GIANNONE, Carlo
Nacque a Ischitella, sul Gargano, nel 1688, da Scipione e Lucrezia Micaglia. Fratello minore del più famoso Pietro, venne da questo chiamato a Napoli nel 1701. Avviato dapprima agli studi filosofici, si dedicò successivamente alle materie giuridiche, in ciò consigliato anche dal fratello, sotto la cui guida divenne ben presto un discreto giurista.
Per tutto il tempo che rimase a Napoli, fino al 1723, Pietro ebbe nei confronti del G. cure paterne e tra i due non sembra emergessero particolari contrasti. In seguito alla fuga di Pietro dalla capitale, al G. toccò prendersi cura sia dei nipoti, sia della madre di questi, che Pietro aveva dovuto precipitosamente abbandonare, sia dei suoi beni. Ma il G. si dimostrò cattivo depositario della fiducia del fratello. E ciò non solo perché "vittima di qualche anomalia cerebrale" (Caristia, p. 330), ma, soprattutto, perché egli considerò sempre l'unione di Pietro con Elisabetta Angela Castelli illegale, e i figli che ne erano nati - Giovanni e Carmina Fortunata - illegittimi, al punto che, in più di una circostanza, giunse perfino a disconoscere apertamente i nipoti. Inoltre, a condizionare in maniera decisiva la sua condotta, erano ragioni prettamente venali, e cioè le mire sui beni del fratello. Con la fuga di Pietro, egli divenne di fatto il titolare delle di lui proprietà. Se, per un verso, la posizione radicale di Pietro lo poneva al sicuro da un suo rientro a Napoli - a meno di un improbabile mutamento delle condizioni politiche -, per altro verso, a costituire un più concreto ostacolo alle sue aspirazioni, rimaneva il figlio di Pietro, Giovanni.
Nella sua corrispondenza con Pietro, pur consapevole dell'infelice posizione del fratello, il G. si lasciò andare a giudizi fortemente negativi sulla condotta tutt'altro che irreprensibile del nipote, aggravando, in questo modo, l'angoscia del padre. Fin dall'inizio il G. si dimostrò poco sollecito nell'aiuto economico che egli doveva sia alla moglie e alla figlia di Pietro, dimoranti nel monastero del Real Conservatorio di S. Antoniello a Napoli, sia a Giovanni, che allontanò di casa per qualche tempo con motivi pretestuosi, affidandolo alla sorella Vittoria a Vieste. Nonostante le premurose missive di Pietro, che lo sollecitava a una maggiore attenzione nei confronti dei familiari, l'atteggiamento del G. non mutò.
Giovanni, rientrato a Napoli da Vieste, venne ancora una volta respinto dal G., e tale fu il disinteresse dello zio verso il nipote, che Pietro fu costretto a rivolgersi all'amico Francesco Mela, affinché il figlio fosse avviato agli studi. Oramai era chiara anche a lui, soprattutto in seguito alle notizie che gli provenivano da Napoli, l'inaffidabilità del fratello. Perciò si decise a chiamare a sé il figlio, che lo raggiunse a Venezia nel 1735. Dopo aver trascorso due anni al seguito del padre, condividendone l'avversa sorte, Giovanni rientrò a Napoli nel 1737. Il G., anche in questa occasione, si dimostrò del tutto indifferente nei confronti del nipote, rifiutandosi di accoglierlo nella propria casa. Fu solo in seguito all'intervento del Mela che mutò atteggiamento. Tuttavia, riuscì a convincere Giovanni a intraprendere la carriera militare e a porsi al servizio delle truppe imperiali nella guerra contro il Turco. Egli sperava, in questo modo, di disfarsi una volta per tutte dello sgradito nipote. Quando, nel 1741, Giovanni rientrò a Napoli in seguito alla falsa notizia della morte del padre, con l'intento di prendere possesso dei beni di Pietro, si trovò di fronte alla ferma opposizione del G., il quale, grazie anche ai favori dell'autorità civile, in particolare dell'amico Onofrio Scassa consigliere regio, riuscì nel tentativo di far respingere l'istanza che il nipote aveva presentato al Sacro Regio Consiglio.
Intanto, il disinteresse del G. si manifestava anche nei confronti della cognata e della nipote, ridotte a vivere in uno stato di assoluta miseria, come appare dalle lettere fatte pervenire a Pietro dallo stesso Giovanni (agosto 1741) e da F. Mela (settembre 1741). La riproposizione da parte di Giovanni dell'istanza per sottrarre allo zio i beni del padre venne favorita dalla presenza di un nuovo consigliere regio, Giuseppe Borgia (in sostituzione dello Scassa, nominato consultore in Sicilia), poco propenso ad assecondare le pretese del Giannone. Questi dovette, infine, cedere di fronte alla decisione del tribunale e pagare al nipote, sia pur controvoglia, un sussidio mensile.
La questione dell'eredità dei beni di Pietro si ripropose violentemente alla sua morte, sopraggiunta il 17 marzo 1748. Il G. rispose alla richiesta di Giovanni, che aveva ottenuto dalla Gran Corte della Vicaria civile la dichiarazione della successione ab intestato, presentando ricorsi in tutti i tribunali civili ed ecclesiastici: Sacro Consiglio, Vicaria civile, Vicaria criminale, curia arcivescovile, e, infine, delegato della Real Giurisdizione. Giunse perfino ad accusare Giovanni di non essere figlio di Pietro. Dopo quattro anni di continui ricorsi e appelli il Sacro Regio Consiglio decise, infine, in favore di Giovanni; tuttavia, le spese legali avevano assorbito gran parte dell'eredità.
Il G. morì a Napoli il 14 febbr. 1755, in seguito a un attacco apoplettico.
Fonti e Bibl: Illuministi italiani, I, Opere di Pietro Giannone, a cura di S. Bertelli - G. Ricuperati, Milano-Napoli 1971, ad indicem; P. Giannone, Epistolario, a cura di P. Minervini, Fasano 1983, ad indicem; C. Caristia, Pietro Giannone e i suoi familiari, in Scritti di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo, I, Bologna 1953, pp. 311-338; S. Bertelli, Giannoniana. Autografi, manoscritti e documenti della fortuna di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1968, pp. 184-213; Pietro Giannone e il suo tempo. Atti del Convegno di studi nel tricentenario della nascita, Foggia-Ischitella… 1976, a cura di R. Ajello, Napoli 1980, ad indicem.