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CACCIA

di Baudouin van den Abeele - Federiciana (2005)
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Caccia

Baudouin van den Abeele

"L'arte della caccia", scrive Federico II nel prologo al De arte venandi, "è la ricerca degli insegnamenti che permettono all'uomo di catturare per il suo uso degli animali non domestici di tutte le specie, con la forza o per modo dell'intelligenza" (P. 1.10). Quanto all'oggetto del suo libro, egli precisa che "una parte consiste nel contemplare o nel sapere, e questa viene detta teoria; l'altra consiste nell'applicazione, e si chiama pratica" (P. 1.2). Il collegamento tra pratica e teoria nell'ars venandi è una delle peculiarità del grande trattato federiciano, che illustra in modo idoneo questa importante componente della vita dell'imperatore.

Varie fonti documentano che Federico II era appassionato di caccia, in particolare di falconeria, da lui considerata "un'arte più nobile delle altre forme di caccia" (P. 1.12). È il soggetto esclusivo del suo trattato, e anche le fonti storiche ci parlano di quest'attività. Un documento di interesse eccezionale è il registro della corrispondenza di corte conservato per il periodo compreso tra l'inizio di ottobre del 1239 e l'inizio di maggio del 1240. Si può notare come la falconeria fosse costantemente oggetto di grande attenzione da parte dell'imperatore, anche nei momenti più drammatici della sua vita politica. Nel febbraio del 1240, al culmine della sua lotta contro la Santa Sede, mentre era in procinto di sottomettere lo Stato pontificio e di porre sotto assedio la Città eterna, l'imperatore continuò a occuparsi personalmente dei suoi uccelli per la caccia.

Il 1o febbraio scrive da Foligno a Ruggero de Morra per farsi inviare quattro falconi; il 9 ordina a Gualtiero de Cicala di accogliere un astore e di farlo mettere in muta. Nello stesso giorno scrive ai giustizieri di Bari, della Capitanata e della Terra di Lavoro, perché facciano catturare un gran numero di gru, che rappresentavano la preda prediletta dei prestigiosi falconi girifalchi, come si legge nei libri III e IV del De arte venandi. Per tre giorni consecutivi scrive ad Alessandro figlio di Enrico, giustiziere della Terra di Lavoro: l'11 febbraio gli chiede di pagare uno dei suoi falconieri, il 12 di occuparsi del maestro Nicolaus Dirida, incaricato di catturare delle gru, e il 13 di mettere a disposizione dei buoni cavalli al suo falconiere Lombardello. E ancora, il 29 scrive da Viterbo per stabilire il pagamento e le spese per altri falconieri, sempre rivolgendosi ad Alessandro, e incarica i giustiziari abruzzesi di distribuire alcuni astori tra i baroni della loro giurisdizione, per il tempo della muta (Historia diplomatica, V, pp. 703-834). A queste undici lettere datate nel mese di febbraio se ne aggiunge una ventina in cui si parla dei falconieri e dei suoi uccelli, nel periodo coperto dal registro della corrispondenza. Se pure incompleto, questo documento dà una visione molto chiara della passione di Federico II per la caccia al falcone.

Non sono unicamente i testi a documentare il ruolo della falconeria alla corte federiciana; infatti anche i castelli dell'Italia meridionale usati come loca solaciorum testimoniano a questo spiccato interesse (Calò Mariani, 1994). Il castello di Gravina di Puglia era destinato ai soggiorni di caccia, come ricorda il cronista Giovanni Villani: "Fece il parco dell'uccellagione al Pantano di Foggia in Puglia, e fece il parco della caccia presso Gravina e a Melfi a la montagna. Il verno stava a Foggia e la state a la montagna a la caccia a diletto" (1990-1991, p. 277). La domus del Pantano, a S. Lorenzo vicino a Foggia, e altri luoghi di soggiorno in cui l'imperatore aveva fatto sistemare giardini e laghi per la selvaggina sono ormai scomparsi. Al contrario, sono ben conservati i castelli di Melfi e di Lagopesole, situati nella zona montuosa della Basilicata, dove l'imperatore era solito risiedere in estate.

Alla caccia fanno riferimento anche alcuni esemplari della glittica e della scultura: per esempio, la cosiddetta 'onice di Sciaffusa', il cammeo con una falconiera conservato nel Museo del Bargello a Firenze, i rilievi della scala e del trono nel castello di Gioia del Colle (Boccassini, 2003, pp. 153-157), e quello raffigurante un falconiere nel duomo di Ravello, l'affresco scoperto nel 1990 a Bassano del Grappa (Avagnina, 1995), ecc. Da queste opere traspare come il falco facesse parte dell'immagine del potere, simboleggiando il dominio sulla natura e, quindi, sui destini umani. Il suo significato trascende quindi l'aura 'cortese' legata a quest'attività.

La passione dell'imperatore per la falconeria colpì i suoi contemporanei. Un anonimo biografo di papa Gregorio IX, per esempio, mettendola in cattiva luce, ironizzava sul frastuono di cani e di uccelli che accompagnava costantemente Federico, "factus de imperatore venator". Il cronista Niccolò Jamsilla la rievoca in termini più descrittivi e circostanziati, e parla del trattato di falconeria: "Grazie alla sua grande perspicacità, che applicava soprattutto alle scienze naturali, scrisse un libro sulla natura e sulla cura degli uccelli, nel quale è pienamente ovvio quanto l'imperatore fosse studioso nella filosofia" (Historia de rebus gestis Friderici II imperatoris, Neapoli 1770).

Nella concezione federiciana la pratica è collegata alla teoria, come illustra il monumentale De arte venandi cum avibus, in sei libri, risalente agli anni Quaranta del Duecento. Influenzato dal metodo scientifico aristotelico e impregnato dello spirito analitico della Scolastica, è composto magistralmente come una summa della falconeria: conoscenza degli uccelli in generale (I), conoscenza dei falchi, primo addestramento e condizioni per il buon mantenimento dei falchi (II), addestramento al logoro e introduzione alla preda (III), caccia della gru con il girifalco (IV), caccia dell'airone con il falco sacro (V), caccia delle anatre con il falco pellegrino (VI).

Alla corte di Federico II non dovevano mancare altri trattati sull'argomento, tuttavia non possediamo notizie dettagliate sulla sua biblioteca e i libri che conteneva. Comunque i trattati latini precedenti, in primo luogo quelli che erano stati redatti per i suoi predecessori normanni in Sicilia, come il Dancus rex e il Guillelmus falconarius, dovevano senz'altro farne parte. Non c'è alcun cenno sulla presenza del trattato di Adelardo di Bath, De avibus tractatus, o dell'apocrifa Epistola Aquile, Symachi et Theodotionis ad Ptolomeum regem Egipti, che esercitarono una notevole influenza sulla trattatistica dei secoli successivi. L'imperatore, tuttavia, esprime un assoluto disprezzo per i trattati del suo tempo, qualificati come "mendaces et insufficienter compositos" (P. 1.1). Di altro livello era il trattato arabo di Moamin falconarius, che Federico fece tradurre dal suo 'filosofo di corte' Teodoro di Antiochia. Si tratta di un testo abbastanza dettagliato sulla conoscenza, l'addestramento e la cura degli uccelli da caccia, con un'appendice sui cani da caccia. Un secondo trattato di matrice orientale, il Ghatrif, fu probabilmente tradotto nello stesso contesto, e i due testi furono spesso copiati insieme.

Autonomo rispetto ai precedenti trattati di falconeria, il De arte venandi rimase curiosamente senza posterità nel genere letterario che pretendeva di rinnovare. Nel prologo, l'autore invitava esplicitamente a continuare la sua opera: "Aggiungiamo che, se alcuni nobili, meno occupati di noi, vorranno attendere con impegno a quest'arte, con l'ausilio di questo trattato ne potranno comporre uno migliore" (P. 1.1). Invece il De arte venandi non è mai citato o riassunto nei trattati di falconeria latini posteriori, neppure nei trattati francesi, sebbene una traduzione francese parziale fosse stata eseguita all'inizio del XIV sec. per Jean de Dampierre et de Saint-Dizier (van den Abeele, Inspirations orientales, 1995).

Esiste un 'secondo libro di falconeria' di Federico II? La questione è stata sottoposta recentemente all'attenzione degli studiosi da Johannes Fried. L'autore prende le mosse da una nuova analisi della minuziosa descrizione di uno splendido codice di caccia appartenente all'imperatore, andato perduto dopo la disfatta di Vittoria nel 1248, e offerto in seguito nel 1265 a Carlo d'Angiò da un mercante parmense, "Guillelmus Bottatius". Finora si è pensato che questo codice fosse l'esemplare imperiale del De arte venandi originario, lussuosamente miniato e rilegato. Osservando che le precisazioni fornite dal mercante non corrispondono del tutto al contenuto del De arte venandi, così come ci è pervenuto, Fried ha indagato nella tradizione manoscritta dei testi di falconeria individuando una raccolta di testi di caccia (Moamin, Dancus, Guillelmus, Guicennas) che potrebbe coincidere con il contenuto del codice imperiale. La tradizione testuale del Moamin latino, inoltre, fornirebbe tracce di un intervento dell'imperatore a vari livelli della stesura del testo tradotto. Ci troveremmo quindi di fronte a una vera e propria opera di Federico II, un 'secondo libro di falconeria'. Le conclusioni di Fried, riprese da alcuni colleghi, sono tuttavia basate su una serie di congetture, e ricerche più recenti hanno messo in luce numerose incertezze nella ricostruzione di questo 'secondo' trattato. Si potrebbe ritenere che il codice perduto a Vittoria fosse sì una raccolta di testi di caccia, ma non dei quattro trattati menzionati, quanto piuttosto del De arte venandi, di Moamin e Ghatrif, come sono tramandati in due codici conservati a Valencia e a Nantes (Glessgen-Van den Abeele, Die Frage). Il problema va dunque affrontato con grande cautela. In ogni caso, anche senza un 'secondo libro sulla falconeria', Federico II rimane il più grande autore medievale che abbia trattato quest'argomento. I falconieri odierni, leggendo il De arte venandi, possono apprezzarne il tono appropriato e la sicurezza dell'informazione: è un aspetto in più del fascino esercitato dall'autore, che nel prologo del suo trattato si presentava come "vir inquisitor et sapientie amator" (P. 1.5).

Fonti e bibliografia

Historia diplomatica Friderici secundi, V.

Friedrich II. Römisch-deutscher Kaiser, De arte venandi cum avibus, a cura di C.A Willemsen, Lipsiae 1942;.

Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, Parma 1990-1991.

Frédéric II de Hohenstaufen, 'L'art de chasser avec les oiseaux'. Le traité de fauconnerie De arte venandi cum avibus, a cura di A. Paulus-B. van den Abeele, Nogent-le-Roi 2000.

A.L. Trombetti Budriesi, Federico II di Svevia. De arte venandi cum avibus, Bari 2000.

M.S. Calò Mariani, L'arte al servizio dello stato, in Federico II e il mondo mediterraneo, a cura di P. Toubert-A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, pp. 123-145.

B. van den Abeele, Il 'De arte venandi cum avibus' di Federico II di Hohenstaufen e i trattati di falconeria latini, in Federico II e le scienze, a cura di P. Toubert-A. Paravicini Bagliani, ivi 1994, pp. 395-409.

M.E. Avagnina, Un inedito affresco di soggetto cortese a Bassano del Grappa: Federico II e la corte dei da Romano, in Federico II. Immagine e potere, a cura di M.S. Calò Mariani-R. Cassano, Venezia 1995, pp. 105-112.

B. van den Abeele, Federico II falconiere: il destino del 'De arte venandi cum avibus', ibid., pp. 377-383.

Id., Inspirations orientales et destinées occidentales du 'De arte venandi cum avibus' de Frédéric II, in Federico II e le nuove culture. Atti del XXXI Convegno storico internazionale, Spoleto 1995, pp. 363-392.

M.D. Glessgen, Die Falkenheilkunde des 'Moamin' im Spiegel ihrer volgarizzamenti. Studien zur Romania Arabica, Tübingen 1996; D. Boccassini, Il volo della mente. Falconeria e sofia nel mondo mediterraneo: Islam, Federico II, Dante, Ravenna 2003.

M.D. Glessgen-B. van den Abeele, Die Frage des 'Zweiten Falkenbuchs' Friedrichs II. und die lateinische Tradition des Moamin, in Wissen an Höfen und Universitäten: Rezeption, Transformation, Innovation, a cura di J. Fried, in corso di stampa.

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