervo, del leone. Rappresentazioni dei diversi tipi di c. compaiono su tessellati di Antiochia (villa costantiniana, complesso di Yakto, ora a Worcester, Art Mus.; Levi, 1947), della Siria (Damasco, Mus. Nat.; Ḥamā, Mus. de Ḥamā; Apamea; Balty, 1977), della Giordania (Mādabā, Nebo, affreschi a Quṣayr ῾Amrā), della Sicilia (Piazza Armerina; Gentili, 1959) e della Grecia (Argo; Åkerström-Hougen, 1974). Altri manufatti (coppe, vetri, piatti, avori) accolgono le medesime raffigurazioni. Stupende scene di lotta contro il cervo e il leone sono intagliate su due avori conservati a Liverpool (Merseyside County Mus.) e a San Pietroburgo (Saltykov-Ščedrin; Volbach, 1916, nrr. 59-60).Meno frequenti sono le raffigurazioni di uccellagione, che l'ideologia dominante considerava, al pari della pesca, pratica culturalmente meno nobile. Restano testi figurali che visualizzano le tecniche di cattura (panie, reti, richiami) a Oderzo, Cartagine, Argo, Deir Adas (Åkerström-Hougen, 1974, I, pp. 91-93). Il mosaico della villa scoperta ad Argo (500 ca.) mostra la prima scena di falconeria vera e propria, una varietà particolare di c. ai volatili introdotta dall'Oriente (attestata dal 2000 a.C. in Cina e praticata in seguito in Persia e Arabia; Lindner, 1973, p. 111ss.), diffusasi sempre più in Occidente e divenuta nel Medioevo la forma più nobile di caccia.Nel Tolomeo vaticano (Roma, BAV, Vat. gr. 1291) la tavola solare rappresenta il mese di Novembre con una figura maschile che regge, a quanto pare, un falcone sulla mano destra: si conferma qui la tendenza dei calendari bizantini, già avviata nei mosaici con i Mesi della villa di Argo, a sostituire alcune scene di lavoro con motivi di caccia. In altri manoscritti greci è prevalentemente il mese di Ottobre a essere personificato come uccellatore; in un tetravangelo marciano (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, gr. 540) la figuretta relativa a questo mese tiene un uccello da richiamo sul polso sinistro e tre uccelli appesi a un bastone tenuto dalla destra (Furlan, 1979-1988, II, p. 13); lo stesso motivo (senza uccelli appesi) riappare nel Vangelo di Melbourne (Nat. Gall. of Victoria, 710/5) e negli ottateuchi vaticani (Roma, BAV, Vat. gr. 747 e Vat. gr. 746; in quest'ultimo per il mese di Febbraio).Scene di uccellagione con uccelli da richiamo e panie sono miniate alla c. 2v dell'Oppiano marciano, del sec. 11° (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, gr. Z. 479; Furlan, 1979-1988, V, tav. I, fig. 3a-b); in forma compendiata ricompaiono in un manoscritto coevo conservato a Gerusalemme (Greek Orthodox Patriarchate, Lib., Hághiu Táfu 14). Il manoscritto marciano, contenente i Cynegetica dello pseudo-Oppiano di Apamea, codice unico e celeberrimo per le numerosissime vivaci miniature che accompagnano il testo, costituisce l'archivio iconografico medievale di maggiore importanza sull'argomento della caccia. Non è certo che il trattato, redatto probabilmente su papiro agli inizi del sec. 3° e dedicato all'imperatore Caracalla (emulo di Alessandro e 'cacciatore di leoni'), fosse corredato da illustrazioni al tempo della prima stesura, vivente il poeta. Byvanck (1925) ritiene le miniature del manoscritto marciano copie molto fedeli dell'archetipo, eseguito ad Antiochia al tempo del poeta: il carattere delle illustrazioni, dove confluiscono elementi d'arte greca, egizia e persiana, è didattico e tipico delle opere scientifiche. Bonfioli (1956), confrontando elementi tipologici e iconografici nelle miniature del codice veneziano e nei mosaici di Antiochia (villa costantiniana, complesso di Yakto), assegna la composizione del prototipo illustrato dei Cynegetica agli inizi del sec. 5°; Spatharakis (1986) afferma che l'archetipo miniato del trattato risale alla prima metà del sec. 4° e che a esso seguirono altre repliche dalle quali il manoscritto veneziano discende. Resta tuttavia problematico stabilire se l'illustratore medievale dell'Oppiano marciano avesse sott'occhio le immagini corrispondenti di un manoscritto miniato dello stesso poema. Modalità esecutive sembrerebbero provare il contrario, ossia che il pittore, probabilmente lo scriba stesso, rielaborasse liberamente i soggetti (sia del gruppo 'mitologico' sia di quello 'scientifico', piuttosto arbitrariamente assegnati da Weitzmann, 1951, a livelli cronologici e di provenienza diversi) ispirandosi a testi di materia affine disponibili nell'atelier scrittorio (altri trattati sulla c. come quello di Senofonte, testi zoologici e mitologici) e alle descrizioni contenute nel poema stesso. Parallelismi sono riscontrabili tra scene miniate dell'Oppiano veneziano e altre consimili presenti su mosaici pavimentali di Siria, Africa, ecc., e su opere marmoree e d'oreficeria tardoantiche e medievali. I quattro libri del poema sono corredati nel codice marciano da centocinquanta unità miniate. Si tratta di un repertorio iconografico che nell'interpretazione del miniatore costantinopolitano, operante verso la metà del sec. 11°, illustra dal punto di vista zoologico numerosissimi mammiferi, vertebrati come uccelli e serpenti e qualche invertebrato, la cui specie è più volte indicata da iscrizioni apposte alle miniature. Nel primo libro, in particolare, sono visualizzati dal pittore gli ambiti della c. secondo l'habitat degli animali, le armi e l'equipaggiamento dei cacciatori, gli aspetti ambientali dei luoghi nel tempo propizio alla c., le razze e le caratteristiche fisiche dei due animali maggiormente impiegati, ossia il cane e il cavallo. In maniera convenzionale compaiono le raffigurazioni di personaggi storici e mitologici come Caracalla, Oppiano, Dario, Alessandro, Artemide, Atalanta, Ercole, Ippolito, Perseo, Castore, Meleagro.La circolazione, nel sec. 11°, di tematiche e schemi iconografici presenti nel manoscritto marciano è provata, per es., da una scena che compare su un piatto scoperto nel 1976 a Chersoneso (due figure femminili sono intente a raccogliere datteri da una palma), compositivamente legata a quella miniata sulla c. 62r, dove, nell'episodio della fanciullezza di Dioniso presso Aristeo, due ninfe raccolgono olive dall'albero (Zalesskaja, 1984, fig. 5). Altre analogie emergono nel confronto tra scene bucoliche dell'Oppiano e altre consimili di manoscritti contenenti le Omelie di Gregorio Nazianzieno, miniati nell'11° secolo. In una delle omelie (PG, XXXVI, col. 617ss.) Gregorio descrive le bellezze della natura e alcune attività umane (pesca, agricoltura, ecc.); il passo e le relative illustrazioni compaiono in codici conservati a Gerusalemme (Greek Orthodox Patriarchate, Lib., Hághiu Táfu 14), al monte Athos (S. Pantaleimone, 6; Vatopedi, 107), a Parigi (BN, Coislin 239 e gr. 533): è possibile che un manoscritto con il poema illustrato dello pseudo-Oppiano (o codici di materia affine) ne abbia costituito la fonte di ispirazione sia letteraria sia figurativa (cacciatore d'uccelli, pescatore, aratura e altre scene bucoliche; Galavaris, 1969, p. 149ss.).
Bibl.:
Fonti. - Pseudo-Oppiano di Apamea, Cynegetica, a cura di P. Bourdeaux, Paris 1908.
Letteratura critica. - Catalogue des manuscrits grecs de Fontainebleau, a cura di H. Omont, Paris 1889; W.F. Volbach, Elfenbeinarbeiten der Spätantike und des frühen Mittelalters, Mainz a.R. 1916 (19763); A.W. Byvanck, De geïllustreerde handshriften van Oppianus 'Cynegetica' [I manoscritti illustrati di Cynegetica di Oppiano], Mededeelingen van het Nederlandsch Historisch Instituut te Rome 5, 1925, pp. 34-64; G. Brett, The Mosaic, in The Great Palace of the Byzantine Emperors. Being a First Report on the Excavations Carried out in Istanbul on behalf of the Walker Trust 1935-1938, Oxford-London 1947; D. Levi, Antioch Mosaic Pavements, 2 voll., Princeton 1947; J. Aymard, Essai sur les chasses romaines des origines à la fin du siècle des Antonins (Cynegetica) (BEFAR, 171), Paris 1951; K. Weitzmann, Greek Mythology in Byzantine Art (Studies in Manuscript Illumination, 4), Princeton 1951, pp. 93-151; M. Bonfioli, Le rappresentazioni di caccia del Codice Marciano Greco 479-Oppiano, FR, s. III, 20, 1956, pp. 31-49; G.V. Gentili, La Villa Erculia di Piazza Armerina. I mosaici figurati, Roma [1959]; G. Galavaris, The Illustrations of the Liturgical Homilies of Gregory Nazianzenus (Studies in Manuscript Illumination, 6), Princeton 1969; K. Lindner, Beiträge zu Vogelfang und Falknerei im Altertum, Berlin-New York 1973; G. Åkerström-Hougen, The Calendar and Hunting Mosaics of the Villa of the Falconer in Argos, 2 voll., Stockholm 1974; J. Balty, Mosaïques antiques de Syrie, Bruxelles 1977; Z. Kádár, Survivals of Greek Zoological Illuminations in Byzantine Manuscripts, Budapest 1978; I. Furlan, Codici greci illustrati della Biblioteca Marciana, II-V, Padova 1979-1988; I. Spatharakis, Observations on a Few Illuminations in Ps-Oppian's Cynegetica MS. at Venice, Thesaurismata 17, 1980, pp. 22-35; V.N. Zalesskaja, Nouvelles découvertes de céramique peinte byzantine du Xe siècle, CahA 32, 1984, pp. 49-62; I. Spatharakis, The Working Methods of the Artist of Ps-Oppian's Cynegetica (Diptycha, 4), Athinai 1986; M. Piccirillo, Chiese e mosaici di Madaba (Studium Biblicum Franciscanum. Collectio Maior, 34), Jerusalem 1989.I. Furlan
La c., intesa sia come pratica venatoria vera e propria sia come tema iconografico della produzione artistica, conobbe un'ampia diffusione nella società islamica medievale, tanto nell'area iranica quanto in quella turca centroasiatica e araba, costituendo non solo un'attività rivolta a scopi pratici, ma anche un privilegio e una prerogativa di re o principi. In quanto passatempo per sovrani o pratica ufficiale, essa sembra risalire a formule venatorie preislamiche, diffusesi in seguito nel mondo islamico (Esin, 1963; Serjeant, 1976; per le tradizioni sia pratiche sia letterarie: Viré, 1960). Sin dalle origini vennero create riserve reali di c., come a Qaṣr al-Ḥayr al-Sharqī, castello omayyade nel deserto siriano datato al 110 a.E./727-728, dove viene identificata come tale la grande area recintata, adiacente al complesso degli edifici (Creswell, 19692, p. 536). Va ricordata inoltre una rappresentazione di scena venatoria, al di sotto della quale si vede quello che va interpretato come bestiame custodito destinato alla riserva, in una pittura pavimentale proveniente da Qaṣr al-Ḥayr al-Gharbī, del 105-109 a.E./724-727, attualmente conservata a Damasco (Mus. Nat.; copia in acquerello in Schlumberger, 1946-1948, tav. B; Creswell, 19692, tav. 81).L'attività venatoria era praticata esclusivamente a cavallo, sebbene in alcune varianti particolari di c. con il falco la presenza della cavalcatura non fosse indispensabile; gli strumenti di c. erano l'arco e le frecce, la spada, la lancia e le reti, oltre ai cani, al ghepardo e, naturalmente, al falco. La c. con il falco è testimoniata già in età preislamica (Viré, 1960, p. 1186), ma la redazione di trattati di falconeria risale al periodo abbaside (Möller, 1965). Rappresentazioni di c. con il falco sono estremamente rare nella prima fase dell'arte islamica, sebbene alcune figurazioni su legni fatimidi (Pauty, 1931, tav. La) e su avori (Kühnel, 1971, tav. XCVII) possano forse essere interpretate in tal senso. Su un cofanetto eburneo dipinto, degli inizi del sec. 13° (Gabrieli, Scerrato, 1979, fig. 157), sono chiaramente identificabili due falconieri intenti alla c., mentre nell'illustrazione del frontespizio del Kitāb al-diriyāk (Libro degli antidoti), eseguita probabilmente a Mossul alla metà del sec. 13° e proveniente dall'Iraq (ora a Vienna, Öst. Nat. Bibl., A.F. 10; Ettinghausen, 1962, p. 91), sono rappresentati in azione cacciatori insieme a falconieri. La vera e propria c. con il falco divenne tuttavia un soggetto iconografico comune solo a partire dal sec. 15°, secondo schemi di rappresentazione determinati e tipizzati.Nell'arte islamica l'iconografia della c. con il falco sembra presentare come primo tipo di immagine la raffigurazione del sovrano o del principe con il rapace, attestata in alcune monete del periodo omayyade ancora inedite (Londra, British Mus.); il tipo più comune consiste tuttavia nella rappresentazione di un cavaliere con il falco, i cui primi esempi sono del sec. 10°: una pisside ispano-islamica datata 357 a.E./968 (Parigi, Louvre) e una del 359 a.E./970 (Londra, Vict. and Alb. Mus.), un'altra della fine del secolo e un cofanetto in avorio del 395 a.E./1004-1005 (Kühnel, 1971, pp. 38-40, tavv. XVII, XIX-XX, XXII). Un dipinto murale frammentario del sec. 10°, assai deteriorato, proveniente da Nīshāpūr (Wilkinson, 1973, pp. 206-214), raffigura un cavaliere con un falco, mentre nel caso di una coppa in ceramica di analoga datazione, sempre da Nīshāpūr (Mikami, 1962), l'interpretazione dell'iconografia - nella quale si è voluto vedere un falconiere a cavallo (Baer, 1967, p. 41) - risulta dubbia. La maggior parte delle coppe dello stesso tipo provenienti da Nīshāpūr mostra, infatti, un cavaliere con un ghepardo da c. alle spalle attorniato da uccelli non direttamente a lui correlati, né necessariamente individuabili come falchi, bensì forse come volatili catturati.Nell'Africa settentrionale i falconieri appaiono su ceramiche dei secc. 10°-11° (Hassan, 1937; Gabrieli, Scerrato, 1979, fig. 270); raffigurati inoltre sul c.d. sudario di s. Lazzaro, eseguito probabilmente a Córdova agli inizi del sec. 11° (Baer, 1967), e sulla casula di s. Tommaso Becket, realizzata ad Almería nel 510 a.E./1116 (Gabrieli, Scerrato, 1979, figg. 522-523), essi ricorrono su legni fatimidi (Pauty, 1931), avori (Kühnel, 1971) e ceramiche (Hassan, 1937; Atil, 1973), databili all'11° secolo. A partire dal Duecento il falconiere a cavallo divenne un'immagine consueta nel mondo islamico orientale, come mostrano numerose opere: due coppe provenienti dall'Iran - un esemplare mīnā ᾽ī (Washington, Freer Gall. of Art; Atil, 1973, p. 89, nr. 38) e un secondo in ceramica dipinta a lustro (Atil, 1973, p. 71, nr. 29) -, la miniatura del frontespizio del Kitāb al-aghānī (Libro dei canti), realizzata probabilmente a Mossul agli inizi del sec. 13° (Titley, 1983, p. 163, fig. 58), e un candelabro in metallo dell'Iran occidentale, della metà del Duecento (Londra, Vict. and Alb. Mus.; Melikian-Chirvani, 1982, p. 167, fig. 74), oltre a uno specchio selgiuqide di origine anatolica del sec. 13° (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz.; Art Treasures of Turkey, 1966, nr. 168) e a un bacile egiziano in metallo della seconda metà del secolo, il c.d. Baptistère de Saint Louis (Parigi, Louvre; Rice, 1951, tav. XXIV). A questi si aggiungono altri esempi più tardi, quali una miniatura raffigurante una battuta di c. con lo sparviero, proveniente dall'Asia centrale o dall'Iran e risalente al sec. 15° (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., H. 2160, c. 4r; Ipşiroğlu, 1966), un'immagine di battuta di c. con la partecipazione di falconieri, presente in un manoscritto Shāhnāma eseguito a Shiraz, in Iran, intorno al 1590 (Londra, BL, Add. Ms 27257, c. 559v; Stchoukine, 1964, tav. I) e pitture ottomane seicentesche nel Tuḥfat al-mulūk e nel Süleymannāma (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., H. 415 e H. 1517; Esin, 1968, figg. 19-20).Le immagini più antiche raffiguranti il falconiere a piedi, con il falco sul pugno chiuso, appaiono su legni e avori fatimidi, come per es. su un architrave proveniente da un palazzo fatimide (Cairo, Mus. of Islamic Art; Pauty, 1931, tav. Lab) e su due placchette eburnee di cofanetti (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Islamische Kunst; Parigi, Louvre; Kühnel, 1971, tavv. XCVII-XCVIII). Il falconiere a piedi compare nell'iconografia del mondo islamico per lo più in opere di pittura, ma ne esistono anche alcuni esempi precoci nella metallistica, come nel citato Baptistère de Saint Louis (Rice, 1951, tav. XVIII), dove, analogamente alla maggior parte degli esempi successivi al periodo fatimide, esso viene rappresentato non in azione, bensì come membro della corte e mentre tiene il falco del re o del principe, oppure come 'offerente' il rapace al sovrano. L'iconografia-tipo del tema nacque probabilmente nel periodo selgiuqide; ricorre infatti in una miniatura su due fogli erratici, databile probabilmente alla fine del sec. 13° o agli inizi del successivo (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., H. 2152, c. 61r; Esin, 1963, tav. 1 e p. 145, fig. 1). Tale formulazione dell'immagine, che si ricollega ad antiche tradizioni iraniche e turche centroasiatiche dell'iconografia dell'omaggio al sovrano, si sviluppò nel corso dei secoli fino a trasformarsi nella rappresentazione del riposo dopo la c., un tema comune nella pittura persiana, turca e moghul del sec. 16°, come mostra la composizione su due pagine (divise tra New York, Metropolitan Mus. of Art, e Boston, Mus. of Fine Arts; Miniature islamiche, 1962, tav. 92B), della scuola di Qazvīn, dove un falconiere offre il rapace al principe, mentre in primo piano appare un secondo falconiere con un altro dei volatili da c. del sovrano. Esistono inoltre immagini isolate di falconieri o, più frequentemente, di principi o personaggi della corte con un falco (Stchoukine, 1959, tav. XXXIb; Miniature islamiche, 1962, tavv. 101-102).La prima raffigurazione del falco in atto di aggredire la preda compare in una pittura murale del sec. 9° a Samarra (Herzfeld, 1927), ma l'immagine si diffuse soprattutto nell'Egitto fatimide, dove ricorre su avori (placchette a Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Islamische Kunst; Parigi, Louvre; Kühnel, 1971, tav. XCVIII), manufatti in legno (Pauty, 1931, nr. 4207, tavv. XXX, L, LIII-LV) e ceramica d'uso (Grube, 1976, nr. 89). Il soggetto è raffigurato su una coppa dipinta dell'Africa settentrionale, databile al sec. 10°-11° (Berti, Tongiorgi, 1981, tav. LVII), così come su un frammento ceramico a Londra (Keir Coll.; Grube, 1976) e su una pisside eburnea attribuita agli inizi del sec. 11° (Kühnel, 1971, p. 45, tav. XXXI), ma è ampiamente diffuso in età medievale, come mostra il grande numero di esempi conservati, mentre sembra scomparire o essere adottato assai raramente in seguito. Al sec. 12° risalgono, in particolare, un frammento siriaco in ceramica dipinta a lustro (Londra, Keir Coll.; Grube, 1976, p. 153, nr. 99), un rilievo in stucco proveniente da Rayy nell'Iran (Boston, Mus. of Fine Arts; A Survey of Persian Art, 1938-1939, tav. 514C), una coppa siriaca in ceramica del tipo laqabī (Cleveland, Mus. of Art; The Arts of Islam, 1976, nr. 341) e una tavola lignea egiziana intarsiata in avorio (Cairo, Mus. of Islamic Art; Hassan, 1937, tav. XI), mentre una stoviglia siriaca in ceramica opaca decorata a rilievo risale al sec. 13° (Islamische Kunst, 1981, nr. 51).Nell'arte islamica le rappresentazioni di c. più comuni prevedono due tipi di iconografia: un singolo cacciatore oppure gruppi di cacciatori, a cavallo o a piedi. Il singolo cacciatore può essere raffigurato in groppa alla sua cavalcatura con arco e freccia - l'esempio più antico ricorre nella pittura pavimentale da Qaṣr al-Ḥayr al-Gharbī in Siria, risalente al 105-109 a.E./724-727 (Ettinghausen, 1962, p. 37) -, con la spada, come su una coppa in ceramica policroma iranica da Nīshāpūr, del sec. 10° (Wilkinson, 1973, p. 45, nr. 62), o con la lancia, come mostrano due cofanetti in avorio ispanoislamici, risalenti rispettivamente al 395 a.E./1004-1005 (Pamplona, Mus. de Navarra) e agli inizi del sec. 11° (Londra, Vict. and Alb. Mus.; Kühnel, 1971, tavv. XXII, XXVIII), oltre al citato Baptistère de Saint Louis (Rice, 1951, tav. VI), oppure a piedi con le stesse armi. Così su un vaso decorato a incrostazione eseguito per il sovrano ayyubide al-Malik al-Nāṣir II (m. nel 658 a.E./1260) compare l'immagine della c. agli uccelli con arco e frecce - qui è singolare la presenza anche dei corni, iconografia peculiare a un gruppo assai ristretto di manufatti in metallo della stessa epoca (Rice, 1957, pp. 298-299) - mentre contro un leopardo viene utilizzata la spada in un piatto iranico a lustro del sec. 12° (Londra, Keir Coll.; Grube, 1976, nr. 151) e infine su un cofanetto eburneo ispano-islamico datato 395 a.E./1004-1005 (Pamplona, Mus. de Navarra; Kühnel, 1971, tavv. XXIV, XXVI) alcuni cacciatori uccidono i leoni con le lance.Le più antiche rappresentazioni di scene complete di c. apparvero in età omayyade, ma tale iconografia si conservò nella successiva tradizione figurativa islamica (Welch, 1971; Dimand, 1971; Hanaway, 1971; Ettinghausen, 1971; Robinson, 1977). A Quṣayr ῾Amrā, nel deserto giordano, nel padiglione di c. con bagni datato al secondo quarto del sec. 8°, si conserva una serie di pitture, fortemente restaurate, illustranti la c. alle antilopi e agli onagri, esercitata da cacciatori a cavallo muniti di reti e affiancati da levrieri (Musil, 1907, I, tavv. XXIX, XXXI-XXXII; Qusayr ῾Amra, 1975). Si tratta di affreschi che si inquadrano in maniera piuttosto evidente nella tradizione figurativa classica, benché la presenza degli onagri indichi un rapporto con l'Oriente; gli stessi animali vengono infatti cacciati nel riquadro superiore del citato frontespizio del Kitāb al-diriyāk. Opere raffiguranti il sovrano intento alla c. sembrano essersi conservate assai limitatamente fra i secc. 8°-13°, mentre proprio nel Duecento, nel campo della metallistica, ricorrono numerose le scene con cacciatori sia a cavallo sia a piedi (Rice, 1951, tavv. XXIVXXV; 1957, figg. 5a, 28-29; Art from the World of Islam, 1987, nr. 115). Nel corso del sec. 14° questa tradizione conobbe ancora una certa continuità, ma prevalentemente in pittura. Naturalmente, le scene di c. spesso non costituiscono soltanto pure e semplici rappresentazioni illustranti un'attività pratica, bensì composizioni articolate, cariche di significato, di soggetti iconografici simbolici complessi (Melikian-Chirvani, 1982, nr. 14, pp. 224-226). Nei manoscritti Shāhnāma degli inizi del sec. 14° scene di c. compaiono a illustrazione del testo - Bīzhan che libera la terra del cinghiale o Bahrām Gūr che caccia l'onagro selvatico (Miniature islamiche, 1962, tavv. 16, 13) - ma nella maggior parte degli esempi non sussiste alcuna differenza iconografica tra le immagini di questo tipo, che si suppone corredino la narrazione, e quelle che descrivono l'attività venatoria dei principi in quanto pratica effettiva e reale. In genere, la situazione è analoga nel caso delle pitture timuridi, savafidi e ottomane (Titley, 1977; 1981), mentre nel periodo moghul, in India, le rappresentazioni mostrano quasi certamente le battute di c. degli imperatori, come nel caso tipico della c. di Akbar, presente nell'Akbarnāma (Welch, 1978, tav. 14).Nell'arte islamica la rappresentazione della c. ha in quasi tutti i casi un valore simbolico. Benché a volte vengano rappresentati abbastanza realisticamente tutti gli elementi materiali legati alla pratica venatoria, il motivo della scelta di tale soggetto era chiaramente in rapporto con il ciclo iconografico illustrante i privilegi del sovrano e l'affermazione del suo potere. Fin dalle origini la c. viene mostrata come un'attività cerimoniale e molte delle principali formule iconografiche - il cacciatore a cavallo che tende l'arco puntando la freccia contro lo stambecco, il leone o il cinghiale - si possono far risalire direttamente a modelli preislamici, per lo più orientali. Il valore simbolico della rappresentazione risulta sottolineato frequentemente dal fatto che il regale cacciatore lotta non solamente contro animali veri e propri, ma anche contro grifi, draghi e altre creature fantastiche, come su un fregio in stucco del palazzo selgiuqide di Konya, in Anatolia, risalente al sec. 13° (Sarre, 1936, tav. 11), in cui un cacciatore di leoni e un personaggio che lotta contro un drago sono raffigurati all'interno di un'unica immagine; un'iconografia analoga si trova inoltre sul retro di un grande piatto mīnā'ī (Atil, 1973, p. 114). I piatti sasanidi in argento con la rappresentazione del re cacciatore (Harper, 1978; 1981) ispirarono generazioni di artisti islamici, e non solamente in Iran e nell'Asia centrale, che li imitarono per i nuovi sovrani. Il cacciatore raffigurato a Qaṣr al-Ḥayr al-Gharbī porta il nastro reale sasanide, che spesso appare anche sulla preda. Piatti con scene di c. di questo tipo continuarono a essere prodotti per secoli ed è stato convincentemente dimostrato che molte opere di solito considerate preislamiche sono da datare invece alla piena età islamica e, in alcuni casi, ai secc. 12° e 13° (Maršak, 1971; 1986), attestando la continuità della tradizione sia iconografica sia simbolica (Arnold, 1924; Shepherd, 1974). L'immagine del singolo cacciatore, così come le scene venatorie complete realizzate su manufatti - e spesso anche in pittura - non compaiono in quanto soggetti iconografici isolati, bensì come raffigurazioni facenti parte dell'iconografia relativa ai passatempi del sovrano, alle attività dei principi e, in ultima analisi, al potere. Il cacciatore raffigurato nella pittura pavimentale di Qaṣr al-Ḥayr al-Gharbī appare in un contesto comprendente figure di musici e una rappresentazione simbolica dell'universo (Creswell, 19692, tav. 90); le scene di c. di Quṣayr ῾Amrā sono invece inserite in un contesto di formule iconografiche tese a glorificare il sovrano e a illustrare i piaceri e i privilegi della sua condizione (Hillenbrand, 1982); il frontespizio del Kitāb al-diriyāk, a sua volta, condensa in un'unica immagine un programma iconografico notevolmente dettagliato sulla vita del principe. Infine, le scene venatorie sul Baptistère de Saint Louis ricoprono interamente un oggetto con immagini tese a glorificare il destinatario dell'opera, assai probabilmente il sultano mamelucco al-Ẓāhir Baybars al-Bunduqdārī, che regnò in Egitto dal 658 al 676 a.E./1260-1277 (Behrens-Abouseif, 1988-1989), mediante la rappresentazione di sovrani in trono, scene di battaglia e di c., un'ampia serie di animali nella battuta di c. del re e persino un corteo di personaggi recanti doni e tributi (Rice, 1951), iconografia per la quale si può risalire indietro nel tempo, fino ai rilievi del palazzo achemenide di Persepoli.
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