Capitalismo
di Walt W. Rostow
Capitalismo
sommario: 1. Una definizione. 2. Un approccio. 3. Un quadro statistico dello sviluppo nel mondo contemporaneo. 4. Le condizioni preliminari del decollo. 5. Il decollo. 6. La marcia verso la maturità tecnologica. 7. L'elevato consumo di massa. 8. La ricerca della qualità. 9. Alcuni problemi più generali del capitalismo moderno. 10. Politica dei prezzi e dei salari: patto sociale o anarchia? 11. Relazioni tra le nazioni industriali avanzate: concordia o nuovo mercantilismo? 12. Relazioni tra nazioni a sviluppo avanzato e nazioni meno sviluppate: dallo sviluppo verso l'equilibrio o la catastrofe. □ Bibliografia.
1. Una definizione
Il concetto di capitalismo è stato distorto da due grandi dibattiti: il primo è quello avviato nel Settecento sulla giusta estensione della regolamentazione statale dell'economia, e che allora dette luogo alle intransigenti parole d'ordine del laissez-faire e del libero scambio; il secondo è il dibattito che, radicalizzandosi, si è protratto dalla seconda metà dell'Ottocento al nostro secolo, circa i relativi pregi del socialismo - e del comunismo - rispetto al capitalismo. Il risultato di questa distorsione polemica è che la definizione convenzionale del capitalismo suona pressappoco cosi: ‛un sistema economico caratterizzato dalla proprietà dei mezzi di produzione da parte di privati o di società, da investimenti determinati da decisioni di privati anziché dal controllo statale, e dal fatto che prezzi, produzione e distribuzione dei beni si determinano principalmente in una condizione di libero mercato'.
Malgrado l'ambigua attenuazione introdotta da termini quali ‛caratterizzato' o ‛principalmente', definizioni siffatte sono fuorvianti. Esse si presentano come descrizioni di ‛un sistema economico', ma in realtà di questo sistema descrivono una sola caratteristica, e cioè che al suo interno la proprietà privata del capitale e i mercati di libera concorrenza occupano un posto di sostanziale importanza. Simili definizioni presuppongono il concetto - retaggio di dispute annose - che settore pubblico e settore privato siano congenitamente concorrenziali tra loro e si trovino perciò impegnati, per usare il linguaggio della teoria dei giuochi, in un giuoco a somma zero per cui un settore necessariamente perde ciò che l'altro guadagna. Le seguenti osservazioni di R. J. Shafer, espresse in uno studio sulla pianificazione messicana, sono applicabili sia al passato che all'intero mondo contemporaneo non comunista: ‟Una delle più pericolose ipersemplificazioni presenti nelle concezioni correnti in materia di sviluppo economico è l'idea che le nazioni in via di industrializzazione si trovino di fronte a una qualche forma di dilemma tra politiche probusiness e politiche antibusiness, tra impresa privata e impresa pubblica. La versione più perniciosa di questa idea è il mito per cui l'impresa privata e le istituzioni del mercato possono espandersi soltanto se la responsabilità e l'iniziativa statale vengono rigorosamente contenute. Il caso messicano è palesemente tra quelli in cui l'intervento statale ha contribuito in varie forme a una crescita considerevole delle dimensioni e dell'influenza dell'impresa privata" (v. Shafer, 1966, p. XX).
Naturalmente, fra settore pubblico e settore privato sono sorte controversie circa questioni determinate: ad esempio su chi, in una nazione in via di sviluppo, debba avere in proprietà e gestire nuove acciaierie. Ma, su un piano più generale, definire il capitalismo con formule del tipo ‛iniziativa privata anziché controllo statale', implica una contrapposizione - fra pubblici poteri e determinazione dei prezzi e degli investimenti da parte del settore privato - molto più accentuata di quanto non risulti normalmente dall'analisi sia degli eventi storici sia della realtà contemporanea. Simili formule non colgono il fatto che una buona parte degli investimenti effettuati per ‛decisione privata' ha avuto - e ha tuttora - alla base un'esplicita intesa (che prevede spesso contributi finanziari) con le autorità pubbliche, o è avvenuta in un contesto che risentiva in modo rilevante del controllo statale. Inoltre, queste definizioni non ci dicono nulla sulle ragioni fondamentali che determinano il ruolo dello Stato in un sistema economico con componenti capitalistiche e neppure sui rapporti tra settore pubblico e settore privato.
L'ultimo punto è fondamentale, giacché sia le argomentazioni portate a sostegno dell'impresa privata, sia quelle che vorrebbero limitarla e perfino escluderla, muovono dalla medesima matrice filosofica. Questa matrice è una particolare concezione dell'individuo in rapporto alla società, che possiamo così riassumere: ogni essere umano costituisce un insieme di motivazioni e di aspirazioni, di inclinazioni e di talenti, assolutamente peculiare, e a ognuno spetta un eguale rispetto in campo morale e religioso, eguali opportunità e un'eguale posizione dinanzi alla legge. Una volta assicurata questa eguaglianza di posizioni, le società debbono quindi consentire che ciascun individuo possa esprimere al massimo se stesso per quanto è compatibile con il benessere degli altri individui e con la sicurezza della società.
Da questa concezione di base derivano alcuni enunciati con un valore tecnico in materia economica e politica: a) i mercati di libera concorrenza garantiscono agli individui il massimo di libertà decisionale; essi inoltre generano prezzi cha a loro volta conducono a una ripartizione ottimale delle risorse; il mercato di libera concorrenza dovrebbe pertanto essere preferito come metodo di organizzazione dell'economia (v. mercato); b) ma dove i mercati non sono - o non possono essere - di libera concorrenza e dove i meccanismi del mercato non sono in grado di soddisfare i bisogni di un gran numero di individui, i governi dovrebbero assumersi la responsabilità, diretta e indiretta, di assicurare la produzione desiderata; c) i governi a loro volta dovrebbero agire col consenso dei governati, consenso espresso mediante il sistema ‛un uomo, un voto'.
Da proposizioni di questo tipo (secondo le quali le inclinazioni e i giudizi degli individui modellano sia l'economia, attraverso i meccanismi del mercato, sia la politica governativa, mediante libere elezioni periodiche), deriva un vero e proprio sistema, che comprende anche i criteri della inevitabile funzione dello Stato nell'economia.
In teoria, un sistema di prezzi fondato sulla libera concorrenza e sull'espressione delle preferenze e dei giudizi personali consente agli individui di livellare l'utilità marginale relativa di tutte le merci e servizi di cui con il loro reddito possono disporre, e alle aziende di livellare, in termini di valore marginale, il prodotto netto delle differenti risorse da esse mobilitate nella produzione di beni e servizi. Inoltre, il sistema politico democratico - che poggia anch'esso sull'espressione delle preferenze e dei giudizi personali - assicura da parte sua il livellamento al margine delle utilità marginali relative dei beni e dei servizi pubblici e privati. La teoria del mercato permette di far pesare le preferenze individuali in proporzione al reddito che esse hanno a disposizione (giacché l'eguaglianza delle opportunità è compatibile con grosse disparità di reddito). Invece nel mercato della politica il calcolo si fonda su un peso eguale per ciascun cittadino.
Nella pratica i principî e gli enunciati di questo sistema si intrecciano con ogni sorta di complicazioni, di imperfezioni e di ambiguità, che sono state analizzate e discusse per almeno tre secoli (e anzi questo tipo di discussione è ancor oggi al centro del dibattito politico nella maggioranza dei paesi democratici). Nessuna società ha raggiunto né un'economia di mercato perfettamente concorrenziale né una democrazia perfettamente rispondente al principio ‛un uomo, un voto'. E tuttavia, per iniziare un esame del capitalismo questi concetti sono il giusto punto di partenza, giacché il settore privato dell'economia deve essere considerato solo come un elemento del più complesso organismo del sistema economico-politico. Né la storia né il mondo contemporaneo hanno mai conosciuto alcuna economia che possa essere utilmente analizzata senza riferirsi a un tempo ai meccanismi di mercato e al sistema politico.
Adam Smith se ne rese ben conto. Definendo il ruolo proprio dello Stato, egli vi incluse non soltanto la difesa militare della nazione e la ‟creazione di una rigorosa amministrazione della giustizia", ma anche ‟il dovere di edificare e conservare certe opere pubbliche e certe pubbliche istituzioni, ché l'edificare e il conservare non può mai avvenire per il tornaconto di qualche singolo individuo o di un piccolo gruppo di individui, perché il profitto non potrebbe mai ripagare le spese a un singolo individuo o a un piccolo gruppo di individui, laddove nel caso di una grande società esso può andare spesso ben oltre il recupero delle spese" (v. Smith, 1776).
Questa cospicua eccezione alla regola del laissez-faire comprende l'istruzione e tutto il vasto settore degli investimenti per infrastrutture e dell'assistenza sociale. Inoltre va osservato che, sebbene Smith mirasse innanzitutto ad attaccare la politica statale nel suo paese e nel suo tempo, che limitava quella ch'egli giudicava come la sfera propria della concorrenza sia nei singoli mercati sia a livello internazionale, le sue argomentazioni si accordavano pienamente con iniziative pubbliche miranti specificamente a ripristinare condizioni concorrenziali. Egli ammetteva anche la legittimità di iniziative pubbliche tese a incoraggiare nuove attività industriali. Se prendiamo, ad esempio, gli Stati Uniti, ci accorgiamo che l'intera serie di interventi pubblici nell'economia, che dalle iniziative di Alexander Hamilton nell'ultimo decennio del XVIII secolo arriva alla ‛grande società' di Lyndon Johnson, può essere giustificata con argomenti attinti alla Ricchezza delle nazioni; non escluse le argomentazioni a favore della tassazione progressiva.
Con l'andar del tempo, coloro che accettavano quello che più tardi L. Robbins (v., 1952) avrebbe chiamato il credo ‛individualista-utilitario', hanno assunto ‛posizioni differenti su questa o quella particolare forma di intervento statale nell'economia. Ma va tenuto fermo che da Adam Smith in poi in quel credo non c'era nulla che escludesse automaticamente un ruolo attivo e non marginale dello Stato in questi come in altri campi.
2. Un approccio
Perciò in quelle che vengono chiamate economie capitalistiche il vero problema è stato - ed è tuttora - il seguente: quali sono i ruoli propri rispettivamente del settore pubblico e del settore privato e quali i rapporti tra di essi, considerando anche le strutture giuridiche, politiche e amministrative che dovrebbero disciplinare il settore privato? La nostra tesi centrale è che quelli che chiamiamo sistemi capitalisùci consistono e sono sempre consistiti in una complessa e contrastata collaborazione tra settore pubblico e settore privato, il cui equilibrio e il cui contenuto sono andati costantemente modificandosi a mano a mano che gli stadi di sviluppo si succedevano.
Come mostra il diagramma 1, quelle che normalmente designeremmo come nazioni capitalistiche (non importa se ricche o povere) arrivano a versare nelle casse dell'erario sino al 35% del Prodotto Nazionale Lordo (PNL), e ciò prescindendo interamente dalla capillare influenza esercitata sul settore privato dell'economia da leggi, regolamenti, piani di sviluppo ed enti pubblici finanziari (comprese le banche di Stato).
Grafico
È chiaro che economie siffatte non possono essere analizzate in una sorta di vuoto politico. È anzi appunto da una angolazione politico-economica che il presente articolo passa in rassegna i problemi e i modelli dell'attività economica privata e pubblica nelle società in cui è presente una sostanziale componente capitalistica.
Bisognerà anzitutto ammettere che in ciascuno stadio dello sviluppo le questioni poste dal settore privato e da quello pubblico (nonché dalle loro relazioni) sono state diverse. Dalla storia ben nota dell'Europa occidentale e del Nordamerica tutti conosciamo come sia venuta modificandosi la fisionomia di questo contenzioso nel corso degli ultimi due secoli (si pensi, ad es., alla rimozione delle restrizioni poste dal sistema delle gilde all'organizzazione della forza lavoro, alla concessione della terra ai contadini, al finanziamento degli investimenti per infrastrutture, alle tariffe doganali e ad altre provvidenze a favore di particolari settori, all'estensione e alla natura dell'istruzione pubblica, alla legislazione del lavoro mirante a regolamentare condizioni e orario di lavoro, all'assistenza sociale a favore dei poveri, alle assicurazioni sociali di ogni specie, all'imposta progressiva sul reddito, al controllo dei monopoli, al riconoscimento legale dei sindacati, alla politica di contenimento della disoccupazione). Qui noi però lasceremo. da parte i precedenti storici ed esamineremo soltanto i problemi del settore privato (ivi compresi i rapporti col settore pubblico) in atto o prevedibili nel mondo contemporaneo, così come si presentano ai paesi che attraversano stadi diversi dello sviluppo. Questi problemi sotto molti profili riproducono quelli già storicamente sperimentati; ma è anche vero che nelle condizioni in cui oggi le nazioni cercano di procedere lungo i vari stadi di sviluppo c'è molto di nuovo e di peculiare.
3. Un quadro statistico dello sviluppo nel mondo contemporaneo
Gli ‛stadi dello sviluppo', così come chi scrive li ha definiti, sono sei: a) la società tradizionale; b) le condizioni preliminari del decollo; c) il decollo; d) la marcia verso la maturità tecnologica; e) l'elevato consumo di massa; f) la ricerca della qualità. Essi si riferiscono al grado in cui una nazione ha assimilato in modo produttivo il complesso della tecnologia moderna, e (per l'elevato consumo di massa e la ricerca della qualità) al livello del reddito reale pro capite. Gli stadi sono individuati a seconda dei settori principali dell'economia che in determinati periodi si sviluppano più velocemente (per es., il settore tessile, le ferrovie, la chimica, la metallurgia, l'elettricità, le automobili, l'istruzione, l'assistenza medica, e così via). Questi settori in rapida crescita trascinano nello sviluppo altri settori strettamente collegati. E questi complessi settoriali, che si succedono l'uno all'altro con una certa regolarità, mantengono costante, a mano a mano che i settori più vecchi perdono slancio, il tasso globale di sviluppo.
Il grado di avanzamento tecnologico di un'economia e la fisionomia dei suoi settori guida sono in relazione al grado di opulenza (misurato ad esempio dal PNL); ma negli stadi che precedono l'elevato consumo di massa il rapporto non è costante. Un paese ricco (per es. la Libia e il Kuwait) può essere tecnologicamente meno avanzato di un paese povero (per es., la Cina, l'India e il Messico). Il PNL pro capite è determinato in misura considerevole dal rapporto tra popolazione e superficie coltivabile, dalla disponibilità di risorse naturali esportabili e da altri fattori non tecnologici. Un'analisi che tenti di classificare paesi diversi sulla base dei valori del PNL pro capite è destinata a mescolare insieme nazioni che si trovano a livelli diversissimi di progresso tecnologico (laddove gli economisti riconoscono unanimemente nel progresso tecnologico il fattore chiave per definire lo ‛sviluppo moderno').
Con questa avvertenza, la tab. I, elaborata da H. Chenery e dai suoi colleghi, può essere considerata come un utile anche se approssimativo quadro d'insieme di ciò che mediamente accade a mano a mano che si procede nello sviluppo economico e il PNL pro capite cresce.
Dalla tab. I risultano in particolare i seguenti elementi: a) la rapida ascesa - tra i 50 e i 200 dollari pro capite - dei tassi di risparmio e di investimento, delle entrate fiscali, delle immatricolazioni scolastiche e dell'alfabetizzazione, mentre in seguito l'aumento si fa più lento; b) il declino ininterrotto della quota del settore primario (essenzialmente l'agricoltura) e nel prodotto globale e nella manodopera totale; c) l'ascesa ininterrotta della quota della popolazione urbana nella popolazione totale, come pure della quota del settore industriale sia in termini di prodotto che in termini di manodopera, sino ai 2.000 dollari pro capite.
Il decollo (la prima fase sostenuta dello sviluppo industriale) ha luogo solitamente tra i 50 e i 200 dollari pro capite (ma bisogna di nuovo ribadire che le specifiche dotazioni di risorse, e altri fattori, producono un'oscillazione considerevole nel rapporto tra stadi di sviluppo e PNL pro capite). I movimenti percentuali più cospicui negli indici chiave tendono a manifestarsi nella fase in cui una economia marcia verso i 200 dollari pro capite.
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Gli statistici hanno compiuto scarsi progressi nei loro tentativi di correlare le modificazioni della struttura industriale al processo di sviluppo (si tratta di una rilevazione essenziale, giacché la struttura industriale è estremamente sensibile alla misura in cui la tecnologia moderna è stata assimilata efficacemente da una società). Ciononostante, i calcoli del PNL pro capite, rapportati a tre gruppi di industrie (designate rispettivamente come ‛iniziali', ‛di mezzo' e ‛recenti'), offerti dal diagramma 2, consentono di andare abbastanza avanti nel collegare, per grandi paesi, l'analisi degli stadi ad analisi più globali dello sviluppo.
Come vedremo, grosso modo le industrie ‛iniziali' corrispondono ai settori guida del decollo (ivi comprese quelle tessili e di altri beni di consumo), le industrie ‛di mezzo' ai settori caratteristici della marcia verso la maturità tecnologica (inclusa, ad es., l'industria chimica), e le industrie ‛recenti' all'elevato consumo di massa (segnaliamo particolarmente le automobili e i beni di consumo durevoli).
Sulla base di questa mappa, approssimativa ma utile, dello sviluppo, possiamo incominciare a esaminare i problemi che, nel mondo contemporaneo, devono essere affrontati in ciascuno stadio delle economie caratterizzate da un settore privato di cospicue dimensioni.
4. Le condizioni preliminari del decollo
Consideriamo qui uno stadio che le analisi statistiche condotte tramite diagrammi non individuano con nettezza, ma che è ciononostante fondamentale nel processo di sviluppo: è lo stadio che io ho chiamato ‛delle condizioni preliminari del decollo'. Si tratta di un intenso periodo di modernizzazione, che precede il primo insorgere di un rapido sviluppo industriale, vale a dire il decollo. La fase delle condizioni preliminari registra in generale una crescita del PNL pro capite, ma di solito a un ritmo meno sostenuto di quanto avvenga durante il decollo e negli stadi successivi. L'Inghilterra del Settecento fu la prima nazione ad attraversare questo stadio; ma nel corso dello stesso secolo altre nazioni si trovavano nella fase delle condizioni preliminari, anche se i rispettivi decolli si sarebbero verificati più tardi che nel caso inglese. Nel mondo contemporaneo, è questo lo stadio attraverso il quale si sono trovati a passare nel corso degli anni sessanta, e ancora in questi primi anni settanta, la maggior parte dei paesi dell'Africa Nera, come del resto i paesi meno sviluppati dell'America Latina (per es., il Paraguay) e dell'Asia (per es. l'Afghanistān, la Birmania, la Cambogia e l'Indonesia).
I compiti principali di questo stadio sono i seguenti:
1) creare l'infrastruttura necessaria a uno sviluppo industriale sostenuto: una rete di trasporti che consenta la formazione di un efficiente mercato interno, i porti che rendano possibile un commercio estero di più grandi dimensioni, e infine l'energia elettrica necessaria alle moderne attività commerciali, agricole e industriali (si tratta qui delle industrie ‛di partenza');
2) espandere la produzione agricola e, in generale, cominciare a modernizzare il settore agricolo (il che richiede spesso difficili trasformazioni da un lato del regime fondiario e dall'altro della tecnologia e della composizione del prodotto agricolo; ma si tratta di modificazioni indispensabili se si vuole rifornire i centri commerciali urbani in espansione e fare delle zone rurali un mercato per la produzione industriale locale);
3) aumentare la disponibilità di divise (ciò che si ottiene di solito con l'agricoltura o con la valorizzazione delle risorse naturali esportabili) al fine di consentire un incremento nell'importazione di attrezzature produttive e, in molti casi, il pagamento degli interessi sui debiti e degli stessi debiti contratti con l'estero;
4) espandere e modernizzare il sistema educativo, per poter fornire i quadri dirigenti e la manodopera necessari al funzionamento di un'economia in via di modernizzazione;
5) cominciare ad acquisire un'esperienza industriale moderna (il che avviene di solito nei settori dei materiali da costruzione, dei beni di consumo non durevoli, delle lavorazioni alimentari, della birra e delle bibite analcoliche).
Per quanto concerne il settore privato, il punto più debole delle economie che attraversano questo stadio consiste di solito nella mancanza di imprenditori moderni. Sia in passato (si pensi al Giappone e alla Turchia) che ai giorni nostri, questa carenza ha determinato una fase iniziale in cui i governi venivano spesso indotti (da considerazioni pragmatiche piuttosto che ideologiche) a possedere in prima persona e a gestire stabilimenti industriali. È accaduto, ad esempio, che dei militari siano stati trasformati in dirigenti industriali. La mancanza di imprenditori locali ha avuto poi l'ulteriore effetto di creare una situazione di pesante dipendenza da aziende straniere per tutto ciò che concerne l'avvio della produzione industriale, lo sfruttamento delle risorse naturali e persino la conduzione del commercio internazionale. In Indonesia e in altri paesi dell'Asia orientale un problema in un certo senso analogo è stato posto dal fatto che le comunità di origine cinese presenti nelle varie società nazionali erano in genere dapprincipio le meglio preparate ad assumere le funzioni direttive in un'economia in via di modernizzazione.
Ne segue che, poiché le nazioni cercano di costituire loro propri quadri di uomini d'affari, di dirigenti, di tecnici e di operai specializzati, tra i compiti maggiori della fase delle condizioni preliminari sono l'espansione delle istituzioni scolastiche locali e la preparazione all'estero dei giovani più dotati. Questa richiesta è resa più pressante dalla contemporanea stringente necessità di costituire a tutti i livelli una pubblica amministrazione moderna (v. amministrazione pubblica).
Possono ad esempio rendersi necessarie delle ristrutturazioni del regime della proprietà fondiaria, sia per le esigenze di modernizzazione dell'agricoltura, sia per venire incontro a rivendicazioni sociali profondamente sentite, o per entrambe queste ragioni. La riforma agraria comporta procedure giuridiche e amministrative complesse e delicate, la cui corretta e ordinata attuazione richiede un gran numero di pubblici funzionari ben preparati. Si avrà certamente necessità di nuovi istituti di credito agrario. Amministrare in modo efficiente un movimento di piccoli mutui agrari è a un tempo difficile e dispendioso. Ne segue che di solito il compito viene assunto, anziché da banche private, da banche pubbliche, le quali accettano il principio che tali operazioni abbiano anche un carattere di sovvenzione. Sarà pure necessaria un'opera di assistenza tecnica, e anche qui dovrà intervenire il settore pubblico. In questo ambito è compresa la negoziazione di accordi con governi stranieri e istituzioni internazionali (un compito delicatissimo e spesso frustrante che solo dei pubblici funzionari sono in grado di assolvere). Ci sarà bisogno di nuove strade (altro compito per il settore pubblico) e - almeno sarebbe cosa auspicabile - di una modernizzazione dei meccanismi di distribuzione atta a ridurre la quota elevata del prezzo pagato nelle città per i prodotti agricoli, che va a finire nelle tasche dei vari intermediari. Ma, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, è divenuta prassi corrente delle nazioni in via di sviluppo tracciare piani nazionali di sviluppo, i quali richiedono, se debbono essere cosa seria ed estendersi fino ai singoli settori, un gran numero di economisti, di tecnici e di amministratori altamente specializzati.
Inoltre, nell'Africa Nera, nell'America Latina e in Asia le piccole nazioni hanno cominciato a riconoscere che una piena modernizzazione delle loro economie esigerà un'intensa cooperazione a livello regionale e subregionale. Le divisioni territoriali ereditate dal passato coloniale hanno dato origine a numerosi Stati troppo piccoli per poter offrire una base di mercato sufficiente a insediamenti industriali moderni. Sebbene i progressi compiuti in questa direzione siano rimasti sinora assai limitati, l'esperienza del Mercato comune centroamericano negli anni sessanta suggerisce che questo indispensabile sforzo di raggiungere un ampliamento smithiano del mercato richiede una collaborazione continua e altamente qualificata tra i funzionari pubblici dei paesi interessati.
Lo stadio delle condizioni preliminari del decollo è dunque per sua natura un periodo in cui le esigenze poste dall'avvio della modernizzazione della vita rurale (che interessa la stragrande maggioranza della popolazione), dalla costruzione delle infrastrutture, dalla formazione di una nuova generazione di amministratori pubblici e privati e dalla instaurazione di relazioni nuove e complesse con il mondo esterno in un periodo di aiuti stranieri e di tendenze regionalistiche, fanno pesare sull'amministrazione pubblica un carico enorme di competenze. E ciò rimane vero quando tra i principali scopi istituzionali di tali attività figuri la formazione di un moderno e competitivo settore agricolo privato e di un moderno settore industriale privato (v. agricoltura; v. industria).
Il ruolo statale nello stadio delle condizioni preliminari è sempre stato cospicuo, anche in nazioni che per le precedenti esperienze in materia di commercio, attività bancaria e produttività agricola erano bene preparate al passaggio all'industrializzazione (si pensi al caso degli Stati Uniti, del Canada, del Belgio, della Francia e della Germania). Il governo è stato inoltre la forza egemone nella fase delle condizioni preliminari del decollo in società meno sviluppate per es., la Russia zarista, il Giappone del Meiji, la Turchia). E lo stesso vale per la maggior parte dei paesi che stanno attraversando questa fase ai nostri giorni.
Sia la storia che l'esperienza contemporanea suggeriscono, in definitiva, una conclusione alquanto paradossale. Per preparare una società tradizionale o semitradizionale allo sviluppo del suo potenziale agricolo e industriale su una base essenzialmente privata è indispensabile uno sforzo pubblico massiccio.
5.Il decollo
Il decollo è un fenomeno limitato a un numero di settori relativamente ristretto e spesso solo ad alcune determinate regioni all'interno di un paese. Durante il decollo ha inizio - e si espande rapidamente - l'industrializzazione moderna. Dai settori chiave del decollo hanno origine effetti di propagazione che provocano un'espansione del mercato sia come dimensioni che come efficienza. Le città crescono in modo sproporzionato. La società subisce una sempre maggiore integrazione nell'economia internazionale ed è sempre più soggetta a cicli, a movimenti congiunturali e ad altre perturbazioni che a loro volta creano contraccolpi sulla sua vita economica e politica. L'operaio si impone come un membro sempre più importante e determinante della società e lo stesso dicasi per l'industriale e per coloro che gli forniscono crediti e servizi per i suoi stabilimenti. Ma una gran parte della società rimane ancora modellata su una più antica matrice e procede sulla strada della modernizzazione a un passo più lento, quando non resti addirittura ferma.
Malgrado la sua angusta base settoriale e regionale, il decollo dimostra a una società ch'essa è capace di entrare con successo nell'ambito dell'industrializzazione moderna. Un senso nuovo di fiducia e una percezione delle possibilità future pervadono il gruppo dirigente e la cerchia sempre più ampia degli uomini e delle donne impegnati nei settori in rapida espansione. In epoca recente abbiamo potuto osservare il fenomeno, già resoci familiare dall'esperienza storica, in paesi per altri versi tra loro così differenti come il Messico della generazione successiva al 1940 e la Corea del Sud dopo il 1963.
Per quanto concerne specificamente il settore privato, il fatto centrale è costituito dall'emergere di un gruppo di imprenditori capaci di assimilare con adeguata capacità alcuni elementi fondamentali della tecnologia moderna e di gestire un processo industriale in costante espansione, basato in parte sul reinvestimento di una elevata percentuale dei loro profitti. I settori guida del decollo sono di solito costituiti da industrie di beni di consumo non durevoli prodotti localmente in sostituzione di importazioni, al riparo delle barriere tariffarie innalzate dallo Stato. Le attrezzature necessarie sono, rispetto agli standard moderni, piuttosto modeste e sono sufficienti unità industriali di dimensioni relativamente ridotte.
Lo stadio del decollo è accompagnato, nel mondo contemporaneo, da alcuni problemi che gli sono peculiari e che derivano tutti dal suo intrinseco squilibrio. Di questi problemi quattro si sono rivelati di particolare importanza nel determinare le relazioni economiche tra settore pubblico e settore privato: i problemi connessi alla produttività dell'agricoltura e alla modernizzazione della vita rurale; i problemi regionali; il controllo dell'inflazione; le relazioni economiche con il mondo esterno.
In linea generale, all'indomani della seconda guerra mondiale, l'industrializzazione è stata considerata come il contrassegno stesso della modernità. Ciò ha pesato in un primo tempo sull'elaborazione dei piani di sviluppo (adottati negli ultimi due decenni da quasi tutti i paesi in via di sviluppo). Ci fu cioè inizialmente una sistematica tendenza ad accordare la priorità all'industria piuttosto che all'agricoltura. Argomentazioni semplicistiche basate sulla più elevata produttività marginale del lavoro nell'industria vennero a rafforzare la considerazione istintiva che l'agricoltura fosse, in un certo senso, un tipo di attività semicoloniale. Le teorie dello sviluppo - sia quelle occidentali che quelle del mondo comunista - mancarono di cogliere adeguatamente gli effetti dinamici che un settore agricolo in vigorosa espansione avrebbe prodotto sulla crescita industriale. Durante gli anni cinquanta e nei primi anni del decennio successivo la disponibilità di eccedenze agricole americane a buon mercato accentuò la tendenza a destinare scarse risorse d'investimento all'industria e a dedicare un'attenzione sproporzionata ai problemi urbani, al fine di attenuare le tensioni presenti nelle città, caratterizzate da una crescita rapida e da continue trasformazioni.
Stante l'elevato tasso di incremento della popolazione nel mondo in via di sviluppo, questa politica cominciò a dar luogo a pericolose penurie di generi alimentari, segnatamente in due tra i maggiori paesi che nello scorso decennio erano in fase di decollo: l'India e il Pakistan. Questi paesi (e altri ancora) si trovarono a dipendere in misura sempre maggiore dalle importazioni di cereali. La situazione sembrava tanto più inquietante in quanto l'espansione della produzione alimentare veniva perseguita essenzialmente mediante la messa a coltivazione di nuove superfici anziché mediante un aumento della produttività. Storicamente, del resto, incrementi rapidi della produttività agricola erano intervenuti soltanto in stadi successivi dello sviluppo; e, pertanto, anche accentuando la priorità dei problemi agricoli, non c'era molto da aspettarsi da un'espansione delle terre coltivate.
Nel periodo 1965-1967 due eventi mutarono la situazione, almeno temporaneamente. Lo shock prodotto da una serie di successivi raccolti fallimentari nel subcontinente indiano fece sì che in questa come in altre aree fosse attribuita maggiore importanza allo sviluppo dell'agricoltura; e la disponibilità di nuove varietà di frumento e di riso (frutto di ricerche condotte in Messico e nelle Filippine) consentì un balzo in avanti nel rendimento per acro, paragonabile solo a quello ottenuto nell'Irlanda del Seicento con la coltivazione su larga scala della patata.
La ‛rivoluzione verde' degli anni sessanta pose d'altra parte problemi peculiari circa il modo di strutturare l'agricoltura. Per rendere al massimo, le nuove sementi richiedevano l'uso intensivo di fertilizzanti chimici e di insetticidi e anche appropriate condizioni di umidità, che soltanto l'irrigazione poteva assicurare. Ora, mentre gli agricoltori relativamente benestanti, con disponibilità di capitali, erano in grado di mettere pienamente a frutto queste nuove sementi, ciò non era possibile per i più poveri. Nella società rurale si manifestò così una tendenza verso la radicalizzazione delle tensioni sociali, malgrado gli effetti di segno opposto dell'accresciuta produzione e degli aumentati redditi del settore agricolo nel suo complesso (v. agricoltura).
Del resto, prescindendo dalla ‛rivoluzione verde', in alcuni casi persistevano ancora in pieno periodo di decollo problemi relativi al regime fondiario. Valga l'esempio dell'Irān, dove l'audace decisione, presa personalmente dallo Scià, di trasferire al contadino la proprietà della terra (1962) arrivò alla fine del decollo iraniano, contribuendo, con i suoi effetti salutari, a conferire slancio economico e stabilità sociale alle prime fasi della marcia verso la maturità tecnologica. In alcuni paesi latino-americani - ad esempio Cile e Perù - rilevanti problemi di regime fondiario sono rimasti in piedi ben oltre il periodo di decollo, complicando la vita economica e politica durante la marcia verso la maturità tecnologica.
D'altro canto, l'evoluzione dell'agricoltura in Messico durante la fase di decollo mise in chiara evidenza il fatto che mutamenti anche drastici del regime fondiario non costituiscono una panacea. La rivoluzione messicana degli anni 1910-1920 era sfociata nella creazione del sistema degli ejidos. La proprietà della terra era concessa senza condizioni al contadino nel quadro di una struttura collettiva. Le limitazioni poste alla facoltà del contadino di vendere o comprare terra, le dimensioni modeste degli appezzamenti individuali e l'inefficienza nella gestione;degli ejidos fecero sì che gli incentivi all'aumento della produttività fossero, nel complesso, inadeguati. Avvenne così che durante il decollo messicano (diciamo negli anni 1940-1960) la produzione industriale aumentasse bensì rapidamente, ma le comunità integrate nel sistema degli ejidos rimanessero povere. Il Messico fu in grado di provvedere alle proprie necessità alimentari soltanto perché le terre sottratte al sistema degli ejidos (particolarmente nello stato di Sonora) conobbero uno sviluppo secondo direttrici di concentrazione di capitale, dando luogo a un'agricoltura su vasta scala, paragonabile all'agricoltura commerciale della California.
La condizione privilegiata, politica e sociale, concessa dalla rivoluzione al fondo contadino entrava in conflitto in modo sempre più grave e drammatico con le esigenze di produttività dell'agricoltura messicana e anzi con le vitali necessità economiche delle stesse comunità rurali (v. agricoltura).
Un secondo problema del decollo deriva dalle difformità regionali che lo caratterizzano agli inizi. Per esempio, durante il decollo brasiliano (diciamo a partire dalla metà degli anni trenta), San Paolo, avvantaggiata dalla presenza di imprenditori immigrati e dalla vicinanza di una ricca regione agricola, ebbe un rapido progresso come centro industriale. Invece il Nordeste brasiliano, dominato da una vecchia - e ormai improduttiva - economia dello zucchero, rimase gravemente indietro, finché nel corso degli anni sessanta il governo adottò misure che misero in moto forze capaci, col tempo, di ridurre lo scarto (un po' come lo scarto esistente tra il Nord e il Sud d'Italia è stato ridotto nel quarto di secolo successivo al 1945).
In Nigeria e in Pākistan le tensioni regionali hanno prodotto guerre civili (causate in parte dalla difformità dello sviluppo economico durante gli anni sessanta), non diversamente da come era avvenuto nell'Ottocento durante il decollo americano. In forme meno acute, tutti i paesi in fase di decollo hanno sperimentato una qualche versione del problema delle diseguaglianze interregionali.
In linea generale, i paesi che hanno attraversato lo stadio delle condizioni preliminari del decollo sono stati in grado di risolvere i loro problemi economici senza gravi fenomeni inflazionistici. Il grosso della popolazione è, in questa fase, ancora impegnato nell'agricoltura tradizionale, che spesso ha solo deboli legami con i mercati moderni. Ma l'avvento del decollo porta con sé accresciute esigenze per lo Stato di mezzi finanziari, fatto che si riflette in un incremento delle entrate fiscali dal 9,8% del reddito nazionale (con un PNL pro capite pari a 50 dollari del 1964) al 16,7% (PNL pro capite di 200 dollari), come mostra la tab. I. In parte questa pressione nasce da un fatto tecnico: l'accelerazione dell'attività industriale durante il decollo aumenta il ritmo dell'urbanizzazione e aumentano in proporzione le richieste di infrastrutture (energia elettrica, trasporti, ecc.). Il che significa necessità di maggiori investimenti pubblici. Inoltre, il fatto che uno sviluppo rapido (pur se su un fronte limitato) si sia dimostrato una possibilità realistica, stimola le richieste della manodopera urbana in materia e di servizi sociali e di incrementi salariali. E tali pressioni tendono ad assumere forme politiche sempre più efficaci.
In America Latina, ad esempio, il decollo è stato accompagnato da un passaggio del potere politico dalle mani della vecchia classe fondiaria in quelle degli uomini nuovi delle città. È venuta alla ribalta in politica una serie di leaders di stampo peronista (citiamo tra gli altri Perez Jiménez in Venezuela, Batista a Cuba, Vargas e Kubitschek in Brasile). Essi hanno rappresentato, in una versione latino-americana, lo stesso tipo di trasformazione nell'equilibrio del potere politico verificatasi in Inghilterra con il Reform bill del 1832 e in Francia con l'avvento di Napoleone III dopo la rivoluzione del 1848. In America Latina una parte della manodopera è stata organizzata in sindacati che hanno perseguito, a favore della loro ristretta base, una politica strettamente corporativa (vedi il caso dei portuali), a scapito e dei contadini e della classe operaia urbana nel suo complesso.
Queste nuove costellazioni di potere contribuiscono a spiegare la tendenza a trascurare l'agricoltura durante il decollo. Esse hanno anche provocato il sorgere di richieste che l'economia e l'erario pubblico non erano semplicemente in grado di soddisfare. Sottoposti a pesanti pressioni, gli Stati hanno fatto ricorso, per far quadrare i conti, all'indebitamento tramite le banche centrali e quindi al- l'inflazione.
Anche in Messico, pur con il suo potente partito politico dominante (il Partito Rivoluzionario Istituzionale), per arrivare a domare l'inflazione c'è voluto del tempo. Nell'India ormai esausta, la conciliazione degli interessi realizzata dal Partito del Congresso ha consentito, in un modo che ha del miracoloso, di passare - sia pure faticosamente - attraverso la fase di decollo e di procedere oltre senza eccessive spinte inflazionistiche. Ma in molti paesi latino-americani - e in altri anch'essi impegnati nel decollo - indifferibili richieste di pubblici investimenti e accese rivendicazioni di espansione dei servizi pubblici, che era impossibile soddisfare interamente con le risorse disponibili, hanno prodotto l'inflazione. In ultima analisi, il fallimento è stato non economico, ma politico. A queste società è mancata l'unità politica necessaria per definire una scala di priorità e tenere sotto controllo le opposte fazioni politiche senza ricorrere all'inflazione.
Tutto ciò ha complicato le relazioni con il mondo esterno. Va infatti tenuto presente che dopo la seconda guerra mondiale si è andata costituendo una serie di istituzioni e di accordi internazionali, che hanno influenzato profondamente sia la politica monetaria nel mondo in via di sviluppo, sia la disponibilità di capitali per l'espansione di entrambi i settori, pubblico e privato. Un'inflazione prolungata tende a generare i propri antidoti: con l'aumento dei prezzi interni i tassi di cambio s'indeboliscono e il capitale privato defluisce all'estero, mentre quello che rimane nel paese viene investito in terreni é in altri beni che lo mettano al riparo dall'inflazione. La tensione sociale aumenta poiché i lavoratori lottano senza successo per compensare con salari più elevati l'aumento del costo della vita; chi percepisce redditi fissi è danneggiato e protesta; e infine la posizione della bilancia dei pagamenti peggiora a causa non soltanto della fuga dei capitali, ma anche del fatto che i prezzi delle esportazioni sono fissati in relazione non al mercato interno ma a quello internazionale. Nel mondo moderno arriva un momento in cui la nazione afflitta dall'inflazione si rivolge per aiuto al Fondo Monetario Internazionale e a enti che concedono aiuti, in particolare alla Banca Mondiale.
Da questi negoziati, che si svolgono spesso in una situazione che è ormai di crisi politica non meno che economica, nascono programmi di assistenza la cui applicazione viene però condizionata all'accettazione da parte del paese richiedente di una medicina interna piuttosto amara: restrizioni di bilancio, aumenti delle imposte, svalutazione, impegno a evitare aumenti di rilievo dei prezzi e dei salari, che distruggerebbero rapidamente gli effetti salutari della svalutazione.
Così alcuni aspetti, tra i più essenziali e politicamente delicati, della politica economica interna, sia pubblica che privata, vengono a intrecciarsi con la diplomazia, inclusa quella nuova dimensione della diplomazia che è legata a istituzioni internazionali a controllo multilaterale.
Nella situazione dei primi anni settanta la vita di un paese che attraversasse la fase di decollo si trovava a essere strettamente connessa con il mondo esterno anche in circostanze meno drammatiche. Il paese in questione veniva dapprima incoraggiato a elaborare un piano di sviluppo nazionale, che era poi sottoposto al vaglio degli enti e degli istituti di finanziamento: la Banca Mondiale, la Inter-American Bank, la Asian Development Bank e consorzi come il Club dell'Aia, che organizza programmi di assistenza per l'Indonesia. Nell'emisfero occidentale operava l'Inter-American Committee on the Alliance for Progress (CIAP), che discuteva i rapporti annuali presentati da ciascun paese membro. Da questo esame derivavano le linee del programma di assistenza da attuare nell'anno successivo. Gli Stati Uniti erano vincolati, per deliberazione del Congresso, a tener conto delle raccomandazioni del CIAP nelle loro largizioni di fondi per lo sviluppo dell'America Latina.
È evidente che questo tipo di accordi internazionali accresce il ruolo dello Stato all'interno dei paesi interessati.
D'altro canto la dottrina dello sviluppo che si è affermata nella comunità mondiale nell'ultimo venticinquennio, ottenendo in un modo o nell'altro il consenso dei gruppi dirigenti sia dei paesi più avanzati che di quelli in via di sviluppo, è, per quanto riguarda la questione dell'iniziativa pubblica o privata, decisamente pragmatica. Alle nazioni in via di sviluppo si riconosce un ampio margine di manovra nel determinare la misura in cui lo Stato avrà in proprietà e gestirà impianti industriali. I prestiti sono concessi indifferentemente per i settori pubblico e privato.
I prestiti internazionali vengono destinati alle banche statali soprattutto al fine di incoraggiare l'iniziativa privata sia nell'industria che nell'agricoltura; ma l'assistenza internazionale viene concessa anche alle imprese possedute e gestite dallo Stato.
Riassumendo: i paesi in fase di decollo hanno oggi settori pubblici importanti, più vasti, nell'insieme, di quanto avvenisse nei paesi che li hanno preceduti sulla via dello sviluppo prima del 1914. L'impegno della comunità internazionale in appoggio allo sviluppo ha agito nel senso di incoraggiare questa tendenza. Ma questo fatto si è dimostrato compatibile con l'emergere durante il decollo di settori privati vitali sia nell'industria che nell'agricoltura.
6. La marcia verso la maturità tecnologica
La marcia verso la maturità tecnologica copre un periodo più lungo rispetto aildecollo. Durante questo stadio le economie oltrepassano l'angusta base tecnica e regionale del decollo e applicano più o meno pienamente tutto ciò che il progredire ininterrotto della scienza e della tecnologia mette loro a disposizione. Storicamente - ma anche nel mondo d'oggi - questo è il momento in cui l'industria siderurgica, l'industria metalmeccanica, l'industria chimica e l'industria elettrica acquistano una funzione di guida; va però rilevato che il flusso sempre crescente delle invenzioni ha modificato il contenuto tecnologico di questi vasti settori industriali. Il processo di modernizzazione, in senso lato di industrializzazione, investe l'agricoltura, le cui forze di lavoro declinano incessantemente. Nella maggior parte dei casi le città conquistano il predominio nella vita politica e sociale, malgrado gli sforzi tenaci dell'agricoltura per conservare le sue antiche prerogative politiche. Il sistema dell'istruzione viene riorganizzato per venire incontro alle richieste perentorie dell'industrializzazione progressiva, anche se il conservatorismo congenito alle istituzioni scolastiche causa ritardi rilevanti e talvolta costosi. La burocrazia si espande, assume nuove funzioni connesse alla modernizzazione economica e sociale e diventa sempre più specializzata.
È inoltre nel corso della marcia verso la maturità tecnologica che un efficiente sistema di comunicazioni arriva a coprire l'intero territorio nazionale, modificando in modo rilevante la quota di popolazione collegata da un lato ai mercati commerciali e dall'altro alla vita politica nazionale. Nelle società rette da principî democratici avviene generalmente che l'elettorato si ampli; nelle società autoritarie il problema di rendere docili, apatiche o soddisfatte popolazioni urbane di vaste dimensioni e meglio istruite richiede metodi nuovi di appagamento, di persuasione e di controllo.
In questo periodo si tende ad accettare l'industrializzazione progressiva come il compito fondamentale della società e coloro che la dirigono, nel settore pubblico come in quello privato, hanno mano libera. Ma a mano a mano che il processo avanza si sviluppa una reazione, in una forma o nell'altra, contro le frizioni e le sperequazioni che questa industrializzazione generalizzata può portare con sé. Si producono spinte a favore di riforme sociali che smussino le punte più aspre, per una distribuzione del reddito più equa e per l'una o per l'altra forma di controllo politico sulle grandi concentrazioni di potere industriale. Si chiede che una parte delle accresciute entrate potenziali dello Stato, fornite dall'industrializzazione, abbia un impiego politico e sia utilizzata per servizi sociali anziché reinvestita o dispersa nel consumo privato.
Il crescere del reddito pro capite e un'amministrazione più efficiente producono un aumento delle entrate fiscali e consentono allo Stato di venire incontro a queste pressioni, destinando alla loro soddisfazione risorse reali sostanzialmente maggiori che per il passato.
Storicamente, il periodo della marcia verso la maturità tecnologica coincide per il mondo occidentale grosso modo con gli anni tra il 1870 e il 1914; per il Giappone e la Russia (poi URSS) più o meno con gli anni dal 1905 sino alla piena ripresa dopo la seconda guerra mondiale, ripresa che si verificò all'inizio degli anni cinquanta.
Nel mondo non comunista, negli anni sessanta e all'inizio degli anni settanta le nazioni impegnate in questo stadio sono soprattutto Formosa, l'Irān, la Turchia e un buon numero di paesi latino-americani. L'India costituisce un importante caso a sé, che sarà discusso brevemente al termine di questo capitolo.
Per quanto concerne le relazioni tra settore privato e settore pubblico, due diverse tendenze sembrano operanti in questo stadio dello sviluppo.
Da un lato abbiamo parecchi fattori che tendono a incoraggiare un ruolo sempre maggiore del settore privato: a) l'esperienza di una generazione che ha vissuto la fase di decollo amplia il numero e la competenza delle persone capaci di dirigere il processo industriale; b) la diversificazione dell'industria nei ben delimitati e specializzati settori della siderurgia, della metallurgia, della chimica e dell'elettronica giustifica l'importanza di una maggiore fiducia nel settore privato, in società che non siano controllate da coloro che sono ostili per principio a questo indirizzo, visto che una pianificazione centrale particolareggiata diviene sempre più difficile a mano a mano che il processo industriale si fa più complesso e diversificato; c) i bisogni alimentari delle città in rapida espansione, la necessità di materie prime nell'industria, anch'essa in rapida espansione, e la diffusione nelle campagne della tecnologia moderna e di metodi di marketing hanno per effetto una diversificazione della produzione agricola e un passaggio a metodi produttivi caratterizzati da una maggiore concentrazione di capitale: processi anche questi gestiti più efficientemente dal settore privato che da quello pubblico.
Nella generalità dei casi, quindi, durante la marcia verso la maturità tecnologica è dato osservare un ampliarsi del raggio d'azione e un miglioramento qualitativo dell'attività imprenditoriale nel settore privato sia industriale che agricolo. Il fenomeno è ad esempio agevolmente osservabile, all'inizio degli anni settanta, in Messico, Brasile, Irān, Formosa e India.
Nel mondo contemporaneo, nella fase delle condizioni preliminari del decollo, lo Stato è l'artefice principale della modernizzazione; a mano a mano che si procede con il decollo, limitatamente a particolari settori e regioni, emergono dinamiche imprese private; infine, quando la tecnologia moderna si diffonde negli altri settori - e penetra più a fondo nelle campagne - il settore privato comincia ad esprimersi più pienamente.
Ma contemporaneamente operano altre tendenze, i cui effetti vanno nel senso di accrescere il ruolo dello Stato.
1. La pianificazione nazionale diviene più elaborata e la sempre maggiore efficienza della pubblica amministrazione la rende più efficace.
2. I servizi sociali hanno una forte espansione, richiedendo sempre maggiori risorse reali al fine di venire incontro all'enorme aumento della manodopera industriale e della popolazione urbana in generale.
Questa tendenza verso le spese sociali, tipica della marcia verso la maturità tecnologica dal tempo di Bismarck, merita di essere illustrata con un esempio tratto dal mondo contemporaneo. Essa emerge chiaramente nella tab. II, elaborata da J. W. Wilkie, che mostra l'evoluzione della ripartizione del bilancio statale messicano.
Durante i mandati di Camacho, Alemán e Ruiz Cortines (1940-1950, periodo di decollo) predominano le spese pubbliche con finalità economiche (comunicazioni, opere pubbliche, irrigazione, credito agricolo, investimenti in aziende pubbliche, e così via). Il mandato di López Mateos (1959-1964) segna l'inizio del cammino verso la maturità tecnologica, che continua nel decennio successivo e che vede crescere il peso relativo degli stanziamenti statali per l'istruzione, per l'assistenza sanitaria, per la previdenza sociale, e così via. La considerevole espansione delle spese pubbliche sotto G. Diaz Ordaz è accompagnata da ingenti aumenti nel gettito delle imposte sul reddito.
3. L'accresciuto potenziale dell'economia prodotto dal rapido sviluppo può provocare una domanda di importazioni cui non corrisponde una disponibilità sufficiente di divise estere, e ciò può risolversi a sua volta in un più stretto controllo statale sulle importazioni.
4. Lo sviluppo dell'economia nei nuovi settori tecnologicamente avanzati pone allo Stato importanti problemi politici, particolarmente per quanto concerne il controllo dell'industria da parte del capitale straniero.
Quest'ultimo problema durante la fase della marcia verso la maturità tecnologica tende ad acutizzarsi. E ciò per due distinte ragioni. Innanzitutto, con l'aumento numerico e il miglioramento qualitativo dei quadri locali, degli imprenditori, dirigenti, tecnici, ecc. e con il crescere della fiducia nella capacità della nazione di gestire in proprio il complesso delle attività industriali moderne, cresce anche il risentimento contro la proprietà di risorse e di impianti da parte del capitale straniero, frutto di negoziati stipulati in fasi precedenti dello sviluppo. Nel periodo delle condizioni preliminari del decollo, accettare la proprietà e la gestione straniere di società elettriche e telefoniche era cosa naturale. Ma dopo che una generazione è andata avanti nel processo di modernizzazione, tale situazione appare anomala: i dirigenti e i tecnici locali sono in grado di fare il lavoro necessario, e avere in casa degli stranieri che possiedono e fanno funzionare impianti di basilare importanza sembra inaccettabile. Aumentano così le pressioni perché una parte di tali investimenti stranieri sia nazionalizzata.
In secondo luogo abbiamo le nuove industrie, nate nella fase della marcia verso la maturità tecnologica. In questo caso le ragioni per accettare la presenza in misura significativa di società di proprietà straniera sono abbastanza chiare: le aziende straniere forniscono capitale, tecnologia e direzione che non possono esser trovati in loco se non a un costo eccessivo, in termini di altre possibilità di sviluppo. In alcuni casi (per es. il Messico, l'Iran degli anni sessanta e il Brasile dopo J. Goulart) è risultato possibile elaborare termini di accordo sufficientemente attraenti per le imprese straniere da indurle a intervenire, e sufficientemente vantaggiosi per la nazione interessata da essere politicamente accettabili. I punti critici sono stati: la partecipazione locale alla direzione e, dove possibile, alla proprietà, e l'assicurazione che gli investimenti stranieri avvenissero in settori tali da conformarsi al piano nazionale di sviluppo.
Invece, nei paesi latino-americani più piccoli, già passati attraverso il decollo, come ad esempio in Cile, in Perù e in Venezuela, il problema si è rivelato più arduo. A spiegare la gravità delle difficoltà in questi e in altri analoghi casi dell'America Latina concorrono parecchi fattori: a) la proprietà straniera controllava materie prime di base, con reazioni emotive del tipo ‛il nostro sacro suolo' (è questo il caso del rame cileno e del petrolio venezuelano); b) la questione della proprietà straniera si prestava agevolmente a essere utilizzata per movimentare la politica nazionale, distraendo la popolazione da altre più dure frustrazioni; c) i leaders latino-americani erano incapaci di progredire sulla via dell'integrazione economica.
Quest'ultimo fattore, che ha rafforzato i timori di una dominazione economica straniera, ha le sue radici nelle caratteristiche dello stadio iniziale del processo di industrializzazione nella maggior parte dell'America Latina.
Nei paesi sudamericani più avanzati il decollo può esser fatto risalire alla metà degli anni trenta, anche se sporadiche iniziative industriali moderne erano state introdotte in epoca precedente. La ‛grande depressione' ridusse drasticamente i proventi delle esportazioni e - al riparo di solidissime barriere protezionistiche - furono creati impianti tessili e altre industrie leggere destinate a sostituire le importazioni. Intorno alla fine degli anni cinquanta questi settori persero slancio e cominciarono a muoversi i settori chiave dello stadio successivo: siderurgia e metallurgia, fertilizzanti, cellulosa e carta, l'elettronica più semplice, ecc.
Ma il decollo aveva lasciato in eredità una situazione estremamente difficile.
In assenza di concorrenza all'interno, e dato che le necessità di divise estere continuavano a essere assicurate dalle esportazioni agricole tradizionali, l'industria rimase a un livello di scarsa efficienza economica. Diversamente da quanto è accaduto, per es., nel caso del Giappone, della Corea del Sud e di Formosa, nei nuovi settori manifatturieri non si manifestò alcuna tendenza al controllo della qualità e alle esportazioni. I prezzi venivano fissati, in una situazione di monopolio, sulla base di larghi sovraprofitti e di bassi tassi di utilizzazione degli impianti. L'esistenza di una vasta capacità produttiva inutilizzata era accettata come normale. In qualche caso i mercati erano assai ristretti e si facevano pochi sforzi per espanderli mediante moderni metodi di distribuzione, capaci di raggiungere gli strati più poveri della popolazione. Non appena la classe media (che in genere non assolve i suoi obblighi fiscali) raggiungeva livelli di reddito compatibili con il possesso di un'automobile, venivano introdotti nel paese stabilimenti di montaggio per una pluralità di modelli con conseguenti alti costi di gestione. E la varietà dei modelli limitava la produzione locale di singoli pezzi ai soli pneumatici e alle batterie, e quindi impediva il sorgere di industrie intermedie.
Pressati dal loro elettorato urbano, i governi si sono impegnati in una politica sociale che, a parte le massicce spese amministrative, non poteva tradursi in una ridistribuzione significativa delle risorse reali, dati i livelli delle entrate pubbliche, gli irregolari tassi di sviluppo e uno stato endemico di inflazione. E le imprese possedute e gestite dallo Stato venivano largamente utilizzate a fini politici, con il risultato che spesso funzionavano soltanto a prezzo di pesanti sovvenzioni.
Infine, la modernizzazione della vita rurale fu trascurata in tutti i suoi possibili aspetti: come fonte di cibo, come mezzo per procurarsi divise estere e come mercato per i prodotti industriali.
In questo contesto di inefficienza e di cattivo sfruttamento delle risorse (cui hanno contribuito attivamente sia il settore pubblico che il settore privato) si è dimostrato difficile introdurre su base razionale quelle industrie ad alta concentrazione di capitale che la marcia verso la maturità tecnologica richiede. Giacché una cosa è avere uno stabilimento tessile inefficiente, e una faccenda completamente diversa trovarsi sulle braccia come un elefante bianco una acciaieria o una fabbrica di fertilizzanti chimici.
È dunque sempre più chiaro che l'America Latina potrà avanzare a un ritmo costantemente elevato nei settori chiave della marcia verso la maturità tecnologica solo se compirà radicali passi in avanti quanto a efficienza. L'insieme delle protezioni doganali ereditate dalla fase di industrializzazione, caratterizzata da produzioni sostitutive delle importazioni, insieme alle modeste dimensioni di molti mercati nazionali latino-americani, impediscono agli esponenti e del potere pubblico e di quello privato politiche razionali di investimento, di produzione e di mercato proprio nei confronti delle industrie ad alta concentrazione di capitale. Giacché in molti casi l'introduzione efficace di queste tecnqlogie richiede una fase di importazione di capitali stranieri e almeno di alcuni nuclei di dirigenti e tecnici stranieri, la mancanza di una politica statale chiara e rassicurante verso il ruolo degli investimenti privati stranieri ha costituito un ulteriore ostacolo a un progresso in questi settori.
Molto approssimativamente, possiamo dire che qualche progresso in questa direzione è stato compiuto nel corso degli anni sessanta, particolarmente in Brasile dopo il 1965 e in Argentina, sotto Ongania e i militari che gli sono succeduti. Ma, anche sotto la guida dei regimi militari, il retaggio del passato si cancella solo lentamente e in modo diseguale.
La percezione della necessità urgente di una trasformazione strutturale in direzione dell'industria pesante e dei grandi complessi manifatturieri è alla base dei passi compiuti da numerosi leaders latino-americani a favore dell'integrazione economica, la quale appare appunto come la via comune meno ardua per realizzare efficienza concorrenziale, controllo della qualità e apertura verso le esportazioni nella misura richiesta. Il superamento dei retaggi protezionistici e monopolistici lasciati dalla prima fase del processo di industrializzazione sarà indubbiamente, insieme con l'assimilazione di una tecnologia appropriata, un decisivo banco di prova della politica economica latino-americana degli anni settanta, e saranno questi fattori a determinare, almeno in parte, il ritmo e la regolarità con cui procederà la marcia verso la maturità tecnologica.
Come già durante il decollo, anche nello stadio successivo può persistere il problema dell'inflazione. Le società in fase di marcia verso la maturità tecnologica sono anzi particolarmente soggette all'inflazione. Avendo dimostrato durante il decollo di poter padroneggiare, anche se in una gamma ristretta di attività, la tecnologia e l'industria moderne, si ritiene giustamente che una piena modernizzazione della società sia una possibilità realistica. Si manifesta così il desiderio di godere subito di benefici economici per ottenere i quali occorrono invece ancora una o due generazioni di progresso ininterrotto. Questa impazienza si traduce in potenti pressioni per una dilatazione della spesa pubblica che i governi non hanno la capacità politica di tenere a freno e cui d'altronde le risorse fiscali non consentono di far fronte. Ciò si è verificato particolarmente nell'Argentina, nel Brasile, nel Cile e nell'Uruguay degli anni sessanta, e l'inflazione derivatane è stata assai grave.
L'inflazione distorce l'orientamento degli investimenti. Essa determina tassi di cambio che tendono a restare indietro rispetto ai loro livelli reali, e di conseguenza a rendere le esportazioni difficili, e tende inoltre a far sì che negli affari si cerchi non già di massimizzare la produzione a prezzi bassi, ma piuttosto di individuare quel tipo di produzione e quel livello di prezzi che costituiscano il miglior riparo contro l'inflazione medesima. Ciò crea un'atmosfera entro la quale il lavoratore, che lotta ciecamente per difendersi dall'inflazione, perde qualsiasi senso del nesso che lega produttività e salari.
In termini politici e sociali, l'inflazione scatena ciascuna componente della società contro le altre. Essa impedisce quell'unificazione del popolo attorno a un obiettivo e a un programma nazionale che è essenziale perché una società si modernizzi in modo ragionevolmente ordinato. In un contesto di aspettative inflazionistiche la gente è inevitabilmente indotta a ricercare la ‛polizza di assicurazione' che la garantisca di più. Il fatto poi che questo sforzo generale di trovare la propria ‛polizza d'assicurazione' produca ulteriore inflazione, è un fenomeno di cui il singolo individuo o gruppo, che opera isolatamente, non è assolutamente in grado di tener conto.
L'inflazione latino-americana è come un cane che si morda la coda. Attualmente essa è non tanto un fenomeno economico, dato l'aumento delle entrate fiscali e del flusso di mezzi finanziari dall'estero, quanto piuttosto il riflesso di uno stato di frammentazione politica e sociale e di abitudini in materia di prezzi e di salari pubblici e privati, le quali sono state alimentate appunto da questo retroterra.
Nei paesi in fase di marcia verso la maturità tecnologica nei quali l'inflazione è stata in gran parte o del tutto contenuta, il risultato è stato ottenuto da regimi autocratici (per es. in Irān) o da governi democratici basati sia su un partito politico grande, ma non unico, sia su un'ampia coalizione (si vedano i casi del Messico e del Venezuela). Raggruppamenti siffatti sono talvolta riusciti (ma non sempre e non senza rovesci) a negoziare un consenso sulle priorità, tale da consentire allo sviluppo di procedere mantenendosi entro i limiti fissati dalle risorse finanziarie fornite dalle entrate fiscali e dagli interventi stranieri. Ma questo non basta; occorre un patto sociale nel cui quadro lavoratori, industria e governo giungano ad accordarsi non soltanto su norme che leghino gli aumenti salariali all'aumento della produttività, ma anche su come evitare che una tale regolamentazione sia utilizzata per accrescere la quota delle risorse che va a costituire i profitti.
Nelle società in cui la manodopera si sposta rapidamente dalle campagne alle città la cosa non dovrebbe, in linea teorica, essere troppo difficile. Il potere contrattuale delle classi lavoratrici nel loro complesso è relativamente modesto, eccezion fatta per alcuni sindacati che organizzano operai specializzati o per altri che hanno istituito rigidi controlli corporativi per nuove ammissioni. Inoltre, i salari reali dei lavoratori sono in generale estremamente vulnerabili rispetto all'inflazione e una strategia di sviluppo non inflazionistica verrebbe incontro soprattutto agli interessi dei lavoratori dell'industria e dell'intera comunità. Ma anche in regime militare la latente frammentazione sociale e politica, non esclusa la nefasta concorrenza tra capi sindacali, ha reso enormemente difficile mantenere un'armonia tra crescita economica e stabilità dei prezzi (come è avvenuto per es. in Argentina, in Brasile, in Perù).
Va peraltro detto che in ciò le società in fase di marcia verso la maturità tecnologica non fanno che condividere, sia pure in forma esasperata, un problema presente allo stato endemico anche in società tecnologicamente più avanzate e opulente (v. sotto, cap. 10).
L'evoluzione dell'India e le sue prospettive ne fanno un caso particolare tra i paesi in fase di marcia verso la maturità tecnologica, e meritano una menzione a parte. L'India odierna è andata oltre l'industria tessile e dei beni di consumo non durevoli (attività caratteristiche del decollo), ed è entrata in uno stadio in cui la crescita è sostenuta dagli alti tassi di incremento dell'industria siderurgica e metalmeccanica, dell'industria chimica e di quella elettronica grazie a una efficace assimilazione delle tecnologie. Come mostra la tab. III.
D'altro canto, l'India è un paese enorme con una popolazione superiore ai 550 milioni di unità. I suoi settori industriali, tecnologicamente sempre più avanzati, sono inseriti in un enorme settore agricolo, dalla produttività discontinua, che assorbe ancora più dell'80% della popolazione. La ‛rivoluzione verde' degli anni sessanta ha accresciuto la produzione agricola nel suo insieme di qualcosa come il 5% all'anno, generando al tempo stesso il fenomeno, ormai consueto in agricoltura, della radicale discriminazione tra coloro che sono in grado e coloro che non sono in grado di mobilitare il capitale necessario alla piena utilizzazione delle nuove sementi. Il risultato è una nazione con un PNL pro capite estremamente basso (intorno ai 100 dollari), contrassegnata da una grande disparità in materia di livelli di reddito e di tassi di sviluppo. L'India figura così, nel- l'ambito dei paesi in via di sviluppo, tra i più poveri, ma anche tra i tecnologicamente più avanzati.
In nome del socialismo democratico, in India il settore pubblico ha avuto una parte importante nello sviluppo. Esso vanta non soltanto la formulazione di una serie di piani quinquennali, ma anche la proprietà di servizi pubblici, di un buon numero di stabilimenti industriali nel campo dell'industria pesante e di una gran parte del sistema bancario; infine esercita un minuzioso controllo sulle importazioni nonché sull'afflusso di capitale privato. All'interno di questo contesto pesante - e spesso inefficiente - di controllo pubblico diretto e indiretto, il settore agricolo è in mani private, e lo stesso vale per alcune delle componenti più dinamiche del settore industriale, caratterizzato dall'emergere di una nuova e ben preparata generazione di imprenditori privati. Giovani che in passato avrebbero optato per un impiego pubblico o per la vita accademica, oggi entrano invece, in un numero sempre maggiore, nell'industria indiana. Condizionata e limitata da un lato nella disponibilità di crediti esteri e dall'altro nella propria capacità di espandere le esportazioni, l'India sta costruendo la sua industria (non diversamente dalla Cina comunista) partendo dalla sostituzione delle importazioni e dallo sfruttamento del suo vasto, se pur povero, mercato interno.
Tra le nazioni contemporanee in via di sviluppo, l'India costituisce un esempio particolarmente chiaro di come, nello stadio della marcia verso la maturità tecnologica, si possa far coesistere un settore privato sempre più dinamico e un forte e invadente settore pubblico (v. anche sottosviluppo e terzo mondo).
7. L'elevato consumo di massa
L'elevato consumo di massa è lo stadio dello sviluppo dominato dalla diffusione, di cui beneficia un'alta percentuale di famiglie, dell'automobile, dei beni di consumo durevoli e della casa di abitazione in centri residenziali periferici. Esso ha inizio quando il PNL pro capite raggiunge i 600 dollari, e si prolunga per circa un ventennio di prosperità. La lunghezza del periodo in cui questo processo domina lo sviluppo dipende in parte dal tasso di incremento dello stesso reddito pro capite. Ma dipende anche da fattori geografici (nella misura in cui questi influiscono sulla densità automobilistica), dalla distribuzione del reddito e anche, talvolta, dalle differenze nei gusti dei consumatori delle diverse nazioni. Altri fattori importanti sono l'elasticità della domanda in rapporto al reddito e le decisioni politiche in materia di ripartizione delle risorse tra consumi, redditi privati e servizi pubblici. Ma sinora la tendenza degli individui a optare per l'automobile e per tutti i suoi impieghi sembra, una volta raggiunto un certo livello di reddito pro capite, trascendere i confini nazionali e la diversità delle culture o delle ideologie dei regimi al potere.
Nel mondo contemporaneo l'automobile e la produzione automobilistica svolgono un ruolo importante già a livelli del PNL pro capite inferiori ai 600 dollari. Nella grande maggioranza dei paesi in via di sviluppo il mezzo di trasporto principale non è la ferrovia ma l'autocarro; e la classe media (ivi compresi i pubblici funzionari) giunge al possesso dell'autovettura privata e ai beni di consumo durevoli anche nei paesi meno avanzati. Stabilimenti di montaggio di automobili aprono i battenti assai presto, spesso già durante il decollo, e una crescita rapida nella produzione locale di pezzi di ricambio per autovetture è una caratteristica tipica della marcia verso la maturità tecnologica (così ad es. in America Latina, in Irān, a Formosa e in India).
Ma, se è vero che questo impegno nella produzione automobilistica assolve un suo preciso ruolo nel far avanzare lo sviluppo industriale già nella fase della marcia verso la maturità tecnologica, tuttavia questo stadio giunge al suo pieno sviluppo soltanto quando il reddito pro capite ha raggiunto un livello tale da rendere possibile un mercato locale di massa.
La pubblica dichiarazione di Henry Ford del 1809 fu come l'introduzione del tema centrale di una sinfonia da parte di uno strumento singolo. Egli disse che il suo scopo era di produrre e vendere un modello unico, a buon mercato e sicuro, ‟per la grande massa", affinché chiunque ‟guadagnasse una buona paga" potesse ‟godere con la propria famiglia il beneficio di lunghe ore di gioia negli spazi aperti del Signore". Tutte le volte che gli uomini sono arrivati a potersi permettere questi mezzi privati di spostamento del nucleo familiare e, beninteso, dove è stato loro permesso di farlo, l'attrattiva dell'automobile si è rivelata praticamente irresistibile in ogni angolo del globo, in tutte le situazioni culturali e politiche.
A tutt'oggi la produzione, la vendita e l'uso di massa dell'automobile sono stati, in virtù dei loro molteplici effetti, la più importante innovazione del Novecento, come la ferrovia lo era stata dell'Ottocento. Quello dell'automobile è divenuto un mercato rilevante anche se non egemonico per i prodotti siderurgici e metalmeccanici, per la gomma, il vetro, il petrolio e per le più semplici applicazioni dell'elettronica. L'automobile ha ristrutturato gli insediamenti urbani secondo direttrici periferiche; ha collegato i mercati rurali a quelli urbani in modi nuovi e più flessibili; ha creato la necessità di grandi organizzazioni di vendita e di servizi di assistenza, nonché una massiccia richiesta ‛sociale di strade e attrezzature di parcheggio; ha, infine, svolto un ruolo determinante in una rivoluzione sociale che tocca tutti i modi di vita, dalle abitudini di corteggiamento alle tecniche di fuga dei rapinatori di banche. L'automobile è stata inoltre accompagnata, e in vari modi indirettamente collegata, a un grande balzo in avanti della produzione di svariati beni di consumo durevoli e di cibi conservati, i quali, a mano a mano che l'aumento dei redditi e la vita in centri residenziali periferici rendevano il personale di servizio troppo costoso e inaccessibile, hanno finito con l'invadere le case: le macchine lavatrici e asciugatrici, l'aspirapolvere, il frigorifero, la caldaia a petrolio e, in seguito, il condizionatore d'aria, i cibi in scatola e più tardi surgelati.
La rivoluzione può essere fatta risalire da un punto di vista tecnico al 1913 e alla linea di montaggio mobile di Ford per il modello T. Ma fu la crescita del numero delle automobili private americane dagli otto milioni del 1920 ai ventitré milioni del 1929 a caratterizzare il primo ingresso effettivo di una società nello stadio dell'elevato consumo di massa.
Durante gli anni venti gli Stati Uniti registrarono un massiccio aumento (44%) della popolazione delle aree residenziali periferiche. Se si eccettua la costruzione di strade e l'urbanizzazione del circondario, questo è uno stadio dello sviluppo che, finché il reddito reale cresce regolarmente, non sembra richiedere significativi interventi statali.
Sino alla depressione degli anni trenta, la maggioranza degli Americani era disposta a sottoscrivere il motto di C. Coolidge: ‟The business of America is business". Nel corso degli anni venti gli stanziamenti federali per servizi economici e ambientali (che avevano subito una brusca impennata rispetto al livello prebellico) si mantennero, in percentuale del PNL, pressappoco costanti; la loro voce principale era costituita dalla costruzione di strade. Quanto ai servizi sociali, la percentuale scese dal 3,5 al 3,2%, malgrado l'aumento delle spese per l'istruzione resosi necessario nelle aree urbane e suburbane (tra il 1920 e il 1930 questa voce salì da 1,1 a 2,5 miliardi di dollari, a carico soprattutto dei bilanci delle amministrazioni locali e dei singoli Stati).
Dopo la ‛grande depressione' e la seconda guerra mondiale il processo di sviluppo riprese. Tra il 1929 e il 1939 il numero delle autovetture private in circolazione per milione di abitanti era cresciuto soltanto da 189.000 a 200.000, e a 201.000 nel 1945. Ma nel 1956, nella fase culminante del ciclo, si era arrivati a 323.000. Il movimento verso zone residenziali periferiche riprese a tutta velocità e la vasta gamma di industrie e servizi collegati alla diffusione dell'automobile recuperò lo slancio degli anni venti. E, come negli anni venti, gli impulsi a riformare s'indebolirono.
Ma la capacità dei settori guida, nello stadio dell'elevato consumo di massa, di fornire slancio e stimoli di crescita all'economia aveva ovviamente un limite: nel 1957 il 75% delle famiglie americane possedeva un'automobile, il 78% una lavatrice e il 67% un aspirapolvere. Divenne cosi chiaro che l'ormai enorme complesso dell'automobile e dei beni di consumo durevoli stava perdendo, nel corso degli anni cinquanta, la sua funzione di base nello sviluppo americano. E in realtà i tassi di crescita degli anni cinquanta, già in diminuzione, sarebbero stati ancora minori senza l'incremento delle spese effettuate dai vari Stati e dalle amministrazioni locali per appoggiare l'espansione delle zone residenziali periferiche, senza la costruzione di strade per far fronte all'intensificazione dell'uso dell'automobile, e, infine, senza la progressiva espansione delle spese per la previdenza sociale.
Nel corso dello stesso decennio, mentre gli Stati Uniti portavano all'estrema possibilità l'elevato consumo di massa come base dello sviluppo, l'Europa occidentale e il Giappone entravano pienamente, - e, si potrebbe dire, entusiasticamente - in questo stadio, come mostra il diagramma 3.
di Paolo Sylos-Labini
Sottosviluppo
sommario: 1. Lo sviluppo economico: storia e teoria. 2. Il processo di colonizzazione. 3. Colonie di sfruttamento e colonie di popolamento. 4. Misure del sottosviluppo. 5. I paesi sottosviluppati nei diversi continenti. 6. Le strutture sociali. 7. Alcune ragioni della varietà nei saggi di sviluppo. 8. L'agricoltura. 9. Il problema della fame e la politica demografica. 10. Lo sviluppo industriale. 11. Le imprese multinazionali. 12. Commercio estero e progresso tecnico. 13. Le politiche di sviluppo. 14. Conflitti interni e conflitti internazionali. 15. Gli obiettivi dello sviluppo e le prospettive economiche. 16. Riforme e rivoluzione. □ Bibliografia.
Non s'intende svolgere un'esposizione sistematica, ma solo fornire qualche ragguaglio sul problema del sottosviluppo e prospettare, in modo ordinato, alcuni temi di riflessione. In particolare, il proposito è di mettere in chiaro l'ampiezza e la complessità del problema, che a rigore richiederebbe il lavoro congiunto di studiosi appartenenti a differenti discipline: non solo l'economia, ma anche la storia (specialmente la storia economica), l'antropologia, la demografia, la sociologia, la politologia, il diritto. Un'analisi elaborata da chi coltiva una sola di queste discipline non può che essere molto parziale.
1. Lo sviluppo economico: storia e teoria
I processi di sviluppo sono molteplici e hanno carattere storico. Pertanto, le possibilità di teorizzare, ossia di generalizzare, alcuni aspetti essenziali di siffatti processi sono inevitabilmente limitate. Ciononostante, conviene compiere tentativi in questa direzione, poiché le alternative si presentano come meno efficaci e più costose dal punto di vista interpretativo. In via preliminare, conviene distinguere diversi ‛stadi' nell'evoluzione economica delle società. Accogliendo i suggerimenti di Adam Smith, possiamo distinguere tre stadi primitivi, durante i quali non c'è ancora la proprietà privata della terra: caccia e pesca, pastorizia e agricoltura di sussistenza; a questi tre stadi occorre aggiungere, almeno nel caso dell'Europa (Grecia e Roma), lo stadio dell'economia fondata sul lavoro degli schiavi. Seguendo i suggerimenti dello stesso Smith e sulla scorta dell'analisi di Karl Marx, nell'epoca moderna distinguiamo tre stadi ulteriori: agricoltura feudale, capitalismo mercantile e capitalismo industriale. Naturalmente, fra i diversi stadi non vi sono mai confini netti e non di rado coesistono attività economiche e strutture sociali proprie di stadi diversi, anche se in una data epoca e in un dato paese tendono a prevalere un certo tipo di attività economica e un certo tipo di struttura sociale. Sebbene periodi di espansione produttiva abbiano avuto luogo presumibilmente in tutte le società anche negli stadi non recenti, sulla base di sporadiche innovazioni, è solo durante lo stadio del capitalismo industriale, là dove si afferma, che lo sviluppo diventa, pur tra fluttuazioni, un processo sistematico che ha assunto forme diverse nei diversi paesi capitalistici e forme particolarissime nei casi, recenti da un punto di vista storico, dei paesi a economia pianificata.
Ben poco si può comprendere dei paesi oggi ‛sottosviluppati' o ‛arretrati' senza una qualche nozione di storia economica con particolare riguardo alla colonizzazione che ebbe luogo durante gli ultimi due stadi sopra richiamati, e cioè lo stadio del capitalismo mercantile e quello del capitalismo industriale (v. colonialismo; imperialismo).
2. Il processo di colonizzazione
Il processo di colonizzazione è molto antico e ha assunto contenuti diversi nelle diverse epoche storiche.
Adam Smith osserva che la colonizzazione greca e quella romana differiscono fra loro e differiscono ancora più profondamente dalla colonizzazione dell'età moderna, che segue le grandi scoperte geografiche compiute da Vasco da Gama e da Cristoforo Colombo. Smith attribuisce un'importanza capitale alle scoperte geografiche e agli effetti che ne sono derivati. A questo proposito conviene riportare un passo dello stesso Smith, ove si trovano osservazioni quasi profetiche che indicano la straordinaria capacità di sintesi storica del padre della teoria economica moderna.
‟La scoperta dell'America e quella del passaggio del Capo di Buona Speranza per le Indie Orientali sono i due più grandi e importanti avvenimenti ricordati nella storia dell'umanità. Le loro conseguenze sono già state molto grandi; ma, nel breve periodo dei due o tre secoli che sono trascorsi da queste scoperte, e impossibile che si sia potuta vedere tutta l'importanza delle loro conseguenze. Nessuna sapienza umana può prevedere quali benefici, o quali sventure, possano in futuro derivare all'umanità da questi grandi avvenimenti. Unendo in qualche modo le parti più lontane del mondo, permettendo loro di soddisfare reciprocamente i loro bisogni reciproci, di aumentare reaprocamente le loro soddisfazioni e di incoraggiare reciprocamente le loro attività produttive, la loro tendenza generale sembrerebbe essere benefica. Tuttavia, per gli indigeni delle Indie Orientali e Occidentali, tutti i vantaggi commerciali che possono essere derivati da questi avvenimenti sono stati sommersi e perduti per le terribili sventure che essi hanno provocato. Sembra però che queste sventure siano derivate da cause accidentali piuttosto che da qualcosa che fosse nella natura di quegli stessi avvenimenti. Al tempo in cui vennero compiute queste scoperte, la superiorità di forze risultava essere così grande a vantaggio degli Europei, che essi poterono commettere impunemente ogni tipo di ingiustizia in quei paesi lontani. In futuro, forse, gli indigeni di quei paesi potranno diventare più forti, oppure gli Europei potranno diventare più deboli e gli abitanti di tutte le varie parti del mondo potranno forse pervenire a quell'uguaglianza di coraggio e di forze che, ispirando loro un timore reciproco, può sola trattenere l'ingiustizia delle nazioni indipendenti inducendole a rispettare in qualche misura i loro diritti reciproci" (v. Smith, 1776; tr. it., vol. II, p. 618).
Da un lato, dunque, Smith mette in rilievo i benefici, dall'altro, le ‟terribili sventure" provocate da quelle scoperte e le ‟ingiustizie" che gli Europei hanno potuto compiere nei paesi del Nuovo Mondo, grazie alla superiorità delle loro forze. Naturalmente, la sua analisi è centrata sulla colonizzazione nello stadio del capitalismo mercantile, dal momento che ai suoi tempi il capitalismo industriale era ancora di là da venire. In termini schematici si può dire che il primo processo, che si svolge dal Cinquecento al principio dell'Ottocento, è reso possibile da importanti innovazioni nel campo della navigazione ed è determinato da un triplice obiettivo: ricerca di oro e di altri metalli preziosi; costituzione di ‛empori', per la vendita di merci della madrepatria e per l'acquisto, in condizioni di monopolio assoluto, di merci esotiche da rivendere nel paese colonizzatore; costituzione di piantagioni per produrre (di solito per mezzo di schiavi) merci da vendere poi nella madrepatria: zucchero, caffè, tabacco, cacao. Per mantenere il controllo delle colonie di sfruttamento e delle città-emporio, vengono irrobustite le flotte da guerra e sono costituite colonie e roccheforti con fini essenzialmente strategico-militari.
Le specifiche e diverse motivazioni di questa fase corrispondono alle caratteristiche del sistema sociale delle più forti società organizzate del tempo (in un primo momento, fra il Cinquecento e il Seicento, Portogallo e Spagna; quindi anche Olanda, Francia e Inghilterra). Si tratta di sistemi con una struttura portante ancora di tipo feudale, ma nei quali si vanno rafforzando i ceti mercantili, che - in una con i più alti funzionari e amministratori dei principi o monarchi - trovano proprio fuori della patria d'origine i modi più rapidi per arricchirsi e quindi per salire socialmente. L'arricchimento, in quel periodo, avviene soprattutto attraverso il commercio, e specialmente attraverso il commercio di prodotti esotici e di pietre preziose. L'esigenza di sostenere lo sviluppo dei traffici con una crescente quantità di moneta - che in quel tempo era costituita prevalentemente da oro e da argento - spiega la grande attrazione esercitata sui mercanti, sugli avventurieri e sui monarchi dai nuovi giacimenti di metalli preziosi.
In questo primo periodo, gli strumenti che formalizzano giuridicamente la colonizzazione sono gli Atti di navigazione - particolari leggi che attribuiscono il monopolio assoluto dei traffici con determinati paesi dominati (colonie) a determinati paesi dominanti e, a questo fine, stabiliscono regole rigorose ed esclusive sui modi e sui mezzi di comunicazione marittima. Gli strumenti organizzativi e integrativi di tali norme sono le compagnie commerciali, composte da mercanti e da funzionari, alle quali il monarca attribuisce l'esercizio monopolistico dei traffici con le colonie. Certe nazioni, invece di dare il monopolio a una compagnia, concentrano tutto il commercio delle loro colonie in un determinato porto della madrepatria. Adam Smith, pur riconoscendo, a malincuore, una funzione storica agli Atti di navigazione e ai monopoli delle compagnie commerciali, li considera, per il suo tempo, sorpassati e deleteri; egli è favorevole, nell'interesse stesso dei paesi dominanti, al libero scambio tra le colonie e tutti i paesi.
Fra i paesi dominanti di questo periodo occorre distinguere, da un lato, i paesi iberici, Spagna e Portogallo, e dall'altro, Francia e Inghilterra; il sistema sociale in entrambi i casi è misto (feudale e mercantile nello stesso tempo), ma nel primo caso prevalgono le caratteristiche feudali, nel secondo quelle capitalistico-mercantili. Il Portogallo, quindi, e ancor di più la Spagna, ‛esportano' nelle colonie istituti tipicamente feudali, specialmente in quelle che diventano colonie di popolamento (così per l'assegnazione di terre in molti paesi dell'America Latina è usata l'encomienda, forma di concessione che conferisce al funzionario o al mercante che ne beneficia una giurisdizione completa, di tipo appunto feudale, su uomini e cose a lui assegnati). Gli istituti esportati dalla Francia e dall'Inghilterra nelle colonie hanno invece caratteristiche meno feudali e molto più capitalistiche. Inoltre, in Inghilterra le lotte religiose portano a un'emigrazione verso le colonie del Nuovo Mondo di persone che, per la maggior parte, all'atto della partenza non sono nè mercanti nè funzionari nè puri e semplici avventuneri e che tendono a costituire comunità libere, strutturate con istituti autonomi e non creati strumentalmente in funzione coloniale. Anche l'azione di questi coloni verso gli indigeni è spietata: essi vengono relegati in terre poco accessibili e poco fertili o addirittura sterminati. Tuttavia, gli sviluppi delle colonie di popolamento sono ben diversi da quelli delle colonie di puro sfruttamento o delle colonie di popolamento con forme organizzative di tipo feudale.
Nel periodo del capitalismo industriale moderno (dal principio dell'Ottocento in poi) le motivazioni specifiche delle colonizzazioni cambiano e cresce il loro numero: accanto alle motivazioni essenzialmente commerciali (fra cui diventa molto più rilevante la ricerca di sbocchi per i prodotti della madrepatria), compare o si rafforza la ricerca di materie prime per l'industria della madrepatria (minerali, cotone, prodotti alimentari). Con lo sviluppo dei moderni imperi - segnatamente quello inglese e quello francese - si fanno più numerosi e più importanti i casi di colonie o di zone coloniali conquistate e mantenute per ragioni strategico-militari, e in particolare per rafforzare il controllo della madrepatria sui grandi imperi coloniali.
Le più violente lotte coloniali del nostro tempo si svolgono dal 1870 in poi e culminano con la prima guerra mondiale che ha, fra le sue molteplici motivazioni, anche quella di procedere a una nuova spartizione delle colonie. Appartengono a questo periodo (1876-1918) una prima e poi una seconda spartizione dell'Africa. In questi anni si afferma anche il colonialismo della Germania, poi stroncato dall'esito della prima guerra mondiale. La Russia zarista (ove tuttavia il capitalismo industriale ha uno sviluppo tardivo e limitato) realizza le sue conquiste coloniali verso l'Oriente, e in Estremo Oriente si afferma il colonialismo del Giappone, ove, a partire dall'ultimo quarto del secolo scorso, comincia a delinearsi un rapido sviluppo di tipo industriale. Anche l'Italia tenta di inserirsi - con successi molto modesti - nella spartizione coloniale dell'Africa e nella conquista di punti coloniali in Cina, le cui coste sono però largamente dominate dai maggiori paesi imperialistici (Inghilterra, Francia, Giappone).
Fra le molteplici motivazioni della seconda guerra mondiale non mancano quelle connesse alla politica imperialistica e coloniale, ma il loro peso non è determinante nello scoppio del conflitto. Dalla fine di questa guerra si mette in moto un generale processo di decolonizzazione: molti paesi acquistano così, almeno formalmente, la loro indipendenza politica. Ciononostante, almeno in un primo periodo, il dominio delle potenze coloniali continua a farsi sentire e, malgrado i rapidi cambiamenti, la tremenda eredità del passato pesa sui paesi di recente indipendenza politica, come pesa tuttora sui paesi che questa indipendenza politica hanno ottenuto molto tempo fa: è questo il caso, per es., di molti paesi dell'America Latina.
Quelli che oggi vengono definiti paesi sottosviluppati o arretrati sono di regola paesi che in un tempo più o meno recente sono stati, in una forma o nell'altra, paesi coloniali: le eccezioni a questa regola, come la Turchia e l'Iran, sono più apparenti che reali. Alcuni paesi un tempo coloniali, come gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia e la Nuova Zelanda, hanno conquistato in epoca lontana la loro autonomia totale o parziale, e oggi sono anzi fra i paesi economicamente più progrediti. Si tratta però, come si è già accennato, di paesi che erano già in origine colonie di tipo speciale: colonie di popolamento, e inoltre con particolari caratteristiche e particolari istituti ‛importati' dai coloni.
3. Colonie di sfruttamento e colonie di popolamento
Le colonie di sfruttamento si affermarono particolarmente nelle zone equatoriali e tropicali: il clima rendeva difficile l'insediamento dei bianchi, i quali, dopo aver conquistato quelle terre, si limitavano a promuovere il commercio e la produzione agricola o mineraria con l'impiego di schiavi o di salariati.
Nelle colonie africane gli indigeni stessi furono trasformati in schiavi o costretti a lavorare come salariati; nelle colonie spagnole e portoghesi e, in seguito, nelle colonie inglesi delle zone tropicali del continente americano furono invece portati come schiavi milioni di uomini catturati in Africa, poiché gli indigeni di quelle zone si erano dimostrati inadatti al lavoro nelle piantagioni e nelle miniere. Per disporre delle terre possedute dagli indigeni e trasformarle in piantagioni o in miniere o anche (in certe regioni) in aziende agricole condotte dai coloni bianchi, sono stati perpetrati veri e propri genocidi, particolarmente in Brasile, in certe colonie spagnole e in due paesi che originariamente sono stati colonie di popolamento, Stati Uniti e Canada. Quanto al commercio degli schiavi, occorre osservare che, analogamente alla colonizzazione, anche la schiavitù dell'epoca moderna differisce in modo sostanziale da quella dell'epoca antica. Il commercio degli schiavi è stato attuato soprattutto da mussulmani, Portoghesi (nel Cinquecento Lisbona fu il maggior centro europeo di questo commercio), Spagnoli, Inglesi (Liverpool divenne un centro importante nel Settecento) e Olandesi.
Durante il periodo del capitalismo industriale nelle colonie di sfruttamento la situazione generale subisce profondi mutamenti: la schiavitù viene abolita e cambia il peso relativo delle diverse merci; tuttavia permangono, rispetto allo stadio precedente, alcune caratteristiche fondamentali. È bene tener presente che nel capitalismo mercantile la regola generale è ‛comprare a basso prezzo e vender caro'; in siffatte condizioni i mezzi di trasporto, per mare e per terra, e l'organizzazione di porti e di depositi hanno svolto una funzione essenziale. Nel capitalismo mercantile i profitti, nel medio e nel lungo periodo e nell'aggregato, sono relativamente stabili nel tempo, in quanto fondati su monopoli, garantiti dal potere politico, di determinati traffici, ovvero sul possesso di determinate terre e sul controllo pieno e diretto dei lavoratori che in esse lavorano. Il protagonista di questo sistema economico-sociale non entra nella produzione: al massimo la attua, con tecniche sostanzialmente invariate, attraverso lavoro coatto. Viceversa, nel capitalismo industriale i profitti non sono fondati su monopoli o su privilegi, ma debbono essere ottenuti in mercati aperti: tali sono, nel nuovo stadio, sia i mercati dei prodotti sia il mercato del lavoro; i profitti tendono a diminuire e possono essere via via ricostituiti, a condizione che il capitalista industriale rinnovi pressoché incessantemente i metodi produttivi per ridurre i costi, se i prezzi diminuiscono, o per neutralizzare i crescenti costi del lavoro se, a parità di prezzi, aumentano i salari.
Per quanto si è detto, nel capitalismo mercantile la produzione è, per sua natura, stazionaria: cresce solo se crescono, per fatti esterni, la domanda e i traffici. Forse perciò il capitalismo mercantile si afferma, in quanto sistema sociale, in simbiosi col feudalesimo, un sistema che per sua natura è stazionario dal punto di vista economico, dato che i signori feudali rifuggono dalle intraprese produttive. Spagna e Portogallo hanno appunto ‛esportato' nelle loro colonie un tale sistema misto. Nel capitalismo industriale, invece, la produzione tende a crescere per motivi interni allo stesso sistema. Pertanto, come aveva esattamente previsto Adam Smith, i privilegi commerciali, da un lato, e il lavoro coatto, dall'altro, mentre sono vantaggiosi per i privati che ne godono, non lo sono per la società nel suo complesso, poiché non promuovono l'espansione della ricchezza delle nazioni: profitti alti e relativamente sicuri non stimolano i cambiamenti creativi. Questo è un punto concettualmente di grande importanza per comprendere la logica dello sviluppo o del mancato sviluppo.
Alcune caratteristiche del capitalismo mercantile sopravvivono anche nell'epoca del capitalismo industriale, nelle piantagioni e nelle miniere dei paesi di tipo coloniale. Questo è vero anche nel Sud degli Stati Uniti, dove la schiavitù viene abolita molto tardi, dopo la guerra civile.
Nelle colonie di popolamento, diversamente da quanto accade nelle altre, in un primo tempo si afferma un sistema caratterizzato dalla prevalenza di numerosi piccoli produttori indipendenti: è un sistema a sé, che non è propriamente né feudale nè capitalistico. In un secondo tempo si afferma un capitalismo di tipo industriale, che anzi si sviluppa con un ritmo particolarmente rapido per ragioni connesse al mercato del lavoro, come si vedrà oltre (v. cap. 7), e per ragioni che si possono definire culturali in senso lato. In effetti nel Nordamerica i coloni sviluppano direttamente l'attività economica - senza schiavi e senza altri lavoratori coatti - e portano con sé la loro cultura: la conoscenza delle tecnologie agricole e artigianali (quelle propriamente industriali sono ancora di là da venire), la cultura istituzionale, legislativa e amministrativa. La cultura - un concetto che tende a coincidere con quello di civiltà - in ultima analisi è la causa profonda dello sviluppo economico e civile di una data collettività; uno sviluppo, tuttavia, che può essere portato avanti con mezzi aggressivi e non solo con mezzi pacifici. Infatti, intesa in senso ampio, la cultura include la conoscenza - e la capacità di far progredire la conoscenza - non solo delle arti e delle tecnologie per la produzione e per i trasporti, ma anche delle tecnologie militari.
Queste osservazioni sono da tener presenti anche quando si voglia spiegare l'evoluzione molto differenziata di zone un tempo colonie di uno stesso paese dominante: all'origine non troviamo solo diverse condizioni di clima e di risorse; troviamo anche - ciò che più conta - flussi migratori di persone fornite di culture più o meno evolute. Se da tali osservazioni si volessero ricavare illazioni di tipo razzista, si darebbe prova di grave superficialità. La diversità nei gradi di sviluppo culturale, oltre che economico e civile, delle diverse popolazioni, è innegabile: alcune culture sono incomparabilmente più complesse di altre. Ma un'interpretazione razzista di un tale stato di cose riferisce questi diversi gradi di sviluppo a differenze biologiche, innate e permanenti, mai dimostrate, mentre un'interpretazione non razzista li attribuisce a motivi storici: e ciò che la storia porta con sé, la storia stessa, nel tempo, tende a dissolvere o a cambiare.
Il problema storico per eccellenza diviene allora: perché alcune popolazioni si sono sviluppate prima di altre? E qual è la ragione ultima della superiorità tecnologica della cultura europea sulle altre per un lungo periodo storico? La caratteristica peculiare della cultura europea sembra consistere nel fatto che, insieme col pensiero speculativo e morale, essa abbraccia i sistemi generali dell'organizzazione sociale, fra cui, in primo luogo, il sistema giuridico; tali sistemi si sviluppano soprattutto nell'epoca romana, si rinnovano poi e si articolano nel periodo feudale e si rivelano talmente vitali da risultare utilizzabili nei tempi, nei sistemi sociali e nei paesi più diversi. Dallo sviluppo dei sistemi giuridici dell'organizzazione sociale si passa poi, attraverso un'evoluzione che vede il declino di certe classi e lo sviluppo di altre, allo sviluppo delle forme moderne dell'organizzazione economica e all'applicazione sistematica delle scoperte scientifiche alla produzione di merci e di armi e ai mezzi di trasporto.
Comunque sia, il problema del sottosviluppo economico non può quindi essere spiegato nell'ambito puramente economico: dev'essere posto sul piano più ampio dell'evoluzione culturale.
4. Misure del sottosviluppo
Nonostante l'insufficienza di attendibili dati statistici, gli storici economici e gli economisti sono concordi nel ritenere che nel passato le distanze economiche fra i diversi paesi del mondo fossero sensibilmente inferiori alle distanze osservabili oggi: cento anni fa il reddito individuale medio - è questo il termine di riferimento più usato per misurare la distanza economica fra i diversi paesi - poteva essere da un terzo a un sesto inferiore in Asia e in Africa rispetto a quello dei paesi più sviluppati dell'Europa e dell'America; oggi invece tale rapporto è assai più sfavorevole. In ogni caso tuttavia, come appare dalle cifre ora ricordate, i redditi individuali dei paesi oggi sviluppati erano nettamente maggiori di quelli degli altri già nella fase preindustriale: lo sviluppo dell'industria ha fortemente aggravato il divario precedente. Inoltre, la distanza che si può definire culturale - almeno della cultura idonea a promuovere un processo di sviluppo - era anche maggiore del divario fra i redditi. (Solo certi aspetti particolari della distanza culturale sono misurabili: il grado d'istruzione, l'organizzazione sanitaria e lo stato di salute).
Dunque, la distanza economica fra i paesi oggi sviluppati e i paesi sottosviluppati, già sensibile cento anni fa, è andata in seguito ulteriormente crescendo. Tuttavia, la misura generalmente usata per calcolare questa differenza (il reddito individuale), se non viene corretta, risulta ingannevole, poiché induce a credere che la distanza sia molto maggiore di quanto non è in realtà; questa osservazione risulta valida anche indipendentemente dalla produzione destinata all'autoconsumo, che nei paesi più poveri raggiunge dimensioni cospicue.
Per confrontare il reddito individuale di un paese sottosviluppato con quello di un paese sviluppato si procede di solito nel modo seguente: si assume come termine di confronto il reddito individuale degli Stati Uniti e si traduce in dollari il reddito del paese considerato, in modo da ottenere redditi monetari omogenei; per compiere questa traduzione, si usa il tasso di cambio. Ma il cambio esprime il rapporto dei poteri d'acquisto di due unità monetarie in termini delle merci che sono oggetto di commercio internazionale e proprio qui è l'origine dell'errore per il confronto che si intende compiere. Infatti, a noi interessa il confronto fra i poteri d'acquisto che vanno attribuiti ai redditi individuali medi di due o più paesi (salvo poi a considerare separatamente la distribuzione del reddito complessivo), e a questo scopo l'uso del tasso di cambio risulta ingannevole per due motivi: 1) perché al fine indicato sono rilevanti i prezzi al minuto e non quelli all'ingrosso; 2) perché nel reddito individuale medio non entrano solo le merci (tutte le merci consumabili) ma anche i servizi. La questione riveste grande importanza, non solo dal punto di vista dell'analisi economica, ma anche, come vedremo, sotto l'aspetto della politica economica e anzi della politica in generale (v. cap. 16): è quindi opportuno chiarire le ragioni di quanto si è detto.
Supponiamo che il salario per un giorno di lavoro comune sia in India pari a una rupia e, negli Stati Uniti, pari a un dollaro. Se ci fosse completa mobilità di lavoratori fra i due paesi, il cambio dovrebbe essere 1 : 1. Se invece possono spostarsi solo le merci e non i lavoratori (salvo casi sporadici) e se negli Stati Uniti la produttività, nel settore delle merci , è dieci volte maggiore che in India, la merce costa 1 giorno di lavoro nel primo paese e 10 giorni nel secondo, cosicché negli Stati Uniti il prezzo di una data merce è di 1 dollaro e in India di 10 rupie. Dunque, se sono trasferibili solo le merci, il cambio è 1 : 10. Il cambio effettivo tende appunto a livellarsi su questo valore, non sull'altro. Se però il reddito indiano, misurato in rupie, è composto per il 70% di merci e per il 30% di servizi, il cambio, che dipende solo dal rapporto fra i prezzi delle merci, tenderà a sottovalutare il potere d'acquisto interno del reddito monetario indiano rispetto all'incidenza dei servizi. Dal momento poi che le retribuzioni dei commercianti al minuto saranno, in India, simili alle retribuzioni del settore delle merci, quando non si considerano i prezzi all'ingrosso (quali sono quelli vigenti nel commercio internazionale), ma i prezzi al minuto, la sottovalutazione risulta ulteriormente aggravata, poiché i margini commerciali sono minori in India, pur tenendo conto che in questo paese l'efficienza del sistema commerciale è minore che negli Stati Uniti. Se, invece di seguire i criteri della moderna contabilità nazionale, si fosse seguito il criterio smithiano del ‟lavoro comandato" da una data merce (o delle quantità di merci ‟comandate", ossia acquistate, da una data quantità di lavoro comune), l'errore di cui parliamo sarebbe stato evitato.
Negli ultimi anni alcuni economisti, in particolare I. B. Kravis, hanno cercato di correggere il criterio di raffronto basato sul tasso di cambio. È possibile infatti individuare una norma nelle deviazioni del tasso di cambio effettivo rispetto al tasso di cambio che chiameremo ‛di conto', poiché tali deviazioni dipendono da fattori che variano in modo sistematico rispetto al grado di sviluppo (specialmente: produttività nel settore delle merci e quota dei servizi sul reddito nazionale). In effetti, Kravis e altri economisti hanno stabilito una relazione sistematica fra i due tassi di cambio.
Sempre su questa linea di ragionamento, ci è sembrato che si possa utilizzare una formula molto semplice per correggere nel senso ora chiarito il rapporto fra valore del reddito individuale degli Stati Uniti e quello di un determinato paese sottosviluppato. Se chiamiamo R questo rapporto e R* il rapporto corretto, il coefficiente di correzione è dato semplicemente da c = 4√-R, cosicché R* = R/c, dove c tende a 1 man mano che R diminuisce; in altri termini, per i paesi con un reddito vicino a quello degli Stati Uniti, il divario fra R e R* tende ad annullarsi. È bene tener presente che questa è una regola pratica e anche molto approssimativa. Ma non possono non essere approssimative anche le stime dei redditi dei diversi paesi, indipendentemente dai confronti: l'importante è che le approssimazioni non siano fuorvianti. Poiché il più alto R è quello che si riferisce al Bangladesh, il cui reddito individuale è, secondo il rapporto non corretto, 106,6 volte inferiore a quello degli Stati Uniti, il massimo R* è pari a 33,2; per illustrazione: un R pari a 10, 5 e 3 comporta un R* pari, rispettivamente, a 5,6, 3,3 e 2,3. Occorre tener presente che i redditi monetari posti a confronto comprendono quasi esclusivamente i beni e i servizi scambiati nei mercati, interni e internazionali; se si potessero includere anche i beni prodotti e consumati direttamente dalle unità familiari che operano in agricoltura, beni che nei paesi arretrati hanno una notevole rilevanza, quei rapporti diverrebbero ancora più bassi. Si deve anche avvertire che non solo il rapporto dei redditi, ma lo stesso saggio annuale di variazione deve essere corretto se, come spesso accade, le istituzioni internazionali calcolano tale saggio sui redditi monetari espressi in dollari; nel caso del saggio di variazione, tuttavia, le correzioni di norma sono di lieve entità.
Ciò premesso, conviene esaminare la tab. I, che indica il quadro della popolazione mondiale, suddivisa secondo alcune importanti categorie di paesi, e la tab. II, che indica i rapporti, corretti, fra il reddito individuale americano e quello di 41 paesi appartenenti alle categorie introdotte nella tabella precedente: paesi a reddito basso, medio e alto, paesi esportatori di petrolio e paesi a economia pianificata. Quelli considerati singolarmente nella tab. II sono i paesi a reddito basso e medio con oltre 9 milioni di abitanti; fra i paesi a reddito alto (cioè i paesi industrializzati) è stata isolata l'Italia; di quelli a economia pianificata sono stati considerati solo la Cina, l'Unione Sovietica e Cuba. Per reddito basso s'intende quello che è oltre 11 volte inferiore al reddito individuale americano; per reddito medio quello che è da 11 a 2 volte inferiore; per reddito alto quello fino a 2 volte inferiore (ma la Svezia e la Svizzera hanno un reddito individuale alquanto superiore al reddito americano). I paesi sottosviluppati in senso stretto sono quelli a reddito basso: è là che si trova la grande maggioranza delle persone che soffrono la fame. I paesi a reddito medio sono da considerare sottosviluppati in senso relativo; nei paesi a reddito medio-basso, sono rilevanti le quote di individui malnutriti e analfabeti.
Seguendo l'uso corrente, i paesi a reddito basso e medio, come anche i paesi esportatori di petrolio, verranno qui indicati anche come ‛paesi del Terzo Mondo', in contrapposizione ai paesi industrializzati e a quelli a economia pianificata. L'Italia, con un rapporto pari a 2, è al confine fra i paesi industrializzati e quelli a reddito medio: mentre l'Italia centro-settentrionale, con un rapporto di circa 1,6, rientra nettamente nella prima categoria, l'Italia meridionale, con un rapporto vicino a 3, appartiene in maniera altrettanto chiara alla fascia dei paesi a reddito medio.
Il reddito individuale è certo un utile indicatore sintetico delle condizioni economiche di un paese; ma, se preso isolatamente, è un indicatore del tutto insufficiente e, in certi casi, perfino ingannevole. È insufficiente sullo stesso piano economico in quanto - per fare solo due esempi - non dice nulla circa la distribuzione del reddito (v. cap. 6) e circa la struttura produttiva. Può essere inoltre ingannevole se lo si vuole usare anche come indicatore delle condizioni economiche di una data popolazione. Così, per esempio, il livello relativo del reddito individuale medio dei paesi esportatori di petrolio (la VI categoria include solo i grandi esportatori) e di quelli che producono comunque quantità relativamente elevate di petrolio, come la Nigeria e il Venezuela, potrebbe far pensare, considerato isolatamente, a condizioni economiche migliori della realtà. In altri casi, il reddito medio risulta ingannevole per l'esistenza di forti diseguaglianze nella distribuzione del reddito stesso, diseguaglianze dovute a fattori etnici e istituzionali, come nell'Unione Sudafricana, dove la minoranza bianca ottiene in media un reddito circa 6-7 volte maggiore di quello degli Africani, o dovute a un dualismo territoriale, come in Brasile, dove il Sud è notevolmente più sviluppato del Nord.
In generale, per ottenere un quadro relativamente attendibile delle condizioni economiche e civili di un paese il reddito individuale va integrato con altri indicatori, come ad esempio il saggio di variazione del reddito stesso, la durata media della vita, la percentuale degli analfabeti fra gli individui con più di 15 anni, i saggi di natalità e di mortalità.
Discuteremo poi, sia pure brevemente, le tendenze demografiche. Per ora osserviamo che la durata media della vita è cresciuta sensibilmente in tutti i paesi, anche se in certe parti del mondo permane a livelli molto bassi: 40-50 anni contro i 73-74 dei paesi industrializzati; si tenga presente che un secolo fa in Italia la durata media della vita era soltanto di 35 anni (oggi è di 73 anni). Anche la mortalità infantile è molto diminuita (v. tab. VII). Osserviamo inoltre che l'analfabetismo tocca ancora livelli molto alti nei paesi sottosviluppati, soprattutto in quelli a basso reddito.
Nella tab. III sono indicati i saggi medi di variazione del reddito individuale medio dal 1950 al 1980: il divario fra i paesi industrializzati e i paesi sottosviluppati, nel complesso, risulta accresciuto. Tuttavia, fra il 1960 e il 1980, il divario fra i paesi sottosviluppati a reddito medio e i paesi industrializzati è, sia pure di poco, diminuito (mentre era cresciuto nel decennio precedente); il divario fra i paesi a reddito basso e i paesi a reddito alto è invece cresciuto in entrambi i periodi. Il livello assoluto del reddito individuale dal 1950 al 1980 è però aumentato in misura sensibile (il 70%) anche nel caso dei paesi a reddito basso; inoltre nel secondo dei due periodi considerati (1960-1980) il saggio di aumento è cresciuto rispetto al decennio precedente. Su questi aspetti, strettamente economici, torneremo in seguito.
5. I paesi sottosviluppati nei diversi continenti
Il processo di sviluppo economico in senso moderno, quel processo che ha poi portato allo sviluppo industriale, è cominciato in Europa, ma non tutti i paesi europei si sono sviluppati contemporaneamente: Inghilterra, Francia e Olanda sono stati fra i primi; Italia, Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia fra gli ultimi. Le condizioni più favorevoli allo sviluppo del capitalismo industriale sembrano essersi determinate nei paesi in cui si erano affermati, da un lato, l'autogoverno di ampie fasce di cittadini (originariamente mercanti e borghesi) e, dall'altro, un forte e indipendente governo centrale. In ogni modo, le condizioni decisive per lo sviluppo sono sempre risultate quelle sociali e istituzionali; le condizioni di carattere economico (come, per es., alcune condizioni riscontrabili nel mercato del lavoro) e quelle di carattere naturale (come la disponibilità di determinate risorse) sono state rilevanti, ma non decisive.
Diversi storici economici, fra cui A. Gerschenkron e P. Bairoch, e diversi economisti fra cui S. Kuznets hanno posto a confronto l'evoluzione economica dei paesi sviluppatisi per primi con quella dei paesi ritardatari, pur mettendo in guardia contro affrettate analogie, e hanno ricavato da tali confronti alcuni insegnamenti. Conviene porre in rilievo due soli punti.
Anzitutto, la cosiddetta rivoluzione industriale inglese fu preceduta e poi accompagnata da una rivoluzione agraria che si svolse, in due ondate, nei secoli XVII e XVIII e si concluse nel secolo scorso; la stessa osservazione vale, con le differenze comprensibili, anche per gli altri grandi paesi europei. Diverse possono essere invece le considerazioni per i paesi più piccoli, che sono in grado di sopperire in gran parte con le importazioni ai bisogni alimentari della popolazione e, in particolare, ai bisogni delle persone che lasciano le campagne per diventare operai nelle fabbriche moderne. In altri termini: l'accrescimento sistematico della produttività in agricoltura e la crescente commercializzazione dei prodotti agricoli (in contrapposizione al precedente sistema dell'autoconsumo) rappresentano condizioni necessarie, anche se non sufficienti, dello sviluppo industriale.
Un altro punto importante riguarda una differenza essenziale fra i paesi che si sono sviluppati per primi e i paesi ritardatari: col passare del tempo si sono determinati ostacoli sempre maggiori a uno sviluppo industriale essenzialmente ‛privato', come quello che ebbe luogo in Inghilterra nel periodo a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo. In generale, le economie ritardatarie si trovano di fronte a vantaggi e svantaggi di tipo particolare nell'avviare un processo di espansione industriale. I vantaggi sono rappresentati dalla possibilità di accedere a certe tecnologie e a certi metodi organizzativi efficienti e moderni, ai quali le regioni e i paesi ora progrediti sono pervenuti attraverso una lunga evoluzione. Gli svantaggi sono rappresentati da tre ordini di ‛salti': il salto tecnologico, il salto del mercato e il salto che potremmo chiamare imprenditoriale.
Nei paesi che avviarono per primi uno sviluppo industriale moderno, come l'inghilterra, era possibile uno sviluppo graduale in tutte le industrie. Date le conoscenze tecniche del tempo, anche aziende relativamente piccole erano in grado di produrre in modo economico (a costi inferiori ai prezzi di mercato); ed era quindi possibile un passaggio graduale dalla piccola azienda artigianale all'azienda industriale basata sulle macchine, da principio piccola, poi sempre più ampia. In questo processo di espansione non s'incontrava la concorrenza di grandi aziende, che allora non esistevano nè in Inghilterra nè in altri paesi. Parallelamente, uno sviluppo graduale era possibile rispetto al mercato: all'inizio le nuove aziende avevano a disposizione il mercato locale, nel quale si ampliavano a spese delle unità artigianali (che entravano progressivamente in crisi); inoltre, per espandere le vendite sui mercati esteri, le nuove aziende dovevano battere nella concorrenza i prodotti delle aziende artigianali. Col perfezionamento dei metodi produttivi, questo obiettivo risultava relativamente facile: i metodi usati dagli artigiani non mutavano e questi, fino a un certo limite, potevano quindi difendersi soltanto vendendo a prezzi decrescenti e contentandosi di redditi decrescenti. Infine, sotto l'aspetto sociale, era possibile la formazione graduale di imprenditori nel senso moderno, con capacità, gradualmente acquisite, di dirigere grandi aziende.
In seguito, in molti rami della produzione, questo sviluppo graduale non è stato più possibile. Vi è infatti un ‛salto' imposto dalla tecnologia nei casi in cui, per produrre economicamente, le dimensioni delle unità produttive debbono essere grandi. Vi è poi un ‛salto' nella conquista del mercato, perché il mercato locale è spesso già stato conquistato da grandi imprese moderne ubicate altrove, per competere con le quali occorrono una vasta organizzazione commerciale e costose campagne pubblicitarie; per esportare, le difficoltà sono anche maggiori, perché si tratta di battere sui mercati esteri i prodotti di aziende moderne di altri paesi, che in quei mercati si sono già affermati. Vi è infine un ‛salto' nella formazione delle persone che potrebbero diventare imprenditori industriali. Al principio del secolo scorso questi ostacoli potevano essere superati dalle imprese private con un aiuto relativamente piccolo e comunque esterno, o indiretto, dell'autorità pubblica (infrastrutture e dazi protettivi). In seguito questi ostacoli sono divenuti così ardui da richiedere dei ‛salti' che le forze private, spontanee, non possono compiere. Lo svolgimento del processo nel senso del modello classico inglese - uno sviluppo graduale, uno sviluppo totalmente o in gran parte privato - non è quindi più possibile.
Tutto questo significa che, maggiore è il ritardo, più vasto tende a essere l'intervento dello Stato. Ma non sono sufficienti gli incentivi tradizionali, forniti dalle infrastrutture, e quelli escogitati di recente (agevolazioni creditizie e fiscali): tali stimoli presuppongono l'esistenza potenziale di imprenditori che nelle regioni sottosviluppate manca completamente. Lo Stato deve pertanto intervenire nella costitutuzione stessa delle imprese e delle attività produttive, che nel passato, nei paesi oggi progrediti, erano state promosse da forze private. Questo intervento è necessario in primo luogo nel campo delle attività d'interesse pubblico: ferrovie, fonti di energia, mezzi di comunicazione, organismi bancari e creditizi; poi anche nel campo manifatturiero, attraverso organizzazioni di varia natura e attraverso imprese miste ma create per iniziativa pubblica, e perfino nel campo commerciale. Ma lo Stato non è un'entità metafisica: esso è guidato dai rappresentanti di determinate classi, le quali possono indirizzare lo sviluppo verso fini particolari o egoistici, lasciando nella miseria ampie fasce di cittadini. Inoltre la pubblica amministrazione riflette il grado di sviluppo della società: se questa è arretrata, anche quella è arretrata e inefficiente. L'inefficienza può esser perpetuata e resa più grave dalle azioni e dalle omissioni di una classe politica che non intende usare la pubblica amministrazione come strumento per l'attuazione di riforme e come mezzo d'intervento diretto nell'economia, perché ciò urta contro gli interessi che essa rappresenta. Principalmente per questo, nelle odierne economie arretrate l'avvio di un processo di sviluppo industriale risulta così difficile. Tuttavia, difficile non significa impossibile: oltrepassata una certa soglia critica, dopo una prima fase, durante la quale la spinta proviene principalmente da imprese pubbliche e da imprese straniere, i salti di cui si è detto possono divenire via via meno ardui.
Queste contraddizioni, che tuttora in qualche misura pesano nei paesi ritardatari dell'Europa, pesano molto gravemente nei paesi sottosviluppati degli altri continenti, nei quali gli ostacoli da superare sono stati e sono ben più complessi. Per evitare i rischi analitici che si corrono se si concentra l'attenzione sugli aspetti puramente quantitativi, converrà fornire delle indicazioni sulla struttura sociale di alcuni importanti paesi arretrati dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina; dell'America settentrionale si prenderà in considerazione solo il Messico, mentre non si prenderà in considerazione l'Oceania i cui due unici paesi importanti in termini di popolazione - Australia e Nuova Zelanda - fanno parte, a tutti gli effetti, dei paesi sviluppati.
6. Le strutture sociali
I paesi asiatici, sotto l'aspetto economico e sociale, possono essere divisi in tre gruppi: i paesi del subcontinente indiano, quelli della penisola indocinese e l'Indonesia (si considerano qui solo i paesi sottosviluppati a economia di mercato e perciò non si esaminano né il Giappone - paese sviluppato - né la Cina - paese a economia pianificata). I paesi dell'Africa, invece, possono essere suddivisi in tre gruppi: quelli del Nord, quelli dell'Africa subsahariana e, infine, Zimbabwe (Rhodesia) e Repubblica Sudafricana. Quanto all'America Latina, fra i diversi paesi vi sono differenze notevoli ma anche notevoli affinità; tutto sommato, per questa parte del mondo conviene considerare i paesi maggiori e cioè il Brasile, l'Argentina e il Messico e poi, separatamente, gli altri. Occorre tener presente che, da un punto di vista economico, i paesi molto poveri (a reddito basso) di una certa consistenza demografica si trovano solo in Asia (in particolare i paesi del subcontinente indiano) e in Africa (in particolare nell'Africa subsahariana). Da un punto di vista europeo, vi sono diverse analogie fra la struttura sociale dei paesi latino-americani e quella dei nostri paesi (come anche dei paesi sviluppati del Nordamerica e dell'Oceania); le analogie sono molto minori con la struttura sociale dei paesi asiatici, ancora più limitate con i paesi africani e minime con i paesi dell'Africa subsahariana.
In Asia vi sono classi sociali sui generis, non generate dall'evoluzione economico-sociale ma prodotte, o almeno perpetuate, dalle leggi e dalla tradizione, e vi è un sistema di caste rigidamente definite, che già di per sè rappresenta un cospicuo ostacolo a un processo di sviluppo. Le differenze e le contrapposizioni etniche e religiose raggiungono un'intensità sconosciuta in Europa. Quanto alle attività economiche, sia in Asia che in Africa si osserva una complessa coesistenza di attività che caratterizzano tanto i tre stadi primitivi quanto i tre stadi moderni dell'evoluzione economica. L'ordinamento politico e istituzionale di queste società presenta ancora forti tracce del periodo coloniale e risulta quindi in gran parte sovrapposto - non ancora pienamente fuso - alla sottostante struttura economica e sociale. Tale struttura conserva al suo interno, oltre a nuclei di persone che svolgono ancora attività economiche proprie degli stadi primitivi (cacciatori e pescatori, pastori, contadini che consumano quel che producono), anche contadini che producono per il mercato e salariati agricoli. Salendo nella scala sociale (se così si può dire), troviamo gli artigiani, i salariati di piccole e piccolissime unità commerciali, artigianali e industriali, impiegati privati e pubblici, operai dell'industria moderna, fasce di borghesia rurale, commercianti medi e grandi, latifondisti (anche se quella che poteva essere considerata l'aristocrazia agraria, essendosi largamente compromessa con i dominatori bianchi, è stata poi almeno in parte espropriata nell'epoca della decolonizzazione).
In numerosi paesi dell'Asia e dell'Africa osserviamo che il commercio, all'ingrosso e al minuto, si trova nelle mani di gruppi etnici provenienti dall'esterno: i Cinesi in Indonesia e in diversi paesi del Sud-Est asiatico, gli Indiani nel Sudafrica e nel Kenya, gli Arabi in molti paesi dell'Africa subsahariana.
Nell'evoluzione che anche le economie relativamente stazionarie hanno subito nel corso dei secoli, a un certo punto si è determinata l'esigenza organica di sviluppare traffici non puramente locali. I gruppi sociali più adatti a rispondere a questa esigenza si sono rivelati i gruppi allogeni: in economie stazionarie, prevalentemente agricole, in cui le popolazioni locali erano in qualche modo legate alla terra, le persone più adatte a soddisfare l'esigenza di sviluppare traffici commerciali non locali erano, appunto, persone capaci di muoversi con facilità, persone senza radici, provenienti da altre regioni. Parecchie di queste persone poterono diventare relativamente ricche e non di rado all'attività di mercanti unirono quella di prestatori di danaro e quindi di usurai. Sia per questo motivo, sia per l'invidia che una relativa ricchezza suscita in popolazioni povere, sia per il fatto che erano estranee, certe volte perfino con la pelle di colore diverso, queste persone erano guardate con ostilità dalle masse di contadini. Dal canto loro, i ceti dominanti tendevano a sfruttare finanziariamente i gruppi allogeni e, in tempi di gravi tensioni sociali, a usarli come capri espiatori. In generale si può dire che, comunque originato, il trasferimento in paesi arretrati di persone provenienti da altri paesi ha contribuito in diversi casi a rompere il ristagno economico-sociale e a mettere in moto un processo di espansione non solo commerciale, ma anche produttivo.
Mentre la struttura sociale dei paesi sottosviluppati dell'Asia presenta alcuni punti di somiglianza con quella dei paesi sviluppati dell'Europa e del Nordamerica, la struttura sociale dei paesi africani presenta somiglianze molto più deboli. Più precisamente: si possono trovare aspetti in comune con i paesi dell'Africa settentrionale, ma i punti di contatto diventano quasi inesistenti quando si considerano i paesi dell'Africa subsahariana e i due paesi meridionali: Zimbabwe e Repubblica Sudafricana.
Sulla base delle precedenti considerazioni e sulla scorta dei dati ricavabili dall'Annuaire des statistiques du travail (1978) del Bureau International du Travail di Ginevra e dal World development report, 1980, della International Bank for Reconstruction and Development di Washington (la ‛Banca Mondiale'), è stata costruita la tab. IV, che presenta, a fini puramente indicativi, alcune stime sulla struttura sociale, da un lato, di tre importanti paesi sottosviluppati, uno asiatico (India), uno nordafricano (Egitto) e uno latinoamericano (Brasile) e, dall'altro, di tre paesi industrializzati: Italia, Francia e Stati Uniti. Gli studiosi marxisti hanno insistito più di tutti sulla necessità di fondare l'analisi delle diverse società sullo studio delle classi e dei gruppi sociali, ma, specialmente nel caso dei paesi sottosviluppati, questa indicazione è rimasta in gran parte nel limbo delle pie intenzioni: è per questo che i dati indicati nella tab. IV sono delle stime e, in certi casi, delle pure ipotesi. Di ipotesi, in particolare, si tratta nel caso dei contadini poveri, ossia dei contadini che posseggono appezzamenti minimi di terra, tanto che non di rado sono costretti a lavorare come braccianti (salariati giornalieri) nelle terre di contadini meno poveri o in quelle di veri e propri proprietari; di ipotesi, inoltre, si tratta nel caso dei lavoratori ‛marginali' o ‛precari' delle zone urbane e di alcune zone rurali (Marx parlava di ‟sottoproletariato", Marshall di ‟residuum"). Per le zone rurali si tratta delle fasce più basse dei contadini poveri e dei salariati agricoli; per quelle urbane si tratta di persone che vivono ai margini delle città (anche in senso topografico: popolano le cosiddette bidonvilles). In effetti, l'ingrandimento di alcune città asiatiche e latino-americane non è stato un fenomeno fisiologico, provocato cioè dallo sviluppo del settore industriale e del settore terziario moderno, ma patologico: uomini poverissimi sono affiuiti e affluiscono nelle città, non tanto perché il loro lavoro sia stato o sia richiesto da imprese o da uffici pubblici, ma per fuggire dalla miseria delle campagne: nelle città possono trovare qualche piccolo lavoro saltuario, svolgere piccoli traffici, leciti e illeciti, possono trovare una qualche, sia pur minima, assistenza pubblica, possono mendicare. Costoro perdono, se pure l'hanno mai avuta, l'abitudine al lavoro sistematico, alimentano (dal basso) la corruzione e perfino la criminalità. Qualsiasi sforzo di ricostruzione sociale e di riorganizzazione produttiva in quei paesi si troverà sempre di fronte il terribile problema del sottoproletariato cittadino.
Anche le persone che svolgono in modo precario e saltuario la loro attività in aziende minuscole vanno incluse nel sottoproletariato urbano. Viceversa, coloro che lavorano stabilmente e regolarmente in aziende minuscole, spesso a carattere familiare - botteghe commerciali, officine di riparazione, piccolissime aziende per la produzione di vestiti, scarpe, mobili e per i trasporti - non vanno inclusi nel sottoproletariato, anche se ottengono redditi molto bassi; queste aziende sono, sì, minuscole, ma sono suscettibili di trasformazione e di sviluppo e sono relativamente numerose non solo nelle grandi città, ma anche nei centri urbani di minori dimensioni. Oltre ai sottoproletari e ai lavoratori, dipendenti e autonomi, di cui si è detto, nei settori extra-agricoli vi sono coloro che lavorano stabilmente in aziende piccole e medie o nelle grandi imprese moderne. Questi salariati rientrano, insieme con coloro che lavorano come impiegati nelle stesse imprese, nella cosiddetta ‛aristocrazia del lavoro': le loro retribuzioni sono inferiori, ma non di molto, a quelle dei loro colleghi dei paesi industrializzati. Coloro che appartengono a questa aristocrazia del lavoro richiedono, oltre ai beni di prima necessità, anche i beni durevoli di consumo (automobili, elettrodomestici, apparecchi radiotelevisivi).
La struttura sociale dei paesi dell'Africa subsahariana è molto più elementare. Anche qui troviamo gruppi provenienti da altri paesi, anzi da altri continenti, trasformatisi col tempo in mercanti (con caratteristiche simili a quelle già indicate per alcuni paesi asiatici). Anche qui troviamo le aristocrazie del lavoro, molto più esigue di quelle dei paesi latino-americani e asiatici. Troviamo poi gruppi di salariati, agricoli e non, pagati con salari bassissimi, che spesso lavorano per una parte del tempo nei loro campi, presso le loro tribù, e, per un'altra parte del tempo, in aziende di tipo capitalistico. Al vertice troviamo invece i gruppi della burocrazia civile e militare, eredi degli amministratori bianchi, che spesso detengono il potere e che non di rado si sono attribuiti stipendi (relativamente elevati) simili a quelli dei loro predecessori bianchi.
Considerando l'alta percentuale di analfabeti, l'attrazione esercitata dai cosiddetti modelli di consumo occidentale e la spinta atavica a uscire dalla miseria, non c'è da stupirsi se nell'amministrazione pubblica di questi paesi anche di quelli, e sono numerosi, che si autodefiniscono socialisti - si trova, oltre all'inefficienza, anche la corruzione: la cosiddetta arretratezza non è un fatto puramente economico e la via dello sviluppo, una via che quelle collettività sono state, per così dire, costrette a imboccare, è lunga, faticosa e difficile. Le responsabilità storiche dei paesi colonizzatori bianchi sono senza dubbio enormi, specialmente in Africa, dove i Bianchi hanno razziato e deportato milioni di persone e hanno, per molto tempo, reso schiavi o quasi altri milioni di persone, spesso scacciandoli dalle loro terre. Introducendo l'economia monetaria, i coloni hanno anche minato, provocandone la decadenza e poi la distruzione, la vita patriarcale e i valori tradizionali dei diversi gruppi sociali; perfino quando hanno svolto una politica umanitaria, per es. allo scopo di migliorare le condizioni di salute, hanno provocato indirettamente, attraverso la riduzione della mortalità, gravissimi problemi, che oggi vanno sotto il nome di esplosione demografica.
Dopo aver ricordato tutto questo, però, bisogna aggiungere che sarebbe del tutto ingannevole pensare che prima della colonizzazione bianca la vita, in Africa, fosse idilliaca (e quel che vale per l'Africa può valere - si deve presumere - anche per gli altri continenti): fra i diversi gruppi etnici e le diverse tribù le guerre e le razzie di persone e di cose erano la regola; a volte, le razzie si concludevano con l'assoggettamento di certe tribù da parte di altre, che imponevano veri e propri tributi ai vinti. I Bianchi hanno crudelmente sfruttato gli Africani, ma hanno anche avviato mutamenti che trascendono il giudizio morale sul loro operato; come già si è accennato, Smith parla a questo proposito di ‟sventure" e ‟benefici" e al suo giudizio complessivo conviene tuttora rifarsi. Sarebbe molto ingiusto, per esempio, considerare in modo prevalentemente negativo l'azione sanitaria dei Bianchi che ha determinato una flessione della mortalità. Le popolazioni africane - organizzate nei confini di ‛nazioni' create quasi sempre da forze esterne e, quindi, originariamente artificiali - dopo la decolonizzazione hanno avviato dei processi volti a conquistare una propria identità collettiva e una piena autonomia, e l'autonomia è la condizione necessaria di uno sviluppo economico potenzialmente generalizzato. Si tratta di processi che i Bianchi - paesi e singoli, soprattutto intellettuali - devono cercare di comprendere e, per quanto possibile, favorire: molti Africani, a quanto pare, auspicano un tale aiuto; ma si deve essere ben consapevoli, a scanso di delusioni, che si tratta di processi lunghi, faticosi e dolorosi.
La tab. IV riporta dunque i dati, le stime e le ipotesi sulla struttura sociale dei sei paesi prima ricordati, tre sottosviluppati e tre industrializzati; riporta anche i dati sulle tre grandi categorie di lavoratori occupati: nell'agricoltura, nell'industria e nei servizi, privati e pubblici; riporta, infine, le stime di un indice di diseguaglianza nella distribuzione del reddito.
I dati relativi alle tre categorie di occupati della tab. IV (sez. III) vanno messi a confronto con quelli della tab. V, dove sono riportati dati analoghi relativi ad alcuni paesi o gruppi di paesi. Accanto a questi dati sono riportate le percentuali dei lavoratori dipendenti (operai e impiegati) sul totale: le percentuali sono alte o altissime nel caso dei paesi industrializzati, basse o bassissime nel caso dei paesi del subcontinente indiano e dell'Africa subsahanana: in questi due gruppi di paesi prevalgono tuttora in modo nettissitno i lavoratori indipendenti, nella massima parte occupati in agricoltura, in minime unità produttive familiari o tribali che di regola producono per l'autoconsumo e non per il mercato. La schiacciante maggioranza dei lavoratori indipendenti - alcuni dei quali in certi periodi lavorano come salariati in piantagioni - nei paesi dell'Africa subsahariana e la forte prevalenza di tali lavoratori nel subcontinente indiano mostrano, da un lato, il grado notevole di sottosviluppo di quei paesi e, dall'altro, le difficoltà estreme che si incontrano nello stabilire utili confronti fra la struttura sociale di quei paesi e quella dei paesi industrializzati.
L'ultima sezione (IV) della tab. IV riporta i valori di un indice di diseguaglianza nella distribuzione del reddito nazionale, ricavato dai dati sulla distribuzione per quintili; fra parentesi è indicata la percentuale di reddito che va al quintile più basso. I dati originari indicano quale quota del reddito ottiene ciascun 20% dei redditieri; i quintili sono in ordine crescente e la formula è D = (q5 − q1) + (q4 − q2). In teoria questo indice può variare da 0 a 1: il valore 0 esprime eguaglianza completa: ciascun quintile di redditieri ottiene il 20% del reddito; il valore 1 esprime la massima diseguaglianza: il quintile più alto ottiene l'intero reddito. (In pratica, per i 28 paesi di cui si hanno dati, il campo di variazione va da un minimo di 0,41 a un massimo di 0,77. Si può ritenere che valori intorno a 0,4-0,5 indichino una diseguaglianza minima, valori intorno a 0,5-0,6 una diseguaglianza media, intorno a 0,6-0,7 una diseguaglianza elevata, superiori a 0,7 una diseguaglianza massima. Anche la percentuale di reddito che va al quintile inferiore aiuta a comprendere l'intensità della diseguaglianza; in Brasile e in Egitto tale percentuale è solo del 2-3%: tenuto conto del basso livello del reddito medio, ciò denuncia una miseria gravissima degli strati più poveri della popolazione). Sull'importante questione della distribuzione del reddito torneremo più avanti, nel cap. 10.
7. Alcune ragioni della varietà nei saggi di sviluppo
La tab. II mette in luce la grande varietà di livelli di vita, ma anche di saggi di sviluppo, esistente nei diversi paesi e nei diversi gruppi di paesi; un divario anche piccolo fra i saggi di aumento può determinare nel giro di pochi decenni grandi differenze nei gradi di sviluppo. Si è già ricordato che 100 o 150 anni fa le distanze economiche fra i diversi gruppi di paesi erano, presumibilmente, molto minori di quanto siano oggi. E 100 o 150 anni fa paesi che oggi sono fra i più sviluppati del mondo erano colonie di paesi europei.
Di alcuni motivi generali di questo fenomeno si è già detto; ora si devono formulare alcune osservazioni di carattere più strettamente economico per cercare di chiarire perché in certi paesi l'espansione produttiva è stata rapida mentre in altri è stata lenta o molto lenta.
Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda erano divenuti colonie di popolamento a causa del clima. Si pensi per esempio, agli Stati Uniti e, in particolare, alle regioni centro-settentrionali di questo paese: considerazioni analoghe valgono anche per gli altri paesi che abbiamo ricordato.
Oltre alla questione del livello culturale dei coloni, di cui si è già detto, c'è un altro punto molto importante da considerare e cioè l'esistenza di terre libere. Col procedere dello sviluppo, un numero crescente di coloni cercava di assumere nelle proprie aziende lavoratori salariati; ma, a causa delle terre libere, i salariati si trasformavano essi stessi facilmente in coltivatori indipendenti. Per trattenere i salariati, i coloni più influenti fecero approvare delle leggi che rendevano oneroso l'acquisto delle terre libere, per le quali era necessario pagare un tributo che non aveva, come scopo principale, quello di procurare danaro allo Stato, ma, appunto, di rendere difficile l'accesso alla proprietà da parte dei lavoratori salariati. D'altra parte, si favorì, in tempi e in modi diversi, l'immigrazione, tanto più quanto più procedeva lo sviluppo. Ma nonostante i tributi e l'immigrazione, finché vi furono terre libere si poterono trattenere i lavoratori salariati per periodi non brevi solo offrendo loro salari elevati e crescenti e assicurando condizioni di lavoro - come si suol dire - umane. E l'aumento dei salari, mentre contribuì ad allargare il mercato interno, stimolò anche l'introduzione di innovazioni tecnologiche (di regola incorporate in impianti e macchine) le quali consentirono di produrre di più a parità di lavoratori salariati impiegati o con un aumento di lavoratori inferiore all'espansione della produzione. La produttività del lavoro crebbe pertanto rapidamente e furono sistematicamente incentivate le innovazioni tecnologiche: all'origine del rapido sviluppo degli Stati Uniti troviamo appunto questi processi.
Nelle colonie di popolamento si cercò dunque di attirare con l'immigrazione e poi di trattenere in tutti i modi una massa crescente di lavoratori salariati; ma tali sforzi ebbero successo nel lungo periodo solo perché i salari continuarono ad aumentare a un saggio assai sostenuto. (Si veda l'interpretazione, a mio giudizio parziale, di Marx, Il capitale, libro I, cap. XXV: La teoria moderna della colonizzazione; si veda anche Smith, Ricchezza delle nazioni, libro IV, cap. VII: Delle colonie).
Nelle colonie di sfruttamento, invece, di regola i coloni cercarono di far lavorare nelle miniere e nelle piantagioni, come schiavi, o gl'indigeni o le persone catturate in altri continenti (quasi sempre in Africa). In alcune colonie, soprattutto in Africa, i coloni cercarono invece di ‛produrre' artificialmente lavoratori salariati o attraverso incentivi (salari più alti del misero reddito di un'agricoltura di sussistenza) ovvero, in certi periodi, con metodi coercitivi: per es. spossessando gli indigeni delle loro terre o imponendo loro tributi da pagare obbligatoriamente in danaro. Ma sia la schiavitù sia il lavoro coatto non favoriscono lo sviluppo: non solo perché i capitalisti non hanno alcun incentivo a migliorare i metodi e a introdurre innovazioni, ma anche perché in quelle condizioni i lavoratori rendono il meno possibile.
Ricollegandosi agli economisti classici, W. A. Lewis ha elaborato un interessante schema teorico sugli spostamenti della forza lavoro, che si riferisce in particolare ai paesi tropicali e prende in considerazione due settori: un settore tradizionale, essenzialmente stazionario, e un settore capitalistico moderno, che tende allo sviluppo; il passaggio dei lavoratori dal primo al secondo settore non avviene con mezzi coattivi, ma attraverso incentivi salariali. L'ipotesi dell'autore è che le imprese possano indurre i lavoratori del primo settore a trasferirsi nel secondo offrendo loro un salario sia pure di poco più alto del reddito di sussistenza, che è quello ottenuto nel primo settore. Dal punto di vista economico l'offerta di lavoro è considerata come illimitata, sia perché si suppone che il settore capitalistico sia ancora ristretto rispetto al settore tradizionale, sia perché si ammette che le imprese capitalistiche possano attingere anche agli emarginati delle città o all'immigrazione o all'incremento della popolazione. I salari cominceranno ad aumentare solo quando il lavoro non sarà più disponibile in quantità illimitata, ma allora si sarà fuori dall'ipotesi adottata da Lewis.
Dunque, fino a quando in un paese sottosviluppato resta ampio il settore tradizionale, che rappresenta il principale serbatoio di manodopera, i salari si mantengono su livelli bassi: posto che i prezzi dei prodotti tropicali si formino sul mercato internazionale e siano largamente indipendenti dall'azione delle imprese capitalistiche, gli aumenti di produttività tenderanno in gran parte a tradursi in flessioni di costi e di prezzi. Ma una tale tendenza non avrà luogo nei paesi sviluppati, dove le imprese industriali sono in grado, entro certi limiti, di regolare i prezzi e dove l'offerta di lavoro non è illimitata ed esistono potenti sindacati: qui i salari aumenteranno in proporzione agli aumenti della produttività o in misura anche maggiore, cosicché i prezzi delle merci prodotte in questi paesi - in genere manufatti - tenderanno a crescere rispetto a quelli delle merci tropicali. In altri termini i rapporti di scambio fra manufatti e prodotti tropicali tendono - o meglio, per un lungo periodo hanno avuto tendenza - a modificarsi in modo sfavorevole ai prodotti della seconda specie. Questo è stato un ostacolo addizionale allo sviluppo di numerosi paesi sottosviluppati. All'origine troviamo una bassa produttività e, correlativamente, un reddito basso e stazionario nel settore tradizionale: è per questo motivo che salari stabilmente bassi, se pur di poco meno bassi di quel livello, costituiscono un incentivo sufficiente al trasferimento dei lavoratori.
Dall'analisi di Lewis si deduce che, in economie tropicali, fondate sulle piantagioni, le imprese capitalistiche hanno tutto l'interesse a far sì che la produttività nel settore dell'agricoltura di sussistenza non progredisca: progredendo, i salari necessari a incentivare il passaggio dei lavoratori dovrebbero aumentare. Non di rado le imprese capitalistiche sono straniere (possono essere grandi società multinazionali), ma possono anche essere imprese indigene: il contrasto d'interessi permane.
Quella di Lewis è una delle analisi più acute del cosiddetto ‛dualismo economico'. In verità, i casi di dualismo sono numerosi; e ancora più numerosi sono gli schemi teorici interpretativi. Come risulta dallo schema di Lewis (mentre non risulta in altri modelli) non c'è separazione fra i due settori - quello tradizionale e quello moderno; c'è piuttosto una simbiosi, ove però le imprese del settore moderno tendono a sfruttare il settore tradizionale in vari modi e non solo usandolo come serbatoio di lavoro. Si deve avvertire, tuttavia, che lo sviluppo stesso delle imprese capitalistiche tende, nei fatti, a rompere quella sorta di equilibrio che pure, per il loro vantaggio, esse avrebbero interesse a mantenere: a lungo andare il dualismo, con i caratteri sopra ricordati, non può sussistere.
8. L'agricoltura
In diversi paesi tropicali le imprese capitalistiche, sviluppando le piantagioni, hanno in vari modi ridotto l'area dell'agricoltura di sussistenza. Non sempre tale riduzione ha aggravato la situazione alimentare delle popolazioni di quei paesi: non l'ha aggravata, per esempio, se in quell'area è cresciuta la produttività per unità di superficie, o se i prodotti delle piantagioni sono serviti per pagare beni alimentari importati. Se invece quei prodotti vengono scambiati contro beni di lusso, acquistati dalla minoranza ricca del paese preso in considerazione, o se una parte almeno dei proventi delle vendite viene trasferita all'estero, a parità di altre condizioni la situazione alimentare peggiora.
Comunque sia, nei paesi sottosviluppati il problema alimentare è quello più grave per fasce rilevanti della popolazione; si stima che tale problema riguardi non meno di 800 milioni di persone (circa un quinto dell'umanità), concentrate soprattutto nel subcontinente indiano e nell'Africa subsahariana. Si tratta di un problema che non ha solo implicazioni umanitarie: se l'agricoltura non si sviluppa a un saggio sostenuto, l'intero processo di sviluppo viene, se non impedito, per lo meno frenato.
Queste difficoltà hanno diverse cause: in primo luogo, le carenze alimentari comportano bassa efficienza e alta morbilità dei lavoratori di tutti i settori; in secondo luogo, lo sviluppo delle attività extra-agricole, e in particolare dell'industria, richiede un trasferimento di lavoratori dalle zone rurali alle zone urbane, e questo trasferimento richiede una produzione agricola crescente e in eccesso rispetto ai bisogni dei produttori; in terzo luogo, una crescente disponibilità di prodotti agricoli alimentari crea un mercato per i prodotti non agricoli e ne favorisce in questo modo lo sviluppo.
Fra gli ostacoli allo sviluppo dell'agricoltura nei paesi arretrati è da annoverare anche l'elevata concentrazione nella proprietà della terra. Già gli economisti classici avevano messo in evidenza che i latifondisti sono interessati al reddito netto e non al reddito lordo (quello netto essendo depurato dalle spese di produzione, fra cui sono i salari): il reddito netto è importante ai fini della formazione del risparmio e della capacità contributiva, ma per l'occupazione e la soddisfazione delle esigenze alimentari della popolazione è il reddito lordo quello che conta. Pertanto, più la proprietà della terra è concentrata, più grave diviene tale contraddizione. Inoltre i grandi proprietari sono spesso assenteisti e talvolta non si preoccupano neppure di accrescere in modo sistematico il reddito netto. Tuttavia nei casi in cui i proprietari perseguono un tale accrescimento, la contraddizione, già presente in condizioni stazionarie, si ripresenta in termini dinamici, quando il proprietario decide di compiere investimenti che risparmiano lavoro. Così, quando il proprietario, in presenza di una rilevante disoccupazione agricola, manifesta o nascosta, decide d'introdurre macchine agricole che riducono ulteriormente il numero dei lavoratori impiegati, egli può certo accrescere il suo reddito netto, ma non promuove lo sviluppo agricolo complessivo. (In questi casi c'è spazio per opportuni interventi pubblici, come quelli di porre elevati tributi sull'acquisto di macchine che risparmiano lavoro, stimolando, anche attraverso incentivi, gli investimenti e gli impieghi che accrescono non tanto la produttività per lavoratore, quanto la produttività per unità di superficie - come gli investimenti per l'irrigazione e l'impiego di fertilizzanti).
Per lo sviluppo dell'agricoltura non è importante solo l'assetto della proprietà, ma anche il sistema dei contratti, alcuni dei quali (come gli affitti di lungo periodo) tendono a promuovere tale sviluppo, mentre altri (come gli affitti revocabili anno per anno e diverse forme di mezzadria) tendono a frenarlo. A questo fine è importante anche l'organizzazione del commercio dei prodotti agricoli; in molti paesi sottosviluppati, accanto a gruppi commerciali, spesso collegati con i latifondisti, che controllano le attrezzature dell'intermediazione (mezzi di trasporto, magazzini di deposito, frigoriferi), troviamo le grandi masse dei contadini poveri e analfabeti, spesso indebitati con gli stessi commercianti all'ingrosso.
Come conseguenza, spesso si osservano differenze cospicue fra i prezzi al consumatore (alti) e i prezzi al produttore (molto bassi), differenze che solo in parte possono essere spiegate con vere e proprie spese di distribuzione, e che si traducono in guadagni aggiuntivi per coloro che controllano gli acquisti (gli economisti parlano di guadagni di tipo ‛monopsonistico'). Come ulteriore conseguenza, gli abbondanti raccolti non si traducono necessariamente in prezzi minori al consumatore: possono anche tradursi in prezzi minori al produttore (con quote di raccolto che restano invendute); allo stesso modo, gli aumenti della domanda non si traducono necessariamente in aumenti dei prezzi al produttore e, via via, in una maggiore produzione stimolata da quegli aumenti: possono anche risolversi, prevalentemente, in maggiori prezzi al consumatore e in maggiori prezzi all'ingrosso, mentre i prezzi al produttore restano invariati. Questo secondo caso si verifica in condizioni di espansione dell'intera economia, industria compresa; le persone che si trasferiscono dalle zone rurali a quelle urbane, per lavorare o per accompagnare i familiari che lavorano, accrescono la domanda di prodotti agricolo-alimentari: la pressione della domanda fa aumentare i prezzi al consumo e, solo con ritardo, i prezzi al produttore: lo stimolo ad accrescere la produzione risulta smorzato, mentre risulta alimentata un incessante pressione inflazionistica. Non si tratta di una ‛rigidità' naturale nell'offerta dei prodotti agricoli ma, piuttosto, di una rigidità economica.
Una situazione come quella ora descritta è caratteristica di diversi paesi dell'America Latina. Sembra invece che sia assai meno frequente in Asia e quasi assente in Africa, dove già nel periodo coloniale funzionavano organismi pubblici o semipubblici per la commercializzazione di alcuni prodotti (marketing boards). L'obiettivo è di ridurre i guadagni privati di monopsonio, per favorire i produttori agricoli; in questo modo si rende l'offerta più reattiva agli aumenti della domanda e lo Stato si assicura una parte dei guadagni realizzati. Il sistema è valido e, a quanto pare, ha già dato risultati positivi, anche se, in alcuni casi, i guadagni devoluti allo Stato sotto forma di particolari tributi sono andati a vantaggio di un piccolo strato di burocrati privilegiati, piuttosto che della generalità dei cittadini.
9. Il problema della fame e la politica demografica
È opportuno, a questo punto, riprendere in considerazione la tab. II: i divari fra il reddito individuale americano e il reddito dei paesi sottosviluppati, specialmente nei paesi a reddito basso, sono risultati cospicui e sembrano addirittura astronomici se si usano i rapporti non corretti. Abbiamo visto che la causa principale dell'indebita esagerazione dei divari va ricercata nell'ambito dei servizi. Per un'analisi più approfondita, allora, conviene mettere da parte in blocco i servizi (sulla scia degli economisti classici) e concentrare l'attenzione sulla produzione di merci, agricole e industriali.
Se si parte dall'agricoltura, si scopre che i divari sono nettamente inferiori alla media: ciò è ben comprensibile, dato che, man mano che procede lo sviluppo, la domanda e la produzione delle merci agricole e, in particolare, delle merci agricolo-alimentari crescono in proporzione molto minore della domanda e della produzione delle merci industriali. È allora opportuno prendere in considerazione altri indici, in particolare gli indici fisici dei fabbisogni alimentari. I dati elaborati dalla FAO (Food and Agriculture Organization) mostrano che le disponibilità medie per individuo, in diversi paesi sottosviluppati a reddito basso, sono inferiori ai livelli considerati necessari: l'insufficienza è dell'ordine del 20-30% nel caso delle calorie e del 30-40% nel caso delle proteine. Naturalmente, le medie coprono situazioni molto differenziate, non solo fra i diversi paesi a reddito basso, ma anche al loro interno: i redditieri ricchi si nutrono in modo più che soddisfacente, in termini sia quantitativi che qualitativi, mentre i redditieri poveri si nutrono male e in modo insufficiente. Di conseguenza, non si tratta solo di accrescere la quantità di alimenti, ma anche di migliorare la distribuzione del reddito. Tenendo presente il problema della distribuzione, importante soprattutto a bassi livelli di reddito, si può affrontare il problema dell'accrescimento delle disponibilità medie. Alla soluzione di questo problema può dare un contributo il commercio estero; ma un tale contributo può essere rilevante solo in paesi relativamente piccoli: i paesi grandi non possono non puntare sull'espansione della produzione agricola interna.
A un primo esame, almeno, il problema non si presenta così drammatico come i rapporti (pur se corretti) fra i redditi individuali potrebbero indurre a credere: nel caso dei prodotti agricolo-alimentari si tratta infatti di accrescere la disponibilità media individuale in una misura che può andare dal 30 al 50%. (Ciò significa che, per quanto riguarda la produzione agricola, il rapporto fra paesi sviluppati e paesi arretrati è solo di 1 : 1,4 circa e che il divario fra i redditi individuali, che nel caso dei paesi poveri varia da 30 a 12, è quasi completamente imputabile all'industria).
Tuttavia, pur non avendo dimensioni macroscopiche, il problema delle disponibilità alimentari è grave per due ragioni fondamentali. In primo luogo, perché nei paesi sottosviluppati, per accelerare lo sviluppo della produzione agricola, è necessario riformare l'assetto della proprietà terriera e il sistema dei contratti, riorganizzare il sistema della conservazione e del commercio dei prodotti, istruire e assistere tecnicamente i contadini poveri (per ricordare solo le più importanti trasformazioni necessarie), e queste trasformazioni urtano contro ostacoli di tipo politico prima ancora che di tipo tecnico e finanziario. In secondo luogo, il problema è grave perché l'aumento del 30 o del 50% non riguarda la produzione complessiva, ma quella pro capite, e si scontra quindi col problema demografico.
Questo problema, non meno di quelli connessi con lo sviluppo produttivo e coi livelli del reddito, viene ancor oggi posto in termini catastrofici. In verità, l'espansione demografica - per i paesi sottosviluppati nel dopoguerra si è parlato di ‛esplosione' demografica - non è stata determinata da un aumento del saggio di natalità, che per molti anni è rimasto sostanzialmente stazionario o è diminuito con estrema lentezza, ma, soprattutto, da una flessione del saggio di mortalità. Infatti, l'arretratezza economica e sociale persistente ostacola i mutamenti che favoriscono la diminuzione della natalità, mentre non impedisce la penetrazione di miglioramenti sanitari di vario genere.
Una situazione di questo tipo si era creata in passato anche nei paesi oggi sviluppati. In Inghilterra, per esempio, nel secolo scorso (e probabilmente anche in epoche precedenti) la popolazione era rapidamente cresciuta per una caduta della mortalità, mentre la natalità era rimasta stazionaria fino al settimo decennio del secolo. Da allora, tuttavia, la natalità è diminuita, dapprima lentamente, poi rapidamente, e l'espansione demografica è divenuta sempre più lenta ed è oggi sul punto di annullarsi. Con molte probabilità, un'esperienza analoga potrebbe oggi essere fatta da un numero crescente di paesi sottosviluppati, per di più a tappe ravvicinate nel tempo. Di conseguenza, l'opinione, tuttora diffusa, che nella grande maggioranza dei paesi sottosviluppati non vi siano segni di un indebolimento dell'espansione demografica, un'opinione che ancora una decina di anni fa appariva fondata, deve oggi essere radicalmente riconsiderata, non solo e non tanto perché la flessione della mortalità, pur sempre notevole, è divenuta meno rapida che nel passato (come, per ragioni naturali, non poteva non avvenire) quanto perché, in un numero crescente di paesi sottosviluppati si è profilata, o è diventata meno lenta di prima, la flessione del saggio di natalità. Di conseguenza, l'espansione demografica, pur restando sempre ragguardevole, sta rallentando, e questa tendenza può essere verificata con i dati della tab. VI (colonna 1). In questa stessa tabella sono indicate le proiezioni oggi considerate attendibili da diversi demografi e riportate dal rapporto del 1980 della Banca Mondiale; tali proiezioni riguardano il ventennio 1980-2000 (colonna 2) e il periodo in cui si presume che la popolazione diventerà stazionaria. Sebbene queste proiezioni tengano conto della recente flessione della natalità, non si può affatto escludere, ricordando quanto è accaduto con le precedenti previsioni, che esse conducano a sovrastimare la futura espansione e a spostarne in avanti nel tempo la fine.
La flessione della natalità va imputata in parte allo sviluppo produttivo che, nonostante tutti gli ostacoli, si sta manifestando nella massima parte dei paesi sottosviluppati (v. tabb. II e III): man mano che cresce il reddito individuale, infatti, i genitori divengono più istruiti e più responsabili e tendono a consolidare i miglioramenti ottenuti riducendo il numero dei figli; inoltre, con la diminuzione della mortalità infantile (v. tab. VII), si tende a generare un minor numero di figli. Infine, con lo sviluppo, si riducono gradualmente le condizioni favorevoli a un'alta prolificità. (Queste condizioni si riscontrano specialmente nell'agricoltura di sussistenza: coloro che nelle loro piccole aziende lavorano duramente con strumenti rudimentali tendono a generare un elevato numero di figli per avere un aiuto nella loro fatica).
La diminuzione della natalità può essere sollecitata non solo da queste spinte, che si possono considerare spontanee, ma anche da spinte determinate dalla politica demografica. Fino a poco tempo fa numerosi demografi erano inclini ad attribuire un'efficacia limitata a tale politica. Oggi le opinioni stanno mutando per il fatto che un numero crescente di paesi, specialmente in Asia, ha adottato misure restrittive con risultati degni di rilievo. Sono state prese misure di diverso genere: incentivi e disincentivi pecuniari, forme varie di depenalizzazione dell'aborto, diffusione capillare di conoscenze sui più moderni metodi antifecondativi. In questo campo la Cina sta realizzando un'esperienza che può costituire un importante punto di riferimento: dal 1960 al 1978 il saggio di natalità è sceso dal 36 al 18‰. Tuttavia anche in molti altri paesi in via di sviluppo il saggio di natalità è oggi in sensibile diminuzione (v. tabb. II eVI).
Come risultato di questa tendenza, il saggio di espansione demografica è diminuito e il problema alimentare, pur sempre gravissimo, sta divenendo oggi meno drammatico. Dalla tab. VIII appare la rilevanza del saggio di espansione demografica: con un saggio di accrescimento produttivo di circa il 3% basterebbero poco più di 10 anni per accrescere del 30% la disponibilità di prodotti alimentari, mentre ne occorrerebbero circa 15 per accrescerla del 50%; il periodo diviene invece circa il doppio (rispettivamente 20 e 30 anni) se si considera il probabile saggio di espansione demografica, pur ammettendo che tale saggio vada diminuendo nel tempo. Ora, un saggio annuale medio di aumento della produzione agricola del 3% non sembra affatto un obiettivo irraggiungibile. Negli anni più recenti (1970-1978) i paesi sottosviluppati a reddito medio sono riusciti a ottenere un saggio di aumento anche superiore (v. tab. IX). È vero che proprio i paesi a basso reddito, dove più acuto è il problema della malnutrizione, hanno accresciuto la produzione agricola a un saggio minore (il 2% annuo), ma far salire di un punto il saggio di aumento della produzione agricola, che pure avrebbe effetti di grande importanza nel giro di uno o due decenni, non appare davvero un compito arduo. Occorrono, certo, profonde trasformazioni istituzionali e organizzative, occorre un maggiore aiuto, finanziario e tecnico, da parte dei paesi industrializzati; ma l'obiettivo può essere raggiunto.
In questo ambito va dato il giusto rilievo agli aiuti tecnici: la cosiddetta rivoluzione verde degli anni recenti - consistente in un programma, sostenuto da istituzioni internazionali, per la diffusione di fertilizzanti e di altri mezzi tecnici e di nuove specie di cereali più resistenti e più produttive - non ha dato i risultati attesi; ma, considerati i formidabili ostacoli da superare, i risultati raggiunti non sono stati affatto trascurabili. Come conseguenza, l'area della fame si va restringendo in termini relativi, anche se in termini assoluti va crescendo; probabilmente, in mancanza di cospicui sforzi addizionali, andrà crescendo nei prossimi due o tre decenni: secondo stime attendibili gli esseri umani di quest'area alla fine del secolo potrebbero essere più di un miliardo (oggi sono 800 milioni, e si tratta sempre di cifre largamente indicative).
10. Lo sviluppo industriale
Come abbiamo visto precedentemente, lo sviluppo dell'agricoltura comincia prima di quello dell'industria vera e propria e procede generalmente secondo fasi che si succedono uniformemente nei vari paesi; anche lo sviluppo industriale nel passato è stato contrassegnato da una sequenza abbastanza regolare: 1) in un primo tempo si sviluppano le industrie alimentari e tessili e altre industrie produttrici di beni di largo consumo; 2) poi si sviluppano le industrie meccaniche per la produzione di macchine usate nelle due industrie anzidette; 3) infine si sviluppano le industrie che producono beni capaci di soddisfare bisogni meno urgenti e non essenziali. Le industrie siderurgiche e la meccanica pesante cominciano a svilupparsi solo dopo che la base industriale ha raggiunto una dimensione minima: in precedenza, l'acciaio e le macchine produttrici di altre macchine vengono importati.
Le industrie ricordate tendono a prevalere, nell'una o nell'altra fase, in una successione temporale. Ma, pur così intese, le diverse fasi non possono essere divise nettamente tra loro. Inoltre, già nel passato quella sequenza - che per brevità chiameremo classica - poteva essere profondamente modificata per l'influenza del commercio con l'estero; anche se, in paesi relativamente grandi e popolosi, è sempre il mercato interno che offre lo sbocco più importante, poteva esser conveniente sviluppare industrie che producevano beni per l'esportazione, procurandosi all'estero i beni più richiesti all'interno. Per i moderni paesi sottosviluppati, tuttavia, la sequenza schematicamente ricordata può subire rilevanti modifiche, per cinque ordini di ragioni: 1) per la accresciuta importanza delle economie di scala; 2) per il tipo di politica riguardante la distribuzione del reddito; 3) per l'effetto dimostrativo, fortemente accentuato dai mezzi di comunicazione di massa e dalle forme moderne di pubblicità; 4) per le nuove forme di divisione internazionale del lavoro rese possibili dalla riduzione dei costi di trasporto e dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione; 5) per mutamenti nel sistema economico-sociale.
Dell'accresciuta importanza delle economie di scala si è già detto, brevemente (v. cap. 5), quando si è fatto riferimento al salto tecnologico: tale salto rende inevitabile un intervento pubblico ben più ampio che nel passato nell'area stessa della produzione, anche in paesi a tendenze conservatrici e pur con tutti gli sprechi e gli abusi che gli interventi pubblici comportano, specialmente nei paesi sottosviluppati. (In diversi paesi latino-americani lo Stato è controllato da militari, che si trovano così a giocare il triplice ruolo di capi politici e militari e di dirigenti industriali).
Questa situazione, paradossalmente, può far anticipare, rispetto a quanto avveniva in passato, la creazione e lo sviluppo di alcune industrie di base, come l'industria dell'acciaio, specialmente là dove sono disponibili le materie prime in quantità rilevanti. Oggi spesso accusa dei ritardi anche la creazione d'industrie che producono beni di largo consumo, in quanto i paesi industrializzati dispongono di tecnologie più efficienti di quelle accessibili ai paesi sottosviluppati, i quali, per la ristrettezza del mercato, non sono in grado di sfruttare le economie di scala. In generale, tuttavia, sia pure lentamente, l'economia di questi paesi si sviluppa e i loro mercati si ampliano. Non è detto, naturalmente, che le industrie vengano impiantate non appena i mercati superano le dimensioni minime, giacché gli imprenditori locali sono scarsi e le imprese straniere che vendono in quei paesi possono compiere azioni deterrenti di vario genere. Prima o poi però, superata una certa soglia, le industrie locali tenderanno a svilupparsi in sostituzione delle importazioni; e ciò avverrà per iniziativa pubblica o privata, o per iniziativa delle stesse imprese straniere esportatrici, le quali possono trovare vantaggioso attuare investimenti diretti, specialmente se i paesi interessati introducono dazi protettivi. Questo terzo caso non può essere posto sullo stesso piano degli altri due dal momento che - a parte i problemi politici - le imprese straniere non investono localmente tutti i loro profitti ma, in parte almeno, li esportano, sottraendo così ai diversi paesi una quota del sovrappiù investibile. In ogni caso, l'iniziativa delle imprese straniere è meglio di nulla, qualora gli imprenditori privati e pubblici non siano in grado di avviare lo sviluppo dell'industria considerata. Se poi sussistono condizioni particolarmente favorevoli, come un basso costo del lavoro, dopo la sostituzione delle importazioni con una produzione locale, il processo può proseguire con un espansione della produzione orientata verso le esportazioni: ciò è avvenuto e sta avvenendo in un numero crescente di paesi.
Il secondo ordine di cause che tendono a modificare la sequenza classica dello sviluppo industriale è, come è stato accennato, il grado di diseguaglianza nella distribuzione del reddito. Tale diseguaglianza dipende principalmente da fattori istituzionali (come l'assetto della proprietà terriera) e da fattori politici. In effetti, minore è la diseguaglianza, più rapido è lo sviluppo dei prodotti di largo consumo (di ‛consumo popolare'); maggiore è la diseguaglianza, meno rapido è lo sviluppo di quei prodotti e più rapido, sin dal principio, è lo sviluppo dei prodotti non essenziali. Più precisamente, sembra che la diseguaglianza nella distribuzione non sia affatto una costante, come sospettava V. Pareto, ma sia sensibilmente diversa secondo i tempi e i paesi. Questo è sempre stato vero; ma mentre nel passato non erano state sperimentate certe trasformazioni istituzionali e organizzative e certe politiche economiche, oggi sembra evidente che la distribuzione del reddito può essere notevolmente modificata dall'azione politica, con rilevanti effetti sulla velocità e sul tipo dello sviluppo produttivo complessivo e sulle sequenze dello sviluppo industriale. La questione è tanto importante da richiedere un cenno particolare.
Sulla base delle stime e dei dati raccolti dalla Banca Mondiale, riguardanti 28 paesi, si può fare l'ipotesi che la diseguaglianza distributiva sia bassa nelle fasi iniziali dello sviluppo, vada poi crescendo in una fase centrale e scenda infine da un certo punto in poi (è un'ipotesi simile a quella proposta da Kuznets): graficamente, l'andamento del processo sembra quello di una curva di Gauss. Ma così come non c'è una ‛legge' che in un dato momento costringa entro limiti circoscritti i valori del grado di diseguaglianza distributiva, non c'è neppure una ‛legge dinamica', ossia un'evoluzione del fenomeno rigidamente predeterminata. In effetti, se in un diagramma indichiamo sulle ascisse i rapporti (corretti) fra il reddito americano e quello dei diversi paesi e sulle ordinate l'indice di diseguaglianza descritto nel cap. 6, abbiamo dei punti che possono essere racchiusi in una fascia, i cui confini sono dati da due linee ondulate, una alta e una bassa, come quelle tracciate nella fig. 1 . Così l'India del 1964 (quando lo sviluppo produttivo del paese, e in particolare lo sviluppo industriale, era ancora in una fase iniziale) ha un indice relativamente basso, come hanno un indice relativamente basso gli Stati Uniti (nei Paesi Scandinavi, in Australia e in Giappone l'indice è ancora più basso). Molto alto è invece l'indice di diseguaglianza dell'Egitto e del Brasile, che già prima erano (e ancor più si trovano oggi) in una fase di sviluppo più avanzata dell'India, ma sono pur sempre in una fase assai meno avanzata dei paesi industrializzati. Le curve e la fascia da queste delimitata mostrano la variabilità e l'indeterminazione riscontrabili nella distribuzione del reddito. Sembra inevitabile che per un lungo tratto dello sviluppo il grado di diseguaglianza vada crescendo; ciò se non altro perché, specialmente all'inizio, lo sviluppo non può procedere con la stessa velocità in tutte le industrie e in tutte le regioni; e l'indice di diseguaglianza rispecchia anche queste disparità. Ciò premesso, rimane pur sempre una cospicua area d'intervento che può essere usata discrezionalmente dalle forze politiche nei diversi paesi.
Le relazioni fra distribuzione del reddito e sviluppo industriale (velocità e composizione) non sono state studiate in modo sistematico; eppure, si tratta di un campo molto importante sia ai fini analitici sia ai fini della politica economica. Non bisogna dimenticare, infatti, che il mercato, di cui tanto i conservatori quanto gl'innovatori parlano come di uno straordinario strumento di misura e di registrazione delle spinte economiche, non può essere considerato isolatamente: dietro il mercato c'è una data distribuzione della ricchezza e del reddito, e questa distribuzione a sua volta dipende dalle istituzioni, dalle leggi e dalla politica economica e, in particolare, dalla politica fiscale. Nei paesi sottosviluppati le diseguaglianze distributive dipendono principalmente dall'assetto della proprietà terriera, che per ragioni storiche in alcuni paesi - come El Salvador e il Guatemala - è concentrata nelle mani di un numero relativamente limitato di famiglie e di imprese, mentre in altri paesi - come il Costa Rica - è assai meno disegualmente distribuita. Diversi gradi di diseguaglianza nella distribuzione comportano non solo differenze economiche nella configurazione del mercato e nel tipo di sviluppo, ma anche importanti differenze politiche: un'elevata concentrazione nella distribuzione della proprietà terriera mal si concilia con un assetto relativamente democratico.
C'è un terzo ordine di motivi per cui nel nostro tempo la sequenza classica dello sviluppo industriale può subire cospicue modifiche: a causa della grande diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e del correlativo sviluppo delle tecniche pubblicitarie, si è progressivamente accentuato, al livello mondiale, il cosiddetto effetto dimostrativo e i bisogni dei consumatori sono sempre più condizionati dalle imprese, soprattutto dalle grandi imprese multinazionali. L'ordine di priorità dei bisogni ne viene modificato, e mentre in certi casi è difficile stabilire se tali modifiche possano determinare situazioni irrazionali rispetto al benessere fisico e psichico delle persone, in altri casi il giudizio negativo è evidente, nello stesso senso per cui si può dire che la diffusione delle droghe è irrazionale. È possibile, quindi, distinguere i bisogni in due categorie: essenziali e non essenziali (tra i quali rientrano i bisogni nocivi). Da un punto di vista razionale lo sviluppo dovrebbe cominciare con i beni che servono a soddisfare i bisogni essenziali; ma l'azione delle grandi imprese, che fanno leva sull'effetto dimostrativo e sulla pubblicità, può modificare tale ordine perfino presso le fasce più basse dei redditieri. La modifica può risultare tanto più accentuata quanto meno la politica economica è egualitaria. Così, in Brasile, dove il governo ha seguito una politica deliberatamente antiegualitaria per favorire un certo tipo di accumulazione, il contrasto fra lo sviluppo relativamente lento delle produzioni di beni essenziali e lo sviluppo rapido di produzioni non essenziali è molto rilevante. È importante osservare, però, che il consumo dei beni non essenziali cresce non solo per la domanda dei ceti privilegiati (ai quali appartiene anche l'aristocrazia operaia; v. cap. 6), ma anche di una parte dei ceti non privilegiati.
La drastica riduzione dei costi di trasporto nel nostro tempo ha reso economicamente possibili nuove forme di divisione del lavoro; questo rappresenta il quarto ordine di cause che hanno modificato la sequenza classica. Generalmente, tuttavia, si ragiona come se le nuove forme di divisione del lavoro dipendessero da decisioni prese da diverse nazioni o dalle imprese appartenenti a diverse nazioni. Bisogna invece rendersi conto che non sempre è così: in diversi importanti casi le nuove forme di divisione internazionale del lavoro hanno luogo nell'ambito di grandi imprese che operano in diversi paesi e hanno i centri decisionali nei paesi capitalistici più sviluppati, in primo luogo gli Stati Uniti, ma anche il Giappone e diversi paesi europei, fra cui l'Italia. Queste imprese trovano conveniente spostare certe operazioni produttive dai paesi d'origine ai paesi in via di sviluppo per una serie di fattori: perché i salari sono sensibilmente minori (e non si debbono pagare oneri sociali), perché nei paesi d'origine (che sono paesi industrializzati) non si trovano più operai disponibili per certe lavorazioni particolarmente monotone e faticose, o perché certe lavorazioni sono inquinanti e non sarebbero consentite nei paesi d'origine, o risulterebbero assai più costose, per l'obbligo, vigente in questi paesi, di introdurre apparecchiature antinquinamento. D'altra parte, le grandi imprese multinazionali tendono a trasferire tecnologie che servono di regola a risparmiare lavoro, poiché nelle economie di origine il lavoro è relativamente costoso: ciò non corrisponde però all'interesse delle economie in via di sviluppo, dove il lavoro è invece molto abbondante e dove il principale problema sociale è quello di allargare progressivamente l'area dell'occupazione non precaria.
C'è infine da considerare il sistema economico-sociale: in un paese come la Russia sovietica il meccanismo di sviluppo non poteva ripetere la sequenza classica dei paesi occidentali; per una lunga fase le industrie dei beni di largo consumo si sono sviluppate lentamente, mentre è stata accordata la massima priorità alla produzione di beni strumentali e, in particolare, all'industria pesante. Si deve osservare, tuttavia, che una tale politica perseguita nei primi piani quinquennali (1928-1938) non rispondeva soltanto a obiettivi di sviluppo economico, ma, almeno in parte, era condizionata da fini di ordine militare. In effetti, un altro grande paese a economia pianificata, la Cina, ha seguito un altra via, assegnando fin da principio una priorità elevata, anche se non assoluta, all'agricoltura, all'industria alimentare e a quella tessile. In ogni caso, nei paesi a economia pianificata dominano le scelte politiche e non è possibile indicare nessuna sequenza sistematica.
11. Le imprese multinazionali
Abbiamo ricordato più volte le imprese multinazionali; a questo punto è opportuno formulare qualche osservazione specifica sull'azione di queste imprese nei paesi sottosviluppati.
I ruoli svolti sono diversi, secondo che si tratti di imprese che hanno organizzato piantagioni o miniere, ovvero di imprese che hanno avviato produzioni industriali. Il ruolo delle imprese multinazionali che operano nell'agricoltura e nelle miniere è scarsamente dinamico sotto l'aspetto economico e tendenzialmente reazionario sotto l'aspetto politico. (In particolare, le imprese che basano la loro attività sulla proprietà della terra sono costituzionalmente contrarie a qualsiasi riforma agraria; inoltre, in certi casi queste imprese hanno sollecitato lo sviluppo di prodotti agricoli da vendere sui mercati internazionali provocando una riduzione delle produzioni agricole per la sussistenza). In parte diverso è il ruolo delle imprese multinazionali agricolo-alimentari, il cui ciclo, verticalmente integrato, va dalle materie prime agricole alla produzione e perfino al commercio al minuto dei beni di consumo, sia sui mercati interni che su quelli internazionali. Decisamente diverso - più dinamico e non necessariamente reazionario - è il ruolo delle imprese multinazionali propriamente industriali. Qui conviene distinguere le imprese che hanno organizzato produzioni a ciclo integrale o a ciclo parziale o, infine, che hanno affidato a piccole unità produttive, in subappalto, particolari lavorazioni. Le imprese che operano nel settore industriale e, in particolare, nell'industria manifatturiera hanno, nel loro paese di origine, ampie dimensioni, che sono il risultato di lunghi processi di trasformazione tecnico-economica; le ampie dimensioni operano da barriere di protezione, addirittura a livello internazionale. Non tutte le grandi imprese oligopolistiche dei paesi più sviluppati sono imprese multinazionali, ma tutte le imprese multinazionali sono, all'interno del paese d'origine, oligopolistiche poiché, per potersi espandere in altri paesi, hanno bisogno di una robusta base di partenza. Le imprese che hanno una tale base non possono non essere imprese dominanti in un dato ramo produttivo o perfino in diversi rami (v. mercato).
Le imprese oligopolistiche che spostano in paesi sottosviluppati certe operazioni o promuovono produzioni in subappalto vendono i prodotti finiti principalmente sui mercati internazionali, aggirando così l'ostacolo rappresentato dalle dimensioni limitate, pur se in espansione, dei mercati nei paesi sottosviluppati. Resta vero che l'inserimento o la comparsa, in paesi sottosviluppati, di nuove grandi imprese, straniere o nazionali, che producono a ciclo integrale per il mercato interno sono condizionati negativamente dalle dimensioni dei mercati: solo dopo una prolungata fase di sviluppo, prima lento poi via via più celere, questo ostacolo può essere superato.
Le valutazioni del ruolo che le grandi imprese multinazionali hanno avuto e tuttora hanno nei paesi sottosviluppati sono spesso divergenti. Per gli economisti marxisti tale ruolo è radicalmente negativo: esse contribuirebbero, secondo alcuni, addirittura allo ‟sviluppo del sottosviluppo". Per gli economisti a tendenza conservatrice, viceversa, il ruolo sarebbe senz'altro positivo. Un giudizio più obiettivo deve essere più differenziato e critico. Gli abusi economici e politici delle imprese multinazionali sono stati e sono rilevanti, ma entro certi limiti possono essere ridotti da una decisa azione politica e da leggi ben congegnate. Degli abusi cui possono dar luogo le imprese che decentrano certe operazioni nei paesi sottosviluppati si e gia fatto cenno nel precedente capitolo. Ma, quali che siano le intenzioni, lo sviluppo delle piccole unità locali o di imprese che producono beni intermedi, favorito dalle imprese multinazionali, a lungo andare non può non promuovere lo sviluppo generale dei paesi interessati, anche attraverso lo sviluppo di piccole imprese che producono per un mercato locale ancora ristretto, ma in espansione. Lo sviluppo della Corea del Sud, di Taiwan, di Hong Kong, di Singapore è certo fondato in primo luogo sui bassi salari e su un duro sfruttamento dei lavoratori a beneficio delle imprese multinazionali giapponesi, americane e britanniche, che in quei paesi hanno investito o promosso produzioni in subappalto; ma questo sviluppo dura oramai da anni e comincia a dar frutti positivi, in ciascuno di quei paesi, per la società intera, compresi gli operai, i cui salari, pur essendo ancora nettamente inferiori a quelli dei paesi industrializzati, sono andati crescendo notevolmente negli ultimi anni.
I paesi asiatici ora ricordati sono fra quelli che mostrano i più alti saggi di sviluppo industriale registrati negli ultimi anni. Ciò è noto. Meno noto è il fatto che i paesi che sono entrati in una fase di rapida industrializzazione sono numerosi: dal 1960 al 1978, in ben 32 paesi, con una popolazione totale di oltre 960 milioni di persone, il saggio di aumento ha superato, in media, il 6%; in altri 9 paesi, con una popolazione di circa 760 milioni, si è registrato un saggio di aumento compreso fra il 5 e il 6% (v. tab. X).
Per valutare il significato e le conseguenze di saggi di aumento di questo ordine di grandezza si tenga presente che un saggio del 5% comporta il raddoppio della produzione in circa 14 anni e che lo stesso risultato lo si ottiene in soli 10 anni con un saggio di circa il 7% (si tratta sempre di saggi composti). Certo, in paesi che partono da una base industriale estremamente limitata, come è stato per molti dei paesi ricordati, il raddoppio di tale base non significa ancora la presenza di dimensioni veramente rilevanti del settore industriale. Tuttavia, in molti di tali paesi, si è trattato di aumenti ben superiori: il saggio di aumento annuale è stato infatti in parecchi casi superiore al 9% e, inoltre, in alcuni di quei paesi la base di partenza era si limitata, ma non limitatissima.
In ogni modo, per tener conto anche dell'incidenza relativa raggiunta dal settore industriale, nella tab. X sono indicate tra parentesi anche le quote % dei lavoratori occupati nell'industria. Esaminando tali dati, non si può non riconoscere che una parte cospicua dell'umanità che vive nei paesi sottosviluppati è entrata ormai nella spirale dello sviluppo. Pur trattandosi di un obiettivo universalmente perseguito (l'alternativa di restare fuori dal meccanismo dello sviluppo è risultata non praticabile nelle condizioni moderne), è altrettanto universalmente riconosciuto che il processo di sviluppo, comunque portato avanti, risulta doloroso e gravido di contrasti e di tensioni. Il contrasto principale, destinato a durare a lungo anche se non indefinitamente, è quello fra il settore industriale moderno, nel quale le retribuzioni sono relativamente elevate e, da un certo momento in poi, in rapido aumento, e il settore tradizionale - agricoltura, artigianato e piccolo commercio - nel quale i guadagni restano a lungo molto inferiori a quelli del settore moderno. Le tensioni diventano particolarmente acute quando, per ragioni etniche e sociali, si creano situazioni ‛di ghetto', ossia là dove si formano o si rafforzano barriere che rendono arduo, a certi segmenti della popolazione, partecipare allo sviluppo ottenendone man mano i frutti. In molti casi, oltre alle tensioni interne risultano aggravate anche quelle esterne, tra paesi diversi. È motivo di amara riflessione osservare che il primo obiettivo del governo di un paese sottosviluppato che riesce a sollevarsi, sia pure in misura modesta, da una condizione di miseria generalizzata è spesso quello di sviluppare l'apparato militare, se non addirittura di attaccare paesi vicini, anch'essi sottosviluppati. Alcuni di questi conflitti sono stati voluti o provocati da una delle due superpotenze; ma altri sono nati da decisioni autonome. È doloroso constatare che uno dei commerci più lucrosi e importanti del mondo è quello delle armi: le superpotenze, insieme con le potenze minori, lo alimentano sia per ragioni economiche che per ragioni politiche.
12. Commercio estero e progresso tecnico
Sul più circoscritto piano economico, l'industrializzazione di un numero sempre maggiore di paesi sottosviluppati sta creando preoccupazioni crescenti nei paesi già industrializzati per la concorrenza dei prodotti provenienti da quei paesi, nei quali il costo del lavoro è pur sempre molto più basso. Su questo punto vanno fatte alcune osservazioni.
In primo luogo è opportuno sottolineare che, nel caso dei paesi considerati, non si tratta sempre di vera e propria concorrenza internazionale: in certi casi, come si è visto, si tratta della concorrenza che le grandi imprese di un paese sviluppato muovono ad altre imprese dello stesso paese o di altri paesi sviluppati, avvantaggiandosi del basso costo del lavoro che si registra in certi paesi sottosviluppati. In secondo luogo occorre ricordare che, se lo sviluppo industriale dei paesi sottosviluppati riguarda beni intermedi la cui produzione è stata praticamente abbandonata nei paesi sviluppati, non c e concorrenza, ma solo complementarità. Infine, non bisogna dimenticare che le esportazioni di un buon numero di paesi in via di sviluppo si dirigono più verso altri paesi sottosviluppati che verso i paesi industrializzati. Sono invece numerosi i paesi asiatici che incrementano le loro esportazioni, in particolare verso i paesi industrializzati; ma in questi casi si tratta solo in parte di vera concorrenza internazionale: per un'altra parte valgono invece le due osservazioni precedenti.
Una parte di queste tendenze sono illustrate dalla tab. XI, la quale indica alcune variazioni nelle quote delle esportazioni, nel periodo 1960-1978, dei primi due gruppi di paesi considerati nella tab. X. (Sono considerate le esportazioni totali, ma il quadro nella sostanza non cambia se si considerano le sole esportazioni industriali).
Se il crescente interscambio fra diversi paesi asiatici e i principali paesi industrializzati indica una crescente interdipendenza fra i due gruppi di paesi, con un'evidente supremazia dei secondi, si deve osservare che sono numerosi e importanti i paesi dell'America Latina che hanno accresciuto le esportazioni principalmente verso altri paesi sottosviluppati; pertanto, il grado di interdipendenza economica fra quei paesi e quelli industriali, segnatamente gli Stati Uniti, appare meno elevato di quanto generalmente si ritenga e comunque in diminuzione e non in aumento. È vero che diversi paesi sottosviluppati hanno accresciuto le loro esportazioni verso altri paesi sottosviluppati anche in conseguenza delle barriere che i paesi industrializzati hanno eretto a difesa delle loro produzioni; ed è ben comprensibile che i paesi sottosviluppati chiedano ai paesi industrializzati di ridurre le loro barriere o per lo meno di non elevarle ulteriormente, come è stato fatto per es. negli ultimi anni per proteggere i prodotti tessili. Nei paesi industrializzati le spinte verso il protezionismo sono cresciute a causa delle difficoltà conseguenti alla crisi petrolifera del 1974-1975; ma le possibili ritorsioni sarebbero tanto più dannose in quanto i paesi del Terzo Mondo che sono entrati in un processo di rapido sviluppo cominciano a rappresentare mercati assai promettenti: chi vende di più compra anche di più. In ogni modo, l'espansione dei traffici all'interno dei paesi sottosviluppati testimonia l'elevata capacità di sviluppo, nonostante tutto, di numerosi paesi del Terzo Mondo. Inoltre, sopra si è parlato di ‛quote': il valore assoluto delle esportazioni dei paesi arretrati verso quelli industrializzati è cresciuto praticamente in tutti i casi, ed è cresciuto a un saggio molto elevato, oltre il 10% l'anno; nell'ambito dei paesi arretrati le esportazioni sono cresciute a un saggio anche più elevato. Tali sviluppi riguardano le esportazioni dei prodotti industriali: quelle dei prodotti agricoli e minerari - a parte il caso del petrolio - sono aumentate a saggi molto minori; di conseguenza le esportazioni dei prodotti industriali, che nel 1960 rappresentavano solo l'11% delle esportazioni totali dei paesi arretrati, oggi rappresentano oltre il 30% e la quota è in aumento. Finora l'espansione delle esportazioni ha riguardato principalmente i prodotti industriali intermedi a tecnologie agevolmente accessibili, come i filati, i tessuti, certi componenti elettronici, l'acciaio, il cuoio, diversi prodotti chimici; le esportazioni di beni d'investimento e di beni finali di consumo sono cresciute molto meno: solo i più sviluppati fra i paesi arretrati, come la Spagna, la Iugoslavia, il Brasile e l'Argentina, sono riusciti a espandere queste esportazioni in misura significativa.
L'espansione del mercato costituisce una condizione essenziale dello sviluppo industriale e può dipendere sia dalla domanda interna (che, come si è accennato, è condizionata dallo sviluppo della produzione agricola) sia dalla domanda estera e quindi dallo sviluppo delle relazioni economiche internazionali. Tuttavia, le differenze che si registrano nello sviluppo industriale dei diversi paesi e nelle direzioni delle correnti di esportazione e di importazione mostrano l'inconsistenza delle interpretazioni che assegnano alla dotazione di ‛risorse' il ruolo principale nello sviluppo produttivo generale, anche se in alcuni paesi la disponibilità di certe risorse ha costituito un'importante condizione permissiva. Il ruolo principale spetta invece, come si è già osservato (v. cap. 3), alle conoscenze tecniche e organizzative e al loro progresso; le prime s'incorporano, di regola, in macchine, le seconde in strutture di vario genere, spesso create da leggi. In ultima analisi, tali innovazioni sono il risultato di idee nuove, scientifiche o organizzative, ma in questo campo è possibile anche un processo di imitazione e di diffusione, un processo che comporta adattamenti piuttosto che nuove idee. Ai fini dello sviluppo produttivo, un tale processo può essere - e per i paesi ritardatari è stato - non meno importante delle innovazioni originate da idee propriamente nuove.
Il progresso tecnico è all'origine del sistematico aumento della produttività per lavoratore; gli aumenti della produzione industriale cui poco fa si è fatto cenno e che in diversi casi superano il 9-10% l'anno dipendono solo assai limitatamente da un aumento dell'occupazione (1-2%): in parte dipendono dall'aumento, nell'aggregato, del peso delle industrie a più alta produttività rispetto a quelle a produttività più bassa, ma in gran parte dipendono piuttosto dal progresso tecnico.
In diversi importanti rami industriali è stato proprio il progresso tecnico e organizzativo a rendere necessario l'ampliamento delle dimensioni delle imprese: tutto sommato, le economie di scala (o di dimensione) sono essenzialmente il risultato di un processo dinamico. Sono proprio le economie di scala che hanno reso arduo, in quei rami industriali, uno sviluppo graduale e hanno richiesto l'intervento dello Stato anche nel settore industriale. Sebbene le economie di scala condizionino in modo determinante diversi importanti rami produttivi, lasciano pur sempre notevoli spazi alle piccole imprese: alcune di queste sono satelliti delle grandi, ma altre possono essere considerate autonome. Inoltre, certe recenti innovazioni tecnologiche, come le macchine a controllo numerico e certe innovazioni introdotte dall'industria elettronica, hanno addirittura accresciuto lo spazio per 19 sviluppo di unità piccole ed efficienti. Una volta raggiunta una certa diffusione dell'istruzione, questo fatto potrebbe avere grande importanza per i paesi sottosviluppati, poiché l'ampiezza dei tre ‛salti', di cui si e piu volte parlato, risulterebbe ridotta.
Numerosi economisti hanno messo in evidenza le conseguenze negative che comporta la dipendenza tecnologica dei paesi sottosviluppati rispetto agli altri: consolidamento della supremazia economica delle imprese straniere, freno allo sviluppo di un'industria meccanica locale, ostacolo allo sviluppo dell'occupazione (in quanto le macchine prodotte nei paesi sviluppati, che sono paesi ad alti salari, tendono a risparmiare lavoro). Lo sviluppo delle nuove tecnologie e delle piccole unità che le applicano può essere via via attuato anche localmente. Non ci si deve nascondere, però, che la questione della ristrettezza del mercato è solo uno degli ostacoli che si oppongono allo sviluppo industriale. Un altro ostacolo è il basso grado d'istruzione delle masse dei lavoratori: per far funzionare le macchine, infatti, e ancor più per fabbricarle o addirittura per crearle tenendo conto dei bisogni specifici dell'industria locale, è necessario un numero relativamente ampio e potenzialmente crescente di operai con una buona istruzione di base, di ingegneri e di amministratori con una buona istruzione superiore, oltre che di ricercatori e di specialisti con un addestramento universitario di livello elevato (ma questa terza condizione - non è un paradosso - è la più facile da realizzare). È dunque un fatto decisamente positivo, anche dal punto di vista economico, che negli ultimi anni i progressi compiuti da numerosi paesi sottosviluppati nel campo dell'istruzione siano stati ragguardevoli: nelle condizioni dell'industria moderna, tuttavia, la riduzione dell'analfabetismo costituisce di per sé un elemento di scarso peso, mentre rappresenta un progresso molto più importante nelle campagne, dove solo contadini non analfabeti possono apprendere nuove tecniche produttive (e metodi per programmare il numero dei figli).
Non alle risorse, dunque, ma al progresso delle conoscenze spetta il ruolo principale nel processo di sviluppo. Sulla disponibilità delle risorse, invece, ha insistito la teoria tradizionale del commercio estero (in particolare, la teoria dei costi comparati), secondo la quale ciascun paese ha convenienza a specializzarsi in quelle produzioni in cui ha una superiorità relativa, lasciando agli altri paesi la produzione di quei prodotti in cui esso è economicamente inferiore o in cui non ha una superiorità relativa, sempre in termini di costi. Questa teoria (originariamente proposta da Ricardo: Smith aveva una diversa concezione) è stata utilizzata a lungo per giustificare una divisione internazionale del lavoro caratterizzata da una rigida opposizione tra paesi industrializzati e paesi produttori di materie prime agricole e minerarie. Se è certo vero che lo scambio può essere spesso un mezzo più economico rispetto alla produzione diretta per procurarsi certi beni, è anche vero però che una tale proposizione - come quella, più raffinata, dei costi comparati - non può esser presa isolatamente. Bisogna tener conto della ineguale capacità di sviluppo delle diverse attività produttive (maggiore, per es., nel caso dell'industria manifatturiera rispetto ad altre attività) e del grado di occupazione della forza lavoro; così, se sono numerosi i disoccupati, non ha senso risparmiare lavoro. Infine, se si riconosce che la superiorità produttiva non dipende in primo luogo dalla disponibilità di risorse (essenziale solo nel caso delle risorse minerarie), ma dal grado di sviluppo delle conoscenze, ne discende che raccomandare una determinata specializzazione produttiva come un assetto relativamente stabile può avere significato per i paesi industrializzati, mentre ne ha assai meno per i paesi che intendono svilupparsi. Conseguenza di queste osservazioni è che per promuovere lo sviluppo industriale non si possono prescrivere, come regola generale, nè il liberismo nè il protezionismo, anche se si deve riconoscere che il protezionismo praticato dai paesi industrializzati tende a frenare lo sviluppo dei paesi arretrati.
13. Le politiche di sviluppo
Non c'è dunque e non ci può essere ‛una' politica di sviluppo: le politiche di sviluppo non possono non essere molteplici, secondo i tempi e secondo i paesi. Come si è osservato nei capitoli precedenti, alcune questioni riguardanti siffatte politiche, a causa dell'influenza culturale, oltre che tecnologica ed economica, dei paesi sviluppati, sono state trascurate o mal poste nei paesi sottosviluppati. Così, è stata trascurata la necessità di concentrare gli sforzi produttivi nei settori relativi ai beni essenziali - che poi, almeno in parte, è un altro modo per raccomandare un'azione, anche fiscale, volta a ridurre la diseguaglianza nella distribuzione del reddito - e non è stata messa in sufficiente rilievo l'opportunità di sviluppare tecnologie adatte alle esigenze locali, come l'esigenza di allargare l'occupazione nell'industria moderna e quella di favorire le piccole unità (senza sacrificio naturalmente per l'efficienza e fatto salvo lo sviluppo delle industrie di base, dove non possono operare che imprese di grandi dimensioni).
Un'altra questione importante, che si ricollega a un'analisi di R. Nurkse, riguarda la possibilità di mobilitare la ‛disoccupazione nascosta' nelle economie arretrate: una disoccupazione che si potrebbe definire ‛a intarsio temporale', giacché la gamma assai limitata di merci che vengono prodotte dalle piccole aziende contadine generalmente comporta periodi di ozio forzato. Se i contadini potessero essere mobilitati in questi periodi per opere di sistemazione dei terreni e delle acque, opere che possono essere compiute con l'ausilio di strumenti semplicissimi, si potrebbe ottenere un cospicuo aumento nella produttività della terra con un minimo impiego di capitale, non solo per il basso costo degli strumenti necessari, ma perché i contadini debbono nutrirsi anche nei periodi di ozio forzato e questo costo grava comunque sull'economia dei diversi paesi. (Programmi di questo genere sono stati attuati, su vasta scala e con notevole successo, in Cina. Il problema principale in queste imprese è quello organizzativo: si tratta di vedere chi mobilita e coordina i gruppi di contadini. In Cina questo ruolo è stato svolto dal Partito Comunista).
La mobilitazione dei disoccupati nascosti è un modo per rendere minimo il fabbisogno di capitale nella fase di avvio dello sviluppo agricolo in un paese arretrato. E proprio in questa fase che si presenta il problema di fondo dello sviluppo: il problema del ‛sovrappiù' e della sua destinazione.
Nella formulazione più semplice, la relazione fra sovrappiù e sviluppo può essere chiarita con un caso limite: una società primitiva, che produce quanto è appena sufficiente per la sua sopravvivenza, non può ‛accumulare', ossia non può distrarre dagli impieghi necessari nessuna quota della produzione corrente. Ciò è possibile solo se esiste, o se si forma a un certo momento, un sovrappiù, ossia un'eccedenza di prodotti rispetto agli impieghi necessari per la riproduzione. Se, dunque, concettualmente la definizione di sovrappiù non presenta difficoltà, i problemi sorgono quando si fa riferimento alle situazioni concrete, poiché i consumi necessari riferiti ai singoli soggetti non sono costanti, ma variano secondo le condizioni storico-sociali. Conviene allora distinguere il concetto di sovrappiù riferito a condizioni stazionarie e alla prima fase dello sviluppo dallo stesso concetto riferito a una situazione in cui il processo di sviluppo è già avviato. In questo secondo caso, si deve osservare che, ai fini dello sviluppo, non contano tanto i livelli, quanto gli ‛aumenti' dell'eccedenza agraria rispetto ai bisogni dei produttori e gli aumenti del prodotto industriale: man mano che si ottengono, infatti, quegli aumenti non sono ancora entrati nei consumi socialmente necessari e sono quindi ‛liberi'. Invece, in una fase in cui si tenta di avviare un processo di sviluppo, il concetto è diverso (è il concetto cui in sostanza facevano riferimento gli economisti classici): la grande massa della popolazione è in condizioni di grande povertà e non ha alcun sovrappiù utilizzabile per l'accumulazione; anzi, almeno per gli strati più poveri, il problema è di elevare subito i consumi proprio per accrescere la loro durata di vita e la loro capacità lavorativa. Gli strati più ricchi, invece, dispongono di un sovrappiù, di norma ottenuto sotto qualche forma di rendita agraria o di profitti commerciali, e possono anche disporre, come risultato di precedenti redditi netti, di ricchezze accumulate privatamente (per esempio oggetti preziosi, monete auree ecc.). Prima che venga avviato un processo di sviluppo, i soggetti appartenenti agli strati più ricchi consumano il sovrappiù in modi non produttivi (consumi di lusso, spese o investimenti all'estero); con l'avvio di un processo di sviluppo, una quota almeno dei redditi dei soggetti più ricchi deve essere destinata a impieghi produttivi, o per libera decisione di quei soggetti (risparmio) o per coazione, attraverso la politica fiscale. Sul piano della coazione si colloca anche la soluzione di una riforma agraria radicale, con l'intento di spostare una parte del reddito netto da coloro che l'impiegano in modo improduttivo verso coloro che presumibilmente lo impiegheranno (almeno in parte) in modo produttivo. Oltre che dai redditi interni, i mezzi per sostenere l'avvio di un processo di sviluppo possono venire anche dall'estero, sotto forma di aiuti e di prestiti. Sotto questo aspetto il sovrappiù di certi paesi relativamente ricchi diviene rilevante per l'accumulazione a livello mondiale.
Un altro mezzo per spostare una quota del reddito nazionale verso fini di accumulazione può essere, ed è stato, l'inflazione. In certi paesi l'inflazione è stata l'alternativa a una decisa azione redistributiva condotta attraverso il fisco. Si deve osservare, tuttavia, che l'inflazione ha colpito soprattutto certi strati dei redditieri medi e bassi, aggravando spesso la malnutrizione dei ceti più poveri. Più in generale, in diversi paesi, specialmente dell'America Latina, l'inflazione è la conseguenza, da un lato, di deficienze di tipo strutturale (in particolare: sistema fiscale, assetto della proprietà terriera e organizzazione del commercio dei prodotti agricoli) e, dall'altro, di particolari linee di politica economica (ampliamento delle spese pubbliche - produttive e improduttive, spese militari - e politica delle sistematiche svalutazioni, compiute, fra l'altro, a scopi di protezione di certe produzioni interne).
In generale, l'inflazione è piu grave nei paesi in cui piu acuti sono i conflitti sociali: fra i ceti privilegiati, che riescono a sottrarsi all'aumento della pressione fiscale, e gli altri ceti; fra l'esigua aristocrazia del lavoro, che riesce a ottenere retribuzioni che crescono con la stessa velocità o anche più rapidamente dei prezzi, e gli altri lavoratori. Sotto questo aspetto si comprende perché il processo inflazionistico sia più grave nei paesi dell'America Latina, meno grave nei paesi sottosviluppati dell'Asia e ancora meno nella maggioranza dei paesi africani.
L'armamentario delle misure di politica economica rivolte ad avviare e a sostenere un processo di sviluppo è diventato comunque sempre più ricco e articolato. A parte le già ricordate azioni di riforma, sulle quali ritorneremo, vi sono gli investimenti nelle cosiddette infrastrutture, gli investimenti diretti nell'industria e tutta una serie d'incentivi di tipo fiscale e creditizio.
14. Conflitti interni e conflitti internazionali
Quelli appena ricordati sono solo alcuni tipi di conflitti economici interni; ve ne sono altri, come quelli fra proprietari e amministratori di terre e di imprese, da un lato, e lavoratori, specialmente lavoratori salariati, dall'altro. Ma non ci sono solo conflitti economici; ci sono altre specie di conflitti, che si combinano con i primi: conflitti etnici, o razziali, e conflitti religiosi; anche questi hanno grande importanza e sbaglierebbe l'economista che pensasse di poterli ignorare. A loro volta, i molteplici conflitti interni sono condizionati dai conflitti internazionali. Dopo la seconda guerra mondiale i conflitti di tipo militare sono stati numerosi (non meno di 200) e terribilmente costosi in termini di vite umane - molto più costosi di quanto in generale si creda - ma sono stati conffitti militari circoscritti territorialmente e quasi tutti hanno avuto luogo nel Terzo Mondo. Il principale conflitto del nostro tempo, che ha condizionato tutti gli altri e che non ha assunto (e si spera che non assuma) carattere militare ma solo carattere politico, è quello fra Unione Sovietica e Stati Uniti. Si deve osservare che il problema dei paesi sottosviluppati è divenuto d'importanza primaria a livello internazionale come conseguenza della rivalità, politica e ideologica, delle due superpotenze.
Solo in questo dopoguerra i problemi del Terzo Mondo hanno raggiunto dimensioni gravissime, soprattutto come conseguenza dell'esplosione demografica. Quei problemi erano gravi già prima e non pochi uomini di cultura avevano denunciato la situazione; ma fino alla seconda guerra mondiale molti di quei paesi erano ancora colonie ed erano quindi oggetti e non soggetti della politica internazionale. Si può stabilire un parallelo tra l'evoluzione dei problemi del Terzo Mondo e quella del problema della schiavitù: per secoli uomini di cultura (laici e religiosi) avevano denunciato le atrocità della schiavitù e ne avevano proposto l'abolizione, ma solo quando si furono sviluppate vigorose spinte provenienti dalla convenienza economica dei gruppi sociali di certi paesi coloniali o già coloniali si arrivò all'abolizione della schiavitù. Anche in questo caso, tuttavia, sarebbe erroneo trascurare o sottovalutare l'importanza delle spinte culturali, specialmente quelle di tipo democratico ed egualitario che hanno caratterizzato la cultura europea negli ultimi due secoli: le spinte dei due ordini si affermano solo quando, combinate, superano una certa intensità.
Comunque sia, in questo dopoguerra, soprattutto per iniziativa delle Nazioni Unite (ma anche per iniziativa della Comunità Economica Europea), sono stati deliberati importanti aiuti finanziari a carico dei paesi industrializzati e a favore dei paesi sottosviluppati, e sono stati organizzati anche aiuti tecnici, specialmente attraverso la FAO. Secondo i programmi iniziali gli aiuti avrebbero dovuto ascendere all'1% del reddito dei paesi industrializzati, per contribuire in modo significativo ai piani di sviluppo dei paesi arretrati. Nella realtà gli aiuti sono stati sensibilmente inferiori a tale percentuale, come risulta dalla tab. XII. Anche più grave è il fatto che una quota non precisabile, ma certo rilevante, di questi aiuti non riguarda lo sviluppo produttivo, ma gli armamenti. Nella stessa tab. XII è indicato l'ordine di grandezza dei prestiti netti, a medio e a lungo termine, pubblici o garantiti da organismi pubblici (sono, fra questi, i prestiti concessi dalla Banca Mondiale); sono poi indicati anche i livelli e le percentuali cui dovrebbero arrivare, in un tempo relativamente breve, rispettivamente i prestiti e gli aiuti secondo il Rapporto Brandt (un rapporto sul Terzo Mondo elaborato di recente da una Commissione internazionale indipendente presieduta dall'ex cancelliere tedesco Willy Brandt). Questo Rapporto sottolinea che nel 1978 le spese militari, nel mondo, ammontavano a 450 miliardi di dollari, mentre gli aiuti (in parte militari) ammontavano solo a 20 miliardi.
Oltre le spinte politiche di carattere generale, di cui si è già detto, alcune vicende e condizioni particolari hanno accresciuto il peso politico di un gruppo di paesi sottosviluppati, ma in via di rapido sviluppo, e cioè dei paesi arabi. Le vicende sono, principalmente, quelle delle guerre fra paesi arabi e Israele. Le condizioni particolari sono quelle, in ultima analisi, determinate dal rapido sviluppo di un numero crescente di paesi e dal ruolo essenziale che in tale sviluppo gioca il petrolio. L'enorme aumento del prezzo del petrolio e, quasi contemporaneamente, il cospicuo aumento dei prezzi delle materie prime sono fenomeni che vanno collegati anche alla crisi del sistema monetario internazionale, cominciata nel 1971 e non ancora risolta, crisi che ha acuito le spinte speculative sui mercati internazionali delle materie prime, i cui prezzi hanno registrato fluttuazioni molto più ampie di prima e rivolte più verso l'alto che verso il basso. Il risultato di queste tensioni è stato un'accentuata pressione inflazionistica a livello mondiale. (L'aumento assoluto e relativo nel prezzo del petrolio ha decisamente favorito certi paesi sottosviluppati, ma ne ha danneggiati altri, soprattutto nella fascia dei paesi a reddito basso. Tuttavia, poiché sono aumentati anche i prezzi assoluti e relativi di diverse materie prime, altri paesi sottosviluppati hanno ottenuto vantaggi).
Numerosi economisti hanno elaborato proposte di riforma del sistema monetario internazionale; e anche lo stesso Rapporto Brandt, come si è detto, ne formula alcune. Molte di queste proposte riguardano, in modo particolare, i cosiddetti diritti speciali di prelievo, che costituiscono una sorta di moneta creditizia internazionale, già esistente ma, finora, di limitata importanza. I paesi industrializzati dovrebbero accordarsi per allargare l'uso dei diritti speciali di prelievo come moneta di riserva e come strumento di finanziamento dei traffici mondiali; contemporaneamente, dovrebbero essere resi più liberali i criteri seguiti dalla Banca Mondiale per finanziare i progetti di sviluppo dei paesi arretrati. La conseguenza sarebbe un allargamento del credito a breve termine, di competenza del Fondo Monetario Internazionale, e del credito a lungo termine, di competenza della Banca Mondiale, con vantaggio precipuo dei paesi arretrati. In ogni modo la riforma del sistema monetario internazionale non può avere alcun ragionevole successo se non si fonda su una rete coordinata di accordi internazionali, volti a stabilizzare i prezzi del petrolio e delle principali materie prime e a regolare gli approvvigionamenti di questi prodotti. Alcuni passi in questa direzione sono stati compiuti, ma è necessario andare avanti con decisione molto maggiore.
Si è osservato che, in ultima analisi, i cospicui aumenti nei prezzi del petrolio e di molte materie prime sono stati determinati da un processo di sviluppo che si è ormai generalizzato sul piano mondiale. Alcuni studiosi hanno formulato previsioni molto pessimistiche sul progressivo esaurimento del petrolio e di altre risorse minerarie. Queste previsioni non danno però il giusto peso alle risorse della tecnologia e alle possibilità di nuove scoperte. (Per es., per il petrolio i paesi dell'Africa centrale sembrano avere prospettive molto promettenti). Se mai la scarsezza relativa, almeno per periodi non brevi, di certe materie prime potrà determinare, come ha già determinato, aumenti nei costi industriali e, per questa via, un ulteriore indebolimento del processo di sviluppo dei paesi industrializzati. Ma una cosa è l'indebolimento di un tale processo, un'altra il suo arresto. Un saggio più lento di sviluppo dei paesi industrializzati non costituisce un problema dal punto di vista della disponibilità dei beni; costituisce piuttosto un problema sotto l'aspetto dell'assorbimento delle nuove leve di lavoro - un problema peraltro risolubile nel lungo periodo con la riduzione delle ore lavorate da ciascun lavoratore. Tuttavia, l'indebolimento dello sviluppo di quei paesi indirettamente tende a frenare lo sviluppo dei paesi arretrati, parecchi dei quali sono già stati colpiti dal rincaro del prezzo del petrolio: questo è un problema più grave sotto ogni aspetto. Il primo passo per scongiurare il rallentamento nello sviluppo dei paesi arretrati consiste nell'accrescere prestiti e aiuti: quanto finora si è fatto è insufficiente.
Oltre ai prestiti e agli aiuti di carattere finanziario, i paesi industrializzati, direttamente o tramite l'Organizzazione delle Nazioni Unite, dovrebbero fornire in maggior misura aiuti tecnici. Una tale raccomandazione è contenuta nello stesso Rapporto Brandt, anche se forse questo Rapporto non dà suggerimenti sufficientemente precisi sull'aiuto internazionale necessario per la formazione su larga scala di esperti agrari e non dedica al problema dell'acqua l'attenzione che esso meriterebbe. (In diversi importanti paesi africani c'è un problema di grave scarsezza d'acqua, che provoca periodicamente drammatiche siccità e che andrebbe affrontato anche attraverso un programma di ricerche idrogeologiche di ampie proporzioni; in diversi paesi asiatici, invece, specialmente in certe stagioni c'è il problema opposto, che andrebbe affrontato con un programma sistematico per il controllo delle acque). Comunque, gli aiuti finanziari dei paesi industrializzati possono servire, soprattutto nel futuro immediato, per attenuare l'angoscioso problema della fame e della malnutrizione che, come si è ricordato, colpisce più di un sesto del genere umano, mentre gli aiuti tecnici - assistenza e programmi speciali - possono contribuire ad accelerare lo sviluppo produttivo, soprattutto nell'agricoltura.
15. Gli obiettivi dello sviluppo e le prospettive economiche
Negli ultimi tempi ha perso sempre più terreno l'opinione secondo cui i paesi sottosviluppati sarebbero costretti a ripetere la via percorsa dai paesi oggi sviluppati. Abbiamo già mostrato che le vie finora percorse sono state in realtà diverse e diversi sono stati gli obiettivi perseguiti: molte indicazioni inducono a ritenere che le differenze, già notevoli, andranno crescendo in futuro.
In primo luogo, c'è una spiegazione naturale molto semplice di queste differenze: il clima, tropicale o equatoriale, della maggior parte dei paesi arretrati comporta diversi (e più limitati) obiettivi di consumo. (Questo è un altro motivo per cui le distanze economiche fra i paesi sviluppati e gli altri, per quanto riguarda l'industria, tendono a essere sopravvalutate). Oltre alla spiegazione di carattere naturale, c'è poi un altro motivo di carattere storico. Oggi, nei paesi sviluppati, sono diffuse le critiche al consumismo, ossia alla frenesia per ogni sorta di beni di consumo, utili o inutili o addirittura dannosi nel senso precedentemente specificato. È vero che i gruppi ristretti di privilegiati dei paesi arretrati tendono a imitare il modello di consumo dei paesi industrializzati; ma è anche vero che un'azione politica volta a contrastare questa influenza potrebbe avere successo, specialmente in certi paesi, come quelli asiatici, che hanno diverse tradizioni culturali. D'altra parte gli stessi sindacati di quella che è stata chiamata aristocrazia operaia si battono per ottenere - e hanno in gran parte già ottenuto - una settimana lavorativa eguale a quella attuale dei paesi industrializzati e non a quella prevalente nel passato, quando questi paesi si trovavano in condizioni di sviluppo analoghe a quelle degli attuali paesi arretrati. Ciò può indicare che i lavoratori tendono a preferire un minor lavoro subito a un consumo più rapidamente crescente. (Ricordiamo che al principio dell'Ottocento nei paesi allora in via di sviluppo la settimana lavorativa superava le 90 ore, mentre oggi nei paesi industrializzati è scesa a 40 ore). Se saranno portati avanti con giudizio e con misura - e attraverso azioni concertate sul piano internazionale - i programmi di riduzione delle ore settimanali potranno avere successo. Si tratta di un'evoluzione auspicabile, specialmente per i paesi sviluppati, dove i bisogni ‛essenziali' sono stati soddisfatti da un pezzo; ma si tratta di un'evoluzione che mostra quanto sia sbagliato concentrare l'attenzione sugli aspetti puramente quantitativi della produzione.
V'è poi la questione dell'inquinamento. I governi dei paesi sottosviluppati, che non siano governi asserviti a interessi stranieri, debbono imporre norme severe alle imprese intenzionate ad attuare investimenti inquinanti nei loro paesi, senza farsi fuorviare dall'argomento dell'aumento dell'occupazione. L'economista W. Leontief ha calcolato che l'eliminazione pressoché totale dell'inquinamento nelle aree industriali del mondo comporterebbe un costo non superiore all' 1,5-2% del reddito di ciascun paese: un costo non trascurabile, ma neppure proibitivo; un costo che potrà essere generalmente sopportato solo con specifici accordi internazionali che pongano le imprese di tutti i paesi in condizioni di relativa parità.
Un modello, anzi, un gruppo di modelli radicalmente diversi da quelli delle economie dette di mercato è rappresentato dalle economie pianificate. I modelli sono fondamentalmente di due categorie: quelli che si rifanno all'Unione Sovietica e quelli che si rifanno alla Cina. Prima delle rivoluzioni che hanno condotto ai nuovi sistemi sociali, Russia e Cina erano paesi gravemente arretrati: la popolazione, in grande maggioranza occupata in agricoltura, aveva per lo più un tenore di vita bassissimo; gli operai dell'industria moderna rappresentavano un'esigua minoranza fra i lavoratori occupati (meno del 10%).
Da un punto di vista qualitativo, non pare che si sia data sufficiente importanza alla storia del primo paese che ha intrapreso la strada della pianificazione centralizzata: l'Unione Sovietica. Si tratta di una storia in cui l'esperienza liberal-democratica (o fase democratico-borghese) è stata quasi completamente assente. I metodi autoritari e centralizzati dell'antico regime per diversi aspetti si ritrovano, in forma più efficiente e penetrante, nel nuovo sistema economico-sociale.
Da un punto di vista quantitativo, l'andamento dello sviluppo economico dei paesi a economia pianificata, pur attraverso alterne vicende, induce a un giudizio positivo, anche se il ritmo di sviluppo nel complesso non appare superiore a quello dei paesi a economia non pianificata, lasciando da parte il caso dei paesi esportatori di petrolio (v. tab. XIII).
Un confronto particolare conviene compiere tra l'India e la Cina, due grandi paesi orientali che, pur avendo straordinarie tradizioni culturali, sono partiti entrambi da livelli economici molto bassi. Il primo paese, l'India, ha un'economia nella sostanza di mercato, anche se il settore industriale pubblico è relativamente importante e anche se la struttura sociale è caratterizzata da una forte eredità derivante dalla struttura antica; il secondo paese, la Cina, ha un'economia pianificata, ma assai meno centralizzata di quella sovietica. Il confronto, come appare dalla sintesi della tab. XIV, sembra favorevole alla Cina; probabilmente, risulterebbe ancora più favorevole se si potesse confrontare la distribuzione del reddito.
16. Riforme e rivoluzione
L'esperienza cinese aveva fatto sorgere in Asia, ma non solo in Asia, la speranza che attraverso una rottura rivoluzionaria si potesse uscire rapidamente dall'arretratezza e addirittura cambiare, in un senso più umano, i contenuti stessi della vita sociale. In seguito, Cuba ha fatto sorgere analoghe attese in America Latina. E poi venuto il tempo delle delusioni, tanto più gravi quanto più forti erano state le illusioni. I due esperimenti non si possono dire falliti, ma i costi sono apparsi molto alti rispetto ai risultati: si è visto che la strada delle trasformazioni sociali non ammette scorciatoie. La rivoluzione cinese aveva alle sue spalle una lunga storia e quindi un'assai complessa e tormentata preparazione; considerata la base di partenza, quel che è stato realizzato in Cina è certo un risultato degno del massimo rispetto e addirittura di ammirazione anche da parte di quanti non condividono la composita ideologia cinese; tuttavia, non solo il sistema economico e sociale, ma neppure il metodo adottato dai cinesi si presenta come un prodotto esportabile; e altrettanto poco esportabile appare l'esperienza rivoluzionaria cubana.
Numerosi intellettuali, europei e non europei (specialmente latino-americani) si erano andati convincendo che, nel Terzo Mondo, solo una soluzione rivoluzionaria avrebbe potuto fornire a quei paesi una via d'uscita dal sottosviluppo, perché l'oppressione dell'imperialismo americano era tale da rendere non praticabili le altre vie: l'alternativa sarebbe stata tra cambiare violentemente le cose attraverso una rivoluzione o marcire senza scampo in una palude economica e sociale.
Alcuni importanti mutamenti, avvenuti negli ultimi anni, hanno però fatto tentennare, in diversi intellettuali, una tale convinzione. In primo luogo, le delusioni provocate dall'evoluzione della Cina e di Cuba; in secondo luogo, l'accentuarsi dell'espansionismo sovietico e l'accresciuta autonomia - se pure condizionata e circoscritta - di molti paesi del Terzo Mondo nei confronti sia dell'Unione Sovietica che degli Stati Uniti. Infine - ed è forse l'elemento decisivo - negli ultimi anni si è dimostrata sempre più erronea la convinzione che il sottosviluppo, senza una rottura rivoluzionaria, sia destinato a perpetuarsi e anzi ad aggravarsi (lo sviluppo del sottosviluppo). Per convincersene, basta riflettere sui dati della tab. II. Ma c'è un caso esemplare da considerare a questo proposito. Nel 1967 due futurologi americani, Kahn e Wiener, avevano formulato una previsione secondo cui al Brasile occorrevano non meno di 130 anni per raggiungere il livello del reddito individuale americano di quell'anno. Nè Kahn nè Wiener erano intellettuali di estrema sinistra. Ciononostante, un intellettuale brasiliano dichiaratamente rivoluzionario, Darcy Ribeiro, accettò senza riserve quella previsione, probabilmente perché sembrava dare piena conferma alla sua convinzione della mancanza di alternative a una soluzione rivoluzionaria. Pochi anni sono stati sufficienti per mostrare che quella previsione era infondata, a causa sia di una premessa errata, sia di un fatto nuovo intervenuto nel frattempo. L'errore era quello di usare acriticamente, come termine di confronto, il rapporto fra il reddito individuale americano e quello brasiliano (già prima del 1967 alcuni economisti avevano messo in guardia contro i possibili equivoci insiti nella procedura allora e tuttora generalmente seguita nel calcolo). Il fatto nuovo è stato il notevole sviluppo realizzato dal Brasile negli anni settanta, cosicché già il rapporto non corretto fra i due redditi individuali oggi è molto diminuito rispetto a quindici anni fa; ancora più basso risulta il rapporto corretto. In ogni modo, nessun economista o futurologo serio assegnerebbe oggi la minima validità alla previsione di Kahn e Wiener. È vero che il recente sviluppo brasiliano è stato molto sbilanciato e finora è andato, in prevalenza, a beneficio di una minoranza di persone: alti funzionari e impiegati privati e pubblici, industriali, privati e pubblici, commercianti, proprietari terrieri e, inoltre, una frazione non trascurabile della classe operaia (l'anstocrazia del lavoro); un'altra parte, la più ampia, della classe operaia, come anche i contadini, hanno ottenuto miglioramenti relativamente modesti; i lavoratori marginali o precari, numerosi soprattutto nel Nord del Brasile, dal loro canto, sono rimasti quasi del tutto tagliati fuori dai benefici dello sviluppo. Tutto questo è certo vero, ma escludere che con la prosecuzione dello sviluppo si possa progressivamente allargare la cerchia delle persone che partecipano ai frutti dello sviluppo stesso significa essere gravemente condizionati da preconcetti ideologici. D'altro canto, se è facile pervenire a conclusioni pessimistiche nell'esaminare le condizioni di ampi strati della popolazione in paesi come il Brasile, diventa molto difficile indicare le forze sociali che dovrebbero attuare la rivoluzione. Su chi si dovrebbe far leva? Sulla schiera infelice e disorganizzata dei lavoratori marginali? Sui contadini poveri che si trovano in condizioni non molto diverse da quelle dei lavoratori marginali? Su una classe operaia divisa fra un gran numero di operai sparpagliati in tante piccole aziende e un'aristocrazia operaia che ha l'orrore di precipitare nell'area dei lavoratori marginali ed è gelosa di quel che è riuscita a conquistare? Marx vedeva nel proletariato creato dall'industria moderna la forza rivoluzionaria per eccellenza. Ma nelle condizioni odierne lo sviluppo industriale non può non essere avviato da un nucleo di grandi imprese, che si fondano su impianti di ampie dimensioni e che sono in grado di pagare - e per la pace sociale nell'azienda sono disposte a pagare - alti salari: queste imprese non possono quindi non generare un'aristocrazia operaia che via via si allarga solo col procedere dello sviluppo industriale, ma che non sembra, nè al principio nè poi, incline a fare rivoluzioni. E in effetti i pochi tentativi rivoluzionari sono stati promossi da minoranze di intellettuali piccolo-borghesi che hanno fatto leva su frange molto limitate di operai e di contadini; tutti i tentativi rivoluzionari che non avevano alle spalle - e probabilmente non potevano avere - una valida base sociale, sono finiti in bagni di sangue e in dittature fasciste.
Abbiamo ricordato il caso del Brasile, il cui sviluppo sta smentendo le previsioni catastrofiche di futurologi e di altri intellettuali. Ma il numero dei paesi arretrati che sono entrati in una spirale di rapido sviluppo è cresciuto e va ulteriormente crescendo, senza che siano intervenute rivoluzioni, anche se (com'è inevitabile) ciò è accaduto in mezzo a ogni sorta di tensioni, di sofferenze e di conflitti. Ciò mostra che la via delle trasformazioni profonde, ma non traumatiche, può essere percorsa; mostra anche che le visioni (e le previsioni) catastrofiche non sono fondate. Tuttavia, pur essendo infondate, quelle visioni non sono irrilevanti, perché spingono a radicalizzare le ideologie politiche, non solo verso l'estrema sinistra, ma anche, per reazione, verso l'estrema destra; inoltre sono le ideologie che, combinate con interessi economici e di potere, guidano in ultima analisi la vita politica per il bene o per il male. Se poi si considera il ruolo svolto dagli intellettuali, particolarmente nella vita politica dei paesi arretrati, si ricava quanto sia importante approfondire il dibattito sulle riforme che occorrono per avviare lo sviluppo o, meglio, per indirizzarlo verso obiettivi socialmente e civilmente validi e per ridurre le pene del processo di trasformazione. Le riforme fondamentali di questo processo - oramai è chiaro - sono quattro: la riforma agraria, la riforma della pubblica amministrazione, la riforma fiscale e, infine, la riforma del sistema educativo, con particolari riflessi sull'agricoltura. A questo proposito occorre tuttavia esser molto cauti, perché le stesse etichette possono essere applicate ai contenuti più diversi. Così, la riforma agraria può essere ampia o circoscritta; può essere realizzata a beneficio della massa dei contadini poveri ovvero delle fasce più ristrette dei contadini medi o ricchi; può essere o non essere accompagnata da misure di assistenza creditizia e tecnica. E distinzioni analoghe valgono anche per le altre riforme.
La politica delle riforme, che negli ultimi cento anni in diversi paesi europei ha avuto successi di rilievo, sia pure attraverso aspre lotte e temporanei regressi, nei paesi del Terzo Mondo è sembrata a lungo, come si è detto, destinata a un quasi certo fallimento, sia per la gravità dei problemi che per la debolezza delle forze riformiste. In certi paesi, come quelli per es. dell'America Latina, le prospettive di una politica riformista sembrano oggi ancora più oscure non solo per la forza relativa delle classi privilegiate, ma anche perché gli Stati Uniti, che in quella parte del mondo vantano i maggiori interessi economici e politici, hanno spesso appoggiato le forze più reazionarie. Tuttavia, a differenza dei programmi rivoluzionari quelli riformisti possono trovare sostenitori in quasi tutte le classi e categorie sociali. D'altra parte, le intenzioni sono poco rilevanti: si possono promuovere riforme con obiettivi di trasformazione, che poi vengono frustrati, e viceversa.
La via delle riforme è certo ardua, ma una conclusione totalmente pessimistica non sarebbe giustificata, per diverse ragioni che qui mi limito a elencare: a) se le forze riformiste hanno di fronte prospettive difficili, quelle rivoluzionarie ne hanno di ancora peggiori; anzi, nelle attuali condizioni storiche rischiano di creare solo tremende illusioni; b) non è giusto guardare soltanto al lato oppressivo e imperialistico del ruolo svolto dagli Stati Uniti: le tradizioni liberali e democratiche americane non sono state completamente cancellate neppure nei periodi più oscuri della loro storia, cosicché non è affatto inevitabile che gli Stati Uniti debbano appoggiare le forze reazionarie; c) se si considera la storia di certi importanti paesi latino-americani, come il Messico e il Venezuela, non si può parlare di totale fallimento delle forze riformiste, mentre si può invece parlare di fallimento e comunque di mancanza di prospettive delle forze rivoluzionarie; d) sebbene sbilanciati e circoscritti, i progressi economici compiuti da numerosi paesi latino-americani senza rotture traumatiche mostrano che la rivoluzione non è l'unica alternativa al sottosviluppo; e) infine, non deve essere trascurato l'aiuto politico che può venire - e che in qualche misura è già venuto - dalle forze riformiste europee, aiuto che gli Stati Uniti non possono permettersi di avversare decisamente.
In definitiva, per i paesi latino-americani non è lecito alcun facile ottimismo e anzi, nel breve periodo, i motivi di preoccupazione prevalgono, specialmente se si considerano le dichiarate intenzioni degli Stati Uniti. Ma, almeno con riferimento al medio e lungo periodo, un totale pessimismo sarebbe egualmente ingiustificato, oltre che sterile.
Le prospettive economiche del Terzo Mondo non appaiono oramai cosi cupe come apparivano fino a pochi anni fa. L'espansione demografica mostra chiari segni di rallentamento e il numero dei paesi che sono entrati in una spirale di rapido sviluppo industriale è cresciuto e sta crescendo. D'altra parte, due problemi che riguardano l'umanità intera non appaiono più così drammatici come prima apparivano: l'inquinamento può essere messo sotto controllo (in parte, sia pure ancora modesta, ciò è già accaduto); gli allarmi per l'esaurimento di certe risorse minerarie e di alcune fonti energetiche hanno messo in evidenza un problema di costi crescenti piuttosto che un problema di paralisi nello sviluppo. Il vero incubo, per l'umanità, è ancora rappresentato dal rischio di un olocausto nucleare. Questo rischio è anzi aumentato negli ultimi anni per la proliferazione delle armi atomiche, accessibili oramai a un numero crescente di paesi sottosviluppati, che hanno dimostrato di non essere affatto meno aggressivi delle grandi potenze. Anche in considerazione di un tale terribile rischio, reso più grave dalle connessioni tra conflitti interni e conflitti internazionali, l'intellettuale deve sforzarsi di controbattere, invece di alimentare, le ideologie e i programmi fondati sulla violenza.
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Non ci sembra una semplificazione eccessiva ritenere che alla radice di questa notevole crescita postbellica dell'Europa e del Giappone sia il raggiungimento di livelli di reddito pro capite capaci di dare efficacemente il via allo stadio dell'elevato consumo di massa con tutti i suoi potenti effetti espansivi. Era stata soprattutto l'assenza di questa trasformazione a distinguere l'Europa dall'America negli anni venti. Dopo un'attenta e complessiva analisi delle equazioni di sviluppo delle due regioni durante il periodo postbellico, E. F. Denison conclude con queste parole: ‟Ciò che caratterizza l'Europa postbellica è il fatto che qui gli incrementi produttivi nei paesi a crescita rapida sono stati sistematicamente accentuati proprio in quei settori in cui l'Europa produceva su piccola scala e a costi elevati in confronto agli Stati Uniti dei primi anni cinquanta, e per i quali tecniche atte a ridurre i costi aumentando la scala della produzione erano già disponibili negli Stati Uniti e non richiedevano perciò di venire elaborate gradualmente e dispendiosamente con l'espandersi dei mercati. [...] L'automobile e i beni di consumo durevoli forniscono un esempio classico ed evidente del processo in questione, ma esso fu in realtà estremamente diffuso, interessando - questa è la mia convinzione - una vasta gamma di prodotti diversi" (v. Denison, 1967, pp. 236-237).
Non diversamente dagli Americani, Europei e Giapponesi sembrano relativamente soddisfatti dello stadio dell'elevato consumo di massa, almeno finché questo si mantiene vigoroso e stabile.
Nell'arco della generazione che va dai primi anni cinquanta all'inizio degli anni settanta la vita politica interna del Giappone e della maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale si è mantenuta notevolmente tranquilla, malgrado le scosse provocate di tanto in tanto soprattutto dall'endemica incapacità delle società democratiche moderne di conciliare, nel mondo postkeynesiano, la stabilità dei prezzi con un elevato tasso di sviluppo (v. sopra, cap. 6; v. sotto, cap. 10).
Ma, prescindendo dalla questione del rapporto prezzisalari, quello dell'elevato consumo di massa si rivela come lo stadio che crea tensioni sociali e problemi politici in misura minore rispetto alle altre fasi di sviluppo sinora sperimentate. È non è difficile comprendere perché le cose stiano a questo modo.
Questo è infatti lo stadio in cui la macchina industriale, faticosamente messa in piedi dalle generazioni precedenti, rivolge tutti i suoi sforzi a soddisfare i bisogni del consumatore. E quasi come se la rivoluzione industriale non fosse stata che una lunga preparazione a questa fase; diciamo quasi, perché in realtà già durante la sua marcia l'industrializzazione aveva fatto molto per il consumatore medio. Essa infatti lo aveva sollevato dal basso livello della vita rurale e ne aveva fatto un cittadino, con molti nuovi problemi ma anche con assai maggiori possibilità di scelta e opportunità per sé e per i suoi figli. Essa gli aveva fornito indumenti buoni e a buon mercato e un regime alimentare migliore e più vario; e aveva reso possibile - e insieme necessario - un più elevato livello medio di istruzione, come anche notevoli miglioramenti nel campo sanitario e delle assicurazioni sociali. Certo, tutti sappiamo che l'elevato consumo di massa ha portato con sé anche problemi di inquinamento e quel tipo di organizzazione della vita urbana con cui si è cominciato a fare i conti proprio all'inizio degli anni settanta. Tuttavia è un grande momento nella vita di una società quando fuori di una fabbrica c'è bisogno di un'area di parcheggio per automobili più che di rastrelliere per biciclette. I ricchi e i raffinati possono permettersi di deplorare l'automobile, il moltiplicarsi di aggeggi proprio dell'elevato consumo di massa e la villa in zone residenziali periferiche; ma per chi ha trascorso tutta la vita entro gli angusti confini delle zone operaie urbane tutto ciò ha un enorme significato: l'automobile conferisce alla famiglia libertà di movimento su lunghe distanze; il frigorifero porta con sé un'alimentazione migliore e più varia; le altre apparecchiature domestiche riducono il peso dei lavori di casa; e infine il possesso di una casa propria, con un pezzetto di prato e di giardino, viene incontro a una delle più profonde e tenaci aspirazioni dell'uomo.
L'elevato consumo di massa è dunque un'autentica e positiva rivoluzione umana e sociale, e il suo estendersi in una nazione a un numero sempre maggiore di famiglie si accompagna a un graduale allentamento delle tensioni politiche. Quanto all'azione dello Stato nelle società occidentali, per far sì che l'elevato consumo di massa potesse estendersi, è stato sufficiente in passato fornire le strade e le necessarie infrastrutture per il circondario. Il settore privato è stato ben in grado di fare il resto. Nel variare e modificarsi della gamma di funzioni, prerogative e forme di collaborazione fra settore pubblico e settore privato, l'elevato consumo di massa è storicamente lo stadio in cui il secondo ha il massimo di autorità e il primo il minimo di problemi (v. consumi).
8. La ricerca della qualità
Oggi è chiaro che in ciascuno dei paesi ricchi va emergendo un nuovo stadio di sviluppo, con una sua autonoma fisionomia. Il processo si svolge a mano a mano che i settori guida della fase dell'elevato consumo di massa perdono la capacità di spingere in avanti l'economia e a mano a mano che un numero sempre crescente di cittadini arriva a considerare come scontate le soddisfazioni offerte dall'elevato consumo di massa e comincia quindi a vedere con chiarezza i suoi costi in termini di ambiente, di ingiustizie non eliminate, di valori umani che trascendono le sue macchine e i suoi apparecchi. Questo stadio non può esser fatto risalire che all'inizio degli anni sessanta per il Nordamerica e per alcuni paesi dell'Europa occidentale e soltanto all'inizio del decennio successivo si comincia ad avvertirne l'avvento in Giappone. È chiaro dunque che sulle sue caratteristiche abbiamo ancora molto da imparare.
Sebbene questo stadio coinvolga molti altri aspetti oltre quelli economici, esso può essere definito, come gli altri stadi dello sviluppo, facendo riferimento ai suoi settori chiave dotati di forte slancio propulsivo.
Per quanto concerne l'orientamento di spesa dei redditi privati, sembra esserci un forte aumento delle spese dedicate a certi tipi di impieghi; per esempio, negli Stati Uniti si verifica un aumento delle spese per cure mediche, per viaggi all'estero, per istruzione, per motivi religiosi o di previdenza sociale, e infine per attrezzature di svago, dalle macchine fotografiche agli sci, ai motoscafi. Sul versante della spesa pubblica il fenomeno centrale è costituito da un forte incremento della quota del PNL mobilitata e impiegata dallo Stato. Crescono le spese pubbliche per l'istruzione e per l'assistenza sanitaria, nonché quelle miranti a ricostituire il capitale perduto o impoverito sotto forma di inquinamento dell'atmosfera e delle acque e di deterioramento delle aree urbane. La tab. IV e il diagramma 4 mostrano, ad esempio, la rivoluzionaria espansione dell'istruzione superiore verificatasi nel Nordamerica, nell'Europa occidentale e nel Giappone nel corso degli anni sessanta.
Grafico
Negli Stati Uniti degli anni sessanta si è verificato un cospicuo e anzi, potremmo dire, rivoluzionario spostamento di risorse al settore pubblico. Si era in una fase di alti tassi di sviluppo e il grosso di tali risorse addizionali è stato destinato ai servizi sociali, come mostra la tab. V.
Fu anche avviato il lungo, lento lavoro di inversione della tendenza al deterioramento dell'ambiente. Ciò è avvenuto malgrado l'espansione, a opera del presidente Kennedy, dei bilanci della difesa, del programma spaziale e degli aiuti all'estero all'inizio degli anni sessanta, e malgrado il costo della guerra in Vietnam dopo il 1965. Il mutamento nella ripartizione sia delle spese private che di quelle pubbliche a favore di determinati servizi è stato accompagnato da un approfondito dibattito sui valori di base che debbono regolare le società del futuro. Conformemente a uno schema che troviamo descritto già nel libro VIII della Repubblica platonica, la gente, uomini e donne - ma specialmente la gioventù benestante di ambo i sessi - ha cominciato a considerare come superato il quadro sociale in cui è nata, o vi ha addirittura reagito ostilmente, e ricerca obiettivi al di là dei suoi confini. Questi ultimi anni sono stati anni di critica, di confronto e di sperimentazione, di faticosa ricerca, sia nella sfera della vita privata che nell'ambito delle scelte pubbliche, per raggiungere una condizione umana migliore. Dietro tutto ciò c'era la sensazione che i vantaggi apportati dall'automobile, dai beni di consumo durevoli e dalla vita in centri residenziali periferici non fossero sufficienti.
Inoltre, in molte delle società opulente vecchi problemi sociali sono venuti assumendo forme nuove e acute. Il caso più spettacolare è certamente quello del movimento dei Negri americani per ottenere la pienezza dei diritti civili e politici. Ma anche in Canada, in Belgio e nell'Irlanda del Nord un contesto di opulenza crescente ha contribuito a creare un nuovo atteggiamento negli strati relativamente svantaggiati della popolazione e ha dato luogo a rivendicazioni per una modificazione dell'equilibrio politico, sociale, culturale ed economico. E in un modo o nell'altro, con un bilancio maggiore o minore di violenza e di sofferenze, le maggioranze privilegiate sono arrivate a riconoscere la legittimità di queste richieste di giustizia e ad accoglierle almeno in una certa misura.
Tutto ciò ha modificato il quadro in cui il settore privato svolge il suo ruolo e anzi la stessa struttura di questo settore. Nello stadio della ricerca della qualità, il capitalismo - almeno il capitalismo americano - è un fenomeno nettamente distinto da quello che era nello stadio dell'elevato consumo di massa. Esso ha di fronte problemi nuovi e sta evolvendo in direzioni nuove, di cui non è facile prevedere gli sbocchi.
Il mercato delle automobili e dei beni di consumo durevoli è costituito da individui e da famiglie, e l'impresa privata vi opera secondo modalità ben note, che possiamo anzi dire classiche. Invece i nuovi e dinamici settori sono profondamente interconnessi con istituzioni pubbliche o con campi d'attività strettamente legati all'azione pubblica (come l'istruzione, la sanità, i programmi antinquinamento e di trasporto di massa, l'edilizia sovvenzionata, la ristrutturazione urbanistica, ecc.). Per es., negli Stati Uniti avviene che aziende nuove e in rapida crescita, piene di giovani brillanti, cerchino di applicare moderni metodi di analisi e di elaborazione dei dati all'istruzione e ai problemi urbani; ma per far ciò esse debbono trovare i propri mercati in un intricato groviglio di istituzioni pubbliche e private, non possono cioè rivolgersi direttamente a un mercato di massa. Sempre negli Stati Uniti, i programmi di ristrutturazione urbanistica sono espressione di un intreccio estremamente complesso di istituzioni pubbliche e private; le prime comprendono, oltre che le amministrazioni federali, statali e locali, anche i nuovi comitati cittadini (community organizations) nati dalla programmazione cittadina degli anni sessanta.
Le aziende private che operano sulla base di questa sottile trama di rapporti associativi sono diversissime - in materia di organizzazione, atteggiamenti e metodi - dai grandi complessi industriali emersi negli stadi precedenti, fossero questi i giganti dell'acciaio e della chimica che producevano beni strumentali o i grandi produttori di automobili e di beni di consumo durevoli, che avevano rapporti più diretti con il grande pubblico e quindi una maggiore sensibilità nei suoi confronti. Molte delle aziende moderne a rapida espansione lavorano in una situazione che assomiglia piuttosto a quella tipica delle imprese che producono forniture militari, o - e il parallelo è forse più calzante - delle imprese impegnate nel programma spaziale americano, sviluppatosi come un intreccio complesso di sforzi sia dello Stato sia dell'industria e della ricerca private.
È inoltre avvenuto che, a mano a mano che le industrie guida dello stadio dell'elevato consumo di massa perdeva- no in dinamicità, sono divenute oggetto di critiche e di attacchi. In un modo che ricorda (e talvolta ripete alla lettera) gli attacchi scandalistici contro le industrie della marcia verso la maturità tecnologica, all'inizio del secolo, al tempo del Movimento progressista, vari commentatori politici hanno posto interrogativi di questo tipo: 1) in che misura la domanda dei prodotti di quelle industrie era il risultato di un dispiegarsi più o meno naturale dell'elasticità della domanda rispetto al reddito invece che di un deliberato e massiccio lavaggio del cervello operato dalla pubblicità? La pubblicità ha distorto i gusti dei consumatori, o si è limitata ad aiutare il consumatore a scegliere un particolare tipo del prodotto che intende acquistare? 2) In che misura il numero relativamente ristretto di aziende che fabbricano e vendono i prodotti in questione ha permesso che si arrivasse a un controllo dei prezzi su base monopolistica? O, invece, quel tanto di concorrenza che rimaneva era sufficiente a fornire al consumatore qualcosa di ragionevolmente vicino a dei prezzi concorrenziali? 3) Quale era il significato e la rilevanza dei concetti classici di proprietà e di gestione privata dell'industria in una situazione in cui l'estrema complessità della vita industriale moderna richiedeva il passaggio del potere reale da una moltitudine di azionisti a intricate burocrazie guidate da specialisti?
Per ciò che ci interessa in questa sede, l'emergere di tali complessi interrogativi testimonia il tramonto di un'epoca in cui i settori tipici dell'elevato consumo di massa erano esenti da critiche grazie alla loro rapida crescita e al loro dinamismo. Analogamente, in passato, le ferrovie e l'industria pesante, considerate in un primo tempo fattori determinanti per il progresso sociale, furono poi sottoposte a critiche e persino a restrizioni legali.
Nel caso attuale i controlli di tipo giuridico e sociale assumono due forme. Innanzitutto abbiamo una rivolta dei consumatori contro l'insufficiente sicurezza delle automobili, contro la qualità scadente delle lavorazioni e il costo crescente di riparazione e di manutenzione sia delle automobili che dei beni di consumo durevoli; tale stato d'animo, negli Stati Uniti, ha avuto la sua espressione e il suo consolidamento nella zelante crociata di Ralph Nader e del suo gruppo. In secondo luogo, va emergendo un movimento per la riduzione dell'inquinamento atmosferico causato dall'uso di massa dell'automobile.
Questa trasformazione della situazione e degli atteggiamenti e l'accresciuto ruolo nell'economia dello Stato e dei servizi connessi all'amministrazione statale hanno avuto un effetto ulteriore. Pur senza un'analisi approfondita della situazione, la gente ha cominciato a chiedersi se la distribuzione del reddito conseguente all'esistenza di massicce burocrazie nel settore privato fosse giusta. Non avrebbero dovuto queste organizzazioni assolvere le loro funzioni nella società a più bassi livelli di profitto e di remunerazione, con più alti livelli di gestione? Non era possibile realizzare una redistribuzione del reddito mediante una diversa ripartizione del carico fiscale, senza compromettere gli incentivi necessari per mantenere in vita un settore di iniziativa privata ragionevolmente efficiente?
Intanto negli Stati Uniti - ma anche in Inghilterra e in Svezia - il contribuente di reddito medio, sottoposto a una pesante pressione fiscale, cominciava a porre un'altra questione: non erano state portate a livelli eccessivi le spese per i servizi sociali?
In breve, questa prima fase dello stadio caratterizzato dalla ricerca della qualità ha posto, a mano a mano che l'importanza relativa del ruolo dei servizi pubblici andava crescendo e i settori chiave dell'elevato consumo di massa andavano perdendo velocità, una nuova serie di questioni, riguardanti vari aspetti dell'equilibrio e della connessione tra settore pubblico e settore privato.
9. Alcuni problemi più generali del capitalismo moderno
Abbiamo sin qui delineato i problemi che i sistemi economici si trovano ad affrontare nel mondo contemporaneo ai cinque diversi stadi dello sviluppo. È chiaro che in essi i compiti del settore privato e di quello pubblico cambiano in modo radicale. In ciascuno stadio il ‛capitalismo' emerge come un insieme nettamente differente di attività private e pubbliche e di equilibri tra le due sfere, accompagnato da tensioni che toccano di volta in volta campi e questioni diversissimi. E indubbiamente le istituzioni della sfera pubblica e del settore privato (sindacati operai non meno che organizzazioni industriali) presentano nei vari stadi struttura e funzioni totalmente differenti, anche se in questa sede non è stato possibile indagare esaurientemente questi mutamenti, ma soltanto esaminarli sommariamente.
Ci volgiamo ora a tre problemi del capitalismo che tra- scendono l'analisi degli stadi, ma il cui sbocco futuro influenzerà la natura delle funzioni pubbliche e private nell'economia di molti paesi anche a stadi differenti. Essi sono: la politica dei prezzi e dei salari; le relazioni fra le nazioni industriali più avanzate; le relazioni tra le nazioni più avanzate e le nazioni meno avanzate, in rapporto ai problemi relativi all'equilibrio tra l'uomo e il suo ambiente fisico.
10. Politica dei prezzi e dei salari: patto sociale o anarchia?
Nel 1945 il mondo non comunista è entrato nell'era postbellica avendo assimilato, e largamente accettato, le implicazioni dell'analisi keynesiana del reddito. Era generalmente diffusa la determinazione a non accettare mai più con indifferenza fenomeni di disoccupazione gravi e prolungati. Il ciclo economico veniva considerato come opera umana e non divina e pertanto soggetto al controllo delle autorità politiche. Questo mutamento, verificatosi ai tre livelli delle convinzioni degli specialisti, delle opinioni generalmente accettate e della politica dei governi, pose immediatamente la questione di come mantenere livelli di occupazione elevati e stabili senza provocare inflazione. Per circa un trentennio uomini e governi hanno combattuto con questo problema senza riuscire a trovarne una soluzione adeguata e stabile. Nel far ciò le relazioni tra settore privato e settore pubblico sono venute trasformandosi in maniera profonda e con ogni probabilità duratura.
In termini di stadi di sviluppo, gli sforzi per risolvere il suddetto problema hanno inciso sulle relazioni tra sfera pubblica e sfera privata in società impegnate sia nella fase di decollo, sia nella marcia verso la maturità tecnologica, sia nell'elevato consumo di massa o nella ricerca della qualità. Ma il problema si è fatto più acuto nei tre ultimi stadi.
La Teoria generale di Keynes ammetteva esplicitamente la necessità di individuare il punto marginale tra piena occupazione e inflazione. E certo la prima piena applicazione dell'analisi keynesiana del reddito ebbe luogo nel contesto dei bilanci inglesi (e poi americani) degli anni di guerra, formulati in condizioni intrinsecamente inflazionistiche. Ma quei tentativi avvenivano anche in circostanze che consentivano l'impiego dell'intera gamma di controlli sui prezzi e sui salari, del razionamento e di altri interventi amministrativi diretti sull'economia, inaccettabili alla lunga in tempo di pace.
In Europa e negli Stati Uniti l'inflazione fece una prima comparsa nell'immediato dopoguerra (1945-1948) e una seconda negli anni 1950-1952, quando furono diffusamente avvertiti i contraccolpi della guerra di Corea. La questione dell'inflazione e del suo controllo fu dibattuta tra gli economisti sia a livello nazionale che internazionale. Inizialmente il dibattito fu imperniato sulla seguente questione: qual è, al limite superiore dell'occupazione, la scelta giusta fra un grado ulteriore di occupazione e un grado ulteriore di inflazione? I termini della questione hanno talvolta trasceso il piano puramente economico: fino a che punto è giusto accettare come contropartita a un incremento addizionale di occupazione le limitazioni di libertà che deriverebbero dagli stringenti controlli che si renderebbero necessari per contenere l'inflazione?
Nell'Europa dell'immediato dopoguerra la risposta si ebbe a seconda della situazione politica e rispecchiò anche il livello di competenza degli apparati amministrativi di cui i singoli governi disponevano. Inghilterra, Scandinavia e Olanda accettarono, nell'insieme, i sacrifici del razionamento, degli assegni familiari e di alti livelli di imposizione fiscale. Francia, Italia, Belgio e Germania occidentale si affidarono invece piuttosto a misure globali di restrizione del credito, ad alti tassi d'interesse e ad altri classici strumenti deflazionistici.
Ci si accorse però anche che l'analisi keynesiana del reddito non arrivava a incidere sui problemi della disoccupazione strutturale, vale a dire di quella disoccupazione in settori o regioni particolari, cui non si poteva ovviare mediante una semplice espansione della domanda effettiva. In Europa il problema della disoccupazione italiana ne è stato l'esempio più drammatico, sebbene per qualche tempo l'assorbimento da parte della Germania occidentale dei profughi provenienti dall'Est e certi aspetti particolari e incurabili della disoccupazione belga abbiano presentato problemi analoghi. Nel caso dell'Italia (nonché della Grecia e della Turchia) i programmi del Piano Marshall divennero in realtà, più che programmi di ricostruzione, programmi di sviluppo economico nel senso più pieno.
Quando cominciarono a studiare i problemi della disoccupazione nei continenti in via di sviluppo, gli economisti videro chiaramente che, come nel caso dell'Europa meridionale, i principi della politica keynesiana del reddito non sarebbero stati sufficienti. Occorreva molto di più di una semplice espansione della domanda effettiva e non bastava un flusso adeguato di divise estere. Come è detto nello studio del febbraio 1949 sulla situazione italiana promosso dal governo degli Stati Uniti, in nazioni di questo tipo per superare le distorsioni nell'ubicazione e nelle caratteristiche della manodopera disponibile, per accrescere la produttività agricola e industriale, per espandere le infrastrutture, e così via, occorreva un ‟aggressivo programma di investimenti pubblici".
Sulla scia della guerra di Corea, mentre la politica e il pensiero economico si rivolgevano sempre di più ai problemi del sottosviluppo fuori dell'Europa, nel mondo atlantico il malanno dell'inflazione andò attenuandosi. L'accelerarsi del processo di sviluppo e la fine delle lotte coloniali francesi dettero luogo a un periodo di crescente stabilità internazionale in fatto di monete e di prezzi, in cui gli strumenti della politica fiscale e monetaria tradizionale furono in generale sufficienti.
Ma verso la fine degli anni cinquanta la bilancia dei pagamenti statunitense cominciò ad accusare delle difficoltà, poiché lo slancio con cui l'Europa e il Giappone procedevano nello stadio dell'elevato consumo di massa accresceva la concorrenza in settori di esportazioni in cui l'America, grazie al suo precoce ingresso in tale stadio, aveva goduto di una relativa supremazia. La relativa maggiore modernità delle attrezzature industriali dei paesi ricostruiti dopo la guerra fu un altro elemento che giocò nella stessa direzione.
Nei suoi ultimi anni l'amministrazione Eisenhower reagì a questa congiuntura smorzando il ritmo di crescita degli Stati Uniti. Quindi l'amministrazione Kennedy, per uscire da siffatte difficoltà, praticò una politica di regolamentazione dei prezzi e dei salari, incentivò la modernizzazione dell'apparato industriale americano e prese una serie di misure miranti a ridurre il peso, per la bilancia dei pagamenti, dei suoi impegni all'estero, specialmente in Europa. Questo programma, portato avanti sotto l'amministrazione Johnson, rese possibile negli Stati Uniti, fino al 1966, un tasso di incremento dei prezzi inferiore a quello registrato negli altri paesi ad avanzata industrializzazione. Poi la mancata attuazione di un inasprimento fiscale, combinata con accresciute spese militari in un periodo di piena occupazione, mandò all'aria la politica di regolamentazione dei prezzi e dei salari così come aveva funzionato negli anni 1961-1966. Sebbene sul finire del decennio l'andamento dei prezzi in America si mantenesse ragionevolmente buono rispetto ai principali concorrenti commerciali degli Stati Uniti, esso però non fu tale da sostenere la posizione della bilancia dei pagamenti. Nel 1968 queste difficoltà diminuirono grazie a inasprimenti fiscali e ad altre misure, ma la decisione presa nel gennaio 1969 dall'amministrazione Nixon di rinunciare alla politica di regolamentazione dei prezzi e dei salari precipitò l'America in una fase di ulteriore deterioramento e dei prezzi e della bilancia dei pagamenti; divennero così inevitabili le drastiche deliberazioni dell'agosto e dell'ottobre 1971 che comportarono per l'economia americana dapprima un blocco e poi un sistema di controlli dei prezzi e dei salari.
Intanto il tasso d'inflazione cresceva, a partire all'incirca dal 1966, anche nell'Europa occidentale e in Giappone, come mostra la tab. VI.
Il problema del rapporto prezzi-salari-bilancia dei pagamenti è divenuto cruciale per i governi delle nazioni più avanzate. In Inghilterra ha portato alla caduta prima del governo Wilson e poi del governo Heath; in Francia ha contribuito alla caduta di De Gaulle; negli Stati Uniti, nel 1971, ha costretto Nixon, per sopravvivere politicamente, a capovolgere la linea di politica interna sostenuta due anni prima. Infine ha cominciato a pesare anche nella Germania occidentale, sinora preservata da una forma di autodisciplina generata dal ricordo di due inflazioni postbelliche.
Praticamente tutte le nazioni avanzate, senza eccezione, hanno sperimentato in questi ultimi anni quella che è stata chiamata ‛politica dei redditi', vale a dire uno sforzo di collegare gli aumenti salariali agli incrementi medi della produttività e di influenzare la politica dei prezzi in modo tale da non consentire alle imprese di impadronirsi, grazie all'autodisciplina dei lavoratori, di una quota sproporzionata del reddito nazionale. Nessuna nazione democratica (e anzi nessuna nazione indipendente del mondo non comunista) ha sinora trovato il modo di far funzionare una politica di questo tipo per lunghi periodi. Forse il successo maggiore e più prolungato nel tempo è stato raggiunto in Australia con l'arbitrato in materia di salari; ma anch'esso alla lunga si è esaurito.
D'altro canto la lezione dell'intero periodo successivo al 1945 è che la sola politica fiscale e monetaria non è in grado di guidare con successo lungo lo stretto sentiero delimitato da un lato da un livello di disoccupazione politicamente inaccettabile e dall'altro da un livello di inflazione economicamente inaccettabile. Governi e società non sembrano aver altra via d'uscita che imparare gradualmente ad affiancare alla politica fiscale e monetaria un efficace sistema di regolamentazione dei prezzi e dei salari. Ciò a sua volta significa che nelle relazioni tra settore pubblico e settore privato, come anche tra industria e lavoro, sono necessari mutamenti di ampio respiro, di una portata che possiamo senz'altro definire rivoluzionaria.
Ciò che è in giuoco qui è un nuovo tipo di patto sociale tra governo, industria e lavoro; e la cosa comporta negoziati politici estremamente difficili, ai quali tutti e tre i principali interlocutori giungono mal disposti a causa degli atteggiamenti, delle politiche e della struttura organizzativa (dell'industria come dei sindacati) ereditati dal passato.
L'oggetto del negoziato consiste non soltanto nell'assicurare che gli aumenti monetari medi dei salari si mantengano vicini agli incrementi medi della produttività, ma anche nell'assicurare che l'equilibrio di potere esistente tra i dirigenti sindacali in concorrenza non venga rotto, che sindacati disuniti e mal disciplinati siano efficacemente inseriti nel quadro del patto sociale, che le imprese non approfittino di questa autodisciplina delle forze del lavoro per aumentare la quota del reddito che va ai profitti, ecc. Regolamentazioni dei prezzi e dei salari che vogliano essere efficaci non possono essere negoziate una volta per tutte, ma richiedono una trattativa ininterrotta. Esse non sono una panacea, neppure se accompagnate da una politica fiscale e monetaria intelligente, giacché non possono reggere quando il livello dell'occupazione è talmente elevato e la domanda di lavoro così forte che la manodopera al di fuori dei sindacati è in grado di negoziare incrementi salariali notevolmente più cospicui di quelli consentiti dalla regolamentazione concordata.
Ma la disoccupazione può considerarsi accettabile in termini politici e sociali solamente quando sia compresa entro un arco delimitato all'estremità inferiore da una politica di stop-and-go in un regime di esclusiva manovra fiscale e monetaria e all'estremità superiore dall'aumento della percentuale di salari al di fuori delle tabelle sindacali in un regime di regolamentazione dei prezzi e dei salari accompagnato da una politica fiscale e monetaria.
Fatto ancora più rivoluzionario, questo patto sociale interno, di natura estremamente delicata, sta diventando - e, in una forma e nell'altra, è destinato a rimanere - materia, oltre che di dibattito interno dei singoli paesi, di negoziato internazionale. Nessun complesso di norme, in vista di un sistema monetario internazionale stabile, può funzionare se i paesi in attivo e i paesi in deficit non si impegnano ad agire in modo da riportare il sistema all'equilibrio. Se la politica dei redditi (così come la manovra fiscale e monetaria) diviene uno strumento essenziale per raggiungere l'equilibrio, allora le sue clausole divengono materia legittima di trattativa in sede internazionale oltre che nazionale.
Nella sua Teoria generale Keynes si propose consapevolmente di dare alle società democratiche strumenti atti a contenere la disoccupazione, e per questa via di smentire una delle più importanti previsioni di Marx e di ridurre le spinte politiche e sociali in direzione di un crescente controllo diretto dello Stato sull'economia e sulla società in generale. Insieme ad altri che hanno contribuito a quella che chiamiamo la rivoluzione keynesiana egli è riuscito in larga misura nell'impresa. Ma in un mondo postkeynesiano il problema di conciliare livelli di disoccupazione contenuti e bassi con la stabilità dei prezzi sta costringendo le società democratiche ad adottare dispositivi di regolamentazione dei prezzi e dei salari; tali dispositivi vengono adottati non tanto mediante la decisione sovrana di uno Stato onnipotente, bensì mediante forme di negoziazione, collaborazione e associazione responsabilmente assunte come parte integrante dello stesso processo democratico. Si tratta di un mutamento di primaria importanza e che incide profondamente nel sistema, cosicché nelle società capitalistiche il sistema dei prezzi e dei salari non sarà mai più quello di prima.
11. Relazioni tra le nazioni industriali avanzate: concordia o nuovo mercantilismo?
I tragici eventi del periodo tra le due guerre mondiali e il ricordo che gli uomini ne hanno serbato, insieme agli esiti e alle conseguenze del secondo conflitto, hanno dato origine a un complesso, unico nella storia, di strette relazioni tra le nazioni industriali avanzate. Tale situazione, in venticinque anni a partire dal 1945, ha messo a disposizione dei settori privati delle principali economie nazionali un quadro istituzionale interstatale. Essa inoltre ha portato alla creazione, nella forma di mastodontiche società multinazionali, di istituzioni private fornite di un potere economico tale da sottrarle, in certe circostanze, all'autorità degli Stati nazionali, le cui politiche esse influenzano in vari modi, diretti e indiretti.
Il potenziamento delle istituzioni interstatali derivò dalla decisione di un'intera generazione di statisti del dopoguerra di scongiurare un ritorno alle politiche economiche nazionalistiche che dopo il 1929 avevano aggravato e prolungato la depressione, e avevano contribuito in maniera determinante allo scatenarsi della seconda guerra mondiale. Questa decisione si espresse nella conferenza di Bretton Woods del 1944 e negli organismi che ne scaturirono: il Fondo Monetario Internazionale (Internationai Monetary Fund-IMF), la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (International Bank for Reconstruction and Development-IBRD) e, in seguito, l'organizzazione per la attuazione dell'Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio (General Agreement on Trade and Tariffs-GATT). Ma questi e altri organismi creati per assicurare un sistema monetario internazionale stabile, adeguati flussi di capitale internazionale e una sostanziale libertà di commercio, sarebbero stati sterili se i politici non avessero resistito, in momenti critici, alle pressioni, tuttora forti, verso soluzioni nazionalistiche dei problemi economici internazionali. E di fatto, in ogni difficile congiuntura, i governanti si sono astenuti da quelle soluzioni politiche che, secondo le parole pronunciate dal presidente Johnson nel suo messaggio del 14 marzo 1968 ai leaders dell'Europa occidentale, avrebbero ‟danneggiato profondamente le relazioni politiche tra l'Europa e l'America e messo in moto forze analoghe a quelle che disgregarono il mondo occidentale nel 1929 e nel 1933".
Questo indirizzo politico affermatosi dopo la seconda guerra mondiale è stato notevolmente rafforzato dalle vicende militari, diplomatiche ed economiche. All'istinto umano di aiutare gli uomini, le donne e i bambini d'Europa a riprendersi dalle devastazioni della guerra, si unì ben presto lo sforzo per contrastare le pressioni di Stalin a ovest della linea dell'Elba. La Dottrina Truman e il Piano Marshall considerarono la ricostruzione dell'Europa occidentale una questione di strategia militare non meno che economica. L'organizzazione di questo sforzo non poteva che ampliare il ruolo dello Stato nelle economie dell'Europa occidentale. La giustificazione per gli stanziamenti del Piano Marshall, che doveva esser presentata in ultima istanza al Congresso americano, richiedeva che i governi europei intervenissero in profondità nelle rispettive economie, e fece sì che questioni normalmente considerate di competenza del settore privato (per es., il tipo degli investimenti industriali) divenissero oggetto di discussioni a livello nazionale e persino internazionale e di decisioni pubbliche.
Nello stesso periodo veniva lanciato il movimento per l'unità economica dell'Europa occidentale, da cui ebbero origine mutamenti ancora più profondi e permanenti nel rapporto tra settore pubblico e settore privato. L'assegnazione di dollari in misura limitata (compresi quelli concessi nel quadro del Piano Marshall) esigeva interventi in profondità dello Stato nel settore privato; e tuttavia questi interventi erano transitori e superficiali in confronto a quelli necessari per fondare la Comunità del Carbone e dell'Acciaio, o, in seguito, per definire in Europa una politica agricola comune. Con queste istituzioni gli Stati europei arrivavano a porre la gestione delle risorse delle loro società in una nuova e duratura cornice internazionale, nella quale il ruolo pubblico era e doveva continuare a essere fondamentale.
Quando, negli anni cinquanta, l'Europa occidentale e il Giappone, superata la fase di ricostruzione, avanzarono verso uno sviluppo sostenuto, tra queste aree e gli Stati Uniti si costituirono nuove forme di vincoli e di dipendenza. Nel 1949 l'URSS faceva esplodere la sua prima bomba atomica e nel 1953 la prima bomba all'idrogeno; infine nel 1956 (in un discorso a Birmingham in aprile e poi in ottobre durante la crisi di Suez) Chruščëv dava il via alla tecnica del ricatto nucleare contro l'Europa occidentale. Nella seconda metà degli anni cinquanta Inghilterra e Francia procedevano all'apprestamento di un arsenale nucleare su base nazionale; ma mentre Mosca tentava di usare il suo crescente potenziale di distruzione per indebolire e dividere l'Occidente, l'Europa occidentale nel suo complesso continuava a dipendere dalla forza nucleare e dalla fermezza americane.
Questo legame tra l'una e l'altra sponda dell'Atlantico, prodotto dalla minaccia nucleare, ebbe conseguenze economiche di rilievo. Si ritenne infatti che l'impegno nucleare americano a difesa dell'Europa non sarebbe stato credibile né agli occhi di Mosca né a quelli degli stessi popoli europei se non fosse stato accompagnato dalla presenza sul suolo europeo, nel quadro della NATO, di rilevanti forze convenzionali statunitensi. Questa decisione, insieme militare, politica e psicologica, si fece sentire pesantemente sulla bilancia dei pagamenti americana, la quale cominciò a dare segni di debolezza sul finire degli anni cinquanta, proprio quando Chruščëv dava il via alla sua politica di attiva sperimentazione del ricatto nucleare, che sarebbe durata ininterrottamente per circa un quinquennio: vale a dire pressappoco dal lancio del primo Sputnik (4 ottobre 1957) alla conclusione della crisi dei missili a Cuba (28 ottobre 1962).
La bilancia dei pagamenti americana entrò in crisi per tre ragioni fondamentali. In primo luogo l'ingresso, negli anni cinquanta, dell'Europa occidentale e del Giappone nello stadio dell'elevato consumo di massa comportò l'efficace assimilazione di tecnologie ch'erano state fino ad allora quasi un monopolio statunitense. I vantaggi in fatto di bilancia commerciale di cui gli Stati Uniti avevano goduto, come pionieri delle tecnologie proprie dell'elevato consumo di massa, andarono dunque perduti per una gamma considerevolmente ampia di prodotti industriali. In secondo luogo, posti di fronte a questa ineluttabile sfida, gli Stati Uniti non mantennero (eccetto che per gli anni 1961-1966) una disciplina dei prezzi e dei salari così superiore a quella dei loro concorrenti da annullare il vantaggio che a questi veniva dall'avanzare lungo la strada dello sviluppo. In terzo luogo, la ricerca della qualità, stadio in cui gli Stati Uniti stavano entrando, comportava un impegno in nuovi settori guida, il che però non creava tecnologie tali da dare agli Stati Uniti nuovi vantaggi commerciali. L'espansione delle spese pubbliche per l'istruzione, l'assistenza medica, la ricostruzione urbana e le misure antinquinamento facevano poco o nulla dal punto di vista del rafforzamento della posizione della bilancia dei pagamenti americana, mentre l'elevata elasticità della domanda di viaggi all'estero, rispetto ai redditi, da parte dei cittadini americani e gli ingenti afflussi di capitale americano in Europa aggravavano il problema.
Ne seguì che a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta andò sviluppandosi un cronico conflitto tra i costi del mantenimento di un efficace ruolo americano sulla scena mondiale (legato naturalmente alla potenza nucleare degli Stati Uniti e alla politica di non proliferazione delle armi atomiche) e la posizione economica americana nei confronti di nazioni che erano degli efficaci concorrenti sul piano economico ma, in notevole misura, a suo carico sul piano militare.
Per diminuire questa tensione e comporre, secondo regole di collaborazione, la concorrenza economica senza quartiere tra le nazioni industriali avanzate, sono stati presi diversi provvedimenti. Il primo, che risale al 1961, consiste in un aumento delle spese militari tedesche negli Stati Uniti, mirante a compensare i costi, in termini di bilancia dei pagamenti, del mantenimento delle forze americane in Germania. E, a mano a mano che la vera natura del problema veniva chiarendosi, le misure si fecero sempre più complesse: per esempio, nell'aprile 1966 il governo tedesco si impegnò, nel quadro di una serie di provvedimenti di compensazione, a non chiedere la conversione in oro delle sue riserve in dollari. Sia per il suo contenuto specifico che per il suo valore di precedente, questa misura stabilizzatrice riuscì ad allentare le tensioni gravanti sul sistema monetario internazionale e contribuì ad aprire la via all'introduzione dei Diritti Speciali di Prelievo (Special Drawing Rights-SDR's) come riserva supplementare alle inadeguate disponibilità di oro.
Ma lo sproporzionato passivo che gravava sulla bilancia dei pagamenti americana non fu interamente controbilanciato; e anzi alcune delle misure prese nel corso degli anni sessanta per far fronte al problema furono semplici palliativi per es., la sottoscrizione da parte tedesca di obbligazioni americane a medio termine), o si risolsero in un danno per il sistema monetario internazionale (per es., le restrizioni statunitensi sui movimenti di capitale annunciate il 1 gennaio 1969). Prese nell'insieme, le varie misure ad hoc degli anni sessanta consentirono tuttavia al sistema economico e al sistema di sicurezza internazionali - ambedue imperniati sugli Stati Uniti - di sopravvivere al periodo del massimo impegno americano nella guerra nel Sud-Est asiatico. Ma il problema di fondo non era risolto e sarebbe presto divenuto ancora più acuto. La decisione, presa da Nixon nel gennaio 1969, di rinunciare alla politica di regolamentazione dei prezzi e dei salari, produsse un'impennata inflazionistica in America e una perdita di fiducia nel dollaro, che causarono a loro volta la crisi del periodo agosto-dicembre 1971, risolta solo parzialmente dagli accordi smithsoniani del dicembre 1971.
La soluzione, nel corso degli anni settanta, del dilemma che sta di fronte agli Stati Uniti e alle altre principali nazioni industriali del mondo non comunista determinerà il quadro entro il quale il capitalismo evolverà nei prossimi decenni.
Si può ipotizzare una vasta gamma di soluzioni, in sostanza si tratta però di varianti delle due seguenti: 1) una combinazione di disciplina dei prezzi e dei salari e di promozione delle esportazioni da parte americana che, congiuntamente a concessioni da parte dei partners principali, sia in grado di conservare essenzialmente intatti un sistema economico internazionale unitario e libero e un sistema di sicurezza come l'attuale, senza un'ulteriore proliferazione nucleare; 2) un venir meno della volontà americana di mantenere un'adeguata disciplina dei prezzi e dei salari, insieme a un'eccessiva riduzione delle responsabilità americane sulla scena mondiale, tale da provocare - nell'Europa occidentale, in Giappone e probabilmente altrove - le due seguenti decisioni: di produrre armi nucleari in misura tale da intimorire i potenziali avversari, e di perseguire politiche economiche ispirate ad angusti interessi nazionali o regionali.
In breve, la scelta di fondo che sta di fronte al mondo non comunista è quella tra la conservazione del sistema militare, politico ed economico relativamente unitario emerso dopo il 1945, a condizioni che consentano una più uniforme ripartizione del potere e delle responsabilità rispetto all'immediato dopoguerra, e la nascita di un nuovo e precario mondo mercantilista, i cui probabili centri principali sarebbero gli Stati Uniti, l'Europa occidentale e il Giappone.
Come mostra la tab. VII, il numero delle filiali manifatturiere straniere delle principali imprese multinazionali a controllo statunitense ha registrato una forte crescita.
Un aumento analogo s'è verificato anche nel numero delle filiali di aziende petrolifere e di altre aziende estrattive a controllo statunitense.
L'espansione postbellica ha ripetuto, su una scala più ampia, uno schema già sperimentato in precedenza e cioè: industrie americane, godendo di speciali vantaggi tecnici o di mercato, sono andate all'estero a produrre per i mercati locali. Esse hanno sfruttato inoltre la rapida crescita, nel periodo successivo al 1945, della domanda di petrolio e di materie prime per uso industriale nel mercato americano e nel mercato mondiale in generale. Così facendo, queste aziende hanno imposto alla vita politica ed economica di molte nazioni una scelta complessa, in cui ad alcuni tangibili vantaggi procurati dalle imprese a controllo americano fanno riscontro costi economici, politici e psicologici.
Esse hanno anche modificato profondamente la natura del commercio estero. Uno studio condotto nel 1965 dal Department of Commerce americano su 264 aziende e sulle loro filiali all'estero mostrò che queste partecipavano, per la vendita o per l'acquisto, a circa la metà delle esportazioni statunitensi di manufatti. Le filiali svolgono inoltre un ruolo centrale poiché danno luogo a esportazioni dai paesi ospitanti. Le transazioni interaziendali hanno insomma modificato le forze che determinano le dimensioni e le direzioni del commercio estero, esattamente come i trasferimenti interaziendali di liquidità hanno alterato le forze operanti nel sistema monetario internazionale, aggiungendo un ulteriore elemento di instabilità nei momenti in cui si diffonde il sospetto di un'imminente svalutazione dell'una o dell'altra moneta.
Le dimensioni e la natura, le conseguenze e i problemi posti da questo massiccio sviluppo istituzionale, intervenuto nel settore privato, sono state analizzate da una vasta letteratura, di cui R. Vernon (v., 1971) ci dà un utilissimo compendio.
Nella prospettiva di questo articolo, tre punti principali meritano di essere sottolineati.
Innanzitutto, questi sviluppi sono un prodotto delle condizioni di libertà di commercio e di movimento dei capitali createsi nel mondo non comunista del dopoguerra e dipendono ancor oggi dal mantenimento, da parte dei governi interessati, di tale situazione.
In secondo luogo, essi rispecchiano il procedere degli stadi di sviluppo durante questo periodo. Nel corso degli anni cinquanta l'Europa occidentale entrò in pieno nella fase dell'elevato consumo di massa. Da un lato la rapida espansione del mercato delle automobili, dei beni di consumo durevoli e delle industrie collegate, e dall'altro la crescente competitività di questi settori industriali hanno reso più vantaggioso per le aziende americane stabilirsi direttamente nell'Europa occidentale anziché affidarsi alle esportazioni convenzionali di manufatti prodotti negli Stati Uniti (esistevano incentivi analoghi per un insediamento in Giappone, ma l'organizzazione industriale e la politica nazionalista di questo paese hanno limitato l'espansione delle società multinazionali). Su scala minore, lo slancio con cui alcuni paesi latino-americani sono entrati nella fase della marcia verso la maturità tecnologica particolarmente il Messico e il Brasile nella seconda metà degli anni sessanta) ha creato incentivi analoghi in questa regione.
In terzo luogo, da questo processo è emerso un nuovo tipo di unità imprenditoriale privata. Come nota Vernon (v., 1971, p. 264): ‟Si ricordi in che cosa consistono gli impegni all'estero delle imprese multinazionali a controllo statunitense. In termini di proprietà azionaria, esse sono americane per il 90% e anche più; in termini di finanzia- menti, la quota americana arriva forse al 25%; in termini di personale, gli Americani sono meno dell'10/0; e infine considerando gli Stati cui pagano le tasse, esse sono praticamente al 100% straniere".
Intrinsecamente internazionali nelle loro prospettive e nelle loro operazioni, queste imprese si trovano di fronte Stati nazionali sovrani il cui atteggiamento nei loro confronti può essere campanilistico e ingiusto oltre che giuridicamente imperfetto. È quindi cosa naturale che i governi interessati stiano muovendosi nel senso della formulazione di regole internazionali, che dovrebbero fornire alle aziende di questo tipo una cornice concordata di leggi e regolamenti, e che, da parte loro, i sindacati stiano muovendosi verso nuove forme di negoziazione internazionale degli accordi salariali. L'internazionalizzazione di porzioni cospicue del settore privato sta così determinando la creazione di nuove forme di cooperazione internazionale da parte di istituzioni pubbliche o semipubbliche. In un modo o nell'altro, la ‛sfida americana' comincia a essere raccolta, fra l'altro con l'allargamento della Comunità Europea. L'elaborazione ulteriore da parte del settore pubblico di dispositivi atti a far fronte al nuovo imponente fenomeno costituito dalle società multinazionali sarà senza ombra di dubbio uno dei compiti principali degli anni settanta.
Più avanti si porrà il problema di adattare questi istituti privati e queste politiche statali a un mondo in cui, per esempio, le nazioni dell'America Latina e delle regioni asiatiche in via di sviluppo (nonché del Medio Oriente e dell'Africa) avranno raggiunto uno slancio e una capacità industriali sufficienti a produrre in modo redditizio i tipi di merci che Europa occidentale e Giappone arrivarono a produrre in modo redditizio negli anni cinquanta e sessanta. Dopo che la ‛sfida americana' sarà stata controbattuta e vinta, la comunità mondiale si troverà ad affrontare la ‛sfida del Nord'.
12. Relazioni tra nazioni a sviluppo avanzato e nazioni meno sviluppate: dallo sviluppo verso l'equilibrio o la catastrofe
In generale, le nazioni che hanno avuto il loro sviluppo dopo la seconda guerra mondiale hanno ricercato pragmaticamente - come in Europa occidentale, in Giappone e in Nordamerica - equilibri e forme di collaborazione tra settore pubblico e settore privato anziché applicare dottrine unilaterali, fossero esse il laissez-faire o il socialismo. L'evoluzione delle loro economie ha avuto luogo in un ambiente internazionale a un tempo favorevole e avverso, da cui sono venuti sostegni e frustrazioni.
Quando, durante la seconda guerra mondiale, la gente pensava ai problemi del dopoguerra, era naturale che le menti si volgessero soprattutto all'immenso campo di battaglia costituito dall'Eurasia settentrionale (diciamo da Londra a Tōkyō). Ma a Bretton Woods si fece udire anche la voce del Sud quando le nazioni latino-americane insistettero perché fosse affermato con chiarezza che la nuova Banca Mondiale sarebbe servita a compiti di sviluppo oltre che di ricostruzione.
Ma di fatto la questione dello sviluppo dei continenti meridionali rimase per qualche tempo relativamente in sordina: il Piano Marshall fornì dollari sufficienti per permettere all'Inghilterra di rimborsare i pesanti debiti in sterline contratti durante la guerra e, più in generale, per permettere alle potenze imperiali e coloniali di continuare a investire capitali nei loro vecchi domini; la ragione di scambio si mantenne generalmente favorevole alle regioni in via di sviluppo; in alcune parti del mondo la lotta politica anticoloniale assunse - comprensibilmente - la priorità sullo sviluppo economico e sociale; e comunque, nella scala delle priorità economiche internazionali, la ricostruzione dell'Europa occidentale fu al primo posto.
Ma già nell'inverno 1948-1949, mentre il Piano Marshall era ancora in atto, alcune forze politiche cominciarono a portare avanti il problema dello sviluppo. Il ‛quarto punto' del messaggio inaugurale pronunciato dal presidente Truman nel gennaio 1949 rispecchiò e insieme rafforzò questa tendenza. Ma la guerra di Corea e le sue conseguenze rinviarono sino a ben oltre il 1950 l'affermarsi della politica dello sviluppo al centro della scena internazionale. Come la maggior parte dei grandi processi storici, questo mutamento fu il prodotto della convergenza di forze differenti.
Innazitutto vi contribuì un fattore puramente umano e morale, che non bisogna sottovalutare. Molti, nel mondo occidentale, sentirono che con un Nordamerica ricco e un'Europa occidentale e un Giappone in rapida ripresa era ingiusto ignorare la situazione di relativa povertà della maggior parte del pianeta e l'aspirazione crescente alla modernizzazione e allo sviluppo. A questo giudizio morale si aggiunse la generale consapevolezza che un mondo costituito da un Nord ricco e dinamico e da un Sud povero e stagnante non poteva alla lunga essere pacifico e prospero.
Tale ordine di convinzioni e di sentimenti fu rafforzato da una serie di considerazioni contingenti.
1. Il fallimento comunista in Corea (preceduto dallo scacco subito nell'Europa occidentale) condusse a uno spostamento dell'interesse strategico, sia a Mosca che a Pechino, verso il mondo sottosviluppato, dando quindi luogo, inter alia, a programmi di aiuti economici chiaramente concorrenziali rispetto a quelli degli Stati Uniti e dell'Occidente.
2. Il confronto strategico nelle regioni in via di sviluppo fu acuito da quella che allora era considerata la drammatica competizione ideologica tra i processi di sviluppo indiano e cinese, il primo svolgentesi in un quadro democratico e il secondo in un regime comunista.
3. Altro fattore di inasprimento della contesa ideologica fu, sul finire degli anni cinquanta, in Africa, il costituirsi (già in atto o comunque imminente) di numerose nazioni postcoloniali.
4. Infine, un deterioramento nei prezzi relativi delle derrate alimentari e delle materie prime dopo la guerra di Corea ridusse per molti paesi in via di sviluppo, particolarmente per alcuni paesi latino-americani, l'ammontare delle divise estere disponibili. La conseguente diminuzione dei tassi di sviluppo accrebbe l'intensità delle richieste di assistenza rivolte agli Stati Uniti dalle nazioni latino-americane.
Nella seconda metà degli anni cinquanta la politica americana venne incontro a queste esigenze provvedendo, ad esempio, ad accrescere gli aiuti all'India e ad avviare un programma di assistenza permanente all'America Latina. Questa tendenza fu accentuata, consolidata e istituzionalizzata dalle iniziative del presidente Kennedy, che diede anche il suo appoggio all'idea di un ‛decennio dello sviluppo' patrocinato dalle Nazioni Unite. L'evoluzione dei programmi di assistenza dei vari Stati del mondo occidentale nel corso degli anni sessanta è rilevabile dalla tab. VIII.
Ma l'aumento dell'assistenza per lo sviluppo fino a tali dimensioni non si è dimostrato una panacea. Il problema della crescita economica e del progresso sociale si è rivelato, in varie parti del mondo, difficile o addirittura insormontabile. La destinazione degli aiuti, le condizioni per la loro assegnazione e la pesantezza delle procedure amministrative previste sono state oggetto di critiche legittime. E tuttavia l'emergere nella comunità delle nazioni, nel corso di un decennio di tensioni e di pericoli, di questo processo storicamente nuovo ha fatto probabilmente pendere la bilancia a favore della cooperazione, anziché della contrapposizione, tra nazioni meno sviluppate e nazioni più sviluppate, e a favore di indirizzi politici più umani e pragmatici, anziché coercitivi e totalitari, all'interno delle nazioni in via di sviluppo. Per quanti giudicano questo sbocco un toccasana possiamo ripetere, trasponendola, un'affermazione che è stata fatta a proposito dei problemi urbani nell'America degli anni sessanta e delle relative scelte politiche: gli sforzi compiuti durante quel decennio nel campo degli aiuti all'estero hanno fornito alla comunità mondiale una corda alla quale aggrapparsi per superare l'abisso e per sopravvivere.
Per quanto concerne il tema qui trattato, possiamo dire che la maggior parte delle nazioni in via di sviluppo ha scelto di impiantare economie miste - con ruoli importanti sia per il settore privato che per quello pubblico - anziché applicare rigidamente dottrine proclamanti le virtù esclusive del mercato privato o dell'impresa pubblica, in un contesto che includeva aiuti stranieri di vasta portata.
Sebbene nel corso dell'intero decennio tra il 1960 e 1970 la questione della strategia dello sviluppo economico e dell'assistenza allo sviluppo risentisse dei postumi della guerra fredda, a cominciare dal 1965-1966 cominciò a farsi evidente un mutamento significativo. Da un lato il mancato svolgimento della conferenza di Algeri nel giugno 1965 sembrò smentire l'idea che le nazioni in via di sviluppo - sia comuniste che non comuniste - potessero organizzarsi efficacemente come blocco politico. Dall'altro - e stavolta in senso positivo - la possibilita e l'urgenza di avanzare sulla via della cooperazione regionale furono meglio apprezzate, per ragioni diverse, sia nell'America Latina che in Africa e in Asia. Lì progresso effettivo in materia di istituzioni regionali in queste aree è stato in realtà lento; ma è certo che l'uso delle espressioni generiche che erano state in voga negli anni cinquanta - come ‛Terzo Mondo' o ‛mondo sottosviluppato' - è divenuto a poco a poco sempre meno appropriato. Come abbiamo osservato più sopra (v. capp. 5 e 6), l'emergere di queste nuove prospettive e istituzioni regionali ha ampliato il campo d'azione del settore privato al di là dei confini nazionali, come già era avvenuto nell'Europa occidentale.
Negli anni settanta la comunità mondiale ha cominciato ad affrontare la scadenza di un secondo decennio dello sviluppo. E lo ha fatto sulla scorta dei risultati e degli insuccessi del decennio precedente. Gli impegni concernenti lo sviluppo erano molti e di natura complessa. I vari punti all'ordine del giorno sono stati affrontati con aspettative meno irrealistiche e con una più esatta consapevolezza dei limiti entro i quali è possibile aiutare dall'esterno una nazione in via di sviluppo, ma anche con una maggiore competenza nell'assolvimento dei compiti connessi con la crescita economica e con il benessere sociale. I successi realizzati in ciascun continente avevano, d'altra parte, fornito la chiara dimostrazione che la modernizzazione e uno sviluppo rapido erano obiettivi raggiungibili.
Ma, a mano a mano che questo secondo decennio di significativi sforzi internazionali andava prendendo forma, nella comunità internazionale cominciava a farsi strada la consapevolezza che un'impostazione del problema limitata alla crescita economica non bastava. Si trattava di una facile intuizione. Nessuno che esaminasse seriamente le prospettive di crescita, dopo il 1945, del mondo in via di sviluppo poteva credere alla possibilità di uno sbocco positivo senza un tempestivo e netto declino dei tassi di natalità. Ma negli anni intorno al 1970 all'antica inquietudine per il problema demografico si sono aggiunte nuove preoccupazioni circa la capacità delle risorse atmosferiche, idriche, energetiche e delle materie prime, di alimentare un'industrializzazione delle dimensioni che uomini e nazioni sembrano intenzionati a perseguire.
Stante il ritmo dell'espansione demografica e dell'industrializzazione, non è difficile prevedere, per il prossimo secolo, sulla base delle tendenze in atto, catastrofiche tragedie di fame, inquinamento ed esaurimento delle risorse. Sono previsioni discutibili nell'uno o nell'altro aspetto particolare. Ciò che invece non è discutibile è l'urgenza di arrivare a una cooperazione internazionale che elabori e promuova l'applicazione di nuove tecniche di controllo delle nascite, di sostituzione delle risorse, del loro riciclaggio e di altri interventi antinquinamento e di produzione di energia.
La necessità di una cooperazione su scala mondiale per far fronte a questi problemi è resa ancora più stringente da un'eventualità specifica.
I bisogni di petrolio, gas naturale e minerali di base da parte sia dei paesi di più antica industrializzazione (quelli il cui decollo ha avuto luogo prima del 1900), sia dei paesi di modernizzazione più recente (quelli il cui decollo ha avuto luogo intorno agli anni trenta), rischiano di provocare un conflitto sempre più aspro dato che i secondi avvertono un senso di ingiustizia per i vantaggi derivati ai primi dalle vicende storiche.
Dal canto loro, le nazioni di più antica industrializzazione potrebbero avvertire un senso di ingiustizia di fronte ai tassi di incremento demografico anormalmente alti (giudicati secondo parametri storici) che si sono raggiunti nei paesi nuovi in virtù della rapida diffusione della medicina e delle attrezzature sanitarie moderne e per la mancanza di un piano di controllo demografico adeguatamente sovvenzionato e realizzato dalle autorità politiche. Gli attuali tassi di incremento demografico rischiano di esaurire le risorse internazionali e di provocare - se i processi di industrializzazione e di urbanizzazione procedono secondo le linee oggi correnti - conseguenze assai gravi in termini di inquinamento atmosferico e idrico. Nello sforzo per evitare questa minaccia, responsabilità ben determinate, che non tenterò di definire qui, spettano sia alle nazioni di antica sia a quelle di nuova industrializzazione. Dal punto di vista della presente analisi, il punto fondamentale da sottolineare è che la prospettiva economico-politica del conseguimento dell'equilibrio ambientale accentuerà - sia all'interno delle società nazionali sia a livello internazionale - il ruolo dell'azione pubblica e richiederà un'elaborazione ulteriore dei complessi rapporti associativi che già ora legano settore pubblico e settore privato. La cosa è stata vista con chiarezza in ‟The OECD Observer" del giugno 1972 (New thinking on economic growth, p. 3): ‟[...] queste richieste riguardano in misura sempre maggiore cose alle quali - come nel caso della valorizzazione dell'ambiente fisico - può essere provveduto soltanto collettivamente, o mediante l'azione pubblica. Ciò significa ch'esse in misura sempre maggiore trovano il loro sbocco tramite strumenti a livello politico e che pertanto non sono soggette ai controlli automatici e alla disciplina del meccanismo di mercato. La questione del come ci si avvii a fare queste scelte è forse non meno importante, per il futuro di una società, della natura delle decisioni stesse. È quindi importante che questi strumenti politici siano resi efficaci il più possibile".
Per due secoli - diciamo dal 1776, data della pubblicazione della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith - gli uomini e i governi si sono sentiti liberi di perseguire obiettivi di progressivo sviluppo. Ma negli ultimi decenni è divenuto evidente che in futuro i compiti all'ordine del giorno concerneranno obiettivi di armonizzazione piuttosto che di sviluppo, pur limitato. E tali compiti di armonizzazione, non diversamente da ogni altro stadio di sviluppo, porranno nuovi problemi ai poteri pubblici e privati, creeranno nuovi legami di cooperazione e nuove tensioni tra essi e daranno al capitalismo un volto e un contenuto nuovi.
Ma si tratta di una vicenda ben nota: il capitalismo moderno infatti ha cominciato a modificarsi fin dalle sue ongini più di due secoli fa.
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