Calamità naturali
"Calamità naturale deve intendersi ogni fatto catastrofico, ragionevolmente imprevedibile, conseguente a eventi determinanti e a fattori predisponenti tutti di ordine naturale, e a loro volta ragionevolmente imprevedibili" (Franceschetti, 1973). Questa definizione tende a sottolineare il fatto che la locuzione calamità naturale può essere fuorviante, in quanto non sempre la responsabilità delle conseguenze calamitose può essere attribuita a eventi naturali: se si accerta l'incidenza di cause determinanti e di fattori predisponenti ricollegabili all'attività umana ‒ come accade il più delle volte ‒ occorrerà valutarne gli effetti sui processi risultanti, prima di attribuire all'evento naturale la responsabilità dei fatti accaduti. In altri termini, un evento naturale normale, che in sé non ha niente di calamitoso, in quanto fa parte del normale gioco delle forze della natura e opera al fine di realizzare certi inarrestabili equilibri naturali, può indurre conseguenze calamitose proprio perché l'uomo, con la scarsa imprevidenza che spesso lo distingue, ha creato le premesse perché ciò accada.
L'uomo vive e opera prevalentemente in corrispondenza della porzione più superficiale della crosta terrestre, in cui avvengono e si avvertono gli effetti dei processi evolutivi legati all'azione degli agenti endogeni (sismicità e vulcanismo) e degli agenti esogeni (piogge, escursioni termiche, vento ecc.). Ma fra gli agenti esogeni si può annoverare attualmente anche l'azione dell'uomo, che non di rado interferisce nei processi naturali accelerandoli o comportandosi in modo che essi abbiano conseguenze disastrose. Azioni antropiche quali: (a) il disboscamento; (b) l'occupazione di aree di pertinenza fluviale; (c) il prelievo abusivo di inerti degli alvei fluviali hanno, per esempio, aggravato il dissesto idrogeologico del territorio italiano.
Quando si prende coscienza dell'interazione tra fenomeni naturali, da un lato, e gestione dell'ambiente e uso irrazionale del territorio e delle risorse naturali, dall'altro, ci si rende anche conto che non resta più molto spazio alla fatalità.
Ai disastri naturali si contrappongono i disastri provocati essenzialmente dall'uomo, nei quali sono del tutto ininfluenti i fattori naturali. Fra questi si possono citare i disastri connessi con lo sviluppo tecnologico, come l'esplosione della centrale elettronucleare di Chernobyl avvenuta nel 1986, le fughe di gas tossici da impianti chimici di Seveso nel 1977 e di Bhopal nel 1984, o lo sversamento in mare di grandi quantità di petrolio a seguito dell'affondamento accidentale di petroliere.
I fenomeni sismici e vulcanici sono le manifestazioni più spettacolari della vita turbolenta del nostro pianeta. Terremoti e vulcani si concentrano nelle zone in cui, secondo la teoria della , le zolle oceaniche entrano in collisione con le placche continentali e si immergono sotto di esse. Questo fenomeno, detto subduzione, dà luogo alla formazione delle catene montuose, alla e al . La zona di subduzione più estesa del globo è la cosiddetta cintura di fuoco del Pacifico, una fascia di intensa attività sismica e vulcanica che si protende per circa 40.000 km lungo la costa occidentale delle Americhe, attraverso l'Alaska, le isole Aleutine, il Giappone e la Cina, fino alle Filippine, all'Indonesia e all'Australasia.
L'unica altra grande zona sismica del mondo è una fascia che si dirama dalla precedente in corrispondenza del Golfo del Bengala, e si estende fino al bacino del Mediterraneo, attraverso l'Himalaya, l'altopiano iranico e il Caucaso. È questa la zona orogenica del sistema alpino-himalayano, dove si scontrano le zolle eurasiatica e africana, innescando terremoti ed eruzioni vulcaniche che in più riprese hanno seminato morte e distruzione nell'Europa meridionale, nel Nordafrica e nel Medio Oriente.
Nel corso dei secoli i terremoti che hanno squassato queste regioni sono costati la vita a milioni di persone. Il sisma più catastrofico in epoca recente è quello che, il 26 dicembre 2004, con epicentro al largo della costa occidentale dell'isola di Sumatra (Indonesia), e magnitudo 9 della scala Richter, scatenò uno tsunami con ondate alte fino a 20 metri. Queste si abbatterono sulle coste di Sumatra e della Thailandia, propagandosi poi attraverso l'Oceano Indiano fino a raggiungere, dopo circa due ore, le coste orientali dell'Africa. L'area in cui questo evento ha seminato distruzione e morte è eccezionalmente vasta (una decina di paesi dell'Asia e dell'Africa); furono calcolate 283.100 vittime.
L'area mediterranea è stata colpita da una lunga serie di catastrofici terremoti. L'Italia, in particolare, è interessata da un'intensa attività sismica che, nel periodo compreso tra la fine della Seconda guerra mondiale e il 2000, ha interessato circa 1700 territori comunali (21% del totale). Le superfici dei territori comunali coinvolti da eventi sismici sono pari al 24% (ca. 70÷75.000 km2) di quella nazionale; le vittime sono state 4160, ascrivibili per il 98% a tre terremoti principali: nella valle del Belice, in Sicilia (1968) con 376 vittime; in Friuli (1976) con 989 vittime; in Campania-Basilicata (1980) con 2739 vittime. L'elevato numero di vittime è dovuto, in gran parte, all'inadeguatezza strutturale del vecchio patrimonio abitativo, ma anche a crolli di costruzioni moderne, rivelatesi inadatte a resistere a scosse anche di media intensità. Risalendo più indietro nel tempo, non si può non ricordare il terremoto di Messina (1908), che ebbe conseguenze catastrofiche (83.000 vittime) perché nell'area di massima intensità si trovarono incluse le popolose città di Messina e di Reggio Calabria.
Allo stato attuale delle cose, non si può fare affidamento su previsioni sismiche attendibili, che sarebbero utili per allertare le popolazioni su cui sta per abbattersi un terremoto. La migliore difesa dai terremoti rimane pertanto la prevenzione, che consiste nell'adottare particolari accorgimenti antisismici nella costruzione di nuovi edifici nelle zone maggiormente esposte a questo tipo di rischio.
Nel corso degli ultimi quattro secoli le eruzioni vulcaniche hanno causato circa 260.000 vittime (l'80% delle quali in soli sei eventi), meno del 3% del numero complessivo delle vittime di calamità naturali. Nonostante ciò l'attività vulcanica rappresenta un rischio incombente su decine di milioni di persone, in varie regioni della Terra. Contrariamente ai terremoti, per i quali non sono ancora stati messi a punto metodi di previsione fondati su solide basi scientifiche, le eruzioni vulcaniche possono essere previste. La previsione a lungo termine si basa sull'analisi della storia eruttiva di singoli vulcani, e consente di definire la probabilità di una ripresa dell'attività in un determinato intervallo di tempo, nonché le caratteristiche dell'eventuale massima eruzione attesa. La previsione a breve termine, basata sulla rilevazione e misurazione in superficie dei fenomeni precursori che preannunciano l'inizio dell'eruzione, riesce a indicare, con una precisione sempre maggiore via via che l'eruzione si avvicina, il momento in cui l'evento è atteso.
Tutte le maggiori eruzioni avvenute negli ultimi vent'anni sono state previste, e in alcuni casi (Pinatubo, Filippine, 1991; Rabaul, Nuova Guinea, 1994) sono state precedute da evacuazioni di decine di migliaia di persone, che hanno fatto diminuire in maniera sostanziale la perdita di vite umane. La mitigazione delle perdite economiche e dei danni sociali a esse collegate potrebbe essere invece realizzata con una pianificazione dell'uso del territorio che tenga conto delle carte probabilistiche di pericolosità vulcanica, evitando in primo luogo che gli insediamenti residenziali e produttivi continuino ad addensarsi in aree esposte al pericolo di devastazione.
In questa categoria rientrano i fenomeni conseguenti ai processi della dinamica fluviale (piene e alluvioni), della dinamica dei versanti (erosioni e frane) e della dinamica dei litorali (variazioni delle linee di costa). Si tratta di processi naturali che modificano in continuazione le forme della superficie terrestre e che agirebbero anche senza la presenza dell'uomo. Se diventano calamità, il più delle volte è perché questi fenomeni vengono accelerati da azioni antropiche, per cui gli effetti disastrosi sono imputabili, più che alla natura, all'uso imprevidente o sconsiderato del territorio da parte dell'uomo, come nel caso dell'intensificazione dell'occupazione umana delle aree pianeggianti, adiacenti al letto dei fiumi.
Su scala mondiale il numero delle vittime in questo secolo è stimato in 4 milioni, delle quali almeno mezzo milione nel territorio dell'odierno Bangladesh. Gli stati popolosi dell'Asia meridionale (India, Bangladesh, Pakistan) e Cina, nei quali gli abitanti tendono a concentrarsi nelle pianure alluvionali e nei bassopiani costieri, sono ai primi posti della graduatoria, sia per numero assoluto di abitanti esposti al rischio, sia per indici di vulnerabilità relativa. Pare che spetti a un'alluvione il triste primato della calamità naturale con maggior perdita in termini di vite umane: tre milioni e mezzo di vittime provocate dall'inondazione del Fiume Giallo nel 1931, nella Cina settentrionale.
In Italia sono state eccezionalmente gravi le alluvioni del 1951 (Polesine, un centinaio di vittime) e del 1966. Queste ultime interessarono circa un terzo del territorio nazionale (1119 comuni colpiti), provocarono 112 vittime e danni irrimediabili al patrimonio artistico e culturale di Firenze e Venezia.
Gli effetti distruttivi delle alluvioni possono essere ridotti evitando di aumentare la vulnerabilità delle zone esposte a questo rischio con accorgimenti quali: (a) il mantenimento delle aree di rispetto per il contenimento delle piene; (b) la sistemazione dei bacini montani; (c) l'adozione di sistemi di previsione e di segnalazione delle piene che consentano di mettere in moto in tempo utile l'apparato di protezione civile.
Le frane e l'erosione accelerata sono fenomeni legati alla dinamica dei versanti, che consistono nel distacco e nello spostamento verso il basso di rocce e di terreni lungo versanti divenuti instabili per decremento della resistenza e/o per incremento delle sollecitazioni. Il decremento della resistenza è di norma provocato dall'azione delle acque pluviali dilavanti, quindi da una causa naturale. Ma le sollecitazioni applicate a un pendio possono essere incrementate da interventi dell'uomo, quali disboscamenti, tagli di scarpate, e in genere sovraccarichi sui versanti imposti da attività antropiche.
Il territorio italiano è notoriamente interessato da frane ricorrenti, in massima parte concentrate in aree particolarmente vulnerabili per condizioni naturali o in conseguenza di attività antropiche (ca. il 50% dei comuni italiani è interessato da frane o da fenomeni di erosione accelerata). La catastrofica frana del Vajont, che il 9 ottobre 1963 sconvolse la valle del Piave provocando 1899 morti, può essere considerata un tipico esempio di calamità alla quale l'aggettivo naturale si applica impropriamente, per la parte preponderante che vi ebbe l'azione umana, in questo caso l'improvvida costruzione di un'opera di ingegneria ‒ una diga finalizzata alla produzione di elettricità ‒ in un sito geologicamente inadatto.
A questa rassegna dei principali tipi di calamità classiche occorre aggiungere, per completare il quadro, almeno altre due calamità legate ad anomalie meteorologiche e climatiche: i e le siccità prolungate. Circa 120 milioni di persone sono esposte in media ogni anno a cicloni tropicali (inclusi eventi analoghi, quali tempeste tropicali, uragani, tifoni) che hanno provocato un totale di 251.400 vittime nel periodo compreso tra il 1980 e il 2000. I paesi più esposti a questi disastri sono quelli che hanno aree costiere, e specialmente deltizie, densamente popolate (Cina, India, Filippine, Giappone, Bangladesh). L'entità dell'impatto dei cicloni tropicali non è dovuta tanto alla forza dei venti, quanto al gran numero di eventi secondari (piogge torrenziali, inondazioni, frane) innescati dai cicloni e dagli uragani. La gravità di questi eventi secondari viene di solito amplificata dagli effetti dei processi di degradazione ambientale che nel corso del tempo hanno compromesso la stabilità e la resilienza dei territori interessati. Uno dei più disastrosi uragani atlantici registrati da un secolo a questa parte è stato quello battezzato con il nome Katrina, che si è abbattuto, nell'agosto 2005, sulle coste meridionali degli Stati Uniti, travolgendo le infrastrutture petrolifere e industriali di una delle zone nevralgiche del paese, i tre stati della Louisiana, del Mississippi e dell'Alabama. La città di New Orleans, in gran parte allagata nei quartieri più bassi, dovette essere evacuata e oltre 1300 persone persero la vita.
Le siccità prolungate sono una particolare calamità che coinvolge ampie estensioni di territorio e trae origine da deficit pluviometrici che si protraggono anche per parecchi anni di seguito, come nel caso della grande siccità che ha funestato l'Africa saheliana dal 1968 al 1986. Anche in occasione di questo evento, che è costato la vita ad almeno un milione di persone, è emerso chiaramente che i fattori naturali e antropici sono intimamente legati, potendo essere causa o effetto a seconda delle circostanze, mentre la loro interazione può dar luogo a catastrofi ecologiche di inusitata ampiezza.
I danni materiali subiti dalle economie nazionali per effetto di singoli disastri sono impressionanti. Il terremoto che nel 1995 ha colpito la regione giapponese di Kobe ha causato danni per 150÷200 miliardi di dollari, una cifra pari al 4% del prodotto interno lordo del paese. Ma ancora più ingenti sono stati i danni provocati dall'uragano Katrina, indicativamente calcolati in 200÷300 milioni di dollari. Le cause del progressivo aumento delle perdite di vite umane e di beni materiali su scala mondiale per effetto di calamità naturali sono da ricercare non tanto nell'aumentata frequenza e intensità degli eventi naturali estremi, quanto nell'aumento generale della vulnerabilità umana, che è una funzione dell'azione e del comportamento dell'uomo. La vulnerabilità è determinata da un complesso di fattori: la densità e il livello di sviluppo della popolazione, il grado di integrità degli ecosistemi, le condizioni degli insediamenti e delle infrastrutture, la maggiore o minore efficienza dell'amministrazione e delle politiche pubbliche, la consapevolezza del rischio, la disponibilità di mezzi e il livello di capacità e di organizzazione nel fronteggiare gli eventi naturali estremi. Il prodotto vulnerabilità per il valore esposto indica le conseguenze di un evento, sia in termini di perdite di vite umane sia di danni materiali. La vulnerabilità esprime la suscettibilità, oppure la resilienza di un sistema socioeconomico, o di un complesso di beni materiali, nei confronti dell'impatto di calamità naturali. Specialmente nei paesi meno sviluppati è evidente la correlazione tra la crescente pressione demografica e l'aggravarsi della degradazione ambientale, con il conseguente aumento relativo della vulnerabilità umana e della gravità dell'impatto dei disastri.
Dal momento che la frequenza e l'intensità degli eventi idrometeorologici estremi (punte estreme di caldo e di freddo, siccità, inondazioni, tempeste, uragani e cicloni tropicali) tendono ad aumentare, si può supporre che abbiano già cominciato a manifestarsi gli effetti di cambiamenti del clima conseguenti ad attività antropiche. La causa viene individuata nell'aumento delle emissioni industriali di anidride carbonica, metano, protossido d'azoto e altri gas responsabili dell', che in assenza di interventi correttivi potrebbero produrre negli anni a venire un innalzamento della temperatura globale tale da dare luogo a un maggior numero di disastri legati a eventi idrometeorologici estremi, nonché un graduale innalzamento del livello dei mari, destinato a creare situazioni particolarmente critiche nelle isole basse e nelle fasce costiere poco rilevate. Difficile rallentare il processo di riscaldamento globale e impossibile fermarlo. Una convenzione stipulata dalle Nazioni Unite a Rio de Janeiro nel 1992 ha dato origine a un accordo internazionale (Protocollo di Kyoto, 1997) per il taglio di emissioni, entrato in vigore nel 2005, dopo essere stato ratificato da 157 paesi che producono oltre il 60% dei gas serra. I paesi industrializzati si sono posti come obiettivo la riduzione, entro il 2008÷2012, del 5,2% delle emissioni quantificate nel 1990. Ma l'iniziativa non è condivisa da alcuni Stati sui quali grava la maggiore responsabilità delle emissioni (in particolare gli Stati Uniti, ma anche la Cina e l'India), che ritengono il costo eccessivo per le loro economie e si rifiutano di collaborare, adducendo come pretesto la mancanza di un consenso unanime tra gli scienziati sull'esistenza di un sicuro nesso di causalità tra effetto serra, riscaldamento globale e cambiamenti del clima.
Tuttavia i segnali del riscaldamento globale appaiono sempre più evidenti: nel 2007 è stato presentato a Parigi un rapporto dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), un Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico promosso dalle Nazioni Unite e comprendente circa 500 scienziati, i quali, dopo uno studio durato sei anni, sono pervenuti alla conclusione che le responsabilità umane nel cambiamento climatico globale sono certe al 90%. Appare sempre più evidente che la responsabilità del processo che sta minando la stabilità del clima deve essere attribuita all'intensificazione dell'uso dei combustibili fossili. Secondo il rapporto l'ipotesi più verosimile è che la temperatura media mondiale nel corso del XXI sec. aumenterà di 3 °C, con ripercussioni di vasta portata sui meccanismi della circolazione atmosferica e sul livello dei mari, e con un'incidenza crescente su episodi climatici estremi, quali alluvioni, cicloni tropicali e siccità.
Con l'incremento del numero e della gravità delle calamità naturali nel corso degli ultimi decenni diventa più che mai indispensabile ricorrere a misure preventive e, dove necessario, a misure intese a limitare i danni. La tendenza che finora ha prevalso, a tutti i livelli politici, è stata quella di concentrarsi sulla reazione ai disastri, piuttosto che ricorrere a misure di prevenzione e di mitigazione dei danni attesi: un approccio destinato a comportare un aumento continuo dei costi, sia per i prevedibili effetti dei mutamenti climatici, sia per la crescita continua della popolazione e delle costruzioni in aree vulnerabili. Per contro, l'identificazione preventiva delle calamità attese, e la riduzione del rischio di tali calamità, possono ridurre in misura significativa i costi e gli effetti delle calamità naturali. Un'efficace misura di riduzione del rischio consiste nella predisposizione di specifiche carte del rischio per regolamentare le attività di costruzione in aree vulnerabili, quali pianure alluvionali, aree franose o sismiche, prima che le calamità si verifichino. Nelle aree a rischio i piani di sviluppo edilizio dovrebbero adeguarsi a disposizioni di legge stringenti, calibrate in funzione del grado di esposizione al rischio. Precise indicazioni relative a calamità incombenti possono essere ottenute mediante l'installazione nelle aree a rischio di sistemi di monitoraggio e di allerta, che consentirebbero di salvare vite umane e di contenere l'entità dei danni.
Le complesse problematiche connesse con la riduzione del rischio, nonché dei costi sociali ed economici dei disastri, sono state oggetto di numerose iniziative e di attività internazionali sostenute e coordinate dalle Nazioni Unite, che nel 1989 promossero un Decennio internazionale per la riduzione dei disastri naturali. In occasione di una Conferenza mondiale sulla prevenzione dei disastri naturali svoltasi a Yokohama nel 1994 furono adottati una strategia e un piano di azione che, partendo dal presupposto che gli eventi naturali estremi che causano i disastri sono per lo più al di fuori del controllo umano, mentre la vulnerabilità è generalmente il risultato dell'attività dell'uomo, raccomandavano di mettere in atto nuovi metodi e comportamenti per convivere con i rischi di calamità, e di intraprendere azioni urgenti per prevenire e ridurre gli effetti di tali disastri.
A dieci anni di distanza dal terremoto di Kobe, che causò più di seimila vittime, si è tenuta nella città giapponese, una nuova Conferenza mondiale per la prevenzione dei disastri naturali, allo scopo di delineare le possibili strategie di lavoro per il XXI secolo. La sessione finale della Conferenza (22 gennaio 2005) si è conclusa con l'adozione di due importanti documenti che promuovono una cultura di prevenzione e di resilienza nei confronti dei disastri, sottolineando la necessità di collocare questo tema al centro delle politiche nazionali, data la stretta relazione che lega gli obiettivi della riduzione del rischio di disastri a quelli dello sviluppo sostenibile e della riduzione della povertà.
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