CAMPANIA (A. T. 27-28-29)
Nome, estensione e vicende. - Le origini del nome Campania si confondono probabilmente con quelle del nome della città di Capua, e vanno ricercate nella conformazione piana (campo) della massima parte del territorio da cui per molti secoli la regione fu costituita e del quale Capua fu località principale. E se nei primi tempi Campania (ager campanus) dovette per l'appunto significare il territorio di Capua, pur con la maggiore estensione raggiunta nei secoli seguenti (il nome è ricordato per la prima volta presso gli scrittori greci dallo Pseudo-Scilace e presso gli scrittori latini da Varrone), essa fu intesa, fino all'età di Augusto e anche dopo, nonostante qualche oscillazione di confine, essenzialmente per la regione a spiccata fisionomia pianeggiante che, fra il Massico e la Penisola Sorrentina e fra le estreme diramazioni occidentali dell'Appennino e il Mar Tirreno, noi oggi chiamiamo Pianura Campana. Nella ripartizione di Augusto, la Campania fu compresa nella prima regione, la quale peraltro - col nome di Lazio e Campania - abbraccii. pure la parte più occidentale del Sannio, il paese dei Picentini e il territorio che va dal Garigliano al Tevere: però, questa ripartizione geografica che - com'è noto - servì soprattutto per computi statistici, non influì a modificare nell'uso comune il significato del nome Campania, col quale dai varî scrittori si continua, per quanto entro limiti sempre incostanti (fino ai Picentini, cioè, o fino ai Lucani verso sud; fino al Volturno o a Sinuessa o al Liri o a Terracina verso nord), a designare fondamentalmente il ricco e fertile bassopiano (Campania felix) esteso da Capua a Nocera. Appena dopo Adriano il nome Campania cominciò da solo ad indicare una circoscrizione amministrativa considerevolmente maggiore, per l'inclusione che vi si fece di molta parte del Sannio con Benevento e col paese degli Irpini. Se non che, come si è detto per la ripartizione di Augusto, anche le altre che seguirono sotto l'Impero non dovettero lasciare lunga e profonda traccia presso le popolazioni, le quali molto probabilmente chiamarono quasi sempre Campania la regione costiera o prossima alla costa, e Sannio la solita parte interna appenninica. Poco prima dell'invasione longobarda era chiamata Campania tutta la striscia compresa fra Tevere e Sele. Con la conquista longobarda questa striscia costiera fu spezzata per l'assoggettamento del territorio mediano (fra Garigliano e Volturno), sicché il nome rimase a due lembi distinti: al meridionale, costituente una breve fascia intorno al Golfo di Napoli, dove fu conservato per breve tempo, press'a poco, cioè, fino a quando Costante II ebbe dato origine al ducato di Napoli: 661 d. C., e al settentrionale, corrispondente al paese compreso fra i Colli Albani e il Garigliano, dove, ulteriormente ristretto, rimase poi a distinguere la valle del Sacco. (v. campagna). Così, cessò nel Medioevo l'uso della parola Campania da parte delle popolazioni; e di essa, per l'antico prestigio, rimase il ricordo solo presso i dotti. E quando col sorgere, sotto i Longobardi, della contea e poi principato di Capua e, specialmente, col successivo estendersi di esso al territorio di Napoli, sembrò ricostituito nella Terra di Lavoro il paese compreso nei limiti della Campania (e propriamente dell'antica Campania), questi due nomi furono indifferentemente adoperati dagli scrittori; e tale uso si è conservato fino a pochi decennî or sono. Con la creazione dei compartimenti fu, insieme con altri nomi regionali della geografia classica, rimesso in onore quello di Campania, con limiti però tutt'altro che naturali e storici. Essa ha abbracciato fino al 2 gennaio 1927 (quando è stata soppressa la provincia di Caserta) i territorî delle provincie di Avellino, Benevento, Caserta, Napoli e Salerno.
Caratteristiche fisiche. - Nei limiti attuali la Campania, che si estende sino ai confini della Puglia e abbraccia il Cilento, è spiccatamente distinta da una grande varietà di terreno, varietà nella costituzione geologica e nelle forme del suolo, nel rilievo e nel contorno costiero, varietà nell'altitudine e nella genesi. In complesso, anche fisicamente, essa si può considerare divisa in due parti, allungate da NO. a SE. secondo l'asse longitudinale della penisola italiana: la sezione litoranea corrispondente nel tratto settentrionale all'antica Campania, la sezione interna rientrante quasi interamente nei confini dell'antico Sannio con l'appendice meridionale del paese degli Irpini; la prima pianeggiante, sebbene inframezzata da nuclei di colline e di vere e proprie montagne, la seconda accidentata e montuosa, sebbene interrotta da zone di scarsa elevazione e pianeggianti.
L'area di maggiore importanza nella parte che si affianca al Mar Tirreno è sempre il bassopiano campano, fertilissimo e fittamente popolato, solcato a nord, nel tratto di maggiore ampiezza ed uniformità, dal corso inferiore del Volturno e a sud, nel tratto che alcuni considerano come una pianura a sé, dal fiume Sarno. Geologicamente, il bassopiano ha origine recente: sino al principio del Quaternario al suo posto si apriva sul Mar Tirreno un ampio golfo, il cui arco era segnato dalla cortina di alture che, a guisa di anfiteatro, chiude oggi, dal Massico ai Tifatini e ai Lattari, la pianura stessa. Un sollevamento del fondo marino e, probabilmente come conseguenza, l'apertura di numerose bocche vulcaniche con le loro abbondanti eruzioni sottomarine, e infine il contributo di materiale alluvionale accumulato dai suddetti fiumi alle loro foci trasformarono l'ampio golfo campano nella pianura campana. Col passaggio dallo stadio eruttivo sottomarino allo stadio eruttivo subaereo, i vulcani campani lanciarono sulla pianura le loro ceneri, che l'arricchirono di elementi fertilizzanti e ancora più accentuatamente l'appianarono e coi prodotti delle ulteriori eruzioni edificarono le colline e i monti che del bassopiano sono oggi la varietà e l'ornamento: la regione collinosa dei Campi Flegrei e la massa montagnosa del Somma-Vesuvio, la prima costituita da un complesso di forme crateriche oggi con attività vulcanica secondaria (solfatare, putizze, sorgenti calde, ecc.), che abbraccia pure le isole di Ischia, Vivara, Procida e Nisida e che culmina nell'Epomeo (789 m.) e nello sperone dei Camaldoli (459 m.); la seconda costituita dall'orlo slabbrato di un più vecchio apparato eruttivo, il Somma, nel recinto del quale è venuto innalzandosi il Vesuvio (1186 m.), unico vulcano attualmente in piena attività in tutta l'Europa continentale. Le due altre pianure litoranee della Campania, di estensione considerevolmente minore, la piana di Minturno a nord e quella di Pesto a sud, sono da ritenersi formate quasi esclusivamente dall'accumulo dei materiali alluvionali rispettivamente dal Garigliano e dal Sele: esse hanno in comune col bassopiano campano l'origine recente e le serie di dune che orlano la costa favorendo gl'impaludamenti e la malaria. A variare il terreno nella fascia litoranea della regione campana, contribuiscono gruppi montuosi di origine sedimentaria (molto simili in ciò alle alture che formano la zona interna prettamente appenninica), dei quali il M. Massico a N. e i Monti Lattari (1443) nel mezzo - di cui è evidente continuazione il rilievo dell'isola di Capri - si allungano in direzione normale alla linea di costa, mentre l'altaterra del Cilento a S. con la massa dell'Alburno costituisce un complesso montagnoso irregolare e confuso, fortemente accidentato e impervio. Deriva per l'appunto da questo alternarsi, nella fascia tirrenica, di zone piane e di nuclei di alture il frastagliamento litoraneo, e con esso uno dei motivi di maggiore incanto delle coste della Campania lungo le quali, se il tratto mediano in ciascuno dei tre ampî golfi che vi si aprono - di Gaeta, di Napoli e di Salerno - è pianeggiante ed uniforme, erte e varie sono le sporgenze da cui i golfi stessi sono individuati: più varie e intaccate quelle che limitano il Golfo di Napoli, nel quale altresì minore sviluppo ha il tratto interno pianeggiante e maggiormente pronunziate sono tanto l'una quanto l'altra sporgenza; e prolungamento infine di esse sono le alte isole che lo fronteggiano e quasi lo chiudono, sicché gli antichi, rassomigliandolo ad una immensa coppa, gli diedero il nome di "Crater".
Il rilievo propriamente appenninico della Campania si estende per un tratto ad abbracciare quasi tutte le alture mediane di questo tronco della penisola italiana fin presso al limite occidentale del Tavoliere di Puglia, e riproduce le caratteristiche principali dell'Appennino Meridionale (Calabria esclusa; v. appennino). Anche qui, perciò, è necessario distinguere la serie dei nuclei montagnosi più imponenti della regione, che si succedono da nord a sud nella parte occidentale, dalla zona meno accidentata e spesso a pianori, che si apre nella parte orientale; anche qui la linea di spartiacque tra i fiumi che scendono all'Adriatico e quelli che scendono al Tirreno non corre sulla zona occidentale di massima altitudine, ma in mezzo alla zona orientale più bassa. Fu anche la zona occidentale ricoperta per vaste aree dal ricco mantello di argille eoceniche, da cui è tuttora largamente rivestita la zona orientale e che ricopre gran parte dell'Appennino Settentrionale e Centrale; ma l'erosione fluviale ha strappato dai luoghi più alti il materiale argilloso e l'ha accumulato nelle depressioni o l'ha riversato nel mare, mettendo allo scoperto i sottostanti calcari compatti del Cretacico. E sono, per l'appunto, quasi esclusivamente calcarei i più importanti nuclei montagnosi che formano l'Appennino campano: il Matese, che ne è il più alto (M. Miletto: 2050 m.) e che rientra in parte nei limiti del Molise, il Taburno (1393 m.), l'Avella (1591 m.), il Terminio (1786 m.), l'Accellica (1657 m.), il Cervialto (1809 m.), il Polveracchio (1790 m.), l'Alburno (1742 m.). E rappresentano, queste masse calcaree naturalmente a idrografia carsica, vastissime aree di assorbimento delle acque meteoriche, le quali - dopo un corso più o meno lungo nel sottosuolo - ricompaiono alla superficie in grosse sorgenti, che fanno di alcune di queste contrade della Campania (Monti Picentini) regioni idrograficamente fra le più ricche d'Italia. Le alture della zona orientale, nettamente distinte dai massicci occidentali per la diversa natura geologica, e per le incisioni vallive del Tammaro a nord e dell'Ufita a sud, confluenti nella conca di Benevento, riproducono il paesaggio argilloso comune nell'Appennino, dalle forme di erosione accelerata e dalle sommità tondeggianti, con frane e corsi d'acqua a carattere torrentizio: di queste alture solo l'altipiano irpino spetta interamente alla Campania; più a nord di esso, i monti della Daunia s'insellano fra Puglia e Campania e i monti del Sannio si prolungano fin nel Molise; le quote più considerevoli superano solo in qualche punto, e di poco, i mille metri (M. Saraceno: 1086).
Questa varietà genetica e orografica dell'Appennino campano si riflette nell'idrografia, che a sua volta tale varietà ha reso più accentuata. I corsi d'acqua, che sono in maggior numero diretti al Tirreno, nel loro passaggio da est ad ovest concorrono a frazionare i nuclei montuosi della zona occidentale, intorno a cui sono spesso costretti a piegare e da cui traggono forti contributi d'alimento, e questi nuclei essi hanno inciso in profonde gole. Così, infatti, si è aperta la strada il Garigliano fra gli Aurunci e il gruppo di Roccamonfina; così, ai piedi dell'Alburno ha inciso uno stretto passaggio il Tanagro riversando nel Sele le acque di una lunga e vasta depressione una volta lacustre, il Vallo di Diano. A monte di tali gole, e cioè nelle zone più interne della Campania, l'erosione fluviale ha avuto più facile presa sulle argille e ha scavato ampî fondi vallivi contribuendo ad abbassare dappertutto il rilievo. Il fiume più propriamente campano, il Volturno, riassume, in sé e nei suoi affluenti, i caratteri idrografici della regione: spetta col suo corso principale (in parte, peraltro, fuori della Campania) alla zona dei massicci calcarei, raccoglie col maggiore suo affluente - il Calore (e soprattutto con i torrenti che nel Calore confluiscono) - le acque che scorrono sulle aree argillose, attraversa lentamente nei suoi numerosi meandri la sezione più tipica della pianura campana. Circa la metà del territorio assegnato all'odierna Campania spetta a due soli bacini idrografici, che quasi integralmente le appartengono: quelli del Volturno e del Sele.
Clima, vegetazione e fauna. - Le notevoli differenze di rilievo fra l'una e l'altra parte della Campania trovano riscontro nelle notevoli differenze di clima, e non solo per l'influsso che le alture esercitano sulla piovosità, sulla temperatura e sugli altri elementi climatici, ma per la stessa posizione dei massicci montuosi della zona occidentale, allungati nel complesso in senso normale alla direzione delle correnti aeree provenienti dal Tirreno, e per la differente distanza delle zone montagnose dal mare. Sono perciò ben diverse le condizioni di temperatura e di piovosità fra la zona litoranea e le due zone montagnose interne, e in queste ultime fra i paesi di maggiore e quelli di minore altitudine. Così, mentre la zona piana litoranea ha temperature medie annue che si aggirano sui 16°, sia sulla costa (Napoli 15°, 8; Torre del Greco 16°) sia nell'interno (Caserta 16°, 8), le regioni appenniniche hanno temperature medie che variano da poco più di 14° a Benevento (135 m.) a circa 13° ad Avellino (351 m.), a circa 8° a Montevergine (1270 m.).
Anche nei riguardi della piovosità, l'influenza del rilievo è notevolissima. La zona di più abbondante piovosità è quella che corrisponde alla zona di maggiore altitudine e che rappresenta una vasta area di condensaziqne del vapore acqueo di cui sono carichi i venti umidi che spirano da sud-ovest: lungo questa zona si registrano piovosità dappertutto superiori ai 1000 millimetri e in qualche luogo - come nel più alto Matese, nell'Avella e nei Picentini - superiori anche ai 2000 millimetri, e cioè piovosità che sono le più alte dell'Italia Meridionale e fra le più alte di tutta Italia. Dall'uno e dall'altro lato di questa zona con abbondanti precipitazioni si allungano, sia nella parte piana costiera sia nella parte prevalentemente montuosa dell'Appennino mediano, due zone con precipitazioni quasi dappertutto inferiori ai 1000 millimetri e in qualche tratto inferiori anche agli 800. Nella zona piana costiera l'area di minore piovosità è la fascia occidentale dei Campi Flegrei, quella cioè che più è lontana dalla serie degli alti massicci. Nella zona interna l'area di minore piovosità coincide con quella di minore altitudine, cioè massimamente nel solco dell'Ufita-Tammaro allargantesi nella conca di Benevento: anche in questa parte dell'Appennino si osserva dunque che, col succedersi di parecchie catene, le valli o le conche in esse frapposte corrispondono nettamente a zone di più basse precipitazioni. Quanto alla distribuzione stagionale delle piogge si riscontrano generalmente nella Campania un massimo nei mesi autunno-invernali (e più di tutto nel dicembre) e un minimo nell'estate (specialmente nel luglio).
La vegetazione originaria della Campania risulta - come nella massima parte del nostro paese - profondamente modificata dall'uomo, il quale ha largamente distrutto la macchia e il bosco per introdurvi le colture. Anch'essa, peraltro, è fortemente influenzata dal rilievo, sicché la più comune divisione in zone di vegetazione è quella che si fa in base all'altimetria, distinguendo: la macchia mediterranea per le aree generalmente inferiori ai 400 metri, il bosco di quercia e di castagno per le aree submontane non superiori generalmente ai 1000 metri, il bosco di faggio e più raramente di pini e di abeti per le aree montane vere e proprie fino ai 1600 m. circa, e il pascolo per le aree scoperte e rocciose con cui di solito culminano i più elevati nuclei calcarei della regione. Veramente il pascolo occupa, non solo la zona di maggiore altitudine, ma le pendici denudate di monti e di colline e le pianure ancora malariche, soprattutto in prossimità dei corsi inferiori dei fiumi Garigliano, Volturno e Sele. Il paesaggio particolarmente preso di mira nell'opera di trasformazione compiuta dall'uomo è stato quello della macchia: essa è rimasta per lo più nei soli punti in cui trapassa nella zona piana pascolativa suddetta, ed è costituita da lentischi, ginepri, elci, corbezzoli, eriche, ginestre; in tutto il resto della regione ha ceduto il posto alle ricchissime colture arboree, specialmente agli uliveti, ai vigneti e agli agrumeti. La zona boschiva submontana continua in molti tratti ad essere tuttora rappresentata da cedui, formati da castagno e in second'ordine da quercia, cerro ed elce e considerati fra i boschi di più alto reddito d'Italia: essi sono diffusi specialmente nella Penisola Sorrentina, nelle alte pendici vesuviane e nell'Irpinia occidentale. Ma l'essenza del bosco vero e proprio delle montagne della Campania è il faggio.
Come la vegetazione, così, e in misura ancora più forte, la fauna ha subito radicali modificazioni per opera dell'uomo. Dappertutto sono quasi scomparse le fiere: temuto è ancora il lupo, che abita e qualche volta infesta le regioni montagnose, specie nelle aree più rade di centri abitati, nel Matese centrale e nell'Irpinia. Più comune è la volpe, rarissimo è il capriolo. Numerosi sono i rettili e non mancano i velenosi, come la vipera; rarità dei faraglioni di Capri è la lucertola azzurra.
Popolazione della Campania. Incremento. Emigrazione. Densità. - La popolazione, riferita alla data dell'ultimo censimento (1° dicembre 1921), ma distinta secondo la circoscrizione amministrativa attuale, è indicata nel seguente specchietto:
Per la conoscenza dei valori numerici della popolazione nelle epoche passate si suole risalire, per le provincie meridionali d'Italia, alle cosiddette numerazioni dei fuochi, cominciate nel Regno di Napoli di qua dal Faro sin dal 1447 e che si ripetettero ad intervalli diversi una quindicina di volte sino al 1778. Dal loro esame si rileva che l'andamento della popolazione nei secoli XVI, XVII e XVIII presenta nella Campania le caratteristiche delle altre regioni meridionali, e cioè un notevole incremento nel primo secolo, una diminuzione nei settant'anni successivi (in parte attribuibile alle maggiori angherie del governo vicereale e alla pestilenza del 1656), un aumento probabilmente continuo nel resto del sec. XVII e in tutto il secolo seguente. Dalla fine del sec. XVIII al 1860 la valutazione della popolazione fu di solito fatta sulle cifre ricavate dai registri dello stato civile, tenuti dai parroci. In base ad esse è evidente una complessiva diminuzione di popolazione in tutta la regione fra il 1779 e il 1815, e un incremento costante ma sempre moderato durante il secondo periodo borbonico.
Un più sicuro esame dell'andamento del fenomeno demografico è possibile sulla scorta dei dati forniti, per gli ultimi 60 anni, dai 6 censimenti ufficiali della popolazione del regno.
Anche dall'esame di questi dati appare evidente che, nel sessantennio considerato, l'incremento della popolazione è in generale scarso in tutte le provincie della Campania, meno che in quella di Napoli; e che anzi l'incremento stesso, tenue dal 1861 al 1901, si arresta nel decennio che va dal 1901 al 1911; sicché per il massimo numero dei circondari risulta col censimento del 1911 una diminuzione di popolazione rispetto a quella censita dieci anni prima. Fra le cause dello scarsissimo aumento persistono, come secondarie, l'insalubrità delle aree piane litoranee e la povertà agricola delle zone montane; ma la principale è il grande esodo degli abitanti, e specialmente dei contadini, verso i paesi d'America. Nelle tre provincie di Benevento, Avellino e Salerno la popolazione del 1911 è solo di poco superiore a quella del 1871, e tre dei 4 circondarî della provincia di Salerno registrano dal 1871 al 1911 cifre sempre più basse di popolazione. La tabella della pagina seguente dà i dati relativi alle provincie (secondo le circoscrizioni del 1861) con la percentuale annua dell'aumento fra due censimenti consecutivi.
Il fenomeno migratorio verso l'estero ha nella Campania origine più remota che nelle altre parti d'Italia: già nel 1883, su un totale nel regno di 68.416 emigrati all'estero, la Campania figurava per un quinto, con 14.007 emigrati; dopo il 1887 il movimento si accentuò ancora più, estendendosi dalle zone economicamente meno fortunate che vi avevano fin allora in più alta misura partecipato (soprattutto i circondarî di S. Angelo de' Lombardi, di Cerreto Sannita, di Piedimonte d'Alife, di Sala Consilina e di Vallo della Lucania) a quasi tutto il territorio campano; sin dal 1896 la regione alimentava una corrente migratoria di 41.208 individui (di cui 12.226 provenivano dalla sola provincia di Salerno). Ma lo slancio più forte si ebbe proprio all'inizio del sec. XX: in due anni, dal 1899 al 1901, la cifra degli emigrati dalle provincie della Campania divenne più che doppia; il massimo fu raggiunto nel 1906, e in 14 anni il numero degli emigrati fu per 10 volte superiore ai 60 mila all'anno. Nella quasi totalità questo movimento era diretto verso i paesi transoceanici, soprattutto in America; dei 90 mila emigrati circa registrati nel 1906, solo poco più di 4 mila si avviarono per paesi dell'Europa e del bacino del Mediterraneo. La distribuzione degli emigrati per provincie, nel periodo 1900-1915, è indicata dalla tabella in fondo alla pagina.
Interrotto con la guerra mondiale, il movimento di emigrazione transoceanico riprese anche nella Campania il suo forte sviluppo negli anni dell'immediato dopoguerra, ma si contrasse nel 1921 e negli anni successivi in conseguenza delle restrizioni poste dagli Stati Uniti e negli ultimi anni a motivo della nuova politica demografica voluta dal governo italiano. Le cifre relative all'emigrazione dalle provincie campane in questi ultimi anni sono le seguenti:
Gli effetti dell'arresto quasi completo del fenomeno migratorio sono stati palesi molto presto nella valutazione numerica della popolazione campana: al 31 dicembre 1926 alla regione veniva attribuita una popolazione di 3.806.708 ab., con un incremento di 260.067 ab. rispetto al 1921, e per la sola provincia di Salerno con un incremento (in poco più di 5 anni: 51.676 ab.) superiore a quello conseguito nei cinquant'anni precedenti.
La popolazione è distribuita nella regione assai inegualmente: mentre la densità media è altissima (la cifra della Campania è, fra quelle dei compartimenti italiani, inferiore solo alla cifra della Liguria), essa varia nettamente fra la provincia di Napoli, ove, pur con l'enorme sconfinamento dell'area territoriale nell'ex-provincia di Caserta, si raccolgono in media oltre 600 ab; tanti su ogni kmq., e le altre tre provincie che, con lievi differenze fra loro, riproducono press'a poco la densità media del Regno d'Italia (125 nel 1921). Che se, poi, dalla distribuzione per provincia si passa alla distribuzione nelle singole zone fisiche, è facile riconoscere che, anche per effetto della grande varietà morfologica già rilevata, assai forte è lo sminuzzamento in aree di differente densità e molto più spiccato è il distacco fra le aree di densità estreme. Lungo la stessa fascia costiera si allungano zone con più di 1000 abitanti per kmq. (sulla riviera del Golfo di Napoli) e zone in cui non si raggiungono i 15 ab. per kmq. (piana del Sele e litorale a sud del Volturno). Si può dire che nel complesso la popolazione si faccia più rada allontandosi dal Golfo di Napoli: alla prima area di 1000 abitanti per kmq. (dovuta peraltro essenzialmente al comune di Napoli), ne succede verso l'interno una, compresa fra 1000 e 500, che abbraccia una notevole parte della pianura da Capua a Nocera, valica la sella di Cava dei Tirreni e scende sul Golfo di Salerno; a questa ne succede una terza, con densità fra 500 e 200, la quale, oltre ai pendii delle alture da cui la pianura è fiancheggiata, comprende le pareti della valle del Calore, la regione chiusa fra il Taburno e l'Avella, e una stretta fascia che gira verso est intorno al Partenio e, collegando tratti delle valli del Sabato, del torrente Solofrana e dell'Irno, sbocca a Salerno. Queste aree di più fitta popolazione sono avvolte da due zone semicircolari, pur esse concentriche: l'interna, con densità fra 200 e 100, e l'esterna - abbracciante le masse argillose di confine più lontane dalla pianura - con meno di 100 e in qualche tratto anche 50 abitanti per kmq.
Condizioni economiche. Agricoltura e pastorizia. Pesca. - Alle contrade di fertilità grandissima corrispondono le aree di più fitta popolazione; e sono disabitate, oltre alle contrade naturalmente improduttive, anche quelle che, per ragioni igieniche, l'uomo non ha potuto finora mettere in valore con l'agricoltura: il contrasto è evidentissimo nelle pianure, ove addirittura si affiancano zone di valore economico profondamente opposte. Una prima divisione agraria della regione campana può essere fatta, in relazione all'altimetria, in tre zone: quella delle pianure, quella dei pendii al di sotto dei 500-600 metri, e la terza delle aree superiori ai 500-600 metri; con la suddivisione della zona delle pianure in due parti nettamente diverse, le zone agrarie diventano quattro.
La prima è una delle più ricche regioni agricole del Regno: è quella che abbraccia quasi tutta la Pianura Campana (esclusi il tratto inferiore del Volturno e il vicino litorale) e si estende, attraverso l'insellatura di Cava dei Tirreni, al Salernitano settentrionale. È caratterizzata da colture intensive, sia erbacee che legnose, e quindi dall'orto, dall'irriguo seminativo, dal frutteto, dall'agrumeto, dal seminativo con viti (sostenute spesso da filari di pioppi lungo i quali si dispongono a festoni), o con ulivi o con alberi da frutta, sempre di alto reddito. La proprietà è frazionatissima e molto spezzettata e varia è pure la coltura. È la regione che alimenta la più densa popolazione. L'area di queste colture tende perciò costantemente ad allargarsi: assorbendo con le bonifiche tratti paludosi mediani della pianura stessa (cosiddetta bonifica dei Lagni, secoli XVI e XVII; bonifica del Sebeto, sec. XIX), risalendo le falde delle alture vicine (Penisola Sorrentina, Vesuvio, ecc.) e fra l'uno e l'altro massiccio montagnoso le valli che sboccano nelle pianure costiere (medio Volturno, Calore, Valle Caudina, Irno, ecc.), contrastando fortemente il dominio della seconda zona che viene sempre più riducendosi.
Distingue, infatti, la seconda zona il terreno agrario di quella parte delle pianure campane che, non per scarsa fertilità di suolo, ma per la presenza delle paludi e degli acquitrini, è tuttora a grande coltura estensiva o addirittura coperta dal pascolo. Oggi, nella Campania, questa zona abbraccia i tratti più bassi dei bacini del Garigliana, del Volturno e del Sele con strisce di litorale che da una parte e dall'altra delle foci ne chiudono le rispettive pianure verso il Tirreno. Oltre alla rada macchia e al pascolo, in questa zona la coltura estensiva è quella granaria che si avvicenda con quella a granturco. Si può considerare affine a questa seconda zona il terreno della lunga piana del Vallo di Diano, che, pur non appartenendo a regione costiera ed elevandosi a 450 m. s. m. e pur varie volte bonificato, soffre tuttora le conseguenze della secolare malaria ed è generalmente anch'esso una grande superficie a seminativi con vicenda di soli cereali.
La terza zona distingue i bassi pendii delle colline e delle montagne e raccoglie, fuori delle pianure, la massima parte dei centri abitati della Campania; in essa la trasformazione agraria è in pieno sviluppo: la sostituzione della coltura legnosa al seminativo parte dal centro e procede verso la periferia dei territorî comunali; in molti paesi è stata favorita coi risparmi degli emigrati. Questa è, perciò, la zona in cui prevale il seminativo con alberi (ulivo, vite, qualche albero da frutta); di regola, l'albero diventa molto fitto nelle immediate vicinanze dell'abitato; quivi compare pure l'orto. Nel seminativo si avvicendano il grano e il granturco; si vengono sempre più affermando le foraggiere. Il limite altimetrico di questa zona è intorno ai 600 m. nella parte più vicina al Tirreno e alle pianure, a 500 m. nelle zone argillose dell'Appennino.
Al di sopra dei 300-600 m. si estende nella Campania la quarta zona, in cui, con la vegetazione spontanea del bosco e del pascolo, si alternano i tratti coltivati; e di regola le colture sono rappresentate dai seminativi o dai seminativi molto scarsamente alberati. L'albero si fa più fitto solo nelle vicinanze dei centri abitati. Nei terreni migliori, la vicenda della coltura erbacea è data dal grano e dal granturco; più spesso, e sulle zone più alte, si coltivano avena, orzo, segale e patate; dove la natura del suolo è più ingrata, la coltura dei cereali si avvicenda con riposo di due o più anni. È nel complesso il terreno più povero della regione, dove per difetto di capitali e di braccia, la trasformazione agraria è più lenta.
Il posto di prim'ordine che ha la Campania nella produzione agricola del regno le deriva soprattutto dalla grande fertilità e ricchezza della prima zona. E questo posto viene dalla regione tenuto sia in molte colture arboree che in varie colture erbacee. La Campania, infatti, tra i vari compartimenti del regno, è quello che ha la più alta produzione di molti ortaggi (pomidori, cavoli, cipolle, carciofi, ecc.), leguminose (fagiuoli, piselli, lupini, ecc.) e frutta (pesche, albicocche, ciliege, ecc.); viene al secondo posto per produzione di canapa, di patate e di tabacco; e al terzo per estensione di area coltivata a granoturco e per quantità di vino e di agrumi; ha infine alta produzione di frumento, di segale, di lino, di ulive, mandorle, carrube, nocciuole e noci, di foraggi e di castagne. Secondo la suddivisione amministrativa in vigore sino al principio del 1927, i dati per provincia relativi ad alcuni prodotti, e nella media del triennio 1925-27, sono i seguenti (in migliaia di quintali);
Le aree più largamente coltivate a frumento, a segale, ad avena, ad orzo spettano alle provincie interne; gli ortaggi e legumi, le patate, gli agrumi e molti alberi da frutta hanno la loro maggiore diffusione nelle provincie costiere (Salerno è la prima in Italia per produzione di pomidoro e Napoli per legumi freschi; Caserta era la prima per produzione di cipolle ed agli); il grande sviluppo che hanno preso queste colture nelle provincie costiere dipende dalla sempre maggiore ricerca che del prodotto si fa nei nostri mercati settentrionali e all'estero, anche per il loro carattere di primizie. La vite, pur notevolmente rappresentata in tutta la Campania, caratterizza specialmente i tratti collinosi delle provincie di Napoli e di Avellino (il territorio della vecchia provincia di Napoli ne ha la massima area con coltura specializzata); l'ulivo predomina nelle provincie di Benevento e Salerno e nell'ex-provincia di Caserta (ma l'area di più estesa coltura specializzata è nel Salernitano). La zona della canapa si estende soprattutto fra Napoli e Caserta e tra le falde del Vesuvio e il Volturno; l'Avellinese produce le nocciuole (e anche molte mele e pere) e il litorale settentrionale del Golfo di Salerno le carrube; la vecchia provincia di Caserta figurava tra le prime d'Italia per produzione di granturco; le provincie di Avellino e di Salerno dànno la maggior parte delle castagne; il tabacco si coltiva soprattutto nel Salernitano (Cava dei Tirreni) e nel Beneventano, il lino nelle provincie di Napoli e di Salerno; la provincia di Salerno ha in proporzione la più vasta area coperta da boschi.
Nella produzione dei foraggi, il contributo maggiore nella Campania è dato dagli erbai (pianura di Sarno, Nolano, ecc.), e in secondo luogo dai pascoli permanenti; mancano del tutto i prati naturali irrigui. In complesso la produzione dei foraggi, per quanto tenda ad aumentare, si mantiene di ben limitata importanza: nel 1927, pur figurando al primo posto fra i compartimenti del Mezzogiorno continentale, la Campania ne diede meno di 7 milioni di quintali (il 3% circa della produzione generale del regno). Non è molto considerevole, perciò, l'allevamento del bestiame.
Nei confronti con gli altri compartimenti italiani, l'allevamento che in Campania ha considerevole importanza è quello dei suini, dei caprini, degli asini e dei bufali: i tre quarti dei bufali italiani sono allevati in Campania, e in maggior numero nelle pianure attraversate dai corsi inferiori del Volturno e del Sele; i suini sono allevati - specialmente con la forma stallina e domestica - in tutte le provincie, e il loro numero è in aumento. Discreto è pure l'allevamento delle pecore nelle provincie di Salerno e Avellino e nell'ex-provincia di Caserta; in quest'ultima è pure considerevole il numero dei bovini; scarso è l'allevamento dei cavalli, soprattutto nelle regioni interne. Per l'allevamento ovino, per quanto molto meno largamente e meno intensamente di una volta, è praticata anche oggi la transumanza fra le regioni montuose appenniniche (Matese, Taburno, Irpinia, Picentini, Alburno, ecc.), ove è sfruttato il pascolo nell'estate, e le regioni piane, sia del versante tirrenico (pianura del Sele e Pianura Campana), sia ancora del versante adriatico (Tavoliere di Puglia), ove il bestiame è condotto a svernare. Discreta importanza ha in tutta la Campania la pollicoltura: tacchini si allevano nelle grandi masserie delle provincie di Avellino e di Benevento; in queste due provincie è pure praticata l'apicoltura; la coltura dei bachi, molto estesa nel passato, continua ad essere usata nei comuni vesuviani, nel Salernitano settentrionale e nelle zone prossime ai centri di Caserta e Benevento.
La pesca è l'occupazione d'una parte considerevole della popolazione delle località costiere: un decimo circa dei pescatori del regno spetta alla Campania; in molte città, e specialmente nelle isole, essa costituisce un'attività tradizionale: dei 38 mila battelli addetti in tutta Italia alla pesca, circa 6 mila rientrano nei compartimenti marittimi della Campania. È notissimo l'allevamento di ostriche e di pesci che si fa nei laghi Lucrino e Fusaro.
Industrie. - Una parte dell'attività industriale della Campania, e quella che ha più remote origini, si appoggia alla considerevole ricchezza agricola della regione ed è diretta alla sempre più razionale trasformazione dei prodotti del suolo: le industrie vinicole, olearie, molitorie e delle conserve alimentari, occupano a questo riguardo il posto d'onore e collocano da antichissimo tempo alcune località campane fra le più note d'Italia. Molto conosciuti, infatti, sono i vini di Capri, d'Ischia e di Procida, il Lacrima Christi e gli altri vini del Vesuvio, i vini bianchi e rossi di Posillipo, l'asprino di Aversa, il Taurasi dell'Avellinese, il Pallagrello di Piedimonte, i vini di Solopaca, di Gragnano e di Ravello, la vernaccia del Cilento; e notissimo fu nell'antichità, fra gli altri vini campani, il Falerno, prodotto alle falde meridionali del Massico e nella pianura sottostante. Apprezzati sono gli olî di Sorrento e della penisola, della Terra di Lavoro e del Salernitano, e proseguono nel territorio strettamente campano gli uliveti del Venafrano, i cui olî hanno avuto in tutti i tempi larghissima fama; i sistemi di estrazione dell'olio sono generalmente antiquati, ma frantoi per la macinazione delle ulive sono in esercizio nella massima parte dei centri abitati della regione. Industria speciale soprattutto delle zone costiere della Campania è quella della macinazione del frumento e della preparazione delle paste alimentari: i piccoli molini e pastifici di una volta si sono oggi trasformati nei grandi pastifici meccanici; ma oggi come nei secoli passati sono esportate (benché in quantità notevolmente inferiori a quelle di una volta) nelle varie provincie del regno e all'estero le paste di Napoli, di Torre Annunziata, di Gragnano e quelle della costa amalfitana (Maiori). Impulso ancora maggiore ha avuto la íabbricazione delle conserve alimentari, i cui prodotti (pomidoro, frutta allo sciroppo, marmellate, ortaggi in salamoia, ecc.) si sono negli ultimi anni perfezionati a tal segno da figurare nel genere fra i più accurati d'Italia (circa la metà della complessiva produzione italiana di conserve alimentari spetta oggi alla Campania): anche per questa attività industriale le zone che maggiormente si distinguono sono la fascia costiera che si allunga ai piedi del Vesuvio e il Salermitano settentrionale (oltre ad alcune località fra Caserta e Baiano). L'alta produzione della canapa aveva sempre alimentato, specie nell'area fra Caserta e Napoli, un'industria tessile locale, ma solo da poco tempo, con la creazione di completi stabilimenti meccanici (Frattamaggiore, pianura di Sarno), il canapificio ha avuto uno sviluppo grandissimo e ha preso un posto di spiccata importanza nella vita economica della regione: tessuti, filati e cordami sono largamente esportati.
Varie altre industrie legate alla locale produzione dell'agricoltura e dell'allevamento, e di antica origine, vengono di giorno in giorno intonandosi alle forme della moderna attività industriale: così esistono stabilimenti che trattano le sanse col solfuro di carbonio (Caserta, Castellammare, Battipaglia), saponifici, industrie per l'estrazione del cremore di tartaro (Avellino), per la produzione dell'alcool (Napoli, Castellammare, ecc.), di liquori (Benevento), per la preparazione del torrone (Benevento, Caserta, Avellino), e industrie forestali (fabbricazione del carbone di legna e utilizzazione di corteccie concianti); sono ricercati i formaggi, i latticinî (provole e mozzarelle) e il burro della Pianura Campana, della Penisola Sorrentina e di varie zone interne (Matese, Avellinese, Vallo di Diano), e i salami delle provincie di Avellino e Benevento, e sono qua e là praticate in tutte le parti della Campania - per lo più con carattere casalingo e per i bisogni locali - la lavorazione della lana, la tessitura dei panni, l'industria dei cuoiami e quella dei cappelli di feltro; le fabbriche dei guanti, antica specialità della provincia di Napoli, sono fra le più note del mondo e forniscono i due terzi della produzione di tutta l'Italia; si lavora anche oggi la seta a S. Leucio (Caserta), che diede un tempo prodotti ricercati, e in altre località specie del Casertano.
Ma fra le industrie tessili quella che si è più largamente affermata nella Campania è l'industria cotoniera. La Società delle manifatture cotoniere meridionali ha assorbito la quasi totalità delle imprese del Mezzogiorno d'Italia e le ha attrezzate con sistemi moderni di produzione; essa ha importanti filature, tessiture, tintorie e calzifici nelle provincie di Napoli e di Salerno, e soprattutto nella città di Napoli; i suoi prodotti sono largamente esportati, specie verso i paesi bagnati dal Mediterraneo orientale.
Anche le industrie siderurgiche e meccaniche, nonostante la crisi del dopoguerra, sono oggi notevolmente rappresentate nella Campania: Bagnoli di Napoli può dirsi uno dei centri principali della siderurgia italiana; lo stabilimento di Bagnoli (acciaierie e alti forni) è di proprietà dell'Ilva, che possiede pure un'acciaieria moderna a Torre Annunziata. Stabilimenti di proporzioni minori (le "Fonderie") lavorano qua e là nella regione, soprattutto nella provincia di Napoli. Pur dopo la chiusura del grandioso stabilimento di Armstrong a Pozzuoli, l'industria meccanica tiene nella Campania un posto importante, con la costruzione di materiale ferroviario (Napoli), di motori a vapore (Napoli), di macchine per la lavorazione del legno (Salerno), di macchine e attrezzi per l'agricoltura (S. M. Capua Vetere), di macchine per industrie alimentari (Torre Annunziata, Napoli, Salerno).
Anche l'industria elettrica ha avuto un notevole slancio: il complesso degl'impianti e delle reti distributive in quasi tutto il Mezzogiorno è oggi raccolto nella Società meridionale di elettricità, che ha nella Campania i suoi organi principali e alcune importanti centrali idriche (Matese, Tusciano, Tanagro) e termiche (Napoli), e il campo di più intense attività economiche da promuovere.
Un particolare interesse presentano altresì nelle varie provincie campane le numerose industrie minori, alcune informate ancora a vecchi sistemi, altre in via di trasformazione. Fra esse si distinguono: le industrie del vetro, praticate in varie parti della regione, e massimamente a Napoli; le industrie dell'oreficeria (Napoli); varie industrie artistiche, con i lavori in ceramica (Vietri sul Mare) e terracotta, con la lavorazione artistica del ferro (Napoli, Benevento, Avellino), con i lavori d'intarsio e scultura in legno (Sorrento), corallo e tartaruga (Torre del Greco, Napoli); le piccole industrie del legno, con la costruzione di carri, botti e tini, doghe, ecc., e col mobilificio (provincie di Napoli e di Avellino); l'industria dei ricami e dei merletti (in quasi tutta la regione); l'industria dei laterizî per la fabbricazione di mattoni, tegole e mattonelle per la pavimentazione (pure nelle diverse provincie della Campania); la lavorazione dei vimini e di altri vegetali affini (a Frattamaggiore, e poi a Sessa Aurunca, nell'Avellinese, ad Eboli, ecc.).
Quanto alle industrie estrattive, la Campania va ricordata: per lo zolfo, che è fornito specialmente dall'Avellinese (Tufo e Avellino); per il petrolio, di cui vere e proprie manifestazioni si hanno nelle provincie di Avellino e di Benevento; per la lignite della valle del Sabato; e per gli svariatissimi materiali da costruzione che sono scavati in tutto il compartimento, dalla pozzolana e dal tufo giallo alla lava vesuviana, al travertino, ai marmi bianchi e colorati delle montagne appenniniche, al gesso di Ariano di Puglia, alla pietra rossa e gialla di Gesualdo, alla pietra compatta di tutti i massicci calcarei della regione. E larghissima diffusione hanno le sorgenti di acque termali e minerali, per cui tutta la Campania può dirsi sin dai più antichi tempi famosa.
Dall'ultimo censimento industriale si rileva, per l'intera Campania, che, al 15 ottobre 1927, il numero complessivo degli esercizî era di 51.422 (il 7% del regno) e quello degli addetti di 221.664 (il 5,5% del regno). I tre quarti circa del numero totale degli addetti spetta alla sola provincia di Napoli (157.042); seguono quelle di Salerno (36.598), Avellino (17.063) e Benevento (10.961). Nella sola città di Napoli furono censiti 12.100 esercizî con 100.396 addetti.
Commercio e vie di comunicazione. Porti. - Il movimento commerciale della Campania è caratterizzato in special modo dall'importazione di carbone, di grano e altri cereali, di petrolî e di olî, di legnami e di materie prime per le industrie - prodotti che in massima parte sono consumati o lavorati nella regione stessa - e dall'esportazione di prodotti dell'agricoltura campana, sia greggi che industrializzati, e più propriamente di prodotti alimentari (conserve, paste, ortaggi e frutta, patate, formaggi, ecc.), di canapa greggia, di tessuti e filati di canapa, di cotonate, guanti, vini, olî. Forse più accentuatamente dell'attività industriale, l'attività commerciale si concentra soprattutto nelle zone costiere e in massimo grado nei tratti più interni dei litorali del Golfo di Napoli e del Golfo di Salerno. L'andamento generale del commercio della regione si può seguire sulle statistiche del porto e della stazione ferroviaria di Napoli (v.), che da sola assorbe una parte notevole del commercio della Campania. Dei 69.903 esercizî commerciali che furono censiti nel 1927 (l'8% del regno), 20.269 spettavano esclusivamente a Napoli; e dei 128.094 addetti a tali esercizî (pure l'8% del regno) 52.117 erano raccolti nella città di Napoli. Oltre che un intenso traffico di merci (nel 1928 ne furono sbarcate 2.008.000 tonn. e ne furono imbarcate 376.000 tonn.), il porto di Napoli ha un movimento straordinario di passeggieri (nel 1928 ne sbarcarono circa 470 mila e altrettanti ne imbarcarono), come scalo dei piroscafi transoceanici e per i rapporti che legano la città coi paesi del golfo e delle isole partenopee. Dopo quello di Napoli, i porti della Campania che hanno una considerevole importanza commerciale sono quelli di Torre Annunziata, Castellammare e Salerno; tanto questi maggiori quanto gli altri minori numerosi porti della regione sono in stretta relazione con quello di Napoli, dal quale in parte quasi tutti dipendono. Il complesso portuario della Campania compie funzione prevalentemente regionale; esso mantiene rapporti specialmente con gli Stati Uniti d'America e con la Gran Bretagna: dai primi riceve prodotti alimentari, dalla seconda riceve carbone; agli uni e all'altra avvia i prodotti della sua agricoltura e delle industrie che ne derivano.
Per la conformazione fisica della regione e per l'importanza storica del capoluogo, la Campania è solcata da una rete di strade - rotabili e ferrate - che dalla cerchia di alture appenniniche scendono nel vasto bassopiano e convergono in Napoli. Dalla parte del Lazio le vie di comunicazione seguono o il litorale (lungo il quale passava l'antica Via Appia) o le valli del Sacco e del Liri (per cui passava l'antica Via Latina), sboccando nella Campania a occidente o ad oriente del Roccamonfina; dalla parte dell'Abruzzo esse scendono col Volturno ed entrano nella pianura campana o collegandosi con quella proveniente dalla valle del Liri o seguendo il Volturno stesso e girando intorno al gruppo del M. Maggiore; dalla parte del Molise e della Puglia, le vie si concentrano nella conca di Benevento e di qui si tripartiscono o lungo il Calore o fra Taburno e Avella (Forche caudine) o risalendo il Sabato e da Avellino dirigendosi a Napoli sia per Nola e Baiano sia per la pianura di Sarno; dalla parte della Basilicata e della Calabria, le vie si congiungono nella piana del Sele e proseguono verso Napoli costeggiando i tratti più interni dei golfi di Salerno e di Napoli e valicando l'insellatura che li unisce alla penisola di Sorrento.
I centri abitati. - Alla data dell'ultimo censimento (1921), la popolazione complessiva della Campania era ripartita in modo che 2.966.125 ab. figuravano raccolti in centri abitati (1437) e 580.516 abitanti vivevano in case sparse nelle campagne: la percentuale della popolazione sparsa sulla popolazione totale era del 16% circa, una delle meno alte fra quelle dei compartimenti del regno. E nella ripartizione per provincie, questa non molto alta percentuale media si abbassava ancora considerevolmente nei riguardi della provincia di Napoli, in cui più del 93% della popolazione figurava accentrata; la provincia di Benevento, invece, era rappresentata con una percentuale di popolazione sparsa superiore al 30% della popolazione totale, e in essa il circondario di Cerreto Sannita raggiungeva uno dei valori più alti nel mezzogiorno d'Italia col 44%. Dei 1437 centri attribuiti, sempre nel 1921, alla Campania, il massimo numero (1179) era distinto da una popolazione scarsissima, inferiore cioè a 2000 ab. per ogni centro, e soli 20 centri contavano più di 15 mila abitanti per ciascuno. In tal modo, col frazionamento della popolazione nei numerosi centri rurali, se la Campania non produce le caratteristiche demografiche che per l'alta cifra della popolazione nelle case sparse distinguono il maggior numero delle regioni spiccatamente agricole dell'Italia settentrionale e centrale, non riproduce neppure le caratteristiche opposte che per l'affollarsi della popolazione rurale in pochi centri abitati distinguono le regioni agricole della Puglia e della Sicilia. Le provincie della Campania che figuravano col più considerevole numero di centri abitati erano Caserta (499) e Salerno (452).
Dei tratti litoranei, sono oggi forniti di centri abitati quelli che hanno coste alte (qualche centro su costa bassa si trova solo nel Golfo di Napoli). Il Golfo di Napoli con la Penisola Sorrentina presenta tutta una corona di centri abitati (alcuni agglomerati si raccolgono anche nei tratti alti della penisola stessa); invece al di là del Capo Miseno e di Salerno, per varie decine di km., il litorale, in corrispondenza delle pianure del Volturno e del Sele, non presenta, per le già dette condizioni d'insalubrità, alcun centro abitato. Con la ripresa delle coste alte nel Cilento, si rivedono gli agglomerati umani lungo la stretta fascia costiera, anzi il loro numero è venuto crescendo negli ultimi decennî col popolamento delle cosiddette marine.
Il cono vulcanico del Somma-Vesuvio dà posto, lungo le sue fertilissime falde, a una fitta corona di popolosi centri abitati; ad essa corrisponde una serie semicircolare di abitati alle falde settentrionali della regione flegrea. Come continuazione delle serie dei centri vesuviani e flegrei, e in intimo legame con Napoli, si allarga in questo tratto della pianura campana una zona che abbraccia numerosi altri agglomerati e che è nettamente staccata dal resto delle città della pianura mercé una fascia semicircolare corrispondente alla zona dei cosiddetti Regi Lagni e pressoché sfornita di centri d'abitazione umana. Il resto delle città della pianura si trova ai piedi delle alture che la circoscrivono verso NE. e verso E.
Torno torno alla pianura campana, i principali insediamenti umani si sono fissati lungo le più o meno anguste vallate che frazionano i varî massicci montagnosi e che stabiliscono le vie naturali d'irradiamento dalla pianura stessa verso il resto della Campania. Molte di queste vallate, come si è già detto, mettono capo nell'interno ad aree pianeggianti (alcune a forma di grandi conche), il cui fondo raccoglie di solito qualche raro centro abitato: il maggior numero dei grossi insediamenti popola le fiancate.
All'affollarsi dei centri abitati nelle medie e basse fiancate delle valli e delle conche, fa forte contrasto lo scarsissimo numero di insediamenti umani nei tratti montagnosi culminanti. Ne deriva, che l'ampiezza delle aree spopolate è maggiore dove più imponente è il complesso di alture, e massima nel gruppo dei Picentini.
Nel Cilento (tranne che nell'Alburno), a causa dell'altitudine generalmente non molto notevole e della natura argillosa di gran parte dei terreni superficiali, oltre che per le vicende storiche e per l'insalubrità delle pianure circostanti, i centri abitati sono situati quasi tutti sulle alture e sono poveri e piccoli. Allo stesso modo, e in parte per le stesse ragioni, si annidano sulle alture o seguono le alte valli fluviali e sono scarsamente popolati quasi tutti i centri dell'Appennino argilloso-sabbioso interno.
Bibl.: A. Sanfelice, Campania, Napoli 1562; C. D'Eugenio Caracciolo e O. Beltrano, Descrittione del R. di Napoli diviso in 12 provincie, Napoli 1671; G. B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, parte 1ª, Napoli 1703; C. Pellegrino, Apparato alle antichità di Capua ovvero Discorsi della Campania Felice, voll. 2, Napoli 1771; G. M. Galanti, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, IV, Napoli 1790; S. Breislak, Topografia fisica della Campania, Firenze 1798; A. Scacchi, Memorie geologiche sulla Campania, Napoli 1849 e 1850; F. Cirelli, Il Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato, Napoli 1853; A. Blessich, La Campania, in La Terra, di G. Marinelli, Milano, IV, pp. 1253-1320; G. De Lorenzo, Studi di Geologia nell'Appennino meridionale, Napoli 1896; id., Geologia e Geografia fisica dell'Italia meridionale, Bari 1904; W. Deecke, Geologischer Führer durch Campanien, Berlino 1901; F. Porena, Campania Felix, in Rassegna italiana, Napoli 1902; Th. Fischer, La penisola italiana, Torino 1902, pp. 458-461 e passim; Ministero di agr. ind. e comm., Memorie illustrative della Carta Idrografica d'Italia, nn. 3, 10, 20, 22, 23 e 32, Roma; O. Bordiga, Campania, in Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nella Sicilia, Roma 1909; C. Colamonico, La pioggia nella Campania, in Mem. Geogr. del Dainelli, Firenze 1915; C. Punzo, La distribuzione altimetrica della popolazione nella Campania, in Boll. della R. Soc. Geogr. It., Roma 1923; V. Epifanio, Campania, Torino 1925; G. Dainelli e G. Doria, Campania, Firenze 1927; Touring Club Italiano, Guida dell'Italia meridionale, II e III, Milano 1927 e 1928.
Musica e canzone popolare.
Se si eccettui la tarantella (v.) e la pastorale, composizione di movimento moderato, che, eseguita dalla cornamusa, è connessa da secoli alla solennità del Natale, non si può parlare di musica popolare della Campania come creazione anonima e collettiva, essendo essa in massima parte creazione individuale.
Il più antico frammento di canzone popolare napoletana che ci resta è quella (v. G. B. Basile, Pentamerone, principio della IV giornata; Napoli 1788), che comincia "Jesce jesce sole, Scajente 'mperatore - Scanniello mio d'argiento - Che vale Quattrociento...". Questa cantilena o filastrocca che si canta tuttora, forse sull'antica melodia, è probabile che risalga alla metà del Trecento. Alla stessa epoca e al secolo seguente risalgono certo, come si può argomentare da allusioni storiche, altre canzoni citate dal Basile. Ma una vera e continua produzione dialettale napoletana comincia solo nel '500 con l'apparire di Velardiniello, di Giovanni della Carriola, di Giovanni dell'Arpa e di altri poeti che spesso sono anche musicisti, di cui ci restano le poesie e le musiche. È infatti del 1537 la prima stampa, fatta a Napoli da Giovanni da Colonia, delle Canzoni villanesche alla napoletana, tra le quali ne appare una attribuita al Velardiniello. E non meno di 250 stampe, col nome di villanelle o canzoni villanesche alla napoletana, si contano fino ai primi del 1600. Qualunque sia il carattere, popolare o no, e l'origine, napoletana o meno, della villanella (v.), sta di fatto che essa assume a Napoli come dappertutto carattere regionale. Secondo il Monti (v. Bibl.) il tipo napoletano avrebbe a base il distico a rime baciate, mentre nelle villotte settentrionali si incontrerebbe la rima alternata. Musicalmente la villanella era una breve composizione a tre o a quattro voci, senza artifici contrappuntistici, in modo che le parole fossero intelligibili, per cantarle con accompagnamento d'arpa e di liuto. Anche se anonime e in dialetto, sono sempre o quasi creazioni di musicisti più o meno raffinati.
Ai primi del '600 la tipica villanella alla napoletana a più voci, giunge, presso il Mantella, il Trabaci, il Lombardi e lo Spano, tutti napoletani, alla sua ultima fioritura. E, sorto ai primi del '600 il nuovo stile monodico, essa si adatta alla nuova espressione musicale. Andrea Falconieri, napoletano, pubblica infatti, a Roma nel 1616, delle villanelle a due e tre voci con intavolatura di chitarra. Risale al '600 una canzone famosa, attribuita a Salvator Rosa, che ricorda le imprese dei pirati: Michelemmà, canzone che nel 1780 dal Serio era citata come antichissima con altre quattro di cui non ci è pervenuta la musica (Lo Vernacchio, Napoli 1780).
Nel '700, col fiorire dell'opera buffa napoletana, la canzone popolare fa capolino sul teatro. Salvatore di Giacomo cita quella de Lo frate innamorato, dell'opera omonima del Pergolesi rappresentata al teatro dei Fiorentini nel 1732, Amore è 'na pazzia dello stesso Pergolesi, e la Molinarella nell'opera omonima di Niccolò Piccinni. Finalmente nel secolo decimonono la canzone popolare assurge ad istituzione cittadina, e ha la sua festa nella notte dal 7 all'8 settembre presso la chiesa della Madonna di Piedigrotta. Nel 1835 fu eseguita con enorme successo la prima (secondo il Di Giacomo) canzone di Piedigrotta: Te voglio bene assaje, poesia di Raffaele Sacco e musica di Gaetano Donizetti. Intanto Guglielmo Cottrau, un parigino stabilitosi a Napoli, dal 1825 al 1835 pubblicava una raccolta di canzoni originali o rielaborate sulla tradizione orale intitolata Passatempi musicali, la quale contiene canzoni tradizionali come Fenesta ca lucive attribuita al Bellini e canzoni originali del Cottrau, per le quali ultime non è possibile stabilire quanto rimanga di veramente popolare. Teodoro Cottrau, figlio di Guglielmo, è autore fra l'altro della popolarissima Santa Lucia (1849). Del 1810 è la canzone Li capille de Carolina di Domenico Bolognese, musica di Pietro Labiola, del 1855 la Rosa di M. D'Arienzo, musica di S. Mercadante, del 1862 Dimme 'na vota sì di Carlo Scalisi (S. di Giacomo: Luci ed ombre napoletane, Napoli 1914). La canzone di Piedigrotta prende voga verso la fine del sec. XIX con l'istituzione di concorsi a premio. Appartengono a questo periodo la meritamente famosa canzone Funiculì Funiculà di Luigi Denza, composta per l'inaugurazione della funicolare del Vesuvio; Marechiaro di F. P. Tosti, su parole di Salvatore di Giacomo. Fra gli autori celebri di canzoni, oltre quelli citati bisogna ricordare Vincenzo Valente, Salvatore Gambardella, Vincenzo di Chiara e numerosi altri fra cui il De Curtis, il Nutile e il De Gregorio. Fra i poeti vanno ricordati particolarmente S. di Giacomo, F. Russo, G. Murolo, L. Bovio.
La canzone napoletana è una breve composizione di movimento moderato e di carattere patetico, in forma A-B, con una prima parte spesso in minore, e una seconda in maggiore. Ma ve ne sono in forma di marcia o di danza, in origine tarantella, più tardi valzer, tango e fox. Le canzoni sono cantate con accompagnamento di chitarre e di mandolini, e, durante la festa di Piedigrotta, anche da caratteristici strumenti popolari a percussione detti putipù, triccaballacche, scetavajasse, ecc.
La canzone napoletana non fa, dunque, che riflettere ininterrottamente i caratteri della musica d'arte contemporanea. La sua storia sembra distruggere la concezione romantica dell'arte popolare come creazione anonima, mostrando in maniera evidente come si formi il mito della canzone popolare, che secondo lo Jeanroy non è poesia composta dal popolo ma per il popolo e secondo il Croce non differisce da quella d'arte se non per il tono minore, e che comunque non nasce, diventa popolare.
Bibl.: Per la canzone più antica e per tutta la bibliografia inerente vedere: G. M. Monti, Le villanelle alla napoletana e l'antica lirica dialettale a Napoli, Città di Castello 1925; C. Calcaterra, Canzoni villanesche e villanelle, in Archivum Romanicum, X, 1926; A. Falconieri, Diciassette arie a una voce, ed. Ricordi. Per la canzone del '700: M. Scherillo, L'opera buffa napoletana, 2ª ed., Palermo 1916; A. Della Corte, L'opera comica italiana nel '700, Bari 1923. Per la canzone dell'800: G. Cottrau, Lettres d'un mélomane, Napoli 1885; V. De Meglio, Eco di Napoli, raccolta di 150 canzoni popolari, voll. 3; S. Di Giacomo, Luci e ombre napoletane, Napoli 1914; F. Balilla Pratella, Saggio di gridi, canzoni, cori e danze del popolo italiano, Bologna 1919; C. Caravaglios, Gridi di venditori napoletani trascritti musicalmente, Catania 1924; G. Cocchiara, L'anima del popolo italiano, Milano 1929.
Dialetti.
Se teniamo l'occhio agli esiti di -u e di -o latini in fine di parola, potremo dividere la Campania in due zone: l'una meridionale, dove abbiamo -u come in calabrese (pilu, ïttu), e una settentrionale, dove si ha -ə, (pilə, ïttə) o addirittura lo scadimento completo (pil, ïtt). Altrettanto si dica per -e: nella zona meridionale, si ha -i; nella settentrionale -əo il dileguo. L'-a, che appare in gran parte del territorio, sembra essere una ricostruzione, perché a Napoli e nei dintorni abbiamo generalmente -e; onde si può a buon diritto pensare a condizioni abr.-molis.-basilische tramontate. Diffuso, come in tutti i dialetti centro-meridionali, è a per o protonico (p. es. alorǵu accanto a oilorǵu, bilorǵu "orologio").
La metafonesi centro-meridionale è in piena efficienza, determinata cioè dalle finali -ŭ e -ī su é???, ó???, é??? e ó???, come apparirà dagli esempi seguenti: kapilləe kapiddu "capello", birə e biri "[tu] vedi" allato a béna e ména "vena"; fuornəe fuornu "forno", allato a vokka, uokkə"bocca"; riéndi "denti" (ma: ré???nde "dente"); uókkjə, uókkju "occhio" (ma nïra e norə"nuora").
Non sarebbe possibile, movendo dalle consonanti, caratterizzare il campano in modo da distinguerlo nettamente fra i dialetti centro-meridionali. Esso ha lo sviluppo di d- e -d- in r (rurəćə"dodici", ronna "donna"), assai diffuso. Forse la zona settentrionale e parte della meridionale, dove ora abbiamo -d-, hanno avuto il dileguo della dentale sonora intervocalica, a giudicare dal possette posse(d)ette delle antiche carte italiane della fine del sec. X. Le condizioni attuali potrebbero essere secondarie. L'l davanti a dentale si fa u (saurá "saldare", kauraru "calderaio") ma anche, qua e là, r (sardà a Napoli e a Montefusco) come dinnanzi alle altre consonanti (skarpieddu "scalpello"). Di -ll- si può dire, a un dipresso, che si riduce a -ll′- nel nord, che rimane nel centro e si fa -dd- nella zona più meridionale. I gruppi pl-, bl-, fl- volgono rispettivamente a kj-, ë-, è- (èumə"fiume"). Il gruppo gl- dà ë (jaććə"ghiaccio"), e se abbiamo ll′ (ll′anna "ghianda") o ńń (ńńuommera "gomitolo") si risalirà a ad + gl-, o a in + gl-. I nessi -nǵ- e -mbj- hanno lo sviluppo laziale-umbro-abr.-molisano, cioè ńń. Eppoi -lj-, e -gl-, volgono a ll′, cioè hanno esito palatale. Ciò va detto in linea generale, perché i dialetti campani non sono stati ancora metodicamente studiati. Certo è che essi partecipano dei fenomeni comuni ai dialetti centro-meridionali: hanno, cioè, nd in nn, mb in mm; hanno b- e br- da v- e vr-, -rv- da -rb-, -bb- da -d + v-, r da -rj- e ńń da -mj-, tutti fenomeni, dei quali si è toccato nelle descrizioni delle parlate abruzzesi, basilische e calabresi. Si aggiunga -ns- in -nz-: penzá "pensare".
Richiameremo altresì l'attenzione sulla caduta di -re nei verbi in -are (caduta largamente diffusa) e sulla terza persona singolare del perf. della I con. in -aje lPapanti, p. 312: se 'mpossessaje "si impossessò"; penzaje "pensò"). Ma, per il passato, si ebbe -au e -ao, che è la caratteristica risoluzione meridionale di -avit.
Bibl.: A. Mussafia, Regimen sanitatis, Vienna 1884; E. Percopo, I bagni di Pozzuoli, 1887; E. G. Parodi, Il dial. di Arpino, in Arch. glott. ital., XIII, p. 299; G. Bertoni, Italia dialettale, Milano 1916, p. 151 seg.
Folklore.
Il folklore della Campania è particolarmente vario e attraente. Nell'Irpinia, nella Terra di lavoro, nella Penisola sorrentina persiste il rito del ceppo natalizio: il colono reca un ciocco al padrone sopra un carro con i buoi infioccati, e il capo della casa, postolo sul focolare, l'asperge di vino, collocandovi intorno tredici pezzi di legno (il Cristo e i dodici apostoli?). In qualche paesello, il Sabato santo, un bue dalle corna adorne di serti di fiori è menato in giro, quindi al macello, come un capro espiatorio, al grido di: buona Pasqua! Tanto per il carnevale, quanto per il capodanno, la Befana, la Pasqua, si usano i canti di questua, intonati ordinariamente da fanciulli. I falò o fuocheracci votivi sono molto diffusi in onore di varî santi. Caratteristico il "maio" di Baiano (prov. di Avellino): un grande albero trapiantato nel piazzale, con legna ammassate alla base, cui si dà fuoco nella notte del 26 dicembre. Tra le feste tradizionali, oltre quelle napoletane (v. napoli: Folklore), sono rinomate quella di Montevergine (prov. Avellino), dove i devoti si recano in maggio e in settembre, a piedi o in cocchi infioccati, per implorare o ringraziare Mamma Schiavona (la Madonna del santuario) e quella dei Gigli, a Nola, in onore di S. Paolino. In qualche festa di carattere campestre si ammirano le processioni delle Verginelle, accompagnate dai mezzetti ricolmi di grano e adorni di spighe e nastri.
La sposa si dice 'ncignata quando è promessa e porta indosso gioie o indumenti regalati dallo sposo. Mentre le amiche della fanciulla curano il trasporto del corredo, la sorella della sposa reca sopra un vassoio, coperta di fiori e confetti, la camicia che il futuro cognato dovrà indossare per la celebrazione. Il corteo nuziale, il quale in Terra di lavoro è preceduto da un uomo a cavallo con in mano una gallina bianca, deve aprirsi la via attraverso la sbarra, di festoni di fiori. Scomparse nei centri principali, le nenie funebri sopravvivono in qualche villaggio; ponendo l'orecchio sulla fossa del morto, si prognostica la sua andata all'inferno o al paradiso. I contadini dell'Irpinia sono vestiti di brache di velluto nero, di giacca marrone, di panciotto verde e calze bianche; sono ancora visibili il costume di gala delle donne di Sessa Aurunca e di Casalvieri, in cui spicca il panno rosso, e il costume delle donne di Gallo che è confezionato con panno da frati e di cui la leggenda attribuisce l'origine a un voto della cittadinanza. I racconti popolari (fonte importantissima il Cunto de li Cunti di G. B. Basile) non sono stati curati, nelle raccolte, quanto i canti, che una tradizione fa risalire a Cupido, immaginandolo come un poeta bizzarro e scostumato. In nessun gruppo di maschere manca Pulcinella.
Bibl.: G. Amalfi, La culla, il talamo, la tomba nel napoletano, Pompei 1892; id., Tradizioni ed usi della penisola sorrentina, Palermo 1890; id., La festa dei quattro altari in Torre del Greco, in Arch. tradiz. popolari, XIII (1894), p. 7; id., La festa della Madonna della Neve in Torre Annunziata, ibid., vol. cit., p. 8; La festa di S. Martino nel napoletano, ibid., XIV (1895), p. 21; La Madonna dell'Arco a Montevergine, in Napoli nobilissima, IV (1895), pp. 129-13; V (1896), pp. 97-102; A. D'Amato, Folklore irpino, in Il folkl. ital., I (1925), p. 417; II (1926), p. 46; id., Reliquie di sacre rappresentazioni nell'Irpinia, ibid., III (1927), p. 41; N. Borrelli, Storia e demopsicologia dell'agro vescino, Maddaloni 1921; id., I mesi in Terra di Lavoro, in Il folkl. ital., I (1925), p. 50; Campanus (N. Borrelli), Il ciclo natalizio nelle trad. pop. di Terra di Lavoro, in Riv. Campana, II (1922), p. 307; id., Note ed appunti di demopsicologia, ibid., p. 216; B. Croce, Leggende napoletane, Napoli 1905; per i canti, V. Casetti e V. Imbriani, Canti delle provincie meridionali, Torino 1871. Molti dati nella rivista G. B. Basile (1883-1906).
Preistoria.
Come limiti geografici si assumono in questa parte quelli della regione attuale e non quelli della Campania romana (v. oltre).
Le esplorazioni e le indagini condotte in questa regione, dal punto di vista paletnologico, non sono molto numerose, poiché le antichità dei tempi storici, e più particolarmente quelle di Ercolano e Pompei, formarono per lungo tempo la meta più agognata. Inoltre, si deve tener conto che tutte le ricerche eseguite sotto il governo borbonico furono dirette a fini puramente antiquari, se promosse dallo stato, ovvero furono opera di privati, mossi da pura mania collezionista; in questo caso, come avvenne per le antichissime vestigia di Capua e di Nola, si ridussero a una vera devastazione con conseguente dispersione degli oggetti recuperati. Onde risulta che un disegno della preistoria campana è oltremodo difficile a tracciarsi, specie per le lacune riguardanti i tempi protostorici, cioè le antichità della prima età del ferro, nel momento in cui sullo strato indigeno si sovrappongono gli elementi greci. Tuttavia, mercé le più scientifiche esplorazioni eseguite, dopo la formazione del Regno d'Italia, da parte di parecchi studiosi, quali Stevens, Cerio, Carucci, Patroni, Gabrici, Sogliano, Rellini, Maiuri, qualche dato di fatto si è potuto raccogliere chiaramente, specie per le età più remote.
Paleolitico. - Le prime vestigia industriali dell'uomo furono ritrovate abbondantemente nell'isola di Capri; la prima scoperta fu fatta da I. Cerio, nel 1906, costruendosi un nuovo fabbricato per l'albergo Quisisana nella valletta Tragara, alle falde dei colli Castiglione, S. Michele, Telegrafo. Quivi, immediatamente sopra l'argilla rossa (lehm) di formazione quaternaria, e sotto un potente strato di tufi vulcanici sabbiosi, prova d'una prima grande eruzione, vennero in luce i grossi strumenti amigdaloidi scheggiati secondo la tecnica chélleana (v.). Questi strumenti sono di materia estranea all'isola (quarzite, grès, silice, trachite) e furono trovati mescolati con schegge diverse di selce, raschiatoi senza carattere tipico e lame grossolane. Alla prima scoperta successero altri scavi nel 1908 e soprattutto nel 1910, per opera dei geologi F. Bassani e A. Galdieri, intesi a chiarire la natura e l'appartenenza cronologica del giacimento, che era argomento di viva discussione (cfr. Bullett. Paletnol. ital., XXXVII, 1911, p. 57). Benché non associati ai relitti industriali dell'uomo, e giacenti nello strato di lehm rossastro, si raccolsero molti resti di fauna quaternaria (Elephas antiquus, Rhinoceros Merckii, Hippopotamus, Sus scrofa ferus, Ursus spelaeus, Cervus elaphus, Felis pardus, Canis, e anche Elephas primigenius), come già ne aveva ritrovati in località non distante C. Bonucci nel 1864 e 1866. Lo scavo di controllo del 1910, e le osservazioni d'indole geologica, non solo rendono sicura la purità del giacimento di amigdaloidi, ma anche la sua appartenenza al principio del Quaternario, allorché l'isola di Capri era legata alla penisola con un istmo che uomini e animali attraversavano, prima che il legame venisse interrotto da un cataclisma, di cui è testimone lo strato vulcanico che ricopre gli oggetti abbandonati dall'uomo. I quali, unitamente agli avanzi di fauna fossile, costituiscono quasi il primo esempio di ritrovamento paletnologico fatto dall'uomo storico (è un episodio che sarebbe ingiusto dimenticare), in quanto che dalla biografia augustea di Svetonio (Aug. 72) sappiamo che, forse durante i lavori di fondazione delle ville imperiali, a Capri si raccolsero ossa di animali quaternari e certo anche strumenti amigdaloidi (immanium belluarum ferarumque membra praegrandia quae dicuntur gigantum ossa, et arma heroum), che formarono oggetto di rara curiosità nelle collezioni imperiali (cfr. G. Pinza, in Rend. R. Acc. Lincei, Cl. sc. mor., XVI, 1907, p. 491).
All'infuori di Capri, l'industria chélleana è apparsa nel Beneventano, con un solo grande e bello esemplare raccolto nel territorio di Guardia Sanframondi, e con parecchi amigdaloidi trovati da G. Nicolucci nell'antica provincia di Caserta (Terra di Lavoro), nelle alluvioni argilloso-sabbiose del Liri, a Casalvieri e a Castrocielo; ma quivi, come in altre località della valle del Liri (Sora, Alvito, Arce, Roccasecca), si rinvennero associati gli strumenti dell'industria detta moustériana (v.). La medesima industria con resti di fauna fossile fu anche riscontrata in una grotta del Monte di Cassino, nella valle del Rapido.
Neolitico. - Fin dal 1876 F. Corazzini notava che nel Beneventano si incontravano frequenti gli oggetti proprî dell'età neolitica: altri ne rintracciò in diverse località G. Nicolucci, ma le più importanti scoperte da lui fatte, come una stazione all'aperto presso Sora e una caverna abitata presso Cassino, riguardano un territorio che oggi non appartiene più alla Campania. Molto interessante, per l'età neolitica, è la scoperta fatta nel 1908 da A. De Blasio nel bosco di Sepino (benché il luogo sia in provincia di Campobasso, se ne parla qui perché non solo è assai vicino al confine col Beneventano, ma è a questo strettamente legato per la valle del Tammaro); ivi furono trovati i resti di una capanna con focolare, nel cui interno, da un lato, circondato da lastre di calcare disposte a mo' di cassone, giaceva uno scheletro disteso con scarsi oggetti di corredo (cfr. Bullett. Paletnol. ital., XXXIV, 1908, p. 214). Trattasi di un raro esempio, per l'Italia, di casa-sepolcro, di una capanna cioè mutata in tomba, forse dello stesso proprietario: il costume, già noto per l'estero, si è riscontrato recentemente anche nell'Agro Materano (v. basilicata: Preistoria); quindi resta provato anche per l'Italia preistorica.
Una tomba singolare, verosimilmente di questa età, contenente un cranio e due strumenti silicei, fu incontrata a Guardia Sanframondi; altri avanzi neolitici sono stati rintracciati nell'isola d'Ischia (cfr. Bullett. Paletnol. ital., XLVII, 1927, p. 189); infine se ne riconobbero dal Cerio in una grotta del Monte Solaro a Capri (Grotta delle Felci), e da altri esploratori in alcune grotte abitate del Salernitano (Grotta Rossa alla Molpa presso il Capo Palinuro; Grotta Gesù Salvatore nel comune di Giffoni Valle Piana). Ma in queste località, così come in altri depositi, si è potuto stabilire che gli oggetti neolitici, se vi sono, si trovano mescolati con ceramiche e con strumenti appartenenti alle successive civiltà eneolitica ed enea. È un fenomeno, questo, non soltanto del territorio campano, ché in generale si riscontra anche nelle altre regioni dell'Italia meridionale, esclusa la Calabria. Un'età neolitica pura, quindi, non appare in Campania, o vi è poco chiara e poco estesa; il fenomeno naturalmente ha dato origine a controversie nella spiegazione etnologica delle vestigia di civiltà che si succedono, specie per quelle dell'età del bronzo, ma l'interpretazione più plausibile e accettata è che si debba attribuire al persistere degli elementi etnici primitivi. Non altrimenti, ad esempio, suppose il Pigorini stesso quando nel 1907 gli scavi presso l'altare della Basilica di Pesto misero in luce, sotto l'impianto architettonico greco, le reliquie di tutte le età preistoriche precedenti la colonizzazione.
Eneolitico. Età del bronzo. - Al periodo propriamente eneolitico (non contando l'interessante sepolcro scoperto nel 1872 dal Nicolucci in contrada Cavone presso Roccasecca, perché da comprendersi ormai nel Lazio) appartengono alcune vestigia funebri scoperte nel Beneventano, sul Toppo San Filippo presso Colle Sannita, e nell'Avellinese a S. Gesualdo presso il torrente Fiumane: nella prima località si trattava d'una fossa contenente tre scheletri supini, con corredo funebre, composto di vasi fittili e di pugnali silicei accuratamente lavorati; nella seconda si ebbe la prova dell'esistenza di un vero sepolcreto, ma si esplorarono solo due tombe a fossa contenenti scheletri rannicchiati, con vasi fittili, oggetti litici, e un pugnale siliceo. Queste sepolture, per il carattere e per gli oggetti, si raggruppano con altre scoperte nel Molise (Pozzilli, Monteroduni) e con le analoghe del territorio laziale.
La sovrapposizione e la mescolanza di vestigia delle età neoeneolitica e del bronzo, è il fenomeno caratteristico che ci presenta un gruppo abbastanza numeroso di strati affini, in grotte, adibite per abitazione, e anche per sepoltura, e, in due casi assai evidenti, come luoghi di culto per le acque. Essi sono: la Grotta Nicolucci presso Sorrento, solo parzialmente esplorata, la Grotta delle Felci a Capri, le Grotte di Ripa del Corvo e di Gesù Salvatore nel Salernitano, la Grotta del Cervaro presso Lagonegro (cfr. G. D'Erasmo, in Atti R. Accad. Scienze fis. mat. di Napoli, XVII, ser. 2ª, n. 6, 1926; e Bullett. Paletnol. ital., XLVI, 1926, p. 198), la Grotta del Zachito presso Caggiano, la Grotta della Pertosa non lungi dalla precedente, la Grotta di Latronico nella valle del Sinni (la quale, benché si trovi in provincia di Potenza, va citata più opportunamente qui col gruppo di cui fa parte): queste due ultime, specie la Grotta della Pertosa, anche detta dell'Angelo, hanno rivelato le prove del culto professato alle acque. Una tomba a inumazione in fossa, scoperta nel 1859 presso Nocera Alfaterna, e altre vestigia funebri ritrovate presso la stazione di Montecorvino nella piana di Salerno, sono documenti della stessa civiltà persistente.
Negli strati sopra nominati si trova abbondante l'armamentario litico, il quale è produzione schiettamente neolitica come gran parte delle stoviglie d'impasto. Ma produzione ceramica particolare di questi strati, che per la decorazione non trova riscontri in quella dei puri strati neolitici, né delle terramare propriamente dette, sono i vasi adorni di incisioni o graffiti, spesso riempiti di materie biancastre, con motivi geometrici (rombi, denti di lupo, ecc.) e soprattutto con fasce per lo più punteggiate disposte a meandro e a spirale. Oltre a ciò, caratteristico è l'impasto di gran parte dei vasi, nerastro e lucidato (bucchero indigeno); notevoli sono anche le forme vascolari, fra le quali spiccano le tazzine con ansa sopraelevata a nastro forato, e anche con la caratteristica ansa cornuta o lunata, propria delle terramare, accanto a forme particolarissime come gli askoi con beccuccio-ansa. Gli oggetti di bronzo (asce a margini rialzati, ad alette, coltelli, pugnali, ecc.), d'osso e di corno (rotelle, pettini, manichi), sono invece perfettamente analoghi a quelli delle terramare lombardo-emiliane.
Nella Grotta della Pertosa, ampia e profonda, e dentro la quale rumoreggia l'acqua sorgiva, fu trovata una palafitta e una grandiosa stipe, in cui spiccano i minuscoli vasetti votivi, già noti nelle terramare; testimonianza d'un culto professato dall'età del bronzo e continuato per secoli e secoli, ininterrottamente, fino nei tardi tempi romani; anzi fino ai nostri giorni, perché la grotta è ora dedicata a San Michele Arcangelo.
L'esistenza della palafitta e la presenza di oggetti terramaricoli indussero il Pigorini ad ammettere la venuta di popolazioni italiche provenienti dalle terramare, come nel caso della necropoli a cremazione di Timmari (v. basilicata: Preistoria) e della stazione sullo Scoglio del Tonno a Taranto. Ma per altri studiosi, nella Grotta della Pertosa, come negli altri depositi affini, si deve scorgere soltanto un apporto o un'influenza esercitata dalla cultura terramaricola. mentre l'elemento umano è quello neo-eneolitico persistente, cui appartengono altri strati archeologici sparsi per la penisola, dal Bolognese al Materano, strati che si possono, col Rellini, distinguere col nome di "extraterramaricoli".
Nella Grotta delle Felci, a Capri, che nello strato più profondo ha rivelato materiali non dissimili da quelli delle caverne liguri, mentre nello strato superiore mostra numerosi elementi che permettono di raggrupparla con le altre caverne sunnominate, le esplorazioni del Rellini hanno messo in luce un fatto notevole: cioè la presenza di ceramica dipinta attribuibile all'età eneolitica la quale si lega per affinità ad altri coevi prodotti ceramici dell'Italia meridionale (Molfetta, Matera) e della Sicilia.
Età del ferro. - Le vestigia archeologiche della prima età del ferro assumono un valore straordinario per le vicende del progressivo incivilimento della Campania; ma la documentazione tratta dallo scavo poco contribuisce a rafforzare i dati fissati dagli storici, in base alle tradizioni scritte, secondo cui al primo strato etnico osco si sovrappose sulle coste, dall'VIII sec. a. C., la colonizzazione greca, turbata a sua volta dall'espansione della civiltà etrusca; finché nella seconda metà del sec. V le stirpi sannitiche, discese dalle montagne, soggiogarono i centri più importanti della pianura dove le civiltà ellenica ed etrusca ancora lottavano per il predominio.
La ragione della scarsa luce apportata dall'archeologia consiste, come si è già detto, negli scavi disordinati praticati in passato, nella dispersione, e in parte nella non divulgazione, dei materiali recuperati; per cui nulla si può stabilire, ad esempio, per un centro importante quale fu Capua, ben poco per Nola, e perfino scarso giovamento si trae dalla necropoli di Suessola, che fu la prima ad essere scavata e avrebbe potuto da sola illuminare la civiltà fiorita prima dell'invasione sannitica, e dopo (secoli VII-V). Rintracciata nel bosco di Calabricito, non lungi da Acerra, fu scavata senza metodo da un ricco privato dal 1878 al 1886; i corredi funebri si raccolsero solo per gusto di collezionista; e mentre i pezzi più pregevoli di ceramiche dipinte attiche sono emigrati all'estero, manca ancora un'illustrazione completa ed esauriente di tutto il materiale. Altre tombe preromane, scoperte in quel periodo di tempo, e rivelanti una medesima civiltà, apparvero nella località Conca d'Oro presso Alife. Fortunatamente sono intervenuti scavi più proficui, come quelli di E. Stevens a Cuma e di G. Patroni nella Valle del Sarno, che permettono di farci una idea adeguata, limitatamente agli usi funebri e alle industrie, della civiltà indigena, quale essa fu anteriormente alla colonizzazione greca.
Gli scavi eseguiti a Cuma dallo Stevens dal 1878 al 1893, con accuratezza scientifica benché non controllati dallo stato, misero allo scoperto la grandiosa necropoli preellenica, da alcuni studiosi riferibile al sec. XI-X a. C., ma più ragionevolmente da assegnare al IX-VIII, composta di tombe a fossa con cumuli di pietre sovrapposti e anche con sarcofaghi lignei, essendovi in vigore esclusivo il rito dell'inumazione. I ben forniti corredi funebri, che dopo la morte dello scavatore furono assicurati alle collezioni statali (Museo naz. di Napoli, e una piccola parte nel Museo Pigorini di Roma), illustrati compiutamente dal Gabrici, si compongono di stoviglie d'impasto scuro e di oggetti di bronzo; vi si contano poche armi in ferro e alcuni oggetti esotici (scarabei, idoletti egizî o pseudo-egizî, grani di pasta vitrea per collane, piastrine auree, qualche vaso di argilla figulina), oggetti che, importati col commercio dall'Oriente, mostrano le prime relazioni che preludono in certo modo all'arrivo dei coloni ellenici. Le tombe che succedono cronologicamente, più ricche, con elementi nuovi per tipo e per ornati nella suppellettile, e col rito dell'incinerazione che dalla seconda metà dell'VIII secolo si andò sostituendo a quello inumatorio, Sono la prova archeologica degli elementi greci sopravvenuti. Singolare fu la scoperta nel 1900, nel fondo Artiaco, di alcune tombe greche arcaiche, a cremazione, contenenti oggetti d'arte orientalizzante e oreficerie di fabbrica etrusca; a ciò si aggiunga il ritrovamento d'una tomba a cupola, unico esempio nell'Italia meridionale del periodo sannitico (cfr. G. Pellegrini, in Mon. Antichi pubbl. Lincei, XIII, 1903, coll. 202-294).
In sostanza, il materiale fornito dalla necropoli preellenica di Cuma, non dissimile da quello di Suessola (per quel poco che ne sappiamo), indica una medesima civiltà, un medesimo strato etnico; le stoviglie d'impasto, fra cui è rara la vera forma biconica della civiltà villanoviana (v.), si mostrano più affini, sia per le forme e per gli ornati, sia per la tecnica, alle stoviglie delle tombe laziali della seconda fase (a inumazione). Le stesse osservazioni possono ripetersi per le necropoli a inumazione rintracciate dal Patroni nella Valle del Sarno, nel fondo Padula a S. Marzano, a Striano, e a San Vincenzo presso San Valentino, con stoviglie d'impasto e oggetti ornamentali di bronzo non dissimili da quelli delle altre necropoli campane, e con qualche vaso d'argilla depurata e tornita, prodotto d'importazione, compresovi qualche bucchero vero e proprio, indizio di tempo più recente.
Queste scoperte più proficue ai fini scientifici compensano la forzata ignoranza sulle più antiche vestigia di centri così importanti come Capua e Nola, per cui ben poco valgono i materiali salvati dalla dispersione e raccolti nel Museo Campano, senza la possibilità di ricostruire l'insieme dei corredi e la figura e la successione dei sepolcri. Altri minori rinvenimenti si ebbero alle Gallazze presso Maddaloni, a Teano, a Rocchetta e Croce, infine nella stessa Napoli, dove nel 1906, ai piedi di Pizzofalcone, si raccolsero avanzi funebri, scarse reliquie che si citano solo per l'importanza del luogo.
Alle più antiche vestigia dei tempi protostorici, segue una serie abbastanza numerosa di ritrovamenti di tombe preromane più recenti, cioè dei tempi dominati dall'influenza greca e dall'etrusca e del periodo sannitico; ma quasi tutte queste tombe, in generale a inumazione e costituite con lastre di tufo o con copertura di tegoloni in cotto, e povere di corredo, furono quasi sempre incontrate casualmente e male esplorate. Ritrovamenti del genere avvennero un po' dappertutto: ad Alife, presso Telese (ant. Telesia), a Caiazzo, a S. Agata dei Goti (ant. Saticula), a Bucciano, ad Airola, a Moiano, a Benevento, a Pompei, a Sorrento, a Pontecagnano, a Eboli, ecc.; infine a Salerno. Quivi, nelle immediate vicinanze della città, nel 1927 si sono esplorate metodicamente una cinquantina di tombe appartenenti a una fitta necropoli databile fra il sec. VI e il V: tombe a inumazione ben corredate di suppellettile, fra cui si notano i vasi dipinti attici a figure nere e rosse e altri materiali, un poco diversi dai soliti che si incontrano nelle tombe propriamente greche dell'Italia meridionale e della Sicilia, sì da far supporre la testimonianza di una più diretta influenza etrusca.
All'infuori delle vestigia funebri, nulla sappiamo relativamente agli abitati o alle costruzioni civili e religiose della civiltà che ben può chiamatsi osca; qualche traccia dell'abitato preistorico apparve nel 1897 sull'acropoli di Cuma. Le esplorazioni venture, come serviranno a chiarire il problema dell'origine di Pompei, potranno anche colmare questa lacuna, e risolvere forse la questione etnologica: se, cioè, la civiltà attestataci dalle necropoli di Suessola, Cuma, Valle del Sarno, va attribuita a Italici propriamente detti (secondo il von Duhn sono gli "Italici inumatori" discesi nella penisola circa un millennio dopo gli incineratori), ovvero alle stirpi primitive che hanno lasciato traccia di sé nelle grotte citate dell'eneolitico e dell'età del bronzo, sostanzialmente immutate, col proprio rito funebre inumatorio, attraverso le vicende dei tempi, e nonostante i contatti e gli scambi commerciali molteplici.
Bibl.: G. Beloch, Campanien, 2ª ed., Breslavia 1890, pp. 357 seg., 443; P. Carucci, La grotta preist. di Pertosa, Napoli 1907; F. von Duhn, Italische Graeberk., I, Heidelberg 1924, pp. 37, 51-52, 533-556, 608-630; E. Gabrici, Cuma, in Mon. ant. Lincei, XXII, 1913; A. Maiuri, Una necrop. arcaica pr. Salerno, in Studi Etruschi, III, Firenze 1929, pp. 91-101; id., Aspetti e problemi dell'archeol. campana, in Historia, IV, Milano 1930, pp. 50-82; G. Patroni, Note paletnol. sull'Italia merid., in Bullett. Paletnol. ital., XXV (1899), p. 183 e XXVII (1901), p. 41; id., Caverna nat. con avanzi preist. (Pertosa), in Monumenti ant. Lincei, IX (1899); id., Intorno ai più rec. scavi ecc., in Atti V Congr. internaz. scienze stor., Roma 1904, pp. 207-219; L. Pigorini, Preistoria, Roma 1911, passim; D. Randall-Mac Iver, The Iron Age in Italy, Oxford 1927, pagine 160-175; U. Rellini, La cav. di Latrònico, in Mon. ant. Lincei, XXIV (1916); id., La grotta delle Felci a Capri, in Mon. ant. Lincei, XXIX (1923); A. Sogliano, Disegno storico della Campania antica, in Atti Società italiana per il progresso delle scienze, XIII riunione, Pavia 1924; R. Vaufrey, Le Paléolithique italien, Parigi 1928, pp. 19-22, 30, 63.
Storia.
La Campania - come si è detto - comprendeva in origine solo il territorio di Capua o tutto al più quello della lega formatasi attorno ad essa, escludendo perciò i territorî di Nola e di Nocera, le coste e il territorio a nord del Volturno. La Prima Regione di Augusto, che comprendeva il Lazio e la Campania, giungeva solo qualche chilometro più a sud di Pontecagnano (in provincia di Salerno); ma è noto che le suddivisioni amministrative di Augusto comprendevano anche popolazioni minori come in questo caso i Picentini che occupavano il territorio attorno a Salerno, i quali, non essendo né Campani né Lucani, vengono dagli storici assegnati ora all'una ed ora all'altra regione. Similmente il territorio fra il Volturno e il Garigliano viene ora assegnato alla Campania, ora attribuito al Lazio; e anche il territorio di Avellino fu talora tolto alla Campania. In tutti i modi, anche restando nell'ambito della ripartizione augustea e anche fissando il limite fra il Lazio e la Campania sul Garigliano, la Campania antica ha un territorio che non giunge nemmeno alla metà della Campania moderna, quale era prima della spartizione della provincia di Caserta: ne restano escluse la provincia di Benevento per intero, le provincie di Avellino e di Salerno quasi per intero e buona parte della ex-provincia di Caserta (v. campani).
Nella ripartizione augustea la Campania era congiunta - si è già visto - con il Lazio (che giungeva solo sino al Tevere, la cui riva destra apparteneva di già all'Etruria; naturalmente l'Urbe, che faceva parte a sé nello stato, non entrava nel territorio della prima regione), forse in memoria del breve periodo durante il quale i Campani, come molti Latini, si trovavano in una posizione intermedia fra i Romani propriamente detti e le popolazioni completamente sottomesse. Ma anche dopo la creazione della prima regione, la Campania rimase piuttosto un concetto geografico che un territorio amministrativo. Non sembra infatti che le regioni augustee fossero vere e proprie provincie rette da un rappresentante di un potere centrale; ma che avessero l'unico scopo di facilitare le operazioni del censo. Augusto e i suoi successori durante il primo secolo rifuggivano evidentemente ancora da quell'accentramento burocratico che indurì forse la scorza dell'Impero, ma ne distrusse certamente il midollo: con Adriano troviamo infatti l'Italia divisa in quattro zone di competenza giudiziaria, ognuna delle quali doveva naturalmente comprendere più di una regione; ma non conosciamo come questo raggruppamento avesse luogo. Fra Adriano e Diocleziano vediamo affermarsi sempre più la tendenza della equiparazione dell'Italia alle provincie, ma constatiamo anche il fenomeno schiettamente burocratico del continuo cambiamento delle denominazioni dei funzionarî, delle loro sfere di competenza e dei limiti dei loro territorî, finché sotto Diocleziano la prima regione formò provincia a sé alle dipendenze del corrector Campaniae, con capitale a Capua.
In tutti i periodi della sua storia troviamo la Campania ricca e prosperosa. La ricchezza principale era data dai prodotti del suolo fertilissimo. Rinomati ne erano il farro, col quale si confezionava l'alĭca (un proavo dei moderni maccheroni), il grano che gareggiava con quello di Pisa, il miglio, la verdura; fra i vini, il falerno e il massico, fra gli olii quello di Venafro; infine le rose.
I graziosi dipinti del triclinio della Casa dei Vettii, che ci mostrano figure di amorini e di psiche intenti alla raccolta delle rose e alla distillazione e vendita del loro profumo, avrebbero avuto, secondo una bella ipotesi del Rostovtzeff, lo scopo di ricordare ai padroni uno dei principali cespiti del loro benessere. E ancor oggi gli avanzi dei serbatoi d'acqua della Penisola sorrentina e di Capua (ve n'ha per milioni di litri e a distanza di pochi chilometri uno dall'altro) attestano l'intensità della coltura agricola della felix Campania.
Ma anche i prodotti industriali avevano la loro parte: a Capua un mercato era riservato unicamente ai profumi; celebri i prodotti metallurgici di Capua e i vetri di Pozzuoli. Del resto basta pensare al numero delle fulloniche (lavanderie e tintorie di panni) della sola Pompei (città non certo di primissima importanza nell'antichità), per immaginare quanto dovesse essere intensa l'attività industriale della regione, soprattutto dopo l'instaurazione della pace augustea.
Bibl.: J. Beloch, Campanien, 2ª ed., Breslavia 1897, soprattutto pp. 1 e 2, con bella pianta politica. Una bella carta con i confini della prima regione augustea in Mommsen, Corp. Inscr. Lat., X, i; Marquardt-Mommsen, Römische Staatsverwaltung, 2ª ed., I, pp. 67-70, 86; M. Rostovtzeff, Social and economic history of the Roman Empire, Oxford 1926, passim, v. indice s. v.
Governata da Consolari fino al tempo degli Ostrogoti, sottoposta poi da Giustiniano all'autorità civile di un Giudice e militare di un Duca o Maestro dei militi, la Campania mantenne l'unità amministrativa e politica ricevuta sotto l'Impero, fino al 570 all'incirca; poi la perdette per sempre. I Longobardi, che verso quell'anno occupamno Benevento nel Sannio, non tardarono a insignorirsi di Capua e quindi di gran parte della Campania non costiera, formandone un gastaldato (più tardi contea) del ducato beneventano e aggiogandola alla propria storia (v. benevento: Ducato). Da allora Napoli appare centro della Campania imperiale e sede del Giudice e del Duca.
Dopo il terzo decennio del secolo VII, ne scompare il Giudice, i cui poteri sono raccolti dal capo militare; mentre la città di Salerno col suo territorio è anch'essa mutata in un gastaldato del ducato, poi (dal 774) principato beneventano. Ma, intollerante di quella sudditanza, se ne staccò nell'846, facendosi centro di un principato a sé, che comprese Capua e fu poi ultima rocca della dominazione longobarda (v. salerno). A sua volta il gastaldo, poi conte, che continuò a intitolarsi dalla quasi distrutta Capua, ma risiedeva a Sicopoli sul Triflisco, contro la volontà del principe di Salerno, suo signore, si eresse una nuova Capua (l'attuale), presso al ponte di Casilino. Giunse, nella persona di Atenolfo, a insignorirsi del principato beneventano (900) e a trasmettere ai suoi figliuoli due principati: il vecchio di Benevento e il nuovo di Capua. Ma dentro ciascun principato i gastaldi o conti lottavano col centro e fra loro, in uno stato di guerra continua e di anarchia, che caratterizza la storia della Campania longobarda di quei secoli.
A sua volta, la Campania rimasta all'Impero e sempre più ridotta davanti all'avanzata dei Longobardi, venne rendendo sempre più evanescente la sua soggezione verso il lontano potere centrale bizantino e verso chi lo rappresentò, prima a Ravenna e poi in Sicilia. Ma dentro di sé rimase tutt'altro che unita e compatta. Staccata, dal cuneo longobardo, da Napoli la parte settentronale rappresentata da Gaeta; ceduto da Carlo Magno al papa il retroterra di Gaeta, gl'ipati o consoli e i prefetturî che governarono Gaeta si mostrarono ora soggetti ora no al duca di Napoli; finché, assunto anch'essi il titolo ducale, non fecero a lor volta di quella parte uno stato autonomo ereditario (899-933), non sempre per altro sfuggito alla signoria dei Longobardi vicini (v. gaeta).
Sull'opposto lato meridionale, Amalfi, più di Napoli e di Gaeta cospicua per attività di traffici e afflusso di ricchezze, fu da Sicardo annessa al principato beneventano. Se ne sottrasse alla morte di quel principe (839); ma, sotto il governo ora di conti, ora di prefetturî ed ora di giudici propri, nei secoli IX e X, fu alleata piuttosto che suddita del duca di Napoli; e negli ultimi decennî del sec. X, anch'essa si costituì a ducato autonomo ereditario, neppur esso sempre sfuggito al dominio longobardo (v. amalfi). Perfin Sorrento, nel terzo decennio del sec. XI, ebbe un proprio duca.
Così scomposta e sconvolta, la Campania si offerse non difficile preda alla cupidigia dei Normanni. Costituita nella Campania la loro prima contea in Aversa (verso il 1030), di là si lanciarono alla imprevedibile fortuna, sulle prime a danno così di Capua come di Napoli: mentre, prima per una donazione dell'imperatore tedesco, poi per una rivolta di popolo, il primo centro della Longobardia meridionale, Benevento, si avviava per un cammino tutto suo: sotto il dominio dei Papi. Riccardo conte di Aversa, intitolatosi principe di Capua (1059), ne scacciò l'ultimo principe longobardo (1062), attese a soggiogare il resto della Campania settentrionale, volle e tentò, ma invano, d'insignorirsi di Napoli. L'altro ed ultimo dominio longobardo, Salerno, stretto fra due nuove contee normanne, finì per essere ingoiato anch'esso dal ducato di Roberto Guiscardo (1077).
Quando tutte le conquiste normanne si raccolsero sotto lo scettro reale di Ruggiero II, anche Napoli si arrese (1139) e fu annessa al principato di Capua, fatto appannaggio di Alfonso, terzogenito del re. Indi la vita e la storia della Campania perse ogni suo tratto peculiare, fondendosi nella storia generale del regno di Sicilia, poi di Napoli e infine delle Due Sicilie (v.). Nella nuova condizione, l'antica Campania fu amministrativamente divisa in tre Giustizierati, precursori delle provincie moderne. Furono dapprima quelli di Terra di Lavoro, Ducato di Amalfi e Principato di Salerno, comprendente il vecchio gastaldato beneventano di Avellino. Riunite poi in un solo Giustizierato Amalfi e Salerno, da questa nel 1300 fu staccata Avellino col suo territorio: sicché da allora si ebbero un Giustizierato (poi provincia) di Principato citra e un Giustizierato di Principato ultra Serras Montorii, oltre al già detto Giustizierato di Terra di Lavoro.
Bibl.: Oltre alle indicazioni alle singole voci citate, v. M. Camera, Annali delle Due Sicilie, Napoli 1841 e 1860; E. Jamison, The Norman administration of Apulia and Capua... 1127-1166, in Papers of the British School at Rome, VI (1913), pp. 211-481.
Arte.
Significative testimonianze dell'architettura paleocristiana della Campania son da cercare a Cimitile e a Napoli; ma per Cimitile si attendono lavori di esplorazione e di denudamento per una chiara lettura dei confusi e manomessi avanzi della basilica di S. Felice, fondata da S. Paolino all'inizio del sec. V, e d'altra parte, a Napoli, la ricerca è limitata a un ristretto numero di preziosi frammenti. Specifico interesse di questi avanzi architettonici è l'attestazione dell'uso assai frequente delle absidi aperte in archi nelle basiliche napoletane di S. Gennaro, di S. Giorgio e di S. Giovanni Maggiore (secoli IV-VI) e nella basilica di Cimitile (sec. V). Altro monumento di singolare importanza nell'architettura del sec. V è in Napoli il battistero di S. Giovanni in Fonte, a cupola su pennacchi conici, forma di raccordo le cui prime origini sono controverse ma che ebbe certamente la massima fortuna nell'architettura sassanide. La struttura di S. Giovanni in Fonte non si opporrebbe a far credere che questo battistero fosse stato contemporaneo dell'attigua basilica di S. Restituta, fondata in epoca costantiniana e riconoscibile ancor oggi come chiesa a cinque navate, con abside circolare affiancata da cappelle quadre; ma se pensiamo che la decorazione di mosaico seguisse immediatamente l'opera di fabbrica, saremo indotti a identificare S. Giovanni in Fonte col battistero fondato dal vescovo Sotero fra il 465 e il 492. Le catacombe di S. Gennaro a Napoli - differenti per disposizione dalle romane, e connesse, invece, al tipo di escavazioni cimiteriali rettilinee dell'Africa settentrionale - son le sole, oggi, che possano prender posto nella storia artistica campana, per le pitture che, dal sec. II al X, ne rivestirono le vòlte e le pareti. Con forme ancora elette fra il II e il principio del sec. VI, queste pitture cimiteriali - e, con esse, il superstite affresco (principio del sec. V) della basilica di S. Gennaro e il frammento pittorico del sec. VI nell'abside della distrutta basilica di S. Stefano presso le catacombe di S. Severo - attestano il perdurare delle forme pittoriche di tradizione ellenistica locale, pur se rapprese, talvolta, in rigidezze di sopravvenuti schemi medievali. La più fastosa testimonianza della pittura di quei tempi in Campania è la decorazione a mosaico del battistero di S. Giovanni in Fonte, ove due maestranze di mosaicisti di origine diversa operarono concordi e indipendenti nell'avanzata seconda metà del sec. V: una maestranza che recava a Napoli nuovi dati iconografici orientali (scene figurate nella vòlta), e un' altra che si teneva più fedele alle secolari tradizioni ellenistiche campane (elementi ornamentali della vòlta e figurazioni nel tamburo sottostante). Nulla aggiungono, a quanto S. Giovanni in Fonte ci rivela, i mosaici del sec. VI che decorano la cappella di S. Matrona nella chiesa di S. Prisco presso Capua; ma, pure attraverso innovate infiltrazioni bizantine, valgono a confermare il carattere fondamentalmente ellenistico dell'arte campana in questo periodo.
Segue, al sec. VI, un lungo periodo di oscurità sull'arte regionale; e la penuria dei monumenti - dovuta, più che alle asprezze della dominazione longobarda, alle sistematiche devastazioni dei sopravvenuti invasori musulmani - è tale da impedire di precisar linee di svolgimento nelle arti figurative e nell'architettura, dalla conquista bizantina al dominio normanno. Si possono tuttavia fissare i seguenti dati storici isolati: 1. Napoli, per la privilegiata condizione politica, quale ducato indipendente sotto il protettorato di Bisanzio, poté divenire il più vivo ricettacolo della cultura bizantina sui lidi del Tirreno. Le sole notizie che si hanno sul fiorire delle arti in Napoli si riferiscono alla vasta e continuata importazione dei prodotti delle arti minori bizantine (tessuti sontuosi, intagli d'avorio e di legname, lavori di smalto e di metallo) e delle locali industrie che imitarono e rielaborarono quei prodotti artistici importati; 2. Unica testimonianza superstite dell'attività edilizia dei monaci cassinesi, prima dell'invasione saracena, è la chiesa di S. Maria presso Cassino (sec. VIII), quadrangolare di pianta e sormontata da cinque torri a travatura che costituiscono una parafrasi, timida e modesta, della multipla cupolatura d'una chiesa bizantina. Se a questo edificio cassinese avviciniamo la coeva chiesa di S. Sofia a Benevento che si presenta ora, pur attraverso le amputazioni subite e i rifacimenti, come variazione ingegnosa di temi architettonici bizantini, potremmo credere che l'architettura campana del sec. VIII avesse assunto un deciso orientamento verso tipi di architettura bizantina. Ma, dopo l'VIII secolo, a cominciare dalla seconda basilica di S. Gennaro a Napoli (sec. IX) e dalla chiesa di S. Salvatore in Corte a Capua (sec. X), l'architettura chiesastica campana si tenne costantemente latina nell'impianto; e l'apparenza bizantina di talune chiese di tipo non comune - come S. Giovanni a Mare di Gaeta e S. Costanzo nell'isola di Capri - si risolve nell'occasionale adattamento di una copertura di chiesa a pianta centrale bizantina a una basilichetta nostrana a tre navate; 3. La sola documentazione d'arte pittorica benedettina, anteriore al secolo XI, è data dagli affreschi che decorano il piccolo oratorio dell'abate Epifanio (826-843) presso la distrutta badia di S. Vincenzo alle sorgenti del Volturno. Quegli affreschi palesano un artista che lavorava su dati formali, iconografici e compositivi dedotti dalla pittura romana, dalla pittura bizantina e dalle miniature carolinge, tutto coordinando in una maniera propria. Pare incredibile che un artista di tanta levatura non sia stato il fondatore d'una scuola ma dobbiamo credere che le successive devastazioni musulmane della regione abbiano distrutto coi monasteri benedettini i monumenti d'una più vasta operosità della pittura nel sec. IX. I più antichi affreschi (sec. X) della grotta di Calvi presso Capua differiscono da quelli di S. Vincenzo al Volturno, non soltanto per valore estetico inferiore, ma per metodo di colorismo e per forma: e la pittura campana, quale si svolse fra i secoli XI e XIII, ebbe i suoi precedenti storici a Calvi e non a S. Vincenzo.
S'inizia nel sec. XI l'età aurea della vita artistica campana, promossa dalle prosperose attività municipali, assecondata dalla ricostituita potestà spirituale e culturale dell'ordine benedettino, assecondata anche dai principi normanni, ch'ebbero parte in essa come datori di lavoro, non come introduttori di elementi culturali nuovi, importati dalle loro regioni originarie. Per la costruzione della nuova basilica di Montecassino e per il nuovo prestigio artistico della Badia, l'abate Desiderio (1058-1087) invitò al lavoro maestranze di costruttori lombardi e amalfitani, chiamò da Costantinopoli maestri di mosaici e di tarsie, raccolse colonne da edifici dell'età pagana e preziosi frammenti di sculture antiche, fece acquistare in Oriente lavori di smalti e di metalli, formò una scuola nuova di calligrafi e miniatori, e un vasto laboratorio istituì nella Badia per lo sviluppo delle arti della decorazione e dell'arredo. Le attivita artistiche che nella Badia si raccolsero e dalla Badia si propagarono, e i rigogliosi apporti delle maestranze di costruttori, di marmorarî e di mosaicisti, che a Salerno e ad Amalfi accoglievano e rielaboravano moduli importati di decorazione siculo-musulmana, furono le concomitanti forze generatrici d'ogni grandezza e ricchezza d'arte nella Campania, fra il sec. XI e il XIII.
Ligio alla più costante tradizione regionale, Desiderio ideò la nuova basilica cassinese in pianta latina, triabsidata e a triplice navata, con colonne antiche; e questo tipo di chiesa informò, allora e nei due secoli seguenti, le cattedrali campane di nuova fondazione e quelle ricostruite sulle antiche, con poche varianti nelle strutture absidali e rare sostituzioni (a S. Maria della Libera in Aquino e nella cattedrale di S. Agata dei Goti) di pilastri quadrangolari alle colonne antiche. Nelle nuove chiese, i prospetti ebbero carattere dai portali di tipo classico, quando non ricordarono, per le multiple arcature, come a Benevento, la facciate pisane; ma, d'altra parte, nei portici, nelle arcature interne, nei fastigi dei campanili, nell'ornato aspetto delle murature esterne, elementi varî di struttura e decorazione architettonica (bizantini, lombatdi, siculo-musulmani) intervennero a coordinarsi tra di loro in mistioni e contatti impreveduti, e, nel sec. XIII, gli elementi siculo-musulmani, in prevalenza sugli altri, ebbero nuovi sviluppi, peculiari alla Campania, così nelle decorazioni policrome esteriori, come negli archi acuti intrecciati a serie per fantasiosa traduzione costruttiva d'una ornamentazione a colori o a rilievo, assunta, nello stesso secolo, su torrioni cupolari e campanili. Se scomponiamo quelle fabbriche nei loro più minuti elementi di costruzione e di decorazione, potremo comporre un catalogo di dati architettonici di disparato carattere e disparata origine; ma se le vediamo nella loro interezza, vi ritroviamo una vitale unità generata e dominata dal senso musicale della proporzione. Non le potremo dunque considerare combinazioni nate a caso e per capriccio, ma elementi di un'effettiva sintesi realizzatasi nella concezione architettonica dei costruttori.
L'uso costante di materiali di riporto da monumenti antichi, che dal IV secolo in poi ebbe ragioni di convenienza pratica e di economia, si tradusse, nei secoli XI e XII, in un ostentato collezionismo di frammenti, che, messi in opera comunque, vennero a ridurre il concorso degli intagliatori di capitelli e dei decoratori di portali all'edilizia nuova; ma valse tuttavia a porre in dimestichezza ininterrotta i marmorari medievali con le testimonianze dei marmorari antichi e ad assecondare la tendenza a rifarsi a imitazioni di esemplari classici che, nel sec. XI, era già per varî segni manifesta nella plastica. Questa tendenza favorì l'attività dei marmorari romani nella Campania settentrionale e fino ad Amalfi; e dovette invece ostacolare quella dei marmorari lombardi, palesata nondimeno da sculture di pulvini, capitelli e portali in varie città della regíone. Essa conferì peculiare carattere alla scultura regionale tra il sec. XII e il XIII; dai capitelli figurati degli amboni del duomo di Salerno alle sculture del castello di Federico II a Capua e alle opere di Niccolò di Bartolomeo da Foggia a Ravello, anche se nell'altare d'avorio della cattedrale salernitana (secoli XI-XII) prevalgano le influenze bizantine e nelle porte di bronzo del duomo di Benevento (secoli XII-XIII) vi siano rapporti con la plastica settentrionale. I decoratori unirono ai marmi la policromia degli ornati a mosaico nei candelabri, negli amboni, nelle transenne e nei seggi episcopali. Nelle opere pavimentarie - per esempio nelle cattedrali di Salerno, di Sessa e di Caserta Vecchia - i mosaicisti campani si palesarono fedeli ai moduli nastriformi della decorazione bizantina, che i mosaicisti dell'abate Desiderio avean portati dall'Oriente nella seconda metà del sec. XI; ma trassero anche motivi geometrici e sottili intrecci dall'arte ornamentale musulmana che in Sicilia ebbe radici effuse e a Salerno e ad Amalfi il suo viatico in Campania; avvicendarono talvolta il tipo bizantino e quello musulmano di decorazione in una stessa opera, o trovarono policromie più complesse, come a S. Giovanni del Toro di Ravello, splendenti di piastrelle a smalto e di maioliche orientali.
A differenza della scultura e dell'architettura, l'arte pittorica, in Campania, non ebbe lievito da elementi diversi. I presupposti della pittura campana fra il sec. XI e il XIII furono bizantini per tradizione più volte secolare, bizantini per rinnovati impulsi di cultura, e bizantini rimasero sempre, in esclusivo senso, per mancanza di reazioni vitali negli artisti che di quella pittura furono esponenti. Costretti a ricorrere ai dati iconografici forniti dalla pittura bizantina per i loro inscenamenti, quei pittori aderirono ai mezzi d'espressione grafica bizantini, pur quando riescirono ad animar le loro scene con moti nuovi. Le immagini della Madonna e dell'arcangelo Michele sulla porta della chiesa di S. Angelo in Formis, fondata da Desiderio e nel suo tempo decorata, dànno esempio, dei modelli di pittura bizantina eletti a Montecassino da quel grande abate; e le pitture dell'interno, distese come le pagine d'un grande evangelario sulle pareti della chiesa, rivelano la più franca e vivace interpretazione di modelli bizantini realizzata nella pittura campana, allora e nei secoli seguenti. Più che in pitture murali, gli affreschi di S. Angelo in Formis trovan riscontro nei numerosi codici benedettini miniati fra la seconda metà del sec. XI e la prima metà del secolo seguente; ma le altre manifestazioni dell'arte pittorica campana - nell'Annunziata di Minuto, a S. Maria in Foro Claudio, a Ventaroli e ad Ausonia - si ponevan tutte sul piano di quelle di S. Angelo genericamente, come interpretazioni rinnovate di schemi bizantini, spesso indipendenti fra di loro, attuate con animo diverso. Quel che importa notare è che la pittura regionale, inoltrandosi nel sec. XIII, si faceva sempre più ligia ai suoi modelli, meno paesana, quasi irretita nei suoi presupposti culturali; e i codici miniati e le illustrazioni dipinte degli Exultet, soccorrendo la scarsità delle superstiti opere maggiori, valgono a mostrare che il bizantinismo - in Campania come in tutta Italia - era giunto a saturare di sé, stagnando, ogni espressione di pittura. Affinché l'arte pittorica campana si salvasse, e non morisse come organismo privato di vitalità, sarebbe stato necessario l'avvento d'un pittore che avesse avuto la levatura e la virtù risolutrice di Cimabue, di Cavallini o di Duccio. Tale pittore non ebbe la Campania; né, d'altra parte, ebbe scultore che risolvesse, superandolo, il dissidio fra schemi bizantini di composizione e intendimenti di plasticità. La scultura, attraverso meccaniche ripetizioni, traduceva le sue forme in formule abusate; e quando il goticismo s'infiltrò dovunque, essa non ebbe forze vitali sufficienti per una reazione o per una assimilazione. Tale decadimento subivano le arti figurative nel periodo duecentesco dell'epoca angioina; né la bellezza di isolate opere vale a smentire il fatale procedimento storico di quella decadenza. Solo l'architettura manteneva tuttora il suo rigoglio; e sono difatti da ascrivere al periodo angioino alcune tra le più caratteristiche testimonianze dell'architettura campana del Dugento; ma di poi non si ha più traccia o ricordo delle maestranze che diedero il loro lavoro a queste fabbriche. Quando Carlo d'Angiò provvide nel 1278 a fondazioni, fece ricorso ad architetti venuti di Provenza, così che, private d'esercizio in opere monumentali, le maestranze campane dovettero assottigliarsi e disgregarsi ed è agevole pensare che i loro elementi dispersi si esaurissero ed annullassero, dal punto di vista artistico, in pratica di fabbriche comuni.
Con la sua elezione a nuova metropoli del regno di Sicilia e con l'insediamento della corte angioina in Castelnuovo, Napoli divenne centro di tutte le attivita della politica e dell'arte (v. napoli); ma, per le sue dure vicissitudini politiche nel tempo dei Normanni e degli Svevi, nessuna città della Campania poteva apparire più inadatta a testimoniare il prestigio e la ricchezza della passata vita artistica della regione. I grandi pittori chiamati a Napoli per la decorazione delle nuove chiese (Pietro Cavallini, Simone Martini e Giotto), gli scultori chiamati ad elevar sepolcri per i principi angioini (Tino da Siena, Giovanni e Pacio da Firenze) parvero dominatori in un deserto. Cavallini, giunto a Napoli nel 1308, sarebbe stato più d'ogni altro adatto a raccogliere le residue forze disperse della pittura campana del Dugento tardo; ma i pittori che lavorarono con lui a Napoli furono certo elementi d'una maestranza romana, né s'hanno tracce d'una locale scuola cavalliniana nel tempo del re Roberto (1309-1343), benché le forme cavalliniane fossero poi imitate e parafrasate da sporadici pittori, in opere attardate del Trecento, e perfino in provinciali opere del Quattrocento, come a S. Angelo di Raviscanina presso Alife. Neppure s'ebbe, a Napoli, un seguito dell'arte di Giotto o di Simone; ma una parvenza di scuola s'andò determinando, durante il regno di Giovanna I (1343-1382), da una somma di prodotti eclettici, interpretazioni più o meno libere, spigliate e intelligenti (e spesso indipendenti tra di loro) dei modelli importati a Napoli durante il regno di Roberto. Ancor meno è possibile trattare d'una scuola di scultura locale; sì che alla fine del Trecento, e per oltre un ventennio del secolo seguente, il campo partenopeo fu preso in padronanza dai marmorari laziali che seguirono Antonio Baboccio da Piperno a Napoli. Durante il soggiorno napolitano di questi marmorari, un tipo di architettura civile ch'ebbe forse il più antico suo esemplare nel palazzo Penna a Napoli (1406), con portale ad arco scemo e finestre cruciformi, si propagò in ogni città della Campania fino alla seconda metà del Quattrocento. A Carinola, nella seconda metà del secolo, le finestre del palazzo Penna riappaiono, ma inghirlandate di quella fastosa ornamentazione vegetale e nastriforme che fu tipico elemento dell'architettura quattrocentesca catalana importata a Napoli da Guillen Sagrera, architetto della sala dei Baroni in Castelnuovo, e, come pare, dell'intera ricostruzione aragonese del castello. L'opera di quell'architetto e degli altri catalani che gli furono seguaci era compiuta appena, quando l'arte del Rinascimento penetrò d'improvviso nella reggia aragonese. Agli scultori, non napoletani, che, nella seconda metà del Quattrocento, decorarono l'arco trionfale in Castelnuovo, altri ne seguirono più tardi d'ogni parte d'Italia, e negli stessi decennî, fra il sec. XV e il XVI, una folla di pittori di provenienza varia, di variatissimo valore, fece capo a Napoli o si propagò per le città della Campania. Tutti costoro fanno apparire Napoli, nel tempo della Rinascita, come un porto di immigrazioni miste, un confuso mercato di merce svariatissima, non quale sede di prosperose attività tendenti a generare un organismo di cultura artistica e un clima propizio allo sviluppo di vigorie locali.
I rari pittori napoletani del sec. XV, dei quali conosciamo opere e nomi - Colantonio, Angelo Arcucci, particolarmente dominati da influssi catalani - non ci appaiono come centri di nuclei artistici vitali; e, nella prima metà del sec. XVI, Giovanni Donadio e Francesco di Palma nell'architettura, Giovanni da Mola e Gerolamo Santacroce nella scultura, Andrea da Salerno e Gio. Filippo Criscuolo nella pittura, figurano come esponenti di scuole artistiche rapidamente decadute. Nella seconda metà del secolo, Napoli continuò ad essere facile dominio-di artisti forestieri.
Per iniziale opera di architetti non napoletani (il Dosio, il Valeriani, il Cavagni, Domenico e Giulio Cesare Fontana) l'architettura barocca penetrò, si sviluppò nella città di Napoli nell'ultimo ventennio del sec. XVI; e, fino alla metà del Settecento, assai più che in edilizia laica, ebbe incessanti e prosperosi rigogli nelle numerose costruzioni di chiese nuove e nei numerosi rifacimenti delle chiese antiche. Pur operando con buona intelligenza delle nuove forme e dei loro possibili sviluppi, gli architetti napoletani non raggiunsero la levatura di quei primi maestri del Barocco e degli altri che nel corso del Seicento si seguirono, così che il bergamasco Cosimo Fansago s'impose a tutti con la sua multiforme attività. Dalle colorite decorazioni in marmo che il Dosio, nella Certosa di S. Martino, aveva affidato all'opera d'una maestranza carrarese, Cosimo Fansago trasse motivo per un tipo d'ornamentazione policroma di marmi misti, continuamente variata negli accostamenti e nelle alternanze dei colori, spesso arricchita con sculture decorative in marmo e in bardiglio. Con le numerose variazioni dei suoi fondamentali temi, questa ornamentazione fastosa, divenuta peculiare a Napoli, diede carattere alle chiese nuove, penetrò nelle chiese antiche a rinnovarle: e assai spesso valse a sminuire, nella smagliante ricchezza della sua policromia, la netta evidenza delle linee architettoniche e a trasformare le masse costruttive in elementi d'un vasto organismo pittorico. La decorazione a stucco, assai spesso enfatica e fastidiosa talvolta per apparato pretensioso di ricchezza falsa, che nel sec. XVIII s'aggiunse alle policromie marmoree o le sostituì, valse ad accrescere la sommessione delle forme costruttive agli elementi ornamentali. Furono esponenti di questa prevalenza, nella prima metà del Settecento, Domenico Antonio Vaccaro e Ferdinando Sanfelice, pittori e decoratori, oltre che architetti, ed entrambi discepoli del Solimena, maestro d'ogni arte e largo fornitore di idee e disegni architettonici ai costruttori del suo tempo. Ma la linea di svolgimento dell'architettura napoletana, ebbe un deviamento brusco e salutare a metà del sec. XVIII, per le opere eseguite o suggerite da Luigi Vanvitelli, che, riannodando i suoi concetti a forme architettoniche cinquecentesche, prevalentemente palladiane, ed innestando in esse semplificate espressioni del barocco, creava un tipo di strutture architettoniche novissimo, destinato a preparare il graduale avvento del neoclassicismo ottocentesco. Col Vanvitelli e poi con Ferdinando Fuga, recatosi anch'egli ad operare in Napoli, la saldezza delle masse costruttive riprese il sopravvento sulla decorazione architettonica. Il Vanvitelli diede la massima e conclusiva testimonianza del suo genio nel palazzo reale di Caserta, insuperata opera italiana del sec. XVIII e nuova culminante tappa, dopo l'avvento del Bernini, nella storia dell'architettura dell'epoca moderna. Per gli influssi che il Vanvitelli e il Fuga esercitarono, l'edilizia civile assunse aspetti più semplici e severi, non soltanto a Napoli ma in tutta la Campania, e specialmente a Capua. Il toscano Antonio Niccolini, che si recò ad operare in Napoli nella prima metà dell'Ottocento e che, nel prospetto nuovo del teatro S. Carlo, produsse opera di perfetto equilibrio e di perfetta grazia, fu l'ultima grande figura della storia architettonica napoletana; poiché davvero, nella produzione degli ultimi cent'anni, le sole forme che possano destare l'interessamento dei buoni intenditori son da cercare fuori di città, nei tipi d'architettura rusticȧna, che, soprattutto nei territorî dei golfi di Napoli e Salerno e nelle isole, appaiono elaborati su elementi d'origine orientale, importati senza dubbio fin dal Medioevo e ripetuti attraverso i secoli, di generazione in generazione.
Espressione massima della nuova vitalità che l'arte campana assumeva nell'epoca barocca, fu la scuola pittorica napoletana del Seicento, che, pur lavorando su dati culturali che furono comuni a tutta la pittura italiana seicentesca, seppe condurli a soluzioni nuovissime e sue proprie, attraverso i temperamenti vigorosi dei suoi maggiori artisti: Battistello Caracciolo, Bernardo Cavallino, Mattia Preti, lo Stanzione, Gio. Battista Ruoppolo, Luca Giordano. Con rinnovati spiriti, con rinnovate forme, la scuola pittorica napoletana si prolungò nel Settecento sotto la patriarcale maestria del Solimena; e fu centro vitale d'una larga unitaria fiorita delle arti del mobilio, degl'intagli di legname, dei ferri battuti, dei ricami, degli arazzi, delle porcellane, delle maioliche, delle figurette da presepe; e talune di queste arti furono strettamente connesse alle grazie, alle eleganze e al pittoresco delle architetture. L'arte lignaria diede bizzarrie di disegni ornamentali e finezze d'intagli alle roste dei portali; l'arte del ferro pose incurvate e fiorite ringhiere a quei caratteristici balconi napoletani di tradizione più volte secolare, che turbarono sempre le armonie degli spazi e delle linee nelle architetture delle case; e le maioliche, leggiadre di rabeschi e di colori, pavimentarono le case e le cappelle, colorirono sediali di giardini e pilastri di pergole fiorite (valga per tutti il mirabile giardino rustico nel chiostro delle Clarisse in S. Chiara di Napoli), e, portate in foggia di scaglie multicolori a rivestire gli estradossi delle cupole delle chiese, salienti su altissimi tamburi finestrati, rinnovarono nella Campania il gusto di quelle scintillanti policromie che la decorazione siculo-musulmana vi aveva introdotto nel secolo XIII.
La rivoluzione francese, e le complesse vicissitudini politiche che ne furon conseguenza nel regno delle Due Sicilie, concorsero al decadere delle industrie artistiche napoletane; e, tra di esse, soltanto l'arte dell'ammobigliamento casalingo si mantenne viva, nella prima metà dell'Ottocento, per influsso dello stile Impero e del mobilio inglese. La scuola pittorica napoletana, che già, nella seconda metà del Settecento, era stata inquinata da influssi accademici romani, di quei medesimi influssi si fece decisamente schiava; e fu solo verso il 1845 che, per reazione all'accademia, le antiche sue forze rinverdirono ed ebbero vigoria rinnovellata per gl'impulsi di Giacinto Gigante, di Filippo Palizzi, di Domenico Morelli e, più tardi, di Gioacchino Toma. Dal Seicento all'Ottocento, la scultura napoletana si tenne sempre ad un livello di molto inferiore a quello che la pittura raggiungeva nello stesso tempo; ma nella seconda metà del secolo passato, Napoli ebbe in Vincenzo Gemito uno scultore che seppe giungere a vera grandezza d'arte.
Bibl.: E. Bertaux, L'art dans l'Italie méridionale, Parigi 1904; P. Toesca, Storia dell'arte italiana: Il Medioevo, Torino 1927 (anche per la numerosa bibliografia di antecedente data); id., Reliquie d'arte della badia di S. Vincenzo al Volturno, in Bullettino dell'Istituto storico italiano, 1904; P. A. Bellucci, Monsignor Galante e i suoi contributi nel movimento archeologico, storico e letterario cristiano in Napoli negli ultimi cinquant'anni, Napoli 1925 (anche per la bibliografia); E. Lavagnino, I lavori di ripristino nella basilica di San Gennaro extra moenia a Napoli, in Boll. d'arte, VIII (1928-29), pp. 145-66; id., Osservazioni sulla topografia della catacomba di S. Gennaro a Napoli, ibid., IX (1929-30), pp. 337-54; per la bibl. sull'arte dal sec. XIV, in poi, v. napoli.