Carlo Denina
Nel 1874 l’editore milanese Giulio Bestetti pubblicò una mediocre e incompleta edizione in un solo volume dell’opera più nota di Carlo Denina, Delle rivoluzioni d’Italia (3 voll., 1769-1770). Dopo di allora, per molto tempo su questo autore scese una spessa coltre di oblio. Fu necessario attendere quasi sessant’anni perché se ne tornasse a parlare (Negri 1933), ma la vera ripresa degli studi deniniani si verificò solo nel 1958, quando Franco Venturi pubblicò una selezione di suoi testi. Delle rivoluzioni d’Italia fu, come affermò Giosue Carducci, la «prima storia generale di nostra gente» (Del Risorgimento italiano, prefazione a Letture del Risorgimento italiano, a cura di G. Carducci, 1° vol., 18962, p. XXVI).
Carlo Denina nacque a Revello, presso Saluzzo, il 28 febbraio 1731, secondogenito di tre fratelli e di una sorella, da una famiglia di origini modeste. Dopo i primi studi a Revello si trasferì a Saluzzo per studiare, come egli stesso avrebbe scritto in seguito, «un poco di teologia antigesuitica sotto il nome di metafisica e di filosofia morale» (Autobiografia berlinese 1731-1792, a cura di F. Cicoira, 1990, p. 31). Rimasto orfano del padre nel 1745, riuscì comunque a frequentare la facoltà di Arti liberali del Collegio delle province, grazie a una borsa di studio ottenuta nel 1748. Il 22 dicembre del 1753 fu nominato ‘maestro di umanità e retorica’ al Collegio di Pinerolo, ma nel 1754, a causa della rappresentazione a scuola di una sua commedia, Don Margofilo, perse l’incarico. Dopo aver insegnato per alcuni anni nelle scuole comunali di Cuorgné e Barge, nel 1758 divenne professore straordinario presso il Collegio di Torino. Nel frattempo si era laureato in teologia a Milano (1756) e aveva pubblicato la sua prima opera, De studio theologiae et norma fidei (2 voll., 1758).
Nel corso degli anni Sessanta strinse profondi legami con il matematico Giuseppe Lagrange (1736-1813), con il medico Gian Francesco Cigna (1734-1790) e soprattutto con un gruppo di intellettuali inglesi che facevano capo all’ambasciata britannica di Torino. Furono anni prolifici per Denina, che nel 1760 pubblicò il Discorso sopra le vicende della letteratura e nel 1763, stimolato dalla colta società che frequentava, il settimanale letterario «Assemblea degli osservatori italiani», meglio noto come «Il Parlamento ottaviano».
Nel 1764 ebbe l’idea di scrivere una storia d’Italia, e l’anno seguente effettuò il suo primo viaggio nella penisola. Dopo quattro anni di ricerche diede alle stampe Delle rivoluzioni d’Italia, che ebbe un successo europeo, come testimoniano le traduzioni in tedesco (1771-1773) e in francese (1771-1775) e quella, parziale, in inglese (1773). Questo largo consenso, anche se non erano mancate critiche da parte di certi ambienti ecclesiastici, gli valse nel 1770 l’ingresso all’Università di Torino, dove gli fu assegnata la cattedra di eloquenza italiana e lingua greca.
Nel 1777 tentò di far stampare a Firenze una sua opera, Dell’impiego delle persone, trasgredendo una legge del 1772 che vietava ai sudditi sabaudi la pubblicazione di opere al di fuori dello Stato senza l’assenso dei censori regi. Questo episodio fu causa della sua espulsione dall’università e dell’esilio, prima a Vercelli e poi a Revello; solo nel 1779 gli fu consentito di tornare a Torino.
Non riuscendo a rientrare all’università, nel 1782 si trasferì a Berlino, alla corte del re di Prussia Federico II, dove ritrovò l’amico Lagrange. Durante il periodo berlinese pubblicò Dell’impiego delle persone (2 voll., 1803), La clef des langues ou Observations sur l’origine et la formation des principales langues (3 voll., 1804) e Rivoluzioni della Germania (8 voll., 1804-1809), l’opera per scrivere la quale era stato chiamato in Prussia.
Nel 1804 venne nominato bibliotecario privato di Napoleone Bonaparte (appena incoronato imperatore dei francesi) e si trasferì a Parigi, dove rimase sino alla morte, avvenuta il 5 dicembre 1813.
Denina era un intellettuale che portava avanti istanze di riforma moderate e in ogni caso sempre rispettose delle leggi in vigore nello Stato sabaudo, come scrisse efficacemente Venturi (1958):
I pensieri di riforma, che, pallidi ed eclettici, pur esistono nelle pagine del Denina, non nascono da una rottura con l’ambiente, da una contrapposizione e da una rivolta. Sorgono spontaneamente (p. 701).
Eppure, nonostante il suo blando riformismo, Denina nel corso della sua lunga esistenza ebbe non pochi problemi con le autorità sabaude, tanto che la storica Lodovica Braida ha intitolato Il caso Denina un paragrafo del suo libro Il commercio delle idee: editoria e circolazione del libro nella Torino del Settecento (1995, rist. 2003, p. 128).
Nel 1754, quando era insegnante a Pinerolo, Denina organizzò, come già accennato, una recita teatrale in cui si metteva in scena una sua commedia di sapore aristofanesco intitolata Don Margofilo, nella quale egli si lasciava andare ad alcune osservazioni ironiche sul sistema delle scuole pubbliche, affermando che da quando erano gestite da un magistrato e dal clero secolare funzionavano altrettanto bene di quando erano in mano al clero regolare. Nella commedia (che non si è più ritrovata) emergeva con chiarezza l’intento di mettere alla berlina sia il clero regolare sia la consuetudine delle recite collegiali. Tanto bastò per mettere in allarme i gesuiti, i quali scatenarono una violenta campagna contro Denina, che fu destituito dalla cattedra e venne anche ripreso dal presidente del Senato Carlo Luigi Caissotti. In questa sua prima crisi con il potere sabaudo, Denina dovette prendere amaramente atto del fatto che nella società piemontese non c’era spazio per gli intellettuali in quanto tramite tra il governo e la società civile.
Un altro momento di tensione si ebbe nel 1763, quando le autorità ecclesiastiche chiesero e poi riuscirono a ottenere la sospensione della pubblicazione del «Parlamento ottaviano», ritenuto pericoloso per diversi motivi: in primo luogo perché il giornale affermava di essere stampato a Roma mentre (particolare considerato inquietante) il reale luogo di stampa era Lucca, quindi ai confini del Regno di Sardegna; in secondo luogo perché si reputava pericoloso che un abate – Denina aveva preso gli ordini nel 1754 – scrivesse un elogio, seppure non esente da critiche, della figura di Jean-Jacques Rousseau.
Ma anche durante la stampa del terzo volume di Delle rivoluzioni d’Italia (1770) Denina dovette far fronte a varie critiche: prima alla profonda ostilità dell’abate Francesco Berta, che cercò di impedirne la pubblicazione; poi all’attacco del teologo Giovanni Rayneri, che ravvisò in due pagine di questo volume diciassette affermazioni eretiche e aggiunse che tali brani erano stati aggiunti dopo l’approvazione della censura. L’accusa era grave, ma la protezione del re di Sardegna Carlo Emanuele III e di alcuni potenti personaggi romani consentirono a Denina di superare tutte queste difficoltà, di entrare trionfalmente nell’Università di Torino e di pronunciare, tra il 1771 e il 1777, tre panegirici ufficiali in occasione dei compleanni dei re sabaudi.
La rottura definitiva di Denina con il governo sabaudo si consumò nel 1777, in occasione del citato tentativo di pubblicare a Firenze, cioè extra moenia, il libro Dell’impiego delle persone, in cui egli aveva trattato più a fondo alcuni temi solo accennati nell’ultimo volume di Delle rivoluzioni d’Italia: poiché a Torino l’opera, seppure approvata dal re Vittorio Amedeo III, era stata fermata da Caissotti, Denina consegnò il manoscritto a uno stampatore fiorentino. Anche l’edizione toscana fu bloccata, in base alla citata legge del 1772; l’opera avrebbe visto la luce solo nel 1803 a Berlino. Tale episodio, come si è già visto, fu alla base della decisione di Denina di trasferirsi in Prussia.
Senza dubbio Denina, come Alberto Radicati di Passerano (1698-1737) e Pietro Giannone, fu un’altra vittima della linea politica conciliante perseguita nei confronti della Santa Sede da parte del governo sabaudo a partire dagli anni Trenta e soprattutto dopo la firma del concordato del 1741.
Denina si formò in questo clima, caratterizzato da una politica interna sabauda imperniata su quello che Venturi ha definito un «praticismo eclettico» (1958, p. 701); il maggiore esponente di tale orientamento politico fu il cardinale Sigismondo Gerdil, noto per un suo libello contro l’opera di Rousseau Émile, ou de l’éducation (1762), intitolato Réflexions sur la théorie et la pratique de l’éducation contre les principes de J.-J. Rousseau (1765). Denina, afferma ancora Venturi, «era esclusivamente un suo seguace [di Gerdil]» quando pubblicò, nel 1758, il citato manuale De studio theologiae, che pur non era privo di una «certa larghezza di vedute» (p. 701). Egli tuttavia, ha sostenuto Giuseppe Ricuperati, fu sempre animato da una «profonda e divorante curiosità intellettuale» (I volti della pubblica felicità, 1989, p. 145) che lo portò a essere sensibile verso alcuni aspetti del pensiero illuminista. Quest’ultimo tratto della sua figura era già stato efficacemente messo in rilievo in precedenza dallo stesso Ricuperati (1976, 19992):
In sostanza il Denina, pur mostrandosi aperto ad alcune esigenze dell’Encyclopédie, dei philosophes e dell’utilitarismo inglese e francese, restava ancorato, nonostante la curiosità e gli eclettismi, alla formazione leibniziana e malebranchiana che nutriva in fondo l’anti-illuminismo di Sigismondo Gerdil (p. 221).
Per Denina, la prima occasione di confronto con il pensiero di alcuni philosophes fu il citato Discorso sopra le vicende della letteratura, in cui scrisse alcune pagine su Montesquieu, Voltaire e d’Alembert. Giuseppe Baretti, recensendo il Discorso, lo definì «pieno come un uovo di quella erudizione, il di cui acquisto costa poca fatica di mente, ma di schiena moltissima», e definì inoltre Denina uno «storicuccio», che aveva raccolto «una farragine di cose, già dette e ridette da innumerabili sapienti delle principali Nazioni moderne» («La frusta letteraria», 15 gennaio 1764, p. 120). Critiche forse ingenerose, anche se Baretti riconosceva nelle stesse pagine a Denina «una buona porzione di ingegno» (p. 122): infatti la tendenza compilatoria era una pratica molto diffusa in quell’epoca. Giovanni Pagliero, per es., ha rimesso in discussione la pessima fama di Denina «rimestatore» di testi, ravvisando nel suo atteggiamento «il sintomo di una concezione “enciclopedica” della cultura» (L’enciclopedismo dinamico di Carlo Denina, «Studi piemontesi», 1978, 1, p. 26). In precedenza, Giovanni Getto aveva osservato che il Discorso può essere considerato «un precorrimento di quella che doveva essere la letteratura comparata» e che per la prima volta vi si trova espresso «in termini di sufficiente chiarezza il concetto di letteratura» (Storia delle storie letterarie, 1942, 19814, pp. 63 e 66).
Nel Discorso, Denina fece alcune considerazioni su L’esprit des lois (1748) di Montesquieu, giudicando il modo di scrivere di questo autore troppo delicato, troppo conciso, «talora oscuro, e bene spesso così poco connesso con […] periodi inaspettati, ed alieni» (Discorso…, cit., ed. a cura di C. Corsetti, 1988, p. 79).
Del resto, Denina era solito frammischiare elogi e critiche. Di Voltaire, per es., dopo aver affermato che era a giusto titolo l’intellettuale più celebre d’Europa, analizzando il poema del 1723 La ligue, ou Henry le Grand (meglio noto con il titolo dell’edizione del 1728, La Henriade) sostenne nel Discorso che il filosofo francese non poteva essere considerato un buon poeta epico perché in sostanza aveva imitato, se non copiato, l’Eneide di Virgilio; che il suo stile chiaro e felice, «il sale abbondante, che con danno bene spesso della religione ha sparso in tutte le altre sue opere, è quello che le rende sì grate alla moltitudine» (p. 82); e che in tutti i suoi scritti aveva il solo obiettivo di «sparger satire e motteggiare» (p. 82). Anche nelle opere storiche Voltaire, secondo Denina, non era privo di difetti, soprattutto perché non citava mai le sue fonti, per rendere più difficoltoso scoprire le «falsità, che inserì, o almeno le alterazioni, che fece alle narrazioni autentiche degli autori contemporanei» (p. 83). Com’è noto, Voltaire non gradì affatto i rilievi di Denina, e trovò il modo di vendicarsi ne L’homme aux quarante écus (1768):
Un italiano chiamato Denina […] ha denigrato lo Spirito delle leggi senza capirlo. […] Il signor Denina fu trattato come meritava, e come vengono trattati i pedanti dalle persone di spirito (trad. it. in L’ingenuo - L’uomo dai quaranta scudi, a cura di L. Bianchi, 1998, pp. 199-200).
Alcuni anni dopo, nella lettera Al signor dottore Francesco Zanotti (1763), Denina compose alcuni versi su Rousseau, autore di «molte opere non meno piene di errori e di paradossi pericolosi» (p. 22, nota 1), esortando il «superbo Genevrino» a lasciare l’«insana ambizion […], che t’indusse / tante carte a vergar» (p. 22) e soprattutto a riconvertirsi al cattolicesimo:
Eh torna, / torna in te stesso alfine, e a quella fede / […] / deh riedi ormai, riedi sincero; e calma / godrai dolce e sicura; e se per sorte / lo stil stringendo a disgombrar gli errori / d’Elvezio, e Diderot, travagli, o noie / avessi a sostener; beato allora / che in terra, e in ciel favor n’avresti, e lode (p. 22).
Nello stesso 1763, Denina tornò a occuparsi dei philosophes ne «Il Parlamento ottaviano», in cui svolse alcune riflessioni su Voltaire e Rousseau. Traendo spunto dalle Lettres persanes (1721) di Montesquieu e da «The spectator» (1711-1712), il giornale letterario inglese fondato da Richard Steele e Joseph Addison, immaginò che un gruppo di persone colte si riunisse a Roma nel palazzo di un certo marchese Ottavio, alludendo in maniera nemmeno troppo nascosta alle riunioni che si tenevano presso la residenza del marchese Ottavio Falletti di Barolo. Ogni numero del «Parlamento ottaviano», di cadenza settimanale, si apriva con una citazione letteraria, proprio come accadeva in «The spectator». Come si è visto, il giornale fu costretto a interrompere le proprie pubblicazioni dopo solo tre mesi, quando Denina aveva scritto dodici ‘sessioni’.
Nella quarta ‘sessione’, Denina pose a confronto Voltaire e Rousseau. Di nuovo non lesinò critiche a Voltaire, le cui opere, escluse alcune di carattere storico, non costarono né «una lunga attenzione, né grande fatica», perché per scrivere opere più impegnative occorre essere dotato
o [di] lunga tensione d’animo, o [di] immaginazione largamente feconda e luminosa. Di queste due cose l’una non piacque al sig. di Voltaire e l’altra per avventura gli mancò (cit. in Venturi 1958, pp. 716-17).
In sostanza, qui si riprende il giudizio su Voltaire espresso nel Discorso, dando in questa occasione maggior risalto alla scarsa capacità del filosofo francese di scrivere solide opere storiche.
Di segno diverso il giudizio su Rousseau, definito uno «scrittore originale» (p. 719); ma subito dopo Denina sgombrò il campo dagli equivoci chiarendo che non intendeva parlare del Rousseau teologo o politico, animato da idee troppo pericolose, ma del letterato. Rousseau, al contrario di Voltaire, «si mostrò sempre costante in una cosa almeno, cioè nella vera e pura religion naturale, che è alla fine la base della religion rivelata» (p. 719); ebbe inoltre il pregio di esprimere schiettamente i propri sentimenti e, di conseguenza, risultò migliore (altra allusione polemica a Voltaire) di quegli scrittori che «cercano con tanto studio i bei pensieri e le sentenze vaghe e leggiadre» (p. 722).
In Delle rivoluzioni d’Italia, invece, l’attenzione verso il movimento dei lumi si concentrò non tanto su singoli philosophes quanto su alcune istanze illuministiche, che egli fece proprie; ora occorre dunque soffermarsi sull’opera più nota di Denina.
Diversi storici hanno sottolineato che nella seconda metà del Settecento i tempi erano maturi per una storia generale della penisola italiana, impresa resa possibile dall’immane lavoro di raccolta delle fonti compiuto nella prima metà del secolo, soprattutto da parte di Ludovico Antonio Muratori. Denina basò molto la sua narrazione sui muratoriani Annali d’Italia (1744-1749), come egli stesso dichiarò nelle righe iniziali della prefazione. Le Rivoluzioni vennero articolate in venticinque libri (l’ultimo fu aggiunto nel 1792 per coprire il periodo 1713-92), nel corso dei quali si tratteggiava un profilo della storia italiana dal 390 a.C. al 1792, con significative omissioni, perché, un esempio per tutti, il 1789 veniva affrontato in maniera molto rapida e sommaria.
Anche Alessandro Verri ebbe la medesima idea, ma la sua Storia d’Italia rimase inedita; il 10 ottobre 1772 egli così scrisse al fratello Pietro:
Non so se conosci le Rivoluzioni d’Italia del Denina. Mi dicono che è libro bene scritto. Io non l’ho veduto e naturalmente mi avrà prevenuto in molte cose, giacché la nostra storia aveva la materia così preparata che aspettava da un giorno all’altro un estensore ragionevole (Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di E. Greppi, A. Giulini, 5° vol., Gennaio-dicembre 1772, 1926, p. 188).
L’opera di Denina uscì in una congiuntura favorevole, poiché, come ha scritto Vitilio Masiello, rispondeva
ad un’attesa ed ad un’esigenza indotte non solo dallo sviluppo della ricerca storico-erudita che si era verificato nella prima metà del secolo, […] ma anche dallo sviluppo della problematica teorica e metodologica in ambito storiografico (Introduzione a C. Denina, Le rivoluzioni d’Italia, a cura di V. Masiello, 1° vol., 1979, p. 9).
Denina, secondo Carlo Calcaterra, inserì «la storia del Piemonte in quella d’Italia, quella d’Italia nella storia d’Europa» (Il nostro imminente Risorgimento: gli studi e la letteratura in Piemonte nel periodo della Sampaolina e della Filopatria, 1925, rist. 1935, p. 156).
Ernesto Sestan, riflettendo su quale fosse l’idea d’Italia di Denina, ha messo in luce come per un lungo periodo storico le Isole siano state escluse dalla trattazione delle Rivoluzioni. Inoltre, dopo aver chiarito che all’epoca in cui scriveva Denina il termine rivoluzione non era ancora connotato negativamente (come lo sarebbe stato dopo la Rivoluzione francese del 1789), ma che aveva l’accezione neutra di vicende, mutamenti politici, e dopo aver sottolineato che Denina non aveva compiuto alcuno sforzo di periodizzazione, Sestan sostiene che questi fu «decisamente storico illuminista per l’economicismo che pervade la sua opera e in particolare per le idee, non originali, sulla popolazione, sul celibato, sul lusso» (In margine alle “Rivoluzioni d’Italia” di Carlo Denina, in L’età dei Lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, a cura di R. Ajello, 2° vol., 1985, pp. 1059-60 e 1067).
Denina riservò un ampio spazio alla storia dell’Italia preromana e romana. Non essendo favorevole alla tesi secondo la quale l’Urbe era stata fondata nel 753 a.C., iniziò la sua trattazione dal 390 a.C., anno della decadenza della potenza etrusca e dell’invasione gallica. In queste pagine iniziali emerge chiaramente l’influsso esercitato dall’opera di Montesquieu Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734). Dal pensatore francese Denina desunse diverse tesi, tra cui quella della maggiore densità demografica dell’età antica rispetto a quella moderna, e fece propria la visione negativa dell’antichità romana, interpretazione molto diffusa in quel Settecento italiano che è stato definito da Venturi come un secolo
fondamentalmente antiromano, [che] aveva riscoperto ed esaltato etruschi, insubri e sanniti [e] aveva profondamente criticato il sistema economico fondato sulla conquista e non sul commercio (Utopia e riforma nell’Illuminismo, 1970, p. 30).
Il periodo imperiale della storia romana venne svolto rapidamente da Denina per dare maggior spazio alle invasioni barbariche e alle loro conseguenze. Tra le cause della decadenza romana, egli annoverò la contrazione demografica verificatasi in età altoimperiale. Il giudizio sull’avvento dei barbari è di segno positivo, e l’arrivo dei Longobardi in Italia nel 568 è considerato, come ha rilevato Arnaldo Marcone (2000, p. 1092), un «nuovo inizio».
Utilizzando il criterio della popolazione, Denina evidenziò i momenti di grandezza e di decadenza della storia italiana. Epoche di grandezza vennero considerate l’età preromana, gli anni della dominazione longobarda e il 14° sec., periodi caratterizzati da un forte incremento della popolazione, ritenuto «il fondamentale coefficiente della ricchezza della nazione» (Negri 1933, p. 49); specularmente, Denina reputò i secoli 15°-16° e l’inizio del 18° come epoche di decadenza, perché contraddistinte da una contrazione demografica. Una delle cause principali dello spopolamento venne individuata nel numero troppo elevato di ecclesiastici nella penisola italiana, che si tramutava in una forte presenza di celibi. Analizzando questi alti e bassi della densità demografica dell’Italia, Denina attuò una svalutazione del Cinquecento e una rivalutazione del Seicento. In realtà, dietro questa operazione si può scorgere, come ha notato Edoardo Tortarolo (1989), un tentativo da parte di Denina di costruire una periodizzazione ‘guelfa’, in quanto la rinascita seicentesca viene fatta coincidere anche con l’avvio della politica controriformistica della Chiesa.
Naturalmente, il tema della popolazione è intimamente legato a quelli del commercio e del lusso. Questi tre aspetti sono quasi indissolubili nell’analisi deniniana: lo spopolamento era causa della rovina del commercio, e il lusso, pur criticato sulla base teorica di Gerdil, era ritenuto in qualche misura necessario per rendere prospero il commercio.
Per questi e altri aspetti, è fuori di dubbio il debito contratto da Denina verso i grandi modelli storiografici dei lumi. Egli intese la storia come una storia della civiltà, e fondò le sue opere storiche su alcuni philosophes come Voltaire, verso il quale, come si è visto, sviluppò un complesso e contrastato rapporto, e Montesquieu, da cui trasse anche il concetto che cause fisiche quali la natura del clima e del suolo esercitano la loro influenza sulle popolazioni; si basò inoltre sulla solida erudizione di Muratori e anche su altri intellettuali italiani, come Giannone. Lo storico ideale per Denina era, secondo un’acuta osservazione di Walter Maturi,
lo ‘storico’ filosofo, lo storico cittadino, che deve illuminare principi e popoli sulle origini storiche dei problemi del presente per il benessere morale e materiale della società (Interpretazioni del Risorgimento: lezioni di storia della storiografia, 1962, pp. 24-25).
Discorso sopra le vicende della letteratura, Torino 1760, in 2 voll., Berlino 1784-17852; poi a cura di C. Corsetti, Roma 1988.
Il Parlamento ottaviano, ovvero le adunanze degli osservatori italiani, Lucca 1763, poi in Opere giovanili, a cura di G. Marocco, Torino 1980, pp. 59-344.
Delle rivoluzioni d’Italia libri ventiquattro, 3 voll., Torino 1769-1770, rist. con il titolo Le rivoluzioni d’Italia, 2 voll., a cura di V. Masiello, Torino 1979.
Bibliopea, o sia L’arte di compor libri, Torino 1776, rist. Milano 2011.
Istoria politica e letteraria della Grecia, 4 voll., Torino 1781-1782.
Lettere brandeburghesi […], Berlino 1786, poi a cura di F. Cicoira, Torino 1989.
La Prusse littéraire sous Fréderic II […], 3 voll., Berlin 1790-1791.
Considérations d’un italien sur l’Italie […], Berlin 1796 (trad. it. Torino 2005).
Dell’uso della lingua francese, discorso in forma di lettera diretto ad un letterato piemontese, Berlino 1803, poi in Storia delle lingue e polemiche linguistiche: dai saggi berlinesi 1783-1804, a cura di C. Marazzini, Alessandria 1985, pp. 65-102.
Rivoluzioni della Germania, 8 voll., Firenze 1804-1809.
Istoria della Italia occidentale, 6 voll., Torino 1809.
Lettere di Carlo Denina al Fratello Marco Silvestro, a cura di A. Tallone, Pinerolo 1901.
«Bollettino del Museo bodoniano di Parma», 2003, nr. speciale: Il carteggio fra Giambattista Bodoni e Carlo Denina (1777-1812), a cura di R. Necchi.
L. Negri, Un accademico piemontese del Settecento: Carlo Denina (sulla scorta di documenti inediti), «Memorie della Reale Accademia delle scienze di Torino», 1933, pp. 1-160 (con bibliografia delle opere di Denina).
C. Calcaterra, Il Barocco in Arcadia e altri scritti sul Settecento, Bologna 1950, in partic. pp. 373-414.
F. Venturi, Nota introduttiva a Carlo Denina, in La letteratura italiana: storia e testi, sotto la direzione di R. Mattioli, P. Pancrazi, A. Schiaffini, 46° vol., Illuministi italiani, a cura di F. Venturi, t. 3, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, 1958, con una selezione di testi, pp. 699-753.
F. Diaz, Politici ed ideologi, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi, N. Sapegno, 6° vol., Il Settecento, Milano 1968, 19882, pp. 59-322, in partic. pp. 162-64.
C. Dionisotti, Piemontesi e spiemontizzati, in Letteratura e critica: studi in onore di Natalino Sapegno, a cura di W. Binni, 3° vol., Roma 1974, pp. 329-48, poi in Id., Appunti sui moderni, Bologna 1988, pp. 11-31.
G. Ricuperati, Giornali e società nell’Italia dell’Ancien régime (1668-1789), in Storia della stampa italiana, a cura di V. Castronovo, N. Tranfaglia, 1° vol., C. Capra, V. Castronovo, G. Ricuperati, La stampa italiana dal Cinquecento all’Ottocento, Roma-Bari 1976, 19992, pp. 67-386, in partic. pp. 215-21.
G. Marocco, Le “Rivoluzioni d’Italia” di Carlo Denina, «Studi piemontesi», 1980, 2, pp. 256-64.
G. Pagliero, Cultura e società nella storiografia letteraria di Denina, «Studi piemontesi», 1983, 1, pp. 113-19.
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E. Tortarolo, La ragione sulla Sprea: coscienza storica e cultura politica nell’Illuminismo berlinese, Bologna 1989, in partic. pp. 98-109.
G. Fagioli Vercellone, Denina Carlo Giovanni Maria, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 38° vol., Roma 1990, ad vocem.
A. Marcone, I libri sull’Italia antica delle “Rivoluzioni d’Italia” di Carlo Denina, «Rivista storica italiana», 2000, 3, pp. 1072-93.
Carlo Denina fra Berlino e Parigi (1782-1813), Giornata di studio, Torino (30 novembre 2000), a cura di M. Cerruti, B. Danna, Alessandria 2001 (in partic. G. Ricuperati, Ipotesi su Carlo Denina storico e comparatista, pp. 9-43; E. Tortarolo, Il sapere storico nelle accademie tedesche e la posizione di Denina, pp. 71-89; V. Sorella, La ricezione delle “Rivoluzioni d’Italia” nei periodici italiani del Settecento, pp. 119-40).
V. Sorella, Storie d’Italia settecentesche: il “Delle rivoluzioni d’Italia” di Carlo Denina, «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», 2006, pp. 197-243.