Camillo Benso conte di Cavour
Cavour occupa un posto ben più alto nella storia d’Italia che in quella dell’economia politica. Tuttavia, considerarlo alla stregua di un politico puro sarebbe certamente limitativo. Nel suo grandioso progetto indirizzato alla costruzione di uno Stato moderno, l’economia politica gioca un ruolo fondamentale. Cavour non disdegnò di misurarsi con i classici dell’economia politica: con David Hume per la moneta, con Adam Smith per il mercato, con Nassau W. Senior per la questione dell’assistenza ai poveri, con John R. McCulloch per la trattazione del valore (Luraghi 1961, pp. 33-35). Ma la conoscenza scientifica doveva essere finalizzata all’azione: la regola einaudiana «conoscere per deliberare» sembra dettata per lui (o da lui).
Camillo Benso, futuro conte di Cavour, nasce a Torino il 10 agosto 1810, secondogenito del marchese Michele e della nobildonna ginevrina Adèle de Sellon. Come la maggior parte dei cadetti, viene indirizzato alla carriera delle armi, ed entra nell’Accademia militare di Torino, dove si distingue negli studi matematici. Nel 1826 diviene ufficiale del genio, ma nel 1831 lascia l’esercito per dedicarsi alla conduzione della tenuta avita di Leri, a varie imprese finanziarie e a lunghi viaggi di istruzione in Europa.
Alla fine del 1847 esordisce in politica sulle colonne del quotidiano «Il Risorgimento», da lui fondato insieme a Cesare Balbo (sulla sua collaborazione al giornale cfr. Einaudi 1937).
Dopo l’ingresso in Parlamento, nelle elezioni suppletive del giugno 1848, la sua ascesa non conosce soste: tra il 1850 e il 1852 è più volte ministro (prima di Agricoltura, Commercio e Marina, poi delle Finanze), e tra il 1852 e il 1861 è quasi ininterrottamente presidente del Consiglio (con un solo intervallo, tra il luglio 1859 e il gennaio 1860). Anche nei quattro governi da lui presieduti è più volte titolare di ministeri (Esteri, Finanze, Interni, Guerra, Marina), cumulando spesso due incarichi ministeriali alla volta, e talvolta persino tre.
I suoi straordinari successi politici sono troppo noti per dover essere qui illustrati: la partecipazione piemontese alla guerra di Crimea, la successiva conferenza della pace del 1856 e la conseguente alleanza militare con Napoleone III, che porta alla vittoria nella Seconda guerra d’indipendenza; le drammatiche dimissioni del luglio 1859, susseguenti a Villafranca; il ritorno al potere nel gennaio 1860; l’abilissima gestione dell’impresa garibaldina, fino alla proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861. All’apice del potere e del consenso, Cavour si spegne dopo brevissima malattia – forse un fulminante attacco di malaria – il 6 giugno 1861.
Al matematico e astronomo Giovanni Plana, che lo esortava a concentrarsi sulle matematiche, Cavour aveva risposto: «Non è più tempo di matematiche; bisogna occuparsi di economia politica» (cit. in Fossati 1932, pp. 65-66 nota). E nel 1835 poteva dichiarare orgogliosamente a un amico ginevrino (nonché suo lontano parente), il fisico Auguste de la Rive: «De toutes les sciences morales, il n’y en a qu’une que j’ai étudiée à fond, c’est l’économie politique» (cit. in Luraghi 1961, p. 32).
Da alcuni scritti che ci sono pervenuti, il giovane, precocissimo Cavour risulta attirato da problemi di teoria e metodo dell’economia politica.
Nel testo inedito De la valeur (1828), egli manifesta dubbi sulla validità della teoria del valore-lavoro, che secondo lui si può sostenere solo a patto di considerarla espressione della difficoltà di ottenere le derrate alimentari necessarie a ‘comandare’ (nel senso usato da Adam Smith) medesime quantità di lavoro salariato. Poiché tali condizioni variano in base alle condizioni della società, non è consentito considerare la quantità di beni di sussistenza acquistabili con il salario medio come misura invariabile del valore, salvo voler arrivare alla conclusione tautologica che il valore è determinato dal valore (De la valeur, in Scritti inediti e rari 1828-1850, a cura di R. Romeo, 1971, p. 11). Neppure è corretto indicare come sua misura invariabile una speciale merce a sua volta dotata della qualità di non variare nel proprio valore. Tale merce non può essere concepita neppure mentalmente (in questo senso Cavour avrebbe respinto il ragionamento tenuto da David Ricardo in un saggio del 1823, a quell’epoca inedito, Absolute value and exchangeable value). Cavour invece aderisce all’impostazione di Jean-Baptiste Say: il valore è un concetto esclusivamente relativo, è un rapporto fra le utilità possedute dai beni, e poiché l’utilità è collegata a bisogni e scarsità, entrambi variabili, i valori-utilità cambiano continuamente con il progresso della società.
Tuttavia, ammette Cavour, anche Ricardo ha ragione nel ritenere che le condizioni di produzione di una merce contribuiscono a definirne il valore. Considerare il valore dal lato dei costi è altrettanto necessario che considerarlo dal lato della domanda. Cavour appare sotto questo profilo un marshalliano ante litteram.
Circa il progresso dell’economia politica, Cavour osserva che, quando una scienza è ai propri inizi, essa tende a sollevare dispute meramente nominalistiche. Del resto, anche il cammino delle scienze fisiche è costellato di diatribe su falsi problemi di cui un maggiore rigore terminologico, proprio di una scienza ormai matura, avrebbe fatto giustizia. L’economia politica è ancora a metà strada fra un definitivo affrancamento da questioni irrilevanti e una dannosa dipendenza da esse.
In un altro testo inedito di poco successivo, Des impôts sur les salaires (1828-29), Cavour tratta della teoria esposta nel cap. 16 di On the principles of political economy and taxation (1817) di Ricardo, secondo cui un’imposta sui salari, cioè sulla voce principale dei costi, non può non ridurre i profitti del capitale. Cavour obietta che il tasso salariale non dipende solo dalle condizioni di produzione dei generi alimentari, ma anche dalle abitudini di vita prevalenti in un Paese, le quali fanno sì che Paesi al medesimo livello di sviluppo presentino tassi salariali molto diversi fra loro. L’osservazione empirica del movimento oscillatorio dei salari e dei profitti non consente di dare valore generale alla proposizione ricardiana.
In un terzo scritto del decennio successivo, Della ricchezza (1837), Cavour conclude la sua breve stagione teoretica con alcune riflessioni sul concetto di ricchezza. Contrariamente a Ricardo, che aveva distinto valore e ricchezza, e analogamente a Say, Cavour afferma che nel concetto di ricchezza è compreso quello di valore, perché la ricchezza è la capacità di soddisfare bisogni ricorrendo a utilità fornite da mezzi limitati e perciò non gratuiti. Anche questa conclusione è in linea con la teoria economica postclassica che si stava allora affermando.
In uno scritto del 1835, Extrait du rapport des commissaires de S. M. Britannique qui ont exécuté une enquête générale sur l’administration des fonds provenants de la taxe des pauvres en Angleterre, Cavour riassume i risultati della grande inchiesta parlamentare britannica del 1832 sulla cosiddetta Old poor law del 1601, più volte modificata nel corso del tempo, inchiesta la cui relazione conclusiva era dovuta a Senior. Cavour fa proprie tutte le ragioni di insoddisfazione esposte nella relazione di Senior per l’allora vigente sistema di sostegno (relief) al reddito dei poveri, che avveniva attraverso un complicato e per molti versi inefficiente sistema di tassazione locale affidato alle parrocchie.
Cavour sposa le proposte di riforma basate sul principio della less eligibility (minore preferibilità) della condizione di povero assistito rispetto a quella di libero lavoratore. Con tale principio si intendeva «rendre la condition du pauvre qui est à la charge de la paroisse, inférieure à celle de l’ouvrier indépendant» (Extrait du rapport, in Scritti di economia 1835-1850, a cura di F. Sirugo, 1962, p. 24). Pur entro la cornice ideologica malthusiana – aiuti pubblici troppo estesi spingono il povero all’ozio e alla procreazione sconsiderata –, Cavour si schiera fra i fautori del mantenimento di una consistente carità legale, cioè pubblica, distinguendosi dalle correnti aristocratiche piemontesi del suo tempo, le quali diffidavano degli istituti pubblici di carità, considerandoli pericolosi veicoli di un’ideologia irreligiosa (cfr. Fossati 1932, cap. 4; Romeo 1969-1984, 1° vol., pp. 412-16). Oggi diremmo che Cavour era un seguace del principio di sussidiarietà, che a quel tempo significava però maggiore, e non minore, intervento pubblico in materia. Lo scritto ebbe fortuna, e fu tradotto e diffuso in Gran Bretagna (Romeo 1969-1984, 1° vol., pp. 421-23).
Due scritti degli anni Quaranta, pubblicati sulla rivista svizzera «Bibliothèque universelle de Genève», si occupano di altre due questioni economico-sociali che agitavano le isole britanniche in quegli anni: il primo, Considérations sur l’état actuel de l’Irlande et sur son avenir (janvier-février 1844), tratta dell’agricoltura irlandese e del movimento di emancipazione capeggiato da Daniel O’Connell; il secondo, De la question relative à la legislation anglaise sur le commerce des céréales (janvier-février 1845), della riforma della legislazione daziaria in materia di commercio del grano.
Lo scritto del 1844 esamina le vicende politico-sociali dell’Irlanda, che sono alla base delle sue difficoltà economiche. La proprietà fondiaria si trovava per lo più in mano dei discendenti degli antichi conquistatori inglesi, i quali avevano realizzato a proprio vantaggio un sistema di subconcessioni che gravavano sui contadini irlandesi, costantemente indebitati verso i signori. Il frazionamento eccessivo delle colture aveva poi favorito l’enorme espansione della coltivazione della patata, trasformando quella irlandese in un’agricoltura di sussistenza senza capacità di esportazione (di lì a poco una malattia della patata, la peronospora, avrebbe provocato una carestia, decimando la popolazione irlandese e dando luogo a una sua massiccia emigrazione in America). Anche questo scritto fu tradotto in inglese (Fossati 1932, p. 49; Romeo 1969-1984, 2° vol., t. 1, p. 207).
Il testo del 1845, uno dei suoi scritti economici più impegnativi, tratta dell’imminente abolizione delle Corn laws (introdotte a partire dal 1815) da parte del gabinetto di Robert Peel – un tory animato da impegno riformatore, a cui egli si sentiva ideologicamente affine. Cavour esordisce manifestando compiacimento per i progressi mostrati dalla scienza economica negli ultimi decenni. I contorni di essa sono ora più chiari: l’economia politica si diffonde sempre di più presso l’opinione pubblica e viene sempre meglio percepita nella sua armonia con la ragionevolezza e il buon senso. Crescita delle conoscenze economiche e crescita del sistema economico, egli osserva, vanno di pari passo. La teoria ricardiana dei vantaggi comparati, che postula la specializzazione internazionale del lavoro in un’ottica di libero scambio, nega fondamento al protezionismo dei Navigation acts della seconda metà del Seicento, e ne postula l’abrogazione.
La riduzione dei dazi doganali inglesi non potrebbe non avere effetti positivi anche nella penisola, particolarmente sulla principale industria di esportazione, quella della seta (Dell’influenza che la nuova politica commerciale inglese deve esercitare sul mondo economico e sull’Italia in particolare, «Antologia italiana», 31 marzo 1847). Ormai l’opinione pubblica si rende conto che è il libero scambio, e non la protezione, a favorire il progresso tecnico, incoraggiando le imprese dinamiche – sia agricole sia industriali –, e a ridurre il costo della vita.
Nel breve discorso in onore di Richard Cobden in occasione della sua visita a Torino (1847), Cavour presenta i progressi sulla via del free trade che si stanno facendo in Italia. L’insegnamento dei grandi economisti del passato, come Pietro Verri e Antonio Genovesi, trova una felice applicazione nella liberalizzazione degli scambi promossa dalla Lega doganale fra gli Stati della penisola, proposta da papa Pio IX ([Discorso in onore di Richard Cobden], «Il commercio», 14 luglio 1847, in Scritti di economia, cit., p. 283).
Nel solco dell’insegnamento di Jeremy Bentham, per Cavour deve esservi spazio per la riforma e la prevenzione sociale, da condursi nel rispetto, anzi nell’applicazione, della scienza economica. I suoi viaggi all’estero – in Svizzera, Francia, Inghilterra e Belgio, tra il 1829 e il 1847 (Romeo 1969-1984, 1° vol., cap. 5) – seguono quasi dei rituali: l’incontro con i personaggi più in vista della politica e dell’intellettualità del tempo (quali Charles Babbage, Senior, Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, Charles-Alexis-Henri-Maurice Clérel de Tocqueville e altri), la visita agli istituti di carità e alle carceri, l’ispezione alle principali fabbriche e alle più progredite tenute agricole. Le condizioni di vita dei ceti più umili e lo studio del progresso tecnico prodotto dallo sviluppo della navigazione a vapore e ancor più delle ferrovie, sono oggetto di meditazioni affidate a rapporti scrupolosi che Cavour pubblica per lo più su riviste svizzere e francesi, e che costituiranno parte del suo programma di ampio intervento economico-sociale.
Per rendere più solido e credibile tale programma, Cavour sente il bisogno di sbarazzarsi delle utopie e ideologie ispirate all’idea di rivoluzione sociale. La sua critica del comunismo, «uno spettro [che] si aggira per l’Europa» (secondo la nota formula marxiana) a partire dal 1848, prefigura diverse critiche di parte liberale che negli anni Venti del 20° sec. sono state avanzate da economisti e filosofi liberali (specie della scuola austriaca) all’idea stessa di società pianificata o comunque ‘organizzata’.
In due articoli usciti nel 1848 su «Il Risorgimento» ([Considerazioni economiche sui problemi sociali messi in campo dalla rivoluzione del ’48], 11 e 17 marzo; [Contro l’imposta progressiva], 2 dicembre), la contrapposizione fra la realtà di un sistema basato sull’accumulazione privata e la sua alternativa, basata su decisioni centralizzate (gli atéliers nationaux francesi, che intendevano sancire il ‘diritto al lavoro’), è efficacemente illustrata. Il vero conflitto fra economia liberale ed economia statalizzata e perciò ‘comunista’, non dipende dal fatto che nella prima domina il capitale e nella seconda il lavoro, ma nel fatto che nella prima domina l’intelligenza dell’iniziativa imprenditoriale e nella seconda il meccanicismo del comando burocratico.
Tuttavia Cavour ha cura di chiarire di non essere ostile a qualsiasi intervento dello Stato, poiché la finanza deve avere anche compiti redistributivi attraverso la spesa: «applaudiremo alle tasse prelevate sulle classi agiate, per istruire, per educare le classi povere» ([Considerazioni economiche], in Scritti di economia, cit., p. 325).
Da deputato, ministro e statista, Cavour cercò di applicare al meglio quanto aveva appreso nei suoi studi e nei suoi viaggi. I principi di politica economica a cui egli si attenne nel suo frenetico decennio di governo possono essere riassunti in tre punti.
Osserva Cavour, illustrando in un discorso al Parlamento subalpino, il 28 gennaio 1852, il bilancio preventivo per quell’anno del suo ministero (Agricoltura, Commercio e Marina), che «col progredire della civiltà crescono i bisogni e col crescere dei bisogni aumentano le spese», e, per chiarire che l’aumento dipende dalla crescita complessiva della società e dell’economia e non dall’assetto istituzionale di ogni Paese, precisa che «è una fatale necessità a cui hanno dovuto soggiacere non solo i governi costituzionali ma anche i governi assoluti» (Sul bilancio attivo del 1852, in Opere politico-economiche del conte Camillo Benso di Cavour, 1855, p. 450; cfr. anche Discorsi parlamentari, a cura di A. Omodeo, L. Russo, A. Saitta, 1932-1973, 5° vol., p. 238). Una folgorante anticipazione della cosiddetta legge di Wagner sull’inarrestabile crescita delle spese pubbliche negli Stati moderni, legge affermatasi nella scienza delle finanze un quarantennio più tardi.
Dal punto di vista istituzionale, Cavour promosse un’importante riforma della contabilità di Stato, nel senso dell’efficacia e speditezza dei controlli e dell’unitarietà del processo di spesa (l. 23 marzo 1853 nr. 1483, detta legge Cavour, su cui cfr. Faucci 1975, pp. 24 e segg.).
Il bilancio contabile deve altresì consentire che si possa effettuare una sorta di bilancio economico che tenga conto non soltanto delle somme da imputare, ma dei prevedibili effetti della spesa sull’ambiente economico in cui essa viene a ricadere, e quindi dei risultati complessivi in termini di benessere per la collettività. Il liberale Cavour non è certo un sostenitore della finanza neutrale; al contrario. Nel 1858 il suo collaboratore Antonio Scialoja, polemizzando con Agostino Magliani, allora funzionario borbonico, il quale vantava la maggiore mitezza del sistema tributario napoletano rispetto a quello piemontese, argomenta a ragione che la più alta pressione tributaria in Piemonte era servita a creare infrastrutture utili per l’economia e quindi a far progredire il Paese, mentre la finanza ‘leggera’ borbonica aveva lasciato l’economia meridionale in condizioni di ristagno (cfr. Faucci 2000, p. 164).
Cavour si rendeva conto che molte voci di spesa erano incomprimibili. Non si poteva ridurre il bilancio degli Esteri, come suggerivano i regionalisti della Savoia, né quello della Pubblica istruzione, che al contrario andava aumentato; né si poteva economizzare sugli stipendi degli impiegati pubblici, di cui «anche i temperini sono contati» (cit. in Luraghi 1961, p. 149). Altre voci di spesa sono destinate a crescere in valore assoluto, ma a ridursi in percentuale del prodotto, come quelle di esercizio delle ferrovie man mano che la rete ferroviaria si espande.
Se non si possono ridurre le spese pubbliche, ma solo riqualificarle in base alle esigenze di crescita dell’intera economia, invece si deve decisamente guardare a un riassetto del carico fiscale basato sulla proporzionalità, sull’equità nonché, smithianamente, sul minimo attrito a danno della produzione. Il contribuente non deve avere la sensazione di essere vessato. Un sistema di più imposte dirette sui vari redditi è più accettabile di uno basato su un’unica imposta sul reddito, sul tipo della income tax inglese, che in effetti fu abolita da Cavour poco tempo dopo che era stata introdotta nel sistema sardo dal suo predecessore al Ministero delle Finanze, il banchiere Giovanni Nigra. Cavour riteneva che il Paese non fosse ancora abbastanza ricco per potersela permettere (cfr. Romeo 1969-1984, 2° vol., t. 2, pp. 489 e passim). Quanto alle imposte indirette, esse dovevano basarsi su una tenue tassazione dei consumi e su dazi di importazione altrettanto lievi, nella previsione che i consumi avrebbero reagito positivamente e quindi il gettito sarebbe aumentato e non diminuito (in questo consistendo la differenza fondamentale fra dazi fiscali e protettivi).
Le tappe intermedie prevedono una rete di trattati di commercio, che Cavour realizzò a partire da quello, molto importante, con la Francia (dicembre 1850). Questo prevedeva una disciplina della proprietà letteraria tendente a salvaguardare i property rights di autori e di editori, allora minacciati dal proliferare di edizioni pirata. Un liberista assoluto come Francesco Ferrara non mancò di criticare la «smania di proteggere la proprietà letteraria» in tutta Europa, al punto da affermare polemicamente di non voler più «ricordare al ministro Cavour i principii da cui era ispirato lo scrittore Cavour, l’economista Cavour, il deputato Cavour» ([Sui trattati di commercio con la Francia], «La croce di Savoia», 12 dicembre 1850, in Ferrara 1970, p. 160). Ma i trattati di commercio preludevano a trattati di alleanza politica, e i rapporti con la Francia – un Paese tutt’altro che votato al libero scambio – erano cruciali. Più che mai Parigi valeva bene una messa.
Cavour era favorevole, detto in termini di oggi, alle società miste. Questo gli fu spesso rimproverato dai suoi avversari. In realtà, il modello adottato da Cavour per la Banca nazionale degli Stati sardi – nata alla fine del 1849 dalla fusione delle due Banche di Genova e di Torino, a cui Cavour aveva partecipato come azionista – era quello della Bank of England, cioè una moderna banca centrale indipendente dall’esecutivo, ma pronta a collaborare con esso; secondo lui era invece da scartare il modello statunitense delle banche di emissione totalmente private. In quest’ottica, Cavour riuscì a ottenere per la Banca nazionale il raddoppio del capitale sociale e l’affidamento del servizio di tesoreria statale, ma non riuscì a farle attribuire il corso legale dei biglietti, segno delle resistenze degli ambienti politici ed economici verso un intervento ritenuto centralistico, se non monopolistico.
Il 27 maggio 1861, dieci giorni prima della morte, di fronte alle proposte dei rappresentanti degli industriali, che volevano aumentare la pressione fiscale sulla terra e introdurre dazi di importazione per difendere la produzione nazionale, Cavour ribadisce in Parlamento che gli incrementi più importanti di produttività si raggiungono nei settori maggiormente sottoposti alla libera concorrenza, e non nei settori protetti.
Anche se Cavour non riuscì a tracciare un’univoca linea di industrializzazione per l’intero Paese – probabilmente per la sua limitata conoscenza delle peculiari condizioni economiche del Mezzogiorno – è indubbio che da queste sue ultime riflessioni si diramano le due correnti principali della politica economica postunitaria, quella prevalentemente agrarista e liberista del 1861-78 e quella più interventista e industrialista del 1878-96 (cfr. Cafagna 1989). È da osservare, tuttavia, che entrambi gli schieramenti si richiamarono al suo nome, presentandosi in continuità con la sua politica.
Molti degli scritti economici di Cavour sono stati raccolti in due antologie, Scritti di economia 1835-1850, a cura di F. Sirugo, Milano 1962, e Scritti inediti e rari 1828-1850, a cura di R. Romeo, Santena 1971 (d’ora in poi citate rispettivamente come Cavour 1962 e Cavour 1971). Si vedano in partic.:
De la valeur (1828), in Cavour 1971, pp. 11-15.
Des impôts sur les salaires (1828-29), in Cavour 1971, pp. 17-22.
Extrait du rapport des commissaires de S. M. Britannique qui ont exécuté une enquête générale sur l’administration des fonds provenants de la taxe des pauvres en Angleterre, Turin 1835, in Cavour 1962, pp. 3-29.
[Della ricchezza] (1837), in Cavour 1971, pp. 107-09.
Considérations sur l’état actuel de l’Irlande et sur son avenir, «Bibliothèque universelle de Genève», janvier-février 1844, in Cavour 1962, pp. 78-138.
De la question relative à la legislation anglaise sur le commerce des céréales, «Bibliothèque universelle de Genève», janvier-février 1844, in Cavour 1962, pp. 156-209.
Des chemins de fer en Italie, «La revue nouvelle», 1° maggio 1846, in Cavour 1962, pp. 225-48.
Dell’influenza che la nuova politica commerciale inglese deve esercitare sul mondo economico e sull’Italia in particolare, «Antologia italiana», 31 marzo 1847, in Cavour 1962, pp. 249-80.
[Discorso in onore di Richard Cobden], «Il commercio», 14 luglio 1847, in Cavour 1962, pp. 281-83.
[Considerazioni economiche sui problemi sociali messi in campo dalla rivoluzione del ’48], «Il Risorgimento», 11 e 17 marzo 1848, in Cavour 1962, pp. 322-30.
[Contro l’imposta progressiva], «Il Risorgimento», 2 dicembre 1848, in Cavour 1962, pp. 425-31.
Sul bilancio attivo del 1852, 1852, in Opere politico-economiche del conte Camillo Benso di Cavour, dispensa seconda, Cuneo 1855, pp. 441-52.
Discorsi parlamentari, a cura di A. Omodeo, L. Russo, A. Saitta, 15 voll., Firenze 1932-1973.
A. Fossati, Il pensiero e la politica sociale di Camillo Cavour, Torino 1932.
M. Einaudi, La collaborazione di Cavour al ‘Risorgimento’, «Rivista di storia economica», 1937, 3, pp. 247-68.
R. Luraghi, Pensiero e azione economica del conte di Cavour, Torino 1961.
F. Sirugo, L’Europa delle riforme. Cavour e lo sviluppo economico del suo tempo (1830-1850), introduzione a Cavour 1962, pp. IX-XCI.
R. Romeo, Cavour e il suo tempo, 3 voll., 4 tt., Roma-Bari 1969-1984.
F. Ferrara, Opere complete, 7° vol., a cura di F. Sirugo, Roma 1970.
R. Faucci, Finanza, amministrazione e pensiero economico. Il caso della contabilità di stato da Cavour al fascismo, Torino 1975, pp. 19-33.
E. Passerin D’Entrèves, Cavour Camillo Benso conte di, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 23° vol., Roma 1977, ad vocem.
L. Cafagna, Il modello di sviluppo dell’ultimo Cavour e l’opposizione dei primi interessi industriali, in Id., Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Venezia 1989, pp. 223-59.
L. Cafagna, Cavour: l’artefice del primo miracolo italiano, Bologna 1999.
R. Faucci, L’economia politica in Italia. Dal Cinquecento ai nostri giorni, Torino 2000, pp. 161-64.
G. Galasso, Prefazione a C. Benso conte di Cavour, Autoritratto. Lettere, diari, scritti e discorsi, a cura di A. Viarengo, Milano 2010.
A. Viarengo, Cavour, Roma 2010.