PORZIO, Camillo
PORZIO, Camillo. – Nacque a Napoli nel 1526 o nel 1527 da Simone e da Porzia d’Anna, di nobile famiglia napoletana. Ebbe sei fratelli tra i quali Antonio, che nel 1557 divenne vescovo di Monopoli, e Giacomo, che militò con gli spagnoli nelle guerre contro i turchi.
Della sua prima formazione si occupò molto probabilmente il padre, «il migliore e più famoso filosofo non solo di Napoli, ma d’Italia tutta», come lo definì Torquato Tasso nelle prime battute di un dialogo postumo intitolato Il Porzio overo de le virtù. Nel 1545 si iscrisse all’Università di Bologna, ma in seguito al trasferimento del padre in Toscana, chiamato dal duca Cosimo I de’ Medici a insegnare filosofia presso l’Università di Pisa, iniziò a frequentare lo Studio pisano dove si laureò in utroque iure il 19 settembre 1552. Lo stesso Cosimo ne diede notizia al padre, nel frattempo rientrato a Napoli per problemi di salute, in una lettera del 5 ottobre 1552. Non molti giorni dopo, il 22 ottobre, Simone Porzio esprimeva in una missiva al duca di Firenze il suo desiderio che il figlio facesse ritorno a Napoli per prendere in mano la gestione degli affari familiari. Il soggiorno toscano di Porzio volgeva al termine e con esso una stagione estremamente formativa per il giovane che negli anni universitari, grazie al padre, aveva potuto conoscere alla corte di Cosimo I alcuni tra i più rinomati letterati del suo tempo.
Dopo la morte del padre, avvenuta il 27 agosto 1554, Porzio, che esercitava a Napoli la professione forense, si dedicò personalmente ad amministrare i beni della famiglia, occupazione che dovette assorbirlo molto, come è possibile dedurre da una lettera inviatagli da Girolamo Seripando il 27 giugno 1559, nella quale l’ecclesiastico si lamentava con l’amico perché non aveva mantenuto la promessa di andare in visita da lui a Salerno, dove, dal 1554, era arcivescovo.
Nel 1559 Porzio riuscì ad acquistare il feudo di Centola, nel Cilento, messo all’asta dalla nobile famiglia degli Alagna. Un’operazione immobiliare prestigiosa quanto complicata, destinata a creare duraturi contrasti fra gli eredi di Porzio, in quanto la proprietà, acquistata con somme versate da Porzio, fu intestata però al cognato, Marino Russo.
Nel 1561 Porzio cercò di ottenere un ufficio pubblico, probabilmente quello di consigliere del Sacro Regio Consiglio. Una carica ambita per la quale non esitò a chiedere l’interessamento del duca di Firenze e del figlio, il cardinale Giovanni de’ Medici. In quello stesso anno si trovò implicato in una spiacevole e oscura vicenda privata in seguito alla quale subì un intervento chirurgico al naso, che gli fu ricostruito a Tropea, dove operava uno dei più noti chirurghi del tempo, Pietro Vianeo.
Accanto a una certa agiatezza economica, Porzio conquistò negli anni anche la notorietà nel mondo intellettuale e culturale napoletano e non solo. Nel 1563 Francesco Sansovino gli dedicò i Sette libri di satire in cui elogiava anche Simone Porzio «lume de filosofi de nostri tempi». Alla figura di Simone era connesso anche un altro legame importante per i fratelli Camillo e Antonio, quello con il cardinale Guglielmo Sirleto, allievo in giovane età del filosofo partenopeo. Un’amicizia, quella con Sirleto, coltivata attraverso una corrispondenza epistolare di cui rimangono alcune tracce relative agli anni 1565-69.
Al 1562 risale il più antico riferimento alla prima opera storica di Porzio, in una lettera di Seripando del 23 marzo. La Congiura de’ baroni fu pubblicata nel 1565 a Roma, presso Paolo Manuzio, sovrintendente dal 1561 della Tipografia Vaticana. Quando il testo venne dato alle stampe, Seripando era morto da due anni, ma ne aveva caldeggiato a lungo la stesura e, molto probabilmente, anche la pubblicazione. Manuzio era infatti fortemente legato al cardinale agostiniano dal momento che, grazie ai suoi buoni uffici presso papa Pio IV, aveva ricevuto in gestione la prestigiosa stamperia romana. Una lettera di Seripando anteposta da Porzio al racconto della congiura rendeva esplicito il suo legame con l’opera. Nella missiva, inviata da Trento dove il cardinale si trovava dal 1561 come delegato pontificio al Concilio di Trento, Seripando ricordava gli inviti da lui mossi all’amico affinché si cimentasse nel racconto della guerra dei baroni e lo esortava a scrivere «l’istoria toscanamente», un consiglio che Seripando aveva mosso con successo anche a un altro storico napoletano, Angelo di Costanzo, impegnato negli stessi anni nella stesura della sua Historia del Regno di Napoli.
La Congiura de’ baroni narra in tre libri la rivolta concertata da un cospicuo gruppo di baroni meridionali contro il re Ferrante d’Aragona, esplosa nel 1484 e duramente repressa nel 1486. Il racconto prende le mosse dall’occupazione turca di Otranto del 1480, che introduce uno dei protagonisti della vicenda narrata, il duca di Calabria Alfonso d’Aragona, e si conclude con l’esecuzione capitale, nel maggio del 1487, di due personaggi di spicco della ribellione, il segretario regio Antonello Petrucci e il conte di Sarno Francesco Coppola.
Alla base della scelta di Porzio di ricostruire la congiura del 1484, sino ad allora mai trattata monograficamente dagli storici, era la convinzione che quegli eventi fossero all’origine di quanto avvenuto in Italia a partire dalla discesa del re di Francia Carlo VIII nel 1494. Una connessione, quella tra la rivolta del baronaggio meridionale e i suoi esiti e l’invasione francese nella penisola, già evidenziata da Tristano Caracciolo nel De varietate fortunae, un testo esplicitamente utilizzato da Porzio come fonte. Tuttavia, nella dedica a Carlo Spinelli, duca di Seminara, Porzio faceva riferimento a questa tesi attribuendola a Paolo Giovio, «padre delle moderne istorie», conosciuto a Firenze presso la corte medicea. La narrazione ripercorre nel dettaglio tutte le fasi della vicenda. Il I libro prende le mosse dalla descrizione dei tre personaggi cruciali della ribellione – il principe di Salerno Antonello Sanseverino, Antonello Petrucci, Francesco Coppola – e illustra i diversi fili intrecciatisi nella trama della congiura, a cominciare dai malumori diffusi presso alti funzionari ed esponenti del baronaggio meridionale nei confronti del re, e più ancora del principe ereditario Alfonso, di voler drasticamente ridimensionare il loro potere feudale o impossessarsi delle loro ricchezze. Alle origini dello scontro anche l’ostilità antiaragonese del papa Innocenzo VIII, sostenitore per ragioni pubbliche e private dei diritti angioini alla Corona napoletana. Il II libro ricostruisce il dipanarsi, negli ultimi mesi del 1485, del conflitto militare tra il re e i baroni ribelli tra astuzie, speranze, inganni e abboccamenti (famoso quello a Miglionico cui partecipò anche il sovrano nel settembre del 1485). Il III libro è dedicato alle ultime e risolutive fasi della guerra con la stipula, nell’agosto del 1486, della pace di Melfi tra Ferrante e Innocenzo VIII e il racconto drammatico della spietata repressione aragonese.
Quando Porzio si accinse a scrivere la storia della rivolta baronale del 1484 non esisteva ancora, a circa ottant’anni di distanza da quegli avvenimenti, una narrazione circostanziata. Ne aveva fornito una ricostruzione Giovanni Albino nel De gestis Regum Neapolitanorum ab Aragonia che, però, fu pubblicato postumo nel 1589 né si può affermare con certezza che Porzio avesse letto il manoscritto, che in molti punti, sia descrittivi sia interpretativi, si distanzia dal racconto di Porzio. Certamente il De bello Neapolitano di Giovanni Pontano, che narrava una vicenda simile ma avvenuta diversi anni prima (la guerra dei baroni svoltasi tra il 1459 e il 1465), e che metteva in scena in parte gli stessi personaggi, fu una delle fonti coeve utilizzate da Porzio, visto che Pontano è uno dei pochi autori citati all’interno dell’opera e, oltretutto, compare nella lista premessa al testo dei «luoghi onde l’auttore ha tratta l’istoria», insieme con Bartolomeo Sacchi (Platina), Raffaele Maffei (Volterrano), Marcantonio Coccio (Sabellico), Niccolò Machiavelli, Bernardino Corio, Philippe de Commynes, Tristano Caracciolo. Porzio aveva potuto attingere anche a testimonianze dirette e, soprattutto, ai documenti originali e a stampa dei processi intentati contro i baroni. Tuttavia, la Congiura di Porzio è strettamente legata, oltre che alla grande storiografia umanistica quattro-cinquecentesca, di cui riprende ideologie e lessico (Cirillo Monzani, in Opere di Camillo Porzio, 1846, p. XXXIV, definì Porzio «discepolo del Machiavelli»), anche ovviamente ai modelli della storiografia classica, in particolare Sallustio, un riferimento imprescindibile, dall’età umanistica, per gli autori di opere storiche monografiche.
Dopo l’edizione romana del 1565 e una traduzione francese stampata a Parigi nel 1627, la Congiura fu ristampata solo nel 1724 a Napoli e ancora nel 1769 nel V volume della Raccolta di tutti i più rinomati scrittori dell’historia generale del Regno di Napoli di Giovanni Gravier. Tuttavia, circolò e fu ampiamente utilizzata dagli storici che si occuparono del Regno di Napoli nei decenni e nei secoli successivi: basti ricordare Angelo di Costanzo, Tommaso Costo, Pietro Giannone. Nel XIX secolo, a partire da un giudizio favorevole di Pietro Giordani, l’opera fu oggetto di grande attenzione, in particolare per lo stile e la lingua, ma anche per l’idea romantica che i baroni avessero combattuto in nome della libertà (e non dei privilegi feudali) contro la tirannide. Tra il 1818 e il 1831 la Congiura ebbe cinque edizioni, successivamente oltre a varie altre ristampe furono pubblicati i primi importanti studi sullo storico napoletano che progressivamente revisionarono anche i primi entusiastici giudizi sulla sua opera storica.
Pubblicata la Congiura, Porzio passò a dedicarsi alla storia contemporanea. Il 26 ottobre 1569 Porzio scriveva all’amico Sirleto per ringraziarlo di un «ricchissimo benefitio» che definiva il «lodevole approvamento fatto per lei del mio discorso scritto ala Maestà del Cattolico, dintorno al far la guerra ai Turchi» (Vat. lat., 6190, pt. 1, c. 203r). In quegli stessi anni avviò il progetto ambizioso di riprendere il filo del racconto portato avanti da Paolo Giovio nelle Historiae sui temporis, e iniziò a scrivere una storia d’Italia che però non fu completata e venne pubblicata dopo tre secoli, nel 1839. Alla fine del 1569 Porzio aveva ultimato il primo libro e lavorava al secondo, come si ricava da una lettera del 3 dicembre di Antonio Porzio a Cosimo de’ Medici. L’anno successivo, lo stesso Porzio ne spediva la prima parte ad Alberico Cybo Malaspina principe di Massa, che sollecitò in più occasioni lo storico napoletano a ben rappresentare i membri della famiglia Cybo nelle sue opere.
La Istoria d’Italia racconta gli avvenimenti intercorsi negli anni 1547-51. In particolare il primo libro è incentrato su tre eventi drammatici che si verificarono nel 1547 e che Porzio, acuto osservatore del proprio tempo, dipanava e ricollegava tra loro come se fossero un tutt’uno: la congiura di Gian Luigi Fieschi a Genova contro Andrea e Giannettino Doria, il tumulto a Napoli contro il tentativo del viceré Pedro de Toledo di introdurre l’Inquisizione spagnola e, infine, l’assassinio del duca di Parma e Piacenza Pierluigi Farnese, figlio illegittimo di Paolo III. Il II libro, meno coeso del precedente, si sofferma sulle ragioni dello scontro in atto tra il pontefice Paolo III e l’imperatore Carlo V, le operazioni messe in campo dai Farnese per mantenere il possesso di Parma e Piacenza, la ripresa del conflitto tra Francia e Impero, il trionfale viaggio in Italia del principe Filippo d’Asburgo nel 1548-49, la morte di Paolo III, gli scontri tra i cristiani e i turchi nel Mediterraneo, l’edificazione di una fortezza spagnola a Siena sotto il comando di Diego Hurtado de Mendoza, poi distrutta dai senesi insorti contro gli spagnoli nel 1552.
Porzio individua nell’anno 1547 un momento cruciale nell’evoluzione delle relazioni tra Carlo V e gli Stati della penisola e a questo scopo narra tre eventi locali, accaduti rispettivamente a Genova, Napoli e Piacenza, inserendoli però in un contesto peninsulare ed europeo. Le stesse vicende erano oggetto di un’altra opera storica coeva, la Ex universa historia rerum Europae suorum temporum. Coniuratio Ioannis Ludovici Flisci, tumultus Neapolitani, caedes Petri Ludovici Farnesii Placentiae ducis, di Uberto Foglietta che uscì a Napoli nel 1571, ma vi circolava manoscritta già nel 1569 e certamente fu utilizzata da Porzio.
L’interesse di questo testo rimasto incompleto non risiede tanto nella ricchezza o particolarità delle notizie che fornisce sui singoli avvenimenti, molto probabilmente perché Porzio, scrittore in proprio, non poté giovarsi di fonti documentarie originali. L’elemento di novità è costituito dall’interpretazione politica che sottende la narrazione. Ad esempio, nel racconto del tumulto a Napoli contro l’Inquisizione spagnola, su cui peraltro Porzio aveva certamente raccolto testimonianze dirette, lo storico lascia trapelare un giudizio positivo sul governo del viceré Pedro de Toledo, non tanto nella gestione della ribellione in cui egli dimostrò «cieca severità» (Istoria d’Italia, Napoli 1839, p. 96), quanto nella capacità di avere ridotto il potere della nobiltà napoletana e regnicola e di essere per questo assai gradito alla maggioranza dei sudditi. Una critica, quella di Porzio, che sembrava riecheggiare i giudizi aspri sulle colpe del riottoso baronaggio meridionale e sul Regno, espressi da Pandolfo Collenuccio nel suo Compendio de le istorie del Regno di Napoli (Venezia 1539) e contro cui tanta parte della storiografia napoletana, nella seconda metà del Cinquecento, si era schierata.
In una lettera del 2 marzo 1572 Alberico Cybo chiedeva a Porzio di citare il figlio nel racconto della battaglia di Lepanto, ma Porzio era ben lungi dalla trattazione di quegli eventi nella sua Istoria. Il II libro, infatti, che si fermava all’anno 1551-52, era stato terminato nel 1569-70. E dunque è più probabile che il principe di Massa si riferisse a un’altra opera a cui sapeva che Porzio stava lavorando. Proprio una storia della battaglia di Lepanto cui Porzio accennava in una missiva al cardinale Carafa del 18 gennaio 1572 e che forse fu una delle ragioni che determinarono da parte di Porzio una pausa nella stesura dell’Istoria d’Italia che poi non venne più ripresa. Certamente in quei frangenti Porzio scrisse un elogio di Pio V, promotore della Lega contro gli infedeli, fatto pervenire al pontefice e mai rinvenuto.
A questa fase della vita risale anche un altro testo di Porzio, la Relazione del Regno di Napoli, scritta dopo l’arrivo a Napoli, nel 1575, del viceré Iñigo López de Mendoza, marchese di Mondejár. Si tratta di una descrizione accurata della posizione geografica, della divisione in province, delle condizioni economiche e di alcune annotazioni storiche riguardanti il Regno, fino alla «disposizione degli animi de’ regnicoli verso il presente dominio» (1839, p. 170). Rimasta inedita, la Relazione fu pubblicata per la prima volta nel 1839 insieme con il I libro della Istoria d’Italia.
Nel 1580 Camillo Porzio dettò il suo testamento, nominando erede universale Fulvia Scondito, la cui madre aveva sposato quando era rimasta vedova.
Morì a Napoli probabilmente nello stesso anno.
Opere. Opere di Camillo Porzio, a cura di C. Monzani, Firenze 1846 (Firenze 1855 con aggiunte); La congiura de’ baroni, a cura di S. D’Aloe, Napoli 1859.
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