CANONE
. Il termine greco κανών (cfr. κάννα) che vale originariamente "canna" quindi "regolo", venne presto ad acquistare anche il valore di "regola", "norma", "principio", "esempio": in questo senso si parla del canone di Policleto per la pittura (Plinio, Nat. Hist., XXXIV, 8), di canoni delle arti in genere, di canoni grammaticali; e nello stesso senso gli scrittori cristiani parlarono del κανὼν τῆς πίστεως e del κανὼν τῆς ἀληϑείας, regula fidei, regula veritatis. Come i grammatici alessandrini avevano raccolto in un canone passi scelti di scrittori classici, così, in un senso affine sul quale influì anche l'altro concetto di conformità alla regola di fede, da essi derivata, furono detti canonici i libri sacri accolti universalmente dalla Chiesa come ispirati, in contrapposizione a quelli discussi (v. antilegomena) o agli apocrifi (v.). E il termine canone si adopera ora per estensione a indicare ogni complesso di scritture di valore analogo in qualsiasi religione, oltre la cristiana.
Ma il termine venne ad assumere anche altri significati: quello di tributo ordinario e fisso, per cui anche oggi si parla, p. es., di canoni enfiteutici (v. enfiteusi); di catalogo, in generale, e particolarmente di martiri e santi, onde l'inclusione in esso, cioè il riconoscimento della santità di un servus Dei, è detto canonizzazione: di "misura fissa", per cui si parla di canone pasquale (ciclo degli anni per la determinazione della ricorrenza della Pasqua); di testi, specialmente liturgici, letti regolarmente (canone della Messa [v.], le preghiere dette dal sacerdote dopo il Prefazio e fino alla comunione); di regola, in senso più determinatamente giuridico, per cui si parla di diritto canonico e di casa, o età, canonica; ecc.
I canoni letterarî.
Il nome di canone suole essere dato a una scelta che già i grandi grammatici alessandrini Aristofane di Bisanzio (v.) e Aristarco (v.) avrebbero fatto tra gli scrittori greci antichi a loro pervenuti. A tale scelta ha dato per la prima volta il debito rilievo D. Ruhnken per gli oratori, per i quali per vero le testimonianze sono ben più tarde del periodo ellenistico: le sue ricerche sono state proseguite nel sec. XIX specie da H. Usener. Il Wilamowitz ha negato invece che tali scelte ci siano state in tempo alessandrino e ha considerato i cosiddetti canoni come cataloghi di quello che della letteratura più antica si era salvato in periodo ellenistico, che era in altre parole giunto nella biblioteca alessandrina. Che cataloghi di tal genere siano esistiti già in era ellenistica, non si dubita; e uno ne conserva un papiro del sec. II a. C. Ma d'altra parte la tradizione intorno a scelte alessandrine è almeno in Quintiliano molto determinata e precisa: in un luogo (I, 4,3) egli parla, genericamente ma abbastanza chiaramente, di autori in ordinem redacti e di altri omnino exempti numero dagli antichi grammatici; in un altro (X, 1, 59) attesta che Aristarco aveva accettato (recipere) solo tre giambografi, Archiloco, Semonide, Ipponatte: questa era senza dubbio una scelta, perché mancano almeno Anania e Scitino, che certo non potevano essere periti nel sec. III. Del pari Quintiliano c'informa (X, 1,54) che Aristarco e Aristofane non avevano compreso Apollonio Rodio nella loro lista, perché questa non comprendeva contemporanei. A queste asserzioni non è facile negar fede, tanto più che certo variare di nomi nelle liste conviene più a scelte, mutabili secondo i gusti, che a una catalogazione di materiale superstite: Corinna (v.) è talvolta aggiunta come decima ai nove lirici; ed essa non era certo scomparsa fin dal tempo ellenistico.
Di età quasi certamente postalessandrina è solo il canone dei dieci oratori, anch'esso una scelta. La fonte comune a Plinio e Dionisio di Alicarnasso ne conosceva solo 6; 10 ne aveva Cecilio di Calatte ma non si vede chiaro se siano proprio i dieci delle liste più tarde. Canoni, cioè liste di autori da leggersi in servigio della cultura, continuarono a mettere insieme i retori del periodo romano secondo il loro gusto e i bisogni della scuola, sempre più bassi man mano che la cultura decadeva; a noi sono conservati, oltre che nelle opere di quei retori, anche, e più, in rubrichette speciali di manoscritti scolastici bizantini.
Bibl.: Sulla questione dei canoni alessandrini, fondamentale, dopo il Ruhnken, Historia critica oratorum graecorum, Lidia 1768, p. xciv segg., H. Usener, Dionysii Halicarnassensis librorum de imitatione reliquiae, Bonn 1889, p. 120 segg.; in senso contrario, U. v. Wilamowitz, Textgeschichte der griech. Lyriker, Berlino 1900, p. 63 segg. Per gli oratori in particolare: P. Hartmann, De Canone decem oratorum, Gottinga 1891. Il materiale posteriore (importante tra esso il cosiddetto laterculus Coislinianus) è raccolto con diligenza da Kröhnert, Canonesne poetarum, scriptorum, artificum per antiquitatem fuerint, Königsberg, 1897. Il papiro del sec. II a. C. (Diels, Laterculi alexandrini, in Abhandlungen der Berliner Akademie, 1904) appartiene invece al genere catalogico.
Canoni artistici.
Il canone nell'arte antica. - Le proporzioni (ξυμμετρίαι, άναλογίαι, proportiones) elevate a sistema (Vitr., III,1) sono già il canone, anche se non vanno sotto questo nome, e la loro formulazione avviene a perfezione artistica già conseguita, o ritenuta conseguita, cioè al momento in cui dalla creazione del genio si passa al modello accademico, dall'intuizione alla regola.
Per quanto riguarda l'architettura, l'arte egiziana non seguì alcun canone. Non così l'arte greca, per la quale, a non parlare dei trattati, di carattere relativo, scritti dagli architetti sugli edifizî da loro costruiti, come quello di Ictino e Carpione sul Partenone (Vitr., VII, praef., 12), si ha notizia di un'opera di Filone sulle symmetriae dei templi in genere, e, in particolare, d'un'opera di Sileno su quelle del tempio dorico e d'un'altra di Arcesio per il tempio corintio (Vitr., ibid.). L'unità di proporzione, cioè il modulo (modulus, ἐμβάτης: Vitr., IV, 3 ,3), era costituita dal diametro inferiore della colonna, o, per l'ordine dorico, dal triglifo, cioè dal semidiametro (Vitr., I, 2,4; Plin., Nat. Hist., XXXVI, 56): sulla base d'essa, con multipli e sottomultipli, si determinava la misura d'ogni membro architettonico (Vitr., III, 5; IV, 1, 3).
Quanto alla scultura, che gli Egiziani abbiano conosciuto e applicato un loro canone, basato sopra una proporzione numerica, ci è noto da un passo di Diodoro (I, 98, 5-7), nel quale è detto che la figura umana veniva ripartita in 21 parti e 1/4. Al contrario, non si conserva alcuna statua egiziana che sicuramente se ne possa ritenere un'applicazione. È incerto se l'unità di misura adottata fosse costituita dalla lunghezza del piede o da quella del dito medio, e se i canoni fossero più di uno come sembrerebbe dimostrare la pluralità dei modelli, riferibili a un rapporto matematico, che a tutt'oggi si conoscono della plastica egiziana.
Dove invece la parola canone trova la sua applicazione per eccellenza è nell'arte di Policleto. Infatti così fu intitolata la sua opera sulle leggi della simmetria della figura umana, e così si chiamò la statua del Doriforo, con la quale egli esemplificò il suo ideale plastico (Galen., De plac. Hipp. et Plat., 5; Lucian., De salt., 75; De morte peregr., 9; Plin., Nat. Hist., XXXIV, 55), prendendo come modulo, secondo Galeno (op. cit.), la lunghezza del dito che, moltiplicata per quattro, dava quella della mano e via via per varî multipli determinava la figura intera. A differenza di quello che sarebbero state più tardi con Lisippo, cioè slanciate e di testa piccola (Plinio, Nat. Hist., XXXIV, 65), le figure di Policleto erano quadrate (Plinio, ibid., 56) e salde (Cels., II,1), e se Luciano (loc. cit.) le ammirava, era perché vi trovava la misura perfetta del corpo umano. Infatti Policleto non aveva creato il suo canone sul fondamento d'una misura estranea al corpo umano, bensì sopra un rapporto intrinseco ed armonico. Fu così che anche alcuni pittori presero a modello il canone di Policleto (Quint., Inst. Or., V, 12, 21; Cic., Brut., LXXXVI, 296), e tutta la lunga esperienza degli artisti d'Argo, assommando i tentativi e le conquiste anteriori in un modello di virile bellezza e di sapiente costruzione, si compose e si delineò in quel canone, di cui la copia migliore, il Doriforo del museo di Napoli, ci dà una viva immagine. Il rapporto della testa al corpo, consistente in 1/8, quale è indicato da Vitruvio (III, 1, 57), parrebbe tuttavia non convenire al canone policleteo, ma corrispondere invece al tipo preferito da Lisippo, il quale, pur avendo dato alle sue statue nuovo ritmo e nuove proporzioni, non propose o dettò alcun canone. Per la pittura, ci offre l'indizio di speciali canoni la notizia secondo la quale Eufranore, Parrasio ed Apelle scrissero delle regole di proporzione cui si attennero nel dipingere (Plin., Nat. Hist., XXXV, 79 e ind. auct., XXXV).
Nell'arte bizantina, il famoso manuale del monaco Dionisio da Furna, che conteneva le secolari norme, rigidamente applicate nell'esecuzione a mosaico o a fresco delle figure e nell'ordine della composizione, non è da considerarsi come un vero canone, giacché non è un sistema di proporzioni, ma una guida pratica, e non vi si tratta di figure nude, ma panneggiate.
Bibl.: Daremberg e Saglio, Diction. des ant. grecq. et rom., s. v. e s. v. Columna; F. W. G. Foat, in Journ. hell. Stud., XXXV (1915), pp. 225-259, tavole VII-IX; G. Perrot e Ch. Chipiez, Hist. de l'art dans l'ant., I, Parigi 1882, pp. 103, 765-769, 774; A. Della Seta, Il nudo nell'arte, Roma-Milano 1930, I, pp. 416-419; Ch. Diehl, Man. d'art byzantin, Parigi 1910, pp. 774-775.
Il canone nell'arte cristiana. - Numero, peso e misura permangono elementi di bellezza nell'estetica cristiana, come erano stati nella platonica, e l'uso di un canone umano continuò nell'arte cristiana, pur con divarî profondi dall'antico. Il canone geometrico è nella scultura romanica determinato dagli spazî architettonici in cui la figura umana è costretta: si ritrova nei disegni di Villard di Honnecourt (sec. XIII); fu ricomposto dal Rinascimento, riducendo le forme umane a un complesso di corpi solidi, semplici, soggetti alla norma prospettica (L. Pacioli). Leonardo si dilettò in queste ricerche, come provano i numerosi suoi disegni.
Un punto assai interessante, in cui il Rinascimento si levò a confutare l'antichità classica, è l'inscrizione della figura umana entro un cerchio e un quadrato. Vitruvio aveva scritto (III, I): "Il centro del corpo è naturalmente all'ombilico. Se un uomo è coricato con mani e piedi aperti e distesi, e, posto il centro del compasso al suo ombilico, si descrive un cerchio, questo toccherà l'estremo delle dita delle mani e dei piedi: e come il corpo così disteso può essere inscritto in un cerchio, si troverà che parimenti può essere inscritto in un quadrato. Se misuriamo infatti la distanza che v'è dall'estremità dei piedi a quella della testa, e la si confronta con quella tra le mani stesse, si troveranno uguali la lunghezza e la larghezza, a somiglianza di un quadrato fatto a squadra (quemadmodum areae, quae ad normam sunt quadratae)". Questa affermazione non ritrovò chi la confutasse, sino al Ghiberti, il quale notò che l'uomo non può tanto aprire le gambe, da toccare il cerchio circoscritto.
Leonardo corregge definitivamente l'errore vitruviano col noto disegno del Cod. ven. 121, n.1, pubblicato da fra Giocondo nelle sue edizioni di Vitruvio (Venezia 1511-Firenze 1513), e dal Cesariano. Il disegno è così commentato: "Se tu apri tanto le gambe che tu cali da capo 1/14 di tua altezza e apri e alzi tanto le braccia che colle lunghe dita tu tocchi la linia della sommità del capo, sappi che il cientro delle stremità delle aperte membra fia il bellico, e lo spatio che si trova in fra le gambe fia triangolo equilatero" (v. vol. III, tav. XIX, p. 128).
Anche il Durer si compiace d'inscrivere le parti del corpo umano entro una combinazione di parallelepipedi retti e scaleni. La teoria del canone geometrico risorse nella seconda metà del sec. XIX per opera del pittore tedesco Peter Lenz, poi benedettino a Beuron col nome di don Desiderio, e capo di quella scuola d'arte monastica. Il Lenz usava inscrivere nel volto una stella a sei punte, formata da tre triangoli equilateri; i Beuroniani estesero il canone anche a diversi casi di scorcio pittorico e il Verkade lo applicò alla scultura e all'architettura, in quanto subordinate a particolari punti di vista.
La ricerca della proporzione col sistema del modulo non intende semplificare razionalmente la figura umana, ma scoprirne le armonie numeriche, che di rado si assommano in un solo esempio, e devono essere ricercate, al modo degli antichi "in più corpi belli". In genere, si parte dalla divisione ternaria del volto, data da Vitruvio; ma il modo di portare la misura sulle parti del corpo varia indefinitamente. È verosimile che l'uso di misurare la figura con un modulo esprimibile in rapporti aritmetici, non sia mai venuto meno nell'arte greca, dall'età classica alla bizantina. La guida del monte Athos, pubblicata dal Didron (1845), prescrive che l'artista debba da principio disegnare semplicemente e senza misure, poi "dette le preghiere alla Vergine Odigitria, passerà ad imparare le proporzioni del corpo umano". Le quali ricordano il canone vitruviano nelle tre parti del volto, ma si complicano con minuzie che possono convenire soltanto alla fissità del Bizantino: "il corpo dell'uomo ha nove teste di altezza, vale a dire nove misure dalla fronte al tallone. Fate la prima misura divisibile in tre parti: la fronte per la prima, il naso per la seconda, la barba per la terza. Fate i capelli fuori misura per la lunghezza di un naso. Dividete di nuovo in tre parti lo spazio compreso fra la barba e il naso: il mento è per due misure, la bocca per una, e la gola vale un naso", ecc. Nell'Occidente l'uso del canone è documentato dalle pitture, dove, a parità di altezza, costanti sono i rapporti fra le parti della figura. Notevole è la differenza fra il canone medio della pittura e quello della scultura. Ma il pittore dà figure atticciate e megalocefale come lo scultore; e la differenza, oltre che per la diversa materia artistica, può spiegarsi col fatto che i pittori usavano a preferenza il sistema dei moduli, mentre gli scultori il metodo geometrico. Il Didron nota che nella pittura romanica le figure hanno 9 teste d'altezza, nel sec. XIII 8 1/2, e , nel sec. XIV e XV 7 1/2, con un ritorno, cioè, dalla misura bizantina alla misura vitruviana. Né è fortuita la coincidenza, poiché il canone vitruviano è ricordato da Vincenzo di Beauvais nel suo Speculum. Giotto dà proporzioni allungatissime ad Assisi, ma giunge nell'Arena ad una misura media. Alla tradizione dell'insegnamento giottesco sembra riferitsi Cennino Cennini nel suo Libro dell'arte (LXX).
Il Ghiberti ci dà nei suoi Commentarî misure diverse dal Cennini, con un eccessivo allungamento della figura (9 teste e mezzo). Nel De statua l'Alberti diede una regola per misurare le opere di statuaria, ed egli stesso tentò di comporre un canone di proporzioni della figura umana, misurata sulla base di un regolo alto quanto la persona, diviso in sei piedi, e ciascun piede in 10 once e ciascuna oncia in 10 minuti. Leonardo, nel Trattato sulle proporzioni, composto per la maggior parte a Milano, fra il 1490 e il 1500 (secondo Luca Pacioli era compiuto nell'anno 1498) e ripreso fra il 1513-14, considera che l'altezza media umana sia di tre braccia, ma ad eliminare possibilità di errore, anch'egli suggerisce di valersi di più modelli: "sopra uno di quelli di migliore gratia, piglia tue misure".
Le ricerche leonardesche sulle proporzioni tengono conto delle diverse età dell'uomo, della stasi e dei moti. Fra le principali misure, desunte dalle note sparse, si può rammentare l'altezza dell'uomo uguagliata a 9 volte la lunghezza della mano, quella del viso a 3 volte lo spazio dal mento al principio del naso, oppure a due volte lo spazio da mezzo il naso a sotto il mento. Queste misurazioni estese dall'uomo agli animali e alle piante, si staccarono dal metodo tradizionale, che considerava soprattutto la lunghezza del corpo umano in rapporto a un modulo, per indagare tutti i rapporti del corpo in lunghezza e larghezza, secondo assi verticali ed obliqui. Anche Leonardo, come l'Alberti, prevenne la scienza antropometrica scendendo alla definizione dei tipi singoli, i quali vengono considerati tuttavia come il prodotto di varie leggi cospiranti, e perciò non escono dal concetto di norma ideale, proprio del Rinascimento.
Per il Gaurico, che scrisse il suo Dialogo in ambiente padovano, nella prima metà del '500, vi è una simmetria del corpo, misurata in lunghezza, altezza e profondità, come una simmetria nei lineamenti. La faccia, posta dalla natura in luogo eminente, è l'unità di misura per eccellenza. Nove facce dànno la statura del corpo umano, ma eccezionalmente se ne prendono anche otto o sette. Nei fanciulli la misura è di quattro facce. Il Rinascimento tedesco, ricercatore del caratteristico, più che del bello ideale, procedette in modo inverso all'Alberti: invece di sintetizzare le ricerche in un ideale unico, le moltiplicò secondo la varietà dei tipi.
Dal suo viaggio in Italia il Dürer riportò una quantità di osservazioni, che sul finir della vita volle raccogliere ed offrire ai giovani in un libro intitolato: Della simmetria del corpo umano (trad. di G. P. Gallucci, Venezia 1591). Egli estese la misurazione ai diversi tipi di uomo, di donna e di bambini; ai magri come agli obesi; agli atticciati come agli svelti. Nota che la donna deve essere tenuta di 1/8 più piccola dell'uomo, affinché non sembri maggiore, a cagione delle forme tondeggianti. Insegna a fare i trasporti necessari per allungare o abbreviare il viso umano; analizza il volto camuso, retto, rotondo, inclinato, in alto o in basso. Persino le deformità da cui la pittura tedesca non rifugge, sono studiate a rigore di canone: le proporzioni dei Negri vengono considerate in rapporto con quelle degli Europei, affermando la relatività del tipo umano ai climi e ai tempi. Non è sperabile di giungere a un canone di assoluta indiscutibile bellezza, ma si può sempre ideare, egli dice, una forma umana più perfetta. La coscienza che le regole sono fatte per essere violate si fa strada nel maturo Rinascimento, e sembra essere stata l'opinione di Michelangelo, quando diceva doversi avere le seste nel cervello e non nelle mani. Sappiamo dal Condivi che il Buonarroti aveva pure in animo di comporre un trattato di anatomia, al quale, secondo l'uso dei tempi, non avrebbe potuto mancare il capitolo sulle proporzioni. Egli mirava specialmente alla variazione dei moti. Quale fosse però l'ingegnosa teorica, da lui ritrovata per trattare le "maniere dei moti umani e apparenze", non possiamo oggi arguire, poiché il Condivi non mantenne la promessa di tramandarcela.
Sotto l'ispirazione michelangiolesca si accinse a scrivere anche il Danti, scultore perugino. Egli si mostra scettico riguardo alla possibilità di un canone umano, dato che il corpo è "dal suo principio al suo fine" mobile; nega che si possa misurare esattamente il corpo umano: nega infine che a comporre la perfetta bellezza "giovi servirsi di diversi huomini". Si riprometteva di riscontrare le sue regole sulle opere del Buonarroti, ma non riuscì, a lui non più che al Condivi, di fissare quella dottrina, che sarebbe ora per noi inestimabilmente preziosa. Non ne dà alcuna eco il Vasari, nell'Introduzione alla scultura.
Costumasi per molti artefici fare la figura di nove teste: la quale viene partita in otto teste tutta, eccetto la gola, il collo e l'altezza del piede, che con queste torna nove: perché due sono gli stinchi: due dalle ginocchia a' membri genitali; e tre il torso siano alla fontanella della gola, ed un'altra dal mento all'ultimo della fronte, ed una ne fanno la gola e quella parte ch'è dal dosso del piede alla pianta: che sono nove. Le braccia vengono appiccate alle spalle: e dalla fontanella all'appiccatura da ogni banda è una testa; ed esse braccia sino alla appiccatura delle mani sono tre teste: ed allargandosi l'uomo con le braccia, apre appunto tanto quanto egli è alto. Ma non si deve usare altia miglioi misura che il giudicio dell'occhio: il quale, sebbene una cosa sarà benissimo misurata ed egli ne rimanga offeso, non resterà per questo di biasimarla. Però diciamo che sebbene la misura è una retta moderazione, da ringrandire le figure talmente che le altezze e le larghezze, servato l'ordine, facciano l'opera proporzionata e graziosa: l'occhio nondimeno ha poi con il giudicio a levare e ad aggiungere secondo che vedrà la disgrazia dell'opera; talmente che le dia giustamente proporzione, grazia, disegno e perfezione...".
Nei commentatori di Vitruvio e nei trattatisti d'arte (Dolce, Pini, Borghini, Armenini) si ritrovano formulati, con varianti, i canoni di proporzione; il Lomazzo li complica con il concetto di convenienza, variandoli secondo i soggetti, con regole fantastiche. Nel vocabolario del Baldinucci la proporzione è definita come una "convenienza dei membri". La convinzione di possedere nel canone una guida esatta e sicura per la retta proporzione del corpo umano ha ormai abbandonato il teorico d'arte, il quale non misura più ma descrive, confondendo platonicamente la bellezza fisica con la bellezza morale.
Fra gli stranieri che formularono canoni sull'esempio degli Italiani sono da annoverarsi, oltre il Dürer, il Cousin, il Geoffroy, e il Tory. Le teorie del Dürer, tradotte in italiano, si propagarono nel Portogallo per opera di Juan de Arphe y Villafañe, celebre orefice, detto il Cellini della Spagna, che si occupò di anatomia e di proporzioni nella sua opera in versi e in prosa Varia Commensuracion. Egli disegna una figura alta dieci facce, e, col medesimo sistema di linee del Dürer, ne traccia i rapporti. Modifica le norme di Vitruvio, dando al corpo 31 lunghezze di naso, in luogo di 30, in modo da avere la misura di 7 teste e 1/4.
Jean Cousin proseguì le ricerche sulle proporzioni del fanciullo iniziate da Leonardo. Nel sec. XVII, il De Piles, compilando ancora dagli autori del Rinascimento, prendeva ad unità di misura, oltre la faccia, la lunghezza del naso, come i bizantini.
La ricerca delle proporzioni rifiorì nel sec. XVIII con gli studî archeologici. Gerolamo Audran scrisse un trattato nel quale studiò le proporzioni del corpo umano, desunte dalle statue antiche. Il Winckelmann separa il concetto di proporzione da quello di bellezza, e nota le violazioni al canone, fatte dagli antichi. In genere, però, il Winckelmann si dimostra scettico quanto all'utilità del canone: "le ricerche aritmetiche sono per la pratica del disegno come la scuola di scherma per battersi in una battaglia campale, cioè di nessun uso".
Il Watelet, autore della voce Proportions nella Enciclopédie méthodique, si augurava che lo studio venisse esteso a tutti i capolavori della statuaria, mettendo le misure così raccolte in confronto con quelle dei teorici del Rinascimento. Ma tale lavoro, degno della mente del Goethe, non fu compiuto. In genere, nella ricerca dei moderni (Jacques, de Wit e Sauvage) l'unità di misura diviene la lunghezza del naso. Si divide il volto in tre parti, al solito modo. Esso misura tre lunghezze di naso. Il corpo umano viene poi diviso come segue:
Dal sommo del cranio sino alla radice dei capelli, un terzo di faccia o un naso: dalla radice dei capelli fino all'estremità del mento, tre nasi o una faccia. Dal mento sino alla fossetta della gola, tra le clavicole, due terzi di faccia o due nasi. Dalla fossetta del collo alla base dei pettorali, una faccia, dai pettorali all'ombelico, una faccia: dal pube al disotto del ginocchio, due facce. Il ginocchio comprende una mezza faccia; dal basso del ginocchio al collo del piede due facce; dal collo del piede al suolo una mezza faccia.
Totale, 10 facce o trenta lunghezze di naso, che corrispondono a sette teste e mezzo; la misura antica. Secondo questi autori, la taglia media della donna è più piccola di 1/22 di quella dell'uomo: in ragione di 168 centimetri a 176. Il viso è più corto di 1/10 e siccome lo spazio fra gli occhi è costante, l'ovale è nella donna più rotondo che nell'uomo. Le coste sono più strette di 1/11 e le spalle di 1/30: i vertici dei seni essendo meno scostati, formano con la fossetta della gola un triangolo equilatero. La metà della figura, invece che all'osso del pube è alla piega del basso ventre: onde le gambe sono più corte in rapporto al torso. Il bacino è più largo di 1/35. La mano è di 1/9 più grande che nell'uomo.
Mosso dall'osservazione del Martinez, che solo le ossa della mano crescano sempre nella stessa proporzione, conservando con la lunghezza del corpo un rapporto invariabile, Charles Blanc ritrovò nella misura del dito medio diritto, quando la mano è tesa, il modulo per la figura umana, già usato dagli antichi Egizî. Lo Schadow di Düsseldorf, nel suo Polycletus, stabilisce la proporzione del piede in ragione di 10 a 66 e non di 10 a 60, come in Vitruvio. Ne risulta uno scarto di 15 cm. nell'altezza totale (cfr. il De Arphe). Schadow prese ad unità di misura il piede del Reno, mentre Paillot de Montabert e Horace Vernet usarono il metro, aprendo la via al metodo antropologico. Quella passione di armonia, che aveva guidato gli artisti del Rinascimento nella ricerca del canone, più non esiste quando l'arte, come la scienza, si volge alla pura e semplice analisi del vero. Il canone dell'antropologo si fonda sulla media delle misure umane. Obietto della ricerca non è il bello, ma il tipo, che il Littré definisce "immagine norma di altre immagini simili" e il Cuvier un "insieme di caratteri fisici distintivi, appartenenti alla maggioranza dei corpi naturali, compiesi in un gruppo". Ecco il canone del Topinard, riportato dal Duhousset:
Ma ormai l'artista più non si cura di questi dati, rivolto unicamente al simbolo e al caratteristico, anche se deforme. Nelle arti extra-europee il canone umano fu oggetto di studio presso i Cinesi e i Giapponesi. In un libro di schizzi di Keisai Kitao (pittore della fine del sec. XVIII) è una figura misurata secondo un canone, che ricorda il leonardesco:
Anche per gli animali e specie per il cavallo si fecero ricerche di proporzioni. Fra gli schizzi di Leonardo ve n' ha uno in cui un cavallo è iscritto in un rettangolo e con altri minori parallelogrammi ne sono misurate le concavità.
Modernamente il Duhousset stabilì un canone ippico.
Bibl.: J. de Arphe y Villafañe, Varia Commensuracion para la escultura y arquitectura, Siviglia 1585; A. Dürer, Della simmetria dei corpi umani, trad. G. P. Gallucci, Venezia 1591; J. Audran, Les proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures de l'antiquité, Parigi 1683; Ch. Martinez, Nouvelles figures de proportions et d'anatomie du corps humain, Parigi 1689; Watelet, in Encyclopédie méthodique, s. v. Proportions; J. J. Winckelmann, Storia delle arti del disegno presso gli antichi, trad. Fea, Roma 1783-94; N. Danti, Il primo libro del trattato delle perfette proporzioni, Perugia 1830; G. P. Lomazzo, Trattato dell'arte della pittura, scultura, architettura, Roma 1844; Ch. Blanc, Grammaire historique des arts du dessin, in Gaz. des beaux-arts, I (1860), pp. 9-16, 129-42, 321-31; II, pp. 193-211; J. P. Richter, Scritti letterari di Leonardo da Vinci, Londra 1883; L. Pacioli, De divina proportione, ed. E. Weinterberger, Vienna 1889; E. Duhousset, Proportions artistiques et anthropométrie scientifique, in Gaz. des beaux-arts, I (1860), pp. 59-73; II, pp.167-79; E. Brücke, Bellezza e difetti del corpo umano, trad. Perrod, Torino 1898; J. Krestmeier, Beuroner Kunst. Eine Ausdrucksform d. christl. Mystik, Friburgo in B. 1923; P. Desiderius Lenz, Zur sthetik d. Beuroner Schule, Beuron 1927.
Il canone musicale.
In musica canone significa oggi imitazione rigorosa in cui due o più voci o parti strumentali eseguono una stessa linea melodica, principiando l'una dopo l'altra a dati intervalli di tempo.
Quando le varie voci o parti ripetono la melodia stessa all'unisono oppure a una 2a o una 3a, ecc., sopra o sotto la prima voce, il canone si dice all'unisono, alla 2a, alla 3a, ecc., sopra o sotto. Se tutte le voci si mantengono in canone proprio sino alla fine, così che, volendo, si possa ricominciare il pezzo, il canone si dice infinito o perpetuo o circolare (e intorno al 1400, veniva anche scritto a cerchio). Spesso invece le voci si raggiungono in una chiusa o coda non canonica, che anticamente veniva indicata a parte o distinta con un segno. Se le varie voci, imitandosi, invertono gl'intervalli, così da fare l'una salendo quelli che l'altra fa scendendo e viceversa, ha luogo il canone all'inverso o per moto contrario. Il seguente esempio è tolto dal Gradus ad Parnassum del Clementi, ed è un canone infinito, per moto contrario e per giusti intervalli.
Se una delle voci deve leggere le note cominciando dall'ultima e andando a ritroso, il canone si dice retrogrado o cancrizzante. Se poi una delle voci deve leggere le note rovesciate, come leggendole in uno specchio il canone si dice appunto a specchio. Talvolta, mentre alcune voci o parti procedono in canone, un'altra fa sentire un canto fermo o un corale, o più spesso altre voci procedono liberamente o con semplici imitazioni di motivi. Se qualche voce deve moltiplicare o dividere i valori scritti, allora ha luogo il canone per aumentazione o per diminuzione, e in genere il canone proporzionale, p. es. G. S. Bach, Variazioni canoniche sul corale "Vom Himmel hoch da komm ich her", N. 4:
Anticamente i canoni si scrivevano con una sola riga di note, che veniva letta dalle varie voci, successivamente e in maniera, come si è detto, variabile. Ecco, p. es., l'inizio del Benedictus della Messa L'homme armé (canone all'8ª per augmentationem, con corale al basso), di Josquin Després:
La maniera di leggere quell'unica parte era indicata con una frase a indovinello detta canone enigmatico. Nell'esempio citato l'enigma è assai trasparente: duo in unum, ma non mancano saggi abbastanza oscuri. ll pezzo che oggi si dice canone, una volta si diceva rota, caccia, fuga, conseguenza. Dal canone è nato lo stile a imitazione con le forme: mottetto, canzon francese, ricercare, fantasia, che maturarono nella fuga tra la metà del '600 e il '700; e i temmini dux e comes, che passarono poi nella fuga, vengono appunto dal canone medievale.
Il canone è la forma più antica d'imitazione e se ne hanno saggi notevoli già nel 1200. Nel secolo successivo passò dalla musica popolaresca a quella più propriamente artistica (p. es. la caccia era un vero canone all'unisono). Il massimo sviluppo venne raggiunto nel Rinascimento con la scuola franco-fiamminga; ma anche dopo il canone continuò a venir praticato, e se ne trovano continuamente anche nelle messe del Palestrina; più tardi, sono frequenti nei corali figurati per organo, nelle opere vocali e in quelle strumentali di Bach. Così anche in L'offerta musicale dello stesso Bach si trova una stupenda collezione di canoni, fra cui alcuni retrogradi e a specchio. Continuato nel sec. XIX, il canone vive ancora nel XX, specialmente nei paesi tedeschi.
Bibl.: Oltre i trattati di contrappunto, che illustrano la tecnica del canone, v. O. Klauwell, Die historische Entwicklung des musikalischen Kanons, Lipsia 1875; F. Jöde, Der Kanon, 1925.
Canoni di scritture sacre.
Una delle più antiche classificazioni delle religioni è quella che si trova nel Corano (Sūr. 22,9, ecc.) fra "le religioni del libro", considerate come le più elevate (per il Corano il giudaismo, il cristianesimo e, in grado secondario, il parsismo), e le religioni prive di testi sacri. È un fatto che, non solo le popolazioni di civiltà inferiore, ma anche molti popoli civili del mondo antico, come i Greci, i Romani, gli Egizî, i Babilonesi, ebbero religioni prive di ogni scrittura di carattere canonico. Ebbero bensì una più o meno abbondante letteratura per varî rispetti attinente al mondo della religione; ma né l'Iliade (impropriamente talvolta designata come la Bibbia dei Greci), né i libri Sibyllini (di origine greca) presso i Romani, né i libri della etrusca disciplina (distinti in libri fulgurales, haruspicini, rituales) presso gli Etruschi, né il Libro dei morti presso gli Egizî, né i molti testi narrativi, magico-liturgici, ecc., dei Babilonesi e Assiri, né l'Edda dei Germani: nessuno di questi testi, di contenuto diversissimo (mitologico, escatologico, divinatorio, ecc.), può dirsi un testo canonico nel senso proprio e specifico della parola. La massima approssimazione al possesso di un testo di carattere canonico nell'antichità classica si ebbe, se mai, nell'Orfismo (cfr. Eurip., Alc., 967, Hippol., 954; Plat., De rep., 364 e, βίβλων δέ ὅμαδον. . . . 'Ορϕέως), in quelle supponibili composizioni donde eventualmente furon presi i brani di contenuto escatologico riprodotti sulle laminette auree di Thurii, Petelia, ecc.
Shintoismo. - L'antica religione nazionale giapponese, lo shinioismo, possiede certi suoi testi fondamentali, alcuni di contenuto narrativo (il Kojiki e il Nihongi), altri di contenuto liturgico (Engishiki). Il Kojiki (memorie degli avvenimenti dell'antichità) è un'opera in 3 libri, composta nel 712 d. C. da un tale Yasumaro e consistente in una cronaca del Giappone dalle origini sino al 628 d. C.; il libro I comprende la storia mitica e divina, cioè le vicende delle varie generazioni degli dei sino alla costituzione dell'impero giapponese sotto il primo (leggendario) imperatore Jimmu-Tennō (660-585 a. C.). Il Nihongi (Annali del Giappone), in 30 libri, composto dal principe Toneri e da altri collaboratori nel 720 a. C., è una cronaca ufficiale che arriva sino all'anno 697 a. C. e abbraccia nei primi due libri (insieme designati come Jindaiki: Notizie dell'epoca degli dei) la stessa materia del libro I del Kojiki. L'Englishiki (Cerimoniale dell'epoca Engi) è una vastissima raccolta in 50 libri di regole e norme cerimoniali, composta nel periodo Engi (901-923) e ultimata e resa pubblica nel 927 d. C.; i primi 10 libri contengono il cerimoniale del culto, e l'8° precisamente i 27 norito o testi liturgici da recitare nelle varie celebrazioni shintoistiche. I tre libri suddetti, per la origine loro, per lo spirito in cui furono composti, non hanno nulla di specificamente religioso ed appartengono piuttosto alla letteratura profana. Quanto esuli p. es. dal Nihongi ogni considerazione e preoccupazione religiosa risulta specialmente dal fatto che i compilatori di questo testo fondamentale dello shintoismo erano personalmente aderenti al buddhismo; infatti vi sono raccontati, a partire dal libro XIX, l'introduzione (552 d. C.) e i primi progressi del buddhismo (a danno dello shintoismo). Si aggiunge che Kojiki e Nihongi furono scritti originariamente in caratteri cinesi e furono anche letti per la massima parte in cinese (sino-giapponese), come anche fu la storiografia cinese a fornire i modelli letterarî.
Nonostante tutto questo, il Kojiki e il Nihongi come documenti, nei loro primi libri (il I del Kojiki e i primi due del Nihongi sono designati complessivamente come "i tre libri principali" sambuhonshō), della genuina tradizione shintoistica e della religione nazionale del popolo giapponese, e dal canto suo l'Engishiki come fondamento, nei primi 10 libri, della prassi liturgica shintoistica, assunsero in progresso di tempo, non senza il concorso di particolari vicende della storia giapponese, una tale importanza e un tale valore per la vita della nazione, e particolarmente anche per la sua vita religiosa, che, nonostante la loro origine profana, finirono per essere, come sono tuttora, venerati e presi per norma, non ineno delle scritture sacre di altre religioni.
Confucianesimo. - In Cina il Confucianesimo ha un suo canone di scritture costituito dai wu king, "i cinque libri : canonici" e dai ssĕshu, "i quattro libri classici". I 5 king sono: il Yi-king (Libro delle mutazioni), di contenuto magico; il Shu-king (Libro dei documenti), di contenuto storico; il Shi-king (Libro delle odi), di contenuto lirico; il Li-ki (Esposizioni dei riti), di contenuto rituale, e il Ch'un-ts'iu (Primavera e autunno), che è una cronaca dello stato di Lu (dal 722 al 481). I 4 shu sono: il Lun-yü (Conversazioni; di Confucio con suoi discepoli ed altri personaggi), il Chung-yung (Uso del mezzo), il Ta-hio (Grande dottrina), e il Meng-tse, cioè l'opera di Mencio. Di questi testi quelli che sono opera originale di Confucio e dei suoi discepoli non hanno nulla di specificamente religioso, come infatti il confucianesimo per sé stesso non è una religione nel senso proprio della parola. Gli altri testi, come il Yi-king, il Shu-king, il Shi-king, il Li-ki, sono fondati sopra un nucleo di tradizioni antichissime e trattano in gran parte materia religiosa; ma anch'essi subirono per opera di Confucio una rielaborazione secondo uno spirito areligioso per eccellenza. Ciò non di meno, per l'autorità di cui già godeva questo nucleo tradizionale antichissimo agli occhi del conservatorismo cinese e per l'autorità sempre maggiore che venne acquistando il confucianesimo attraverso la storia della Cina, le scritture confuciane assunsero via via il carattere di scritture canoniche e, benché non si possano considerare propriamente scritture religiose, ebbero tuttavia per il popolo cinese un valore normativo analogo a quello che ebbero presso altri popoli le scritture sacre.
Taoismo. - Un vero e proprio canone di scritture sacre ha invece in Cina il Taoismo. Esso si formò sull'esempio del canone buddhistico cinese (San-ts' ang, v. oltre), come anche l'organizzazione monastica del taoismo è modellata sul buddhismo; ed è appunto al taoismo monastico o conventuale che appartiene il canone o Tao-ts' ang. Il testo fondamentale è il Tao-te-king, che risale verosimilmente - a parte le alterazioni ed aggiunte posteriori - al fondatore stesso del taoismo, Lao-tse (secolo VI a. C.). Intorno a questo nucleo si è venuta accumulando attraverso i secoli un'abbondantissima letteratura che soltanto in parte ha carattere sacro e canonico, essendo considerata come rivelazione comunicata - non per ispirazione di alcun intermediario, ma per trasmissione diretta dei relativi testi trascritti su giada, oro ed altre materie preziosissime - da uno dei "tre puri", che sono le tre persone della triade taoistica, a ciascuno dei quali corrisponde, come rivelata da lui, una delle tre parti del canone. Molti altri scritti, specie quelli firmati, hanno carattere sub-canonico (commento ed esegesi dei testi sacri, esposizione delle verità taoistiche, ecc.). Perciò, in complesso, il Tao-ts' ang è, al pari del San-ts' ang - e qui appunto si rivela l'influsso buddhistico - piuttosto una somma patrologica che il canone delle scritture sacre. Esso fu fissato nella forma attuale soltanto nel sec. XVI, e quindi comprende testi distribuiti sopra un periodo di oltre duemila anni. Secondo l'analisi fatta dal Wieger in base a due esemplari completi, quello del convento Pai-yün-kuan presso Pechino e quello della Biblioteca imperiale di Tōkyō, il Tao-ts' ang comprende 1464 opere distribuite nelle tre sezioni, con i tre supplementi rispettivi, cui sono aggiunti un supplemento generale e un altro accessorio (compilato nel 1607, aggiornato nel 1845).
Brahmanesimo. - La più antica delle religioni indiane, il Brahmanesimo, possiede già un suo canone di scritture sacre nel Veda. Veramente il Veda fu un corpo di tradizioni orali (śruti) prima di essere un corpo di scritture, perché, essendosi formato, in gran parte, anteriormente all'introduzione della scrittura nell'India (che ebbe luogo verso l'800 a. C.), ed essendo già a quell'epoca tramandato oralmente, seguitò ad esser tramandato così anche dopo, 'apparendo l'applicazione della scrittura quasi un'innovazione profanatrice, e sussistendo fino ad oggi un po' di questo scrupolo, poiché anche oggi in India perdura l'usanza di apprendere certi testi sacri dalla viva voce del maestro (v. veda). Il Veda non è e non rappresenta il verbo di un profeta: è opera collettiva di una quantità di cantori e sacerdoti (i cui nomi tramandati sono in gran parte leggendari), continuata per varî secoli e per parecchie generazioni. Prodotto spontaneo di una religione naturale, il Veda è naturalmente sacro, non per decisione di alcuna chiesa o concilio, ma per un suo intimo carattere trascendente, che si impose ai fedeli e che fu sempre più ribadito dai sacerdoti. Il riconoscimento del Veda come libro sacro depositario di una rivelazione divina è ancor oggi il minimo che si richiede e che basta per appartenere alla ortodossia indù, il vincolo comune alla grande varietà di culti, di sette e sotto-sette che è compresa sotto il nome di Induismo.
Buddhismo: India. - Il canone buddhistico tramandato oralmente prima di essere messo per iscritto si chiama Tipiṭaka (I tre canestri), e comprende: il Vinayapiṭaka, di contenuto disciplinare (organizzazione del sangha, o comunità buddhistica, regolamentazione della vita monastica), il suttapitaka, di contenuto dottrinale (esposizione del dharma - la dottrina buddhistica - nei suoi punti fondamentali, secondo la predicazione del Buddha), e l'Abhidharmapiṭaka, di contenuto speculativo (sviluppi del dharma, speculazioni su le verità dogmatiche in forma rigidamente scolastica).
Un primitivo canone buddhistico esisté forse sin dal 400 circa a. C., consistente in testi relativi al vinaya e in alcuni sutta (dunque un dipitaka). Il Tipiṭaka fu costituito, secondo la tradizione, nel (terzo) concilio di Pālaliputra riunitosi verso il 250 a. C., sotto la protezione del re Aśoka, e fu redatto originariamente in lingua māgadhī, cioè nella lingua del paese di Magadha, dove Aśoka era re. A noi il Tipiṭaka è pervenuto completo nella redazione in pāli (lingua essenzialmente letteraria), che fu fatta, sempre secondo la tradizione, a Ceylon, nel secolo I a. C. Il Tipiṭaka è il canone della scuola (o delle scuole) degli Sthavira, che soli parteciparono al concilio di Pāṭaliputra, al quale non intervennero invece i Mahāsānghika, che si erano separati già all'epoca del (secondo) concilio di Vaiśali. Un'altra redazione del canone ebbe luogo nel (quarto) concilio, tenuto a Jālandhara nel Panjāb (o a Kunḍalavana nel Kashmir) sotto il re indoscita Kanishka, nella seconda metà del sec. I o nella prima metà del II d. C., con la partecipazione dei soli Sthavira settentrionali. È molto probabile che questo canone fosse in sanscrito, poiché si ha ragione di credere che esso sia rappresentato dal canone della scuola (sempre appartenente agli Sthavira) dei Sarvāstivādin, di cui si sono scoperti frammenti - in sanscrito - nell'Asia centrale. Il Tipiṭaka (pali) o Tripiṭaka (sanscrito) rappresenta il buddhismo della tradizione più antica, la tradizione degli Sthavira con le sue diverse ramificazioni, rispettivamente meridionali e settentrionali, cioè la tradizione dell'hīnayāna o "piccolo veicolo", che si diffuse specialmente nel sud, a Ceylon, in Birmania, Siam e Cambogia. Il Buddhismo mahāyāna ("grande veicolo") si formò invece e si diffuse specialmente nel nord, rappresentato da varie scuole che arricchirono di nuovi scritti la letteratura buddhistica (p. es. il Mahavastu è un testo della classe del vinaya appartenente ai Lokottaravādin, che sono una suddivisione dell'antica scuola scismatica dei Mahāsānghika avviata a sboccare nel mahāyāna), ma non ebbero, nessuna, un nuovo canone proprio (non c'è un canone speciale del buddhismo mahāyāna), bensì fecero proprio ciascuna il canone hinayāna (Tripiḷaka) riconoscendone l'autorità, ma completandolo con l'aggiunta di quei testi māhāyanici (specialmente i vaipulyasūtra: Saddharmapuṇḍarīka, Sukhavātīvyuha, Laṅkāvatara, Prajnāpāramita, ecc.) che per ciascuna scuola rispettivamente erano i più autorevoli e i più venerati, ammettendo bensì che questi non possano essere attribuiti direttamente al Buddha, ma sostenendone tuttavia la canonicità in base al principio che il Buddha li avrebbe rivelati in tempi successivi perché la verità non poteva essere proclamata tutta quanta in una volta, ma solo gradatamente di mano in mano che l'umanità fosse abbastanza matura.
Cina. - La maggior parte dei testi del Buddhismo settentrionale, sia hīnayāna sia mahāyāna, ci è nota soltanto attraverso le traduzioni che ne furono fatte in cinese e in tibetano da monaci delle rispettive scuole. Così si formò il canone buddhistico cinese, il quale si chiama bensì san-ts'ang (tripitaka) e consta precisamente di un king-ts' ang ("sūtrapiṭaka"), un lü-ts' ang ("vinayapiṭaka") e un lun-ts' ang ("abhidharmapiṭaka"), con in più un supplemento (tsa-ts' ang). Ma mentre il tripiṭaka-tipiṭaka rappresenta il canone di una singola scuola (hīnayāna), il San-ts'ang non è né hīnayāna né mahāyāna, poiché contiene tutti i testi di tutte le scuole, sia hinayaniche sia mahayaniche, che furono tradotti in cinese, distribuiti nelle tre sezioni (ts'ang) in modo che in ciascuna figurano prima i rispettivi testi mahayanici o poi gli hinayanici. Non solo: ma oltre a queste scritture, che sono tutte canoniche, figurano nel san-ts'ang anche opere non canoniche (commenti ai testi principali, ecc.) di vario tempo ed autore. Piuttosto che un vero e proprio canone, il San-ts'ang è dunque una summa patristica (come anche il Tao-tsang taoistico), ciò che lo ha reso suscettibile di sempre nuovi accrescimenti, intorno al nucleo fisso centrale. Stampato per la prima volta nel 972 d. C., il San-ts'ang raggiunse le 1662 opere in 6771 volumi nell'edizione della dinastia Ming (1368-1644, ristampa giapponese 1678-1681), che salirono a 3386 opere in 1047 volumi nell'edizione giapponese del 1903 (completata nel 1914), e sono ancora più numerose nella nuova edizione giapponese recentemente iniziata.
Giappone. - Il San-ts'ang vale anche per i buddhisti della Corea e del Giappone, essendo il cinese la lingua sacra del buddhismo per tutto l'Estremo Oriente. San-ts'ang è reso in sino-giapponese con san-zō ("tre canestri"), mentre il termine usuale giapponese usato a designare il canone è issai-kyō ("tutti i sūtra", "tutti i testi"). È noto che il buddhismo nel Giappone fiorì non soltanto nelle varie scuole ivi trapiantate dalla Cina, ma diede anche luogo a delle formazioni fino a un certo punto originali, specialmente all'epoca Kamakura (secoli XII-XIII d. C.). Queste scuole speciali del buddhismo giapponese non produssero testi nuovi, mentre diedero la loro preferenza a questa o a quella delle più celebrate scritture canoniche rispettivamente. Il shin-shū, cioè la "scuola vera" (propriamente Yōdo-shin-shū, "vera scuola della Terra pura"), fondata da Shinran (1173-1262), si distingue dalle altre per una innovazione che è stata paragonata a quella di Lutero: come Lutero tradusse la Bibbia in tedesco, così un patriarca del Shin-shū, di nome Rennyo Shōnin (1415-1499), ottavo successore del fondatore Shinran, tradusse in giapponese (dal cinese) i principali testi canonici della scuola, cioè i Yōdo-sambu-kyō, "i tre sūtra della Terra pura" (cioè i due Sukhāvatīvyūha e l'Amitābhasūtra), nonché un'opera di Shinran, cui la scuola attribuisce valore canonico.
Tibet. - La traduzione dei sacri testi del buddhismo dal sanscrito in tibetano si fece nel Tibet specialmente nel sec. IX e successivi. Il canone buddhisiico tibetano comprende le due sezioni del Kāgjur o Kangjur ("Parola tradotta") e del Tangjur ("Dottrina tradotta"). Il Kangjur comprende 689 opere in 100 volumi ripartite in 7 sezioni, di cui la prima, Dulva, contiene i testi relativi al vinaya, la seconda, Serchin, è la traduzione della Prajnāpāramitā, e le altre contengono altri testi canonici, ma anche opere extracanoniche ed un'abbondante letteratura magica. Il Tangjur contiene principalmente opere extracanoniche di commento al Kangjur, ecc., ma anche opere di carattere profano (astrologiche, medicinali, archeologiche, filologiche), alcune tradotte dal cinese e dal uigurico, altre anche scritte originalmente in tibetano, in tutto 225 volumi ripartiti nelle due classi rGyud ("tantra") e mDo ("sūtra"), più un libro di inni e un indice generale. Il canone nella sua forma attuale fu fissato, sostanzialmente, a quanto pare, verso il 1300 e si cominciò a stampare nel 1700.
Jainismo. - Il jainismo, che al pari del buddhismo nega l'autorità del Veda ed è fuori della tradizione brahmanica, ha anch'esso (oltre un'abbondante letteratura più o meno profana, in pracrito e specialmente in sanscrito) un canone di scritture sacre nel Siddhānta. Il Siddhānta è il canone attuale degli Śvetambara ("vestiti di bianco"), una delle principali divisioni della chiesa giainica. Esso è scritto in un pracrito speciale, l'ārdhamāghadī, che è una parlata popolare di tipo arcaico, e comprende: 11 ānga (secondo la tradizione gli ānga erano originariamente 12, ma i 14 pūma di cui constava il 12° andarono successivamente perduti), 12 upānga, 10 painna, 6 chedasūtra, 2 sūtra e 4 mūlasūtra. Gli ānga rappresentano il nucleo più antico, e secondo la tradizione sarebbero stati raccolti già nel concilio di Pātaliputra nel sec. IV a. C. Nella forma attuale il Siddhānta non fu definitivamente costituito che nel concilio di Vālabhī, poco dopo il 450 d. C. I Digambara ("vestiti di cielo", cioè ignudi), che si staccarono dagli Śvetambara nell'83 d. C., secondo la tradizione, non riconoscono l'autorità del Siddhānta poiché sostengono che gli ānga originarî andarono perduti, ed hanno un proprio corpo di scritture, distribuite in 4 veda.
Zoroastrismo. - L'Avestā (v.) è il complesso dei testi sacri della religione di Zarathustra, in contrapposizione a Zand (donde la designazione-erronea di Zend-Avesta), che significa il commento, l'esegesi del sacro testo. L'Avestā attuale rappresenta originariamente un excerptum fatto per uso rituale e liturgico, come infatti anche oggi i singoli testi che compongono l'Avestā sono usati, indipendentemente dal loro contenuto, nelle varie occorrenze del culto e della liturgia, e a ciò debbono la loro conservazione.
L'Avestā nella sua forma attuale consta delle seguenti parti: 1. Yasna "preghiera, celebrazione, servizio divino": è la parte più propriamente liturgica, poiché comprende i testi recitati dal sacerdote nell'offerta del sacro haoma, che è l'atto principale del culto zoroastrico. Consta di 72 capitoli (hātay), alcuni dei quali, e precisamente i capitoli 28-34, 42-53 e 57, formano le gāthā ("canti, inni" in versi), che costituiscono il nucleo più antico del Yasna e di tutto l'Avestā, e rappresentano più fedelmente il pensiero e la dottrina genuina di Zarathustra. I capitoli 35-41 del Yasna costituiscono i cosiddetti "7 capitoli", un gruppo di testi intermedio fra le gāthā e il resto del Yasna, che è più recente. 2. Il Visprat (da vīspe ratavo "tutti i giudici"), in 24 kart, contiene una serie di formule che non erano recitate mai da sole, ma sempre insieme col Yasna e ad integrazione di questo nella celebrazione di una cerimonia speciale; 3. Il Vidēvdāt (vidēavō dātem "legge contro i daēva", cioè contro i demoni) diviso in 22, fargart; era pure recitato ad integrazione del Yasna-Visprat in un servizio divino ancora più solenne, sebbene il suo contenuto abbia carattere disciplinare, comprendendo - tranne nei primi due capitoli - le regole di purificazione esposte in forma aridamente schematica. 4. I Yašt ("preghiere"): sono 21 inni di diversa ampiezza in onore di varie divinità, da recitarsi ciascuno nel giorno sacro alla divinità rispettiva, ma in origine forse indipendenti dal calendario; 5. Il Khorda Avestā (khvartak apastāk) o "piccolo Avesta" (del quale, secondo la tradizione prevalente nei manoscritti, anche i Yast fanno parte) è una specie di breviario ad uso dei fedeli contenente litanie e giaculatorie diverse da recitare nei singoli giorni del mese, e nelle varie ore del giorno.
Vi sono nell'Avestā differenze linguistiche che corrispondono a fasi diverse della lingua; di pari passo con questa evoluzione del linguaggio dovette procedere quella delle idee religiose. Ma il problema cronologico relativo all'origine e alla composizione dell'Avestā e dei singoli testi che lo compongono è uno dei più difficili, come quello che s'immedesima con il problema stesso delle origini e degli sviluppi della religione di Zarathustra.
Ebraismo. - La religione ebraica ha il suo canone di scritture sacre nell'Antico Testamento. L'Antico Testamento ebraico (in aramaico sono scritte alcune parti dei libri di Esdra e Daniele) consta di 24 libri distribuiti in tre parti: 1. la Legge (ebr. tōrāh): Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, insieme costituenti il cosiddetto Pentateuco, dalla tradizione attribuito a Mosè; 2. i Profeti (ebr. nĕbhī'īm), distinti in Profeti anteriori, cioè i libri storici (dalla tradizione attribuiti a dei Profeti) Giosuè, Giudici, Samuele (due libri), Re (due libri), e Profeti posteriori, cioè i Profeti propriamente detti Isaia, Geremia, Ezechiele e, riuniti in un solo libro, i 12 profeti minori (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nahum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia); 3. gli (altri) "Scritti" (ebr. kĕthūbhīm, gr. ἀγιόγραϕοι), cioè: Salmi, Proverbî, Giobbe, Cantico dei Cantici, Rut, Lamentazioni, Ecclesiaste, Ester, Daniele, Esdra e Neemia, Cronache (due libri). In questa triplice divisione si rispecchia il graduale formarsi del canone ebraico. Nei primi secoli dopo il ritorno dall'esilio babilonese non ebbero carattere canonico se non i cinque libri di Mosè o Pentateuco. I Samaritani, che allora fecero scisma dai Giudei, ancor oggi non riconoscono come sacri altri libri; né altri ne menziona lo scritto di Aristea (v.) sulla prima versione greca dei Settanta (v.). Successivamente il canone si ampliò a comprendere i libri storici (così detti "Profeti anteriori") e i Profeti propriamente detti, cioè la seconda parte dell'Antico Testamento (nebhi'im), la cui incorporazione si può approssimativamente ritenere già compiuta verso il 200 a. C., sebbene anche dopo si siano manifestate incertezze ed opposizioni. Ancora più a lungo restarono fluttuanti fra la canonicità e la non canonicità gli altri "Scritti" del III gruppo (kethubhim), specialmente il Cantico dei Cantici, l'Ecclesiaste, Ester e le Cronache, fino a che, dopo la distruzione di Gerusalemme (70 d. C.) s'impose sempre più la necessità di avere in un canone completo e ben definito un vincolo ideale che legasse le disperse comunità giudaiche, ora che l'unità politica era spezzata per sempre. Fu dunque verso il 100 d. C. (sinodo di Iamnia, 90 d. C.) che in seno al giudaismo palestinese, forse anche in contrapposizione alle tendenze apocalittiche del tempo, fu fissato il canone dell'Antico Testamento in quella forma che, non senza qualche ulteriore controversia e ondeggiamento, divenne definitiva ed ottenne il generale riconoscimento.
Il cristianesimo si è riservato piena libertà di giudizio sul canone dell'Antico Testamento, e vi ammise, oltre tutti i già detti, anche i seguenti, parte traduzioni di originali ebraici, parte scritti originariamente in greco: Aggiunte a Daniele ed Ester, Baruch con l'Epistola di Geremia, primo e secondo libro dei Maccabei, Giuditta, Tobia, Gesù Siracide (o Ecclesiastico), la Sapienza. Il giudaismo e il protestantesimo, che non li riconoscono come canonici, li chiamano "apocrifi" (v.), i cattolici "deuterocanonici"; v. bibbia, VI, pp. 882-883.
Cristianesimo. - Il Nuovo Testamento è il gruppo di scritture canoniche specificamente cristiane che insieme con le scritture ebraiche dell'Antico Testamento costituisce la Bibbia (τὰ βιβλία, i "libri" per eccellenza). La Bibbia, nelle sue due parti costitutive dell'Antico e del Nuovo Testamento, è il canone di scritture sacre della religione cristiana. Il Nuovo Testamento consta di 27 libri in greco che sono (nell'ordine usuale, che non è il solo tramandato): i 4 Vangeli (Matteo, Marco, Luca e Giovanni), gli Atti degli Apostoli, le epistole di S. Paolo (ai Romani, le due ai Corinzî, ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi, le due ai Tessalonicesi, le due a Timoteo, a Tito, a Filemone, agli Ebrei), le 7 "Epistole cattoliche" (di Giacomo, le due di Pietro, le tre di Giovanni e quella di Giuda) e l'Apocalisse.
Dapprincipio l'Antico Testamento, sia nella forma della tōrāh delle sinagoghe, sia in quella della traduzione dei Settanta, fu la "sacra scrittura" anche per le comunità cristiane. Le prime scritture che sorsero quando la tradizione cristiana cominciò ad essere fissata per iscritto non furono concepite come canoniche. Il sorgere di una letteratura cristiana apostolica fu naturalmente la condizione necessaria per la formazione di un canone neo-testamentario; ma per tutto il sec. I almeno non si sa di alcuno scritto cristiano che pretendesse di avere o cui fosse attribuito un valore canonico. La prima testimonianza sicura dell'esistenza di un gruppo speciale di scritture cristiane come fondamento canonico per la dottrina e il culto è Marcione (circa 140 d. C.) col suo evangelium e il suo apostolicum, come parti di un "canone" ch'egli non vuole aggiunto ma sostituito all'Antico Testamento. Segue a poca distanza una testimonianza analoga di Giustino martire. Ma quanto agli scritti eventualmente compresi in questo primo canone regna grande incertezza ed è soltanto verso il 200 d. C. che si può parlare di un Nuovo Testamento (ἡ καινὴ διαϑήκη) riconosciuto come canonico e sufficientemente definito negli elementi costitutivi delle sue due parti: scritti evangelici (i 4 Vangeli) e scritti apostolici (specialmente Paolo). Le incertezze ancora sussistenti in specie per le "Epistole cattoliche" e per l'epistola agli Ebrei furono appianate successivamente, e verso il 400 il canone è ormai definitivamente fissato nella forma attuale almeno nella Chiesa occidentale, mentre nell'orientale durarono ancora le opposizioni alla canonicità dell'Apocalisse.
Islamismo. - Ha un libro sacro nel Corano (v.), che comprende 114 sūre divise in versetti e disposte in ordine di lunghezza decrescente. Il Corano contiene le rivelazioni che Maometto affermò di ricevere da Dio; il testo stesso rivelato è considerato la fedele riproduzione di un esemplare celeste della parola divina. Questo concetto del Corano come libro sacro, come testo trascendente ed eterno, fu poi ribadito dalla teologia musulmana. Mentre ancora viveva Maometto si cominciarono a mettere in iscritto i suoi discorsi. La collezione canonica si ebbe al tempo del terzo califfo, 'Othman. L'islām ci fornisce il raro esempio di una religione il cui libro sacro deriva dalla predicazione del fondatore stesso molto più direttamente che i libri sacri delle altre religioni.
Manicheismo. - Māni scrisse molte opere, in siriaco e in persiano, delle quali abbiamo quasi soltanto i titoli: il Vangelo vivente, i Principî, il Tesoro di vita, i Misteri, il Šāpurakhān (esposizione della dottrina fatta per il re di Persia Šapur), la cosiddetta Epistula Fundamenti ecc. Godettero inoltre di grande autorità presso i manichei alcune scritture (specialmente gnostiche) anteriori a Māni, ed altre appartenenti a varie religioni, come pure alcune opere di discepoli di Māni. Raccolte di scritture sacre si ebbero certamente presso i manichei, ed anche, a quanto pare, dei veri e proprî canoni. Quali siano state le scritture di Māni, o manichee in genere, che abbiano costituito il canone, è difficile dire: si ha notizia di una tetrade di opere di Māni, di un Pentateuco e di un Eptateuco. Che, in generale, ci sia stato un canone di scritture valevole per tutte le chiese manichee - sparse, com'è noto, dalla Cina all'Africa, in paesi di lingua diversa e in mezzo a popoli di diversa religione - è assai dubbio. La letteratura religiosa manichea originale comincia appena ora ad essere esplorata e conosciuta in seguito ai trovamenti del Turfān (Turkestān cinese) e del Kansu (Cina). Si tratta in generale di frammenti: in persiano ed altri idiomi iranici, in turco, in cinese (tra l'altro, frammenti del Šāpurakhān in medio-persiano). I due testi più ampî sinora conosciuti sono il Khuastuanift, formulario di confessione ad uso degli auditores, in uigurico (turco), e il cosiddetto Trattato di Pekino, dalla grotta di Tuen-huang (Kansu), scritto in cinese ed avente l'andamento di un sūtra buddhistico.
Le formazioni religiose di carattere più o meno settario che in vario tempo, in Oriente, e in Occidente, sorsero sul terreno dell'una o dell'altra delle grandi "religioni del libro" ne trassero e in vario modo applicarono anche l'idea di un libro sacro o di un complesso di scritture sacre di carattere più o meno canonico.
Mandeismo. - I mandei (cioè "gnostici"), altrimenti detti nazorei (cioè "osservanti", s'intende del rito del battesimo, congiunto con una specie di eucaristia), esistenti ancor oggi in numero di tre o quattro mila nella Mesopotamia inferiore (parlano l'arabo o il persiano), hanno alcune scritture sacre in un dialetto siriaco speciale, di cui le principali sono: 1. Sidrā d'Hajje "Libro di Giovanni"; 2. Qolastā, "Scelta", "Quintessenza" (di contenuto liturgico); 3. Ginzā "Tesoro", detto anche Sidrā rabbā, "Gran libro", diviso in una "parte destra" e una "parte sinistra". Misti di prosa e versi, risultanti da una mescolanza di elementi disparati senza alcun ordine, questi testi, dove sono utilizzati l'Antico Testamento, scritti astrologici babilonesi, liste di re persiani, ecc., sono l'opera accumulata di parecchi secoli. Nella forma attuale essi furono riuniti in Babilonia nel sec. VII e nell'VIII d. C., specialmmte sotto la pressione dell'islām.
Anche i Drusi del Libano, sorti nel sec. XI sul terreno dell'islām (Ismaeliti), ma ormai non più appartenenti al mondo islamico, hannoi certi loro libri sacri che sono tenuti gelosamente nascosti.
Sikh. - Sul gran tronco della religione indiana della bhakti e sotto l'influenza speciale di Kabīr (morto nel 1518), discepolo di Rāmanānda, sorse in epoca musulmana e non senza accostamento all'islām, la religione dei Sikh, ossia "discepoli" (sanscrito sishya), fondata da Nānak (1469-1538). Nānak è venerato come il primo dei dieci guru della setta: il suo successore fu nominato da lui stesso, e così successivamente fino al quinto guru, Arjun (1583-1608), con cui la dignità di guru divenne ereditaria, fino all'ultimo guru Govindh Singh (1657-1708), che diede alla setta una salda organizzazione teocratica. I Sikh hanno il loro libro sacro che si chiama Granth, cioè il "libro" per eccellenza (sanscr. grantha libro, trattato"). La parte principale del Granth, quella la cui autorità è riconosciuta da tutti i Sikh, è l'Ādi Granth, o Granth "originale", che fu compilato dal guru Arjun in base agli scritti del fondatore Nānak, con l'aggiunta di altri scritti di Kabīr, Rāmanānda, Nāmadeva, ed altri, in dialetti diversi (quelli di Rāmanānda e Kabīr in hīndī, quelli di Nāmadeva in māraṭhī arcaico). Dopo Arjuna il Granth subì qualche amplificazione di poca importanza, finché sotto Govindh Sing vi fu aggiunto il Dasam Granth o Dasam Pādsāhī dā Granth "Granth del decimo Pādsāh), cioè appunto di Govind Singh, il decimo guru. Il Dasam Granth (in hīndī) è riconosciuto soltanto dalle frazioni estremiste dei Sikh.
Bābismo. - Sorto sul terreno dell'islām sciita nella prima metà del sec. XIX, il bābismo o bahā'ismo (v. babi e bahā'ī) ebbe ed ha un suo libro sacro nel Bayān, opera dello stesso Bäb. In esso gli elementi islamici sono ridotti a poco, come in generale il bābismo, anzi che una setta islamica, è piuttosto una nuova religione universalistica. Tale carattere è ancor più accentuato nella forma dissidente più moderna del Bahā'ismo, il cui fondatore è autore di molti scritti: Le parole nascoste, Le sette valli (del viaggio verso Dio), Lettera sul Bayān, Il tempio di Dio, Lettere ai Sovrani, Il libro della certezza, ecc. Nelle riunioni dei Bahā'isti si leggono le scritture dei maestri della religione.
Mormoni. - Sorto in America (Stati Uniti) sul terreno del cristianesimo, il mormonismo, cioè The Church of Jesus Christ of Latter-Day Saints, si è ormai messo fuori dal cristianesimo. Esso ha il suo libro sacro nel Book of Mormon, di Joseph Smith (1805-1844), che fu il fondatore della setta. Altri libri in uso presso i mormoni sono: A Catechism for Children, The Book of Doctrine and Covenants, The Pearl of Great Price.
Scienza cristiana. - Anche la Christian Science, fondata dalla signora Mary Baker Eddy ha un suo testo canonico, opera della fondatrice (Science and Health, with Key to the Scriptures), brani del quale vengono letti nel servizio liturgico insieme con versetti della Bibbia.
Riassumendo, si vede che la distinzione: "religioni del libro" e religioni "senza libro" non è così netta e rigida come è tracciata nel Corano. Ci sono in certo qual modo, fra l'una e l'altra classe, dei gradi di transizione. Certe religioni ci si presentano per così dire in uno stadio di avviamento verso la costituzione di un vero e proprio testo sacro, p. es. l'orfismo. Altre, come lo shintoismo (cfr. anche il confucianesimo) possiedono delle scritture che hanno assunto in processo di tempo valore canonico e formativo, pur avendo, in origine, un carattere profano. Altre, come il brahmanesimo, hanno un corpo di scritture la cui autorità si è imposta quasi naturalmente all'universalità dei fedeli senza essere mai stata definita in alcun concilio. Che la presenza o meno di un libro sacro o di un canone di libri sacri in una data religione non dipenda essenzialmente dalle condizioni generali esterne della civiltà, appare evidente nel caso della Grecia antica, che ebbe una civiltà elevatissima e non ebbe una religione del libro. La presenza di scritture sacre canoniche è un fatto specificamente religioso, un carattere differenziale intrinseco e primario che di solito implica in una data religione la presenza di altri caratteri importantissimi. È un fatto che le vere e proprie religioni del libro, il giudaismo, il cristianesimo, l'islamismo, il buddhismo, il jainismo, lo zoroastrismo, appartengono al tipo delle religioni fondate, e a quello delle religioni supernazionali. Però anche in questo rispetto è da tener presente un' eccezione importantissima e interessantissima, cioè il brahmanesimo, che è religione naturale e nazionale, ed ha tuttavia un suo corpo di scritture sacrosante, i Veda (anche lo shintoismo è una religione nazionale e naturale in possesso di scritture che hanno autorità quasi canonica senza esser propriamente scritture religiose). L'intimo valore religioso di un libro sacro si riconduce in ultima analisi al valore religioso della parola (sacra, ispirata, rivelata), di cui la scrittura non è che il segno esteriore: di qui, in certi casi, il vincolo specialissimo fra il libro sacro e la lingua in cui è scritto originariamente (il Corano non può essere recitato che in arabo).
Bibl.: In generale: articolo Literature, in Hastings, Encycl. of Religion and Ethics, VIII, Edimburgo 1915, pp. 81-113; H. Hackmann, Religionen und heilige Schriften, Berlino 1914.
Per le singole religioni, e specialmente per edizioni e traduzioni di testi sacri, v. gli articoli dedicati a ciascuna e inoltre: per la Grecia, R. Pettazzoni, La religione nella Grecia antica, Bologna 1921, p. 153 seg.; per il Giappone, K. Florenz, Die historische Quellen der Shinto-Religion, Gottinga 1919; R. Pettazzoni, La mitologia giapponese secondo il I libro del Kojiki, Bologna 1929; per il taoismo, L. Wieger, Taoïsme, Parigi 1911-13; A. Castellani, I dialoghi di Confucio (Lun Yü), Firenze [1924]; sul brahmanesimo e il buddhismo indiano, M. Winternitz, Geschichte der indischen Literatur, Lipsia 1908-1920, voll. 3; sul buddhismo fuori dell'India, Prabodh Chandra Bagchi, Le canon bouddhique en Chine, I, Parigi 1927; M. Maas, Der heilige Kanon des Buddhismus in Japan, Tokio 1904 (Mitteil. der deutschen Gesell. für Natur- und Völkerkunde Ostasiens, X, i); id., Amida Buddha unsere Zuflucht, Gottinga 1910; A. Csoma, Asiatic researches, XX, Calcutta 1836; L. Féer, Analyse du Kandjar par A. Csoma de Körös, Lione 1881 (Annales du Musée Guimet, II); sullo zoroastrismo, v. avesta; sul giudaismo e il cristianesimo, v. bibbia; sull'islām, v. corano; sul manicheismo: P. Alfaric, Les écritures manichéennes, Parigi 1918, voll. 2; sui Sikh, M. A. Macauliffe, The Sikh religion ecc., Oxford 1909, voll. 6; sul babismo e sul bahaismo, A. Nicolas, Beyan persan, Parigi 1911-1914, voll. 4; H. Dreyfus, L'œuvre de Bāha' Ullāh, Parigi 1923-28, voll. 3; sui mormoni, E. Meyer, Ursprung und Geschichte der Mormonen, Halle 1912.
Canoni liturgici.
Nella poesia liturgica bizantina, con il nome di canone, suole essere designata una poesia destinata a uso ecclesiastico, composta in origine di nove odi o, più tardi, di otto. Ciascuna delle 9 od 8 odi consta di più strofe, più tardi comunemente di quattro, che hanno eguale struttura ritmica, al contrario degli irmi (εἱρμοί strofe modello) delle singole odi. Tutte le odi vengono cantate nello stesso tono (hhee), sovente esse sono collegate esteriormente per mezzo dell'acrostico.
Benché la denominazione Canone (κανών) comparisca solo con Teofane Graptós (morto nell'845), l'origine del canone, strettamente legata con la recita dei nove cantici biblici (i due di Mosè, Esodo, XV, e Deutoronomio, XXXII; il cantico di Anna, I Re, II; di Abacuc, III; di Giona, II, 2; dei tre fanciulli, Dan., III; il Magnificat e il Benedictus, Luc., I, 46 e 68) e con la creazione di troparî (τροπάρια) modellati su di esse, è tuttavia più antica. Il più antico autore di canoni è Andrea di Creta (v.), cui seguono S. Giovanni Damasceno (v.) e Cosma Gerosolimitano (v.). La poesia dei Canoni si diffonde fuori della Palestina e, accolta nella liturgia costantinopolitana, diventa d'uso generale a detrimento del contacio (v.): i principali cultori sono Teofane Graptós, Teodoro Studita (morto nell'826) e suo fratello Giuseppe arcivescovo di Tessalonica, Giuseppe l'innografo, e tutta la scuola degli Studiti. Però questi poeti, come mancano di originalità, così più non creano strofe di irmi proprî, ma adoperano irmi già noti per modellare su di essi le proprie odi. Con la morte di Giuseppe l'innografo (883) subentra una certa calma, e comincia con il secolo decimo il lavoro di cernita e di redazione, il cui ultimo stadio di sviluppo è rappresentato dai libri liturgici della chiesa greca ora in uso. Questa redazione costantinopolitana, contenente un nucleo palestinese, ha finito per prevalere cacciando man mano le altre. Tuttavia furono sempre possibili, in essa, aggiunte, ritocchi e sostituzioni.
Bibl.: Oltre ai canoni conservati nei libri liturgici greci (Menei, Parakletike, Triodion ecc.), Christ e Paranikas, Anthologia graeca carminum christianorum, Lipsia 1871, pp. lxii-lxv e 147-257; Pitra, Analecta Sacra, I (1876); K. Krumbacher, Geschichte der byzantinischen Litteratur, 2ª ed., Monaco 1897, pp. 673-678; W. Weyh, Die Akrostichis in der byzantinischen Kanondichtung, in Byzantinische Zeitschrift, XVII (1908), pp. 1-68.