CESSI, Camillo
Nacque a Rovigo da Riccardo e Clementina Moretti il 23 luglio 1876, in una famiglia "umanistica" donde insieme, con lui dovevano emergere, fra i numerosi suoi firatelli gli storici Benvenuto e Roberto. Dal padre, pittore, decoratore ed affrescatore di minierose chiese polesane, il C. derivò, con la fede cattolica, sempre fervidamente e scopertamente professata, l'amore all'antico, e alla "piccola patria". I suoi insegnanti delle scuole medie e gli accademici dei Concordi coltivarono questa sua quasi nativa inclinazione allo studio rivendicativo degli umanisti della sua terra, che aveva fama di Beozia veneta e che nelle sue prime scritture, segnatamente in quelle dedicate a Celio Rodigino, il C. provvide a richiamare da un'immeritata dimenticanza. Con questo bagaglio umanistico gli fu agevole, quasi naturale e obbligato, il passaggio alla facoltà di lettere dell'università padovana. In questo ateneo, tuttavia, non lo attrassero i maggiori maestri e la nuova problematica di cui più si appassionavano i suoi coetanei: non agirono, quindi, su di lui né il magisterio dell'Ardigò né le dottrine economico-socialistiche del Loria, e nemmeno gli studi storici, entrati per la verità alquanto in crisi con la scomparsa del De Leva; ma, e pressoché unicamente, gli studi filologici del modesto grammatico Ferdinando Gnesotto e dell'ellenista carducciano Giovanni Setti, che il C. riverì suo maestro ancora nel dedicargli la memoria su La critica letteraria di Callimaco (Firenze 1907), e alla cui scuola si laureò il 6 luglio 1898 con una dissertazione tosto accolta dal Vitelli nei propri Studi italiani di filologia classica (VII [1899], pp. 301 ss.).
Il lavoro verteva essenzialmente sulla cronologia della vita e delle opere di Callimaco. E quest'ultimo e gli autori a lui coevi furono per molti anni il tema più impegnato dell'intensa attività del C., benché la sua carriera d'insegnante medio, tosto iniziata nel 1899 al ginnasio di Mistretta, e poi di Siracusa nel 1900 (donde passò ai licei di Caltanissetta e di Siracusa, dell'Aquila e di Ferrara), concedesse poco agio al suo lavoro scientifico. Operosissimo collaboratore, in quel primo decennio del secolo, ai maggiori periodici classico-filologici e recensore diligentissimo, nella Rivista di storia antica (il cui direttore, il marchese Giacomo Tropea, gli era stato professore in Padova) e in Classici e neolatini soprattutto, mostrò competenza e dottrina, ma scarsa profondità: e scarsa partecipazione alla battaglia allora intrapresa in vari modi e su vari fronti contro il cosiddetto "filologismo". Per la comune venerazione al Fraccaroli, si legò d'intima amicizia, rafforzata altresì dalla comune professione cattolica, col salesiano Paolo Ubaldi (poi suo successore a Catania e suo collega all'università cattolica e dal C. amaramente pianto, in un'appassionata commemorazione, ma non veramente colto nella sua problematica e nel suo lavoro: vedi il discorso a proemio della Miscellanea in memoria di P. Ubaldi, pubblicata a Milano nel 1937), né gli dispiacquero Ettore Romagnoli e altri rumorosi antivitelliani, propensi non tanto a fare critica letteraria (donde le loro quasi universali polemiche anticrociane) quanto a diffondere il verbo nazionalistico e pseudopatriottico, col pretesto, al quale tuttavia il C. credette sinceramente, di affrancar la scienza italiana dal presunto servaggio alla filologia classica tedesca.
I meriti (e i limiti) del C. spiccano già nelle prime memorie "ellenistiche" e più ancora nel volumetto Caratteri e forme della letteratura ellenistica (Aquila 1908), poi rifuso nel volume laterziano La poesia ellenistica (Bari 1912), mentre, forse a fini concorsuali, il C. raccoglieva Note critiche e bibliografiche di letteratura greca (Aquila 1908), una breve serie di scarsamente importanti "contributi" già editi.
Il C. era in sintonia con la moda e le tendenze del tempo suo, in Italia e fuori d'Italia (più specialmente, o quasi esclusivamente, la Germania del Wilamowitz e dei suoi discepoli) nel privilegiare i poeti ellenistici rispetto ai poeti della grecità classica. E giustamente avvertiva che erano stati troppo a lungo negletti fra noi, dopo l'esempio, indimenticabile ma dimenticato, della Berenice foscoliana e del classicistico volgarizzamento strocchiano. Ma gli difettavano i metodi e gli strumenti adeguati. Per un verso, pur desideroso di raccordarsi alla tradizione italiana in funzione antitedesca, poco o punto il C. in verità conosceva il vasto e vario lavoro degli eruditi nostrali del secolo scorso. Per altro verso, benché gli fossero stati maestri G. Setti e il danconiano F. Flamini, difettavano al C. l'esperienza e l'amore della chose littéraire, il gusto della critica e dello stile (onde non sorprende, ma spiace, che ancora nel '34 rimproverasse alla versione della Poetica aristotelica volgarizzata dal Valgimigli lo stile "sostenuto ed aulico": Aevum, VIII [1934], p. 476). Non trasse perciò, altrimenti dall'infelice fraccaroliano P. Cesareo, alcun positivo avviamento all'intelligenza e alla critica della poesia ellenistica dal dannunzianesimo e, in genere, dal decadentismo europeo; né si peritò, pertanto, di scrivere (Caratteri, p. 90, e Poesia ellenistica, p. 69): "Per quanto eruditi, i veri poeti ellenistici hanno ancora genio creatore, né si possono considerare del tutto decadenti"; o di giudicare "sentimento di servilismo", ormai dominante "nelle Corti ellenistiche", il "poemetto adulatorio" di Simobide "in lode di Antioco, vincitore dei Galati" (Caratteri, p. 214, e Poesia ellenistica, p. 157). Che è grave fraintendimento, ovviamente, d'una situazione storica concreta, d'un ideologismo maturo ed efficace a governare, ad illuminare e a redimere tutto un filone, specialmente epicostorico, della letteratura ellenistica: non fosse che l'ambientazione, la consapevolezza della storicità e positività dell'ellenismo rimasero sempre impervi ed estranei al C. (il cui volume, pertanto, non sopravvisse, né le sue ricerche callimachee, alla nuova metodica e alle più mature trattazioni del Rostagni e, in minor misura, del Pasquali).
Meritamente, non di meno, il C. vinse nel 1909 il concorso alla cattedra di letteratura greca nell'università di Catania, donde, dopo la felice parentesi neoellenica, il cui miglior frutto è la traduzione delle Opere scelte del poeta D. Paparrigopoulos (Bari 1912), e l'arduo servizio di guerra sul Carso e in Carnia, si trasferì sul finire del 1918 alla medesima cattedra nell'università della sua Padova, successore (come a Catania) del Romagnoli.
La prolusione che vi lesse il 28 genn. 1919 (Gli studi classici e la scuola padovana nell'ultimo secolo, Padova 1919), mentre tempera le intemperanze e le avventatezze dello pseudopatriottismo "di guerra", nella riconfermata fedeltà alla tradizione fraccaroliana (ma senza avvertire, nella teoria medesima dell'"irrazionale" e nei propositi di costruzione d'una storia letteraria, i fermenti storicistici e la conseguente "novità", cui pertanto non repugnarono i "giovani", come Serra, Siciliani, Cecchi, ecc.), e mentre opportunatamente distingue fra critica letteraria e filologia, quest'ultima giustamente giudicando solo mezzo a fine, è, peraltro, carente nel quadro "storico" della Padova ottocentesca, dove i problemi del classico e dell'antico furono pur affrontati dal Petrettini papirologo e dal De' Leva storico, a prescindere dalla tradizione locale dei Forcellini e del Seminario.
Aveva appena ripreso contatto con la humus veneta, non senza un progressivo ritorno dalla poesia ellenistica alla poesia greca classica, né senza un mediocre corredo di studi latini, massime virgiliani (inquinati, quest'ultimi, dal nazionalismo fascio-imperiale e dall'incapacità metodica, per esempio, di operare la debita distinzione fra il "mito" di Virgilio e le testimonianze che alla ricostruzione del Virgilio minore possono, indipendentemente da qual si voglia questione di autenticità o attribuzione, tuttavia conferire i poemetti e gli epigrammi dell'Appendix; vedi Raccolta di scritti in onore di F. Ramorino, Milano 1927, p. 174 n. 1; Letteraturagreca, p. 10), quando il C. fu invitato dal padre Gemelli alla nuova cattedra di letteratura greca nella facoltà di lettere dell'università cattolica di Milano.
V'insegnò dal 1924 alla morte precoce, operoso e diligentissimo sempre, commentatore di classici e autore di manuali per le scuole medie, zelantissimo collaboratore della nuova rivista della sua facoltà, l'Aevum, in cui pubblicò infinite (ma quasi tutte estrinseche e generiche) recensioni, bollettini bibliografici virgiliani e di letteratura greca, ecc. Collaborò altresì al volume vichiano dell'università cattolica (Milano 1926), con un saggio G. B. Vico filologo, elogiatogli dal Nicolini, nel quale il C. confermava, appunto da filologo classico, l'esegesi omerica del pensatore napoletano. Con lo stesso scrupolo, con lo sesso impegno, col medesimo proposito antigermanico venne apprestando su vastissima scala (e doppiamente invano si era assicurato la collaborazione dell'Ubaldi per la storia della letteratura cristiana) una Storia della letteratura greca dalle origini all'età di Giustiniano, della quale non vide la luce che il primo volume (Torino 1933).
Opera essenzialmente, od esclusivamente, di consultazione, anche perché dettata senz'alcuna chiarezza compositiva o consapevolezza dei problemi strutturali e genetici d'una storia letteraria, il manuale del C., destinato immeritatamente a non servire nemmeno all'informazione erudita e a non sollevare, comunque, alcun'eco nel campo degli studi italiani (se non per una frecciata polemica di B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, Bari 1945, p. 192 n. 1), confonde storia politica, storia della cultura e storia della poesia, ora inclina alla teoria del milieu e ora a respingere (quanto a torto doveva poco di poi rivelare la ricostruzione sistematica della civiltà micenea) ogni contatto o "influsso" orientale; e al suo meglio si appunta in una rassegna erudita della cosiddetta "questione omerica". Qui il C. ribadisce il suo debito al Fraccaroli (pp. 640 s., 662) e proclama "unico l'autore dei poemi" (p. 741), la cui poesia male, peraltro, interpreta con l'imboccare, o rivendicare, "una via temperata e di mezzo" (p. 180) tra il filologismo e l'estetismo (che sarebbe, a giudizio del C., p. 179 n. 1, l'ultima conseguenza estremistica dell'insegnamento desanctisiano). "Uomo ricco d'informazione e di dottrina", com'ebbe nel '25 a definirlo G. Pasquali, condirettore, con V. Ussani e G. Funaioli, del C. direttore della Rassegna italiana di lingue e letterature classiche, Napoli 1918-1919 (Belfagor, XXVIII[1973], p. 180), il C., probo filologo e coscienzioso insegnante, non riuscì, tuttavia, né a formarsi una scuola né a redigere un'opera cui affidare, durevolmente, il suo nome.
Il C. morì a Milano il 9 febbr. 1939.
Bibl.: A. Calderini, C. C., in Aevum, XIII (1939), pp. 497-511 (e A. Ballini, ibid., p. 299): alla commem. segue l'elenco, sovente scorretto, ma sostanzialmente completo degli scritti del C. (pp. 511-535), a cura del medesimo Calderini, e l'epigrafe latina di G. A. Amatucci "per il ricordo marmoreo scolpito nell'Atrio dell'Università in memoria di Camillo Cessi". Vedi, altresì, G. A. Piovano. Gli studi di greco, Roma 1924, pp. 48 s.; e, per gli studi vichiani, F. Nicolini, Bibliografia vichiana, II, Napoli 1948, pp. 857 s.